I giovani d'oggi crescono con la consapevolezza di un mondo in continua distruzione: estinzione o rischio d'estinzione per la maggior parte delle specie, catastrofi naturali, riscaldamento climatico, inquinamento, pandemie, etc. La tristezza, la paura e l'angoscia sono entrate nei nostri corpi, perfino nei bambini. Come agire e pensare in mezzo a questo caos? Come vivere questa epoca tragica ed "eroica" al tempo stesso? Provano a rispondere Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista argentino, «un "veterano" che ha vissuto e sperimentato tanto», e Teodoro Cohen, giovane laureato della Sorbona, membro del Collectif Malgré Tout: «Questa lettera indirizzata ai giovani vuole essere un gesto di amicizia, una mano tesa verso chi vivrà, più di tutti, le conseguenze di un mondo oscuro». Rifiutando le tendenze apocalittiche e quelle depressive che dichiarano lapidariamente che "è tutto finito", gli autori cercano di capire «con umiltà e sforzo, per dove continua la vita». Sviluppare alternative, creare nuovi modi di vivere e di relazionarsi agli altri e al contesto: un libro per tendere la mano a chi, "sentendo" in modo profondo il mondo e l'epoca, "preferisce di no".
Nasce dall'esperienza sul campo questo libro che esplora sentimenti e vissuti quotidiani in un percorso che parte da una serie di lezioni in ambito psicoanalitico, ma che sfocia in un originale approccio interdisciplinare, seguendo il filo conduttore delle grandi, fondamentali domande della nostra esistenza: chi è l'uomo e che cos'è la condizione umana. L'autore, un biblista con formazione umanistica, non fa riferimento solo a studi di psicoterapeuti e psicoanalisti, ma attinge a piene mani alla grande letteratura, con romanzi come "L'Avversario" di Emmanuel Carrère, "La vergona" di Annie Ernaux," La nausea" di Sartre, i racconti di Cechov, "Leggere Lolita a Teheran" di Azar Nafisi, per citarne alcuni: «libri che ci svegliano, libri che ci fanno bene facendoci male», come scrive l'autore. Ogni capitolo è dedicato a un tema: parola, narrazione, menzogna, invidia, vergogna, infine volontà. In comune hanno la loro radicalità umana. L'enigma dell'invidia, una passione che non dà alcuna felicità: perché l'uomo la prova? E perché non riconosce mai di essere invidioso? Il mistero della vergogna, emozione dolorosa, eppure importante regolatore dei comportamenti umani. La quotidianità della parola, che può stravolgersi in aggressione, violenza, manipolazione: come fare in modo che diventi carezza e non pugno, ponte verso l'altro e non fossato incolmabile? E che dire della menzogna nell'epoca della post-verità e nell'imperversare delle fake news? Un viaggio che inizia dalle storie narrate, ma a volte più vere del vero nella loro capacità di parlare delle contraddizioni che abitano il cuore di donne e uomini, per arrivare a illuminare alcuni fondamentali dell'esperienza umana.
La dolcezza è un enigma difficile da identificare. È il nome di un'emozione che non sappiamo più descrivere, venuta da un tempo in cui l'umano non era separato dal resto della vita, dagli animali, dagli elementi, dalla luce, dagli spiriti. È selvatica e raffinata, come ben sa la cultura orientale, è spirituale e carnale, è una festa dei sensi alla quale il tatto, il gusto, i profumi, i suoni aprono l'accesso. Soprattutto, è una potenza, una forza simbolica di resistenza capace di trasformare la vita. In questo saggio particolarissimo, scritto all'incrocio tra filosofia e psicanalisi, Anne Dufourmantelle insegue e ripercorre le tracce della dolcezza nell'esperienza delle donne e degli uomini, dialogando con Tolstoj e Dostoevskij, passando per Flaubert e Hugo, senza dimenticare Lévinas. E arriva a toccare l'origine stessa della dolcezza, che è il nome segreto dell'infanzia, un ricordo a se stessi che inventa il futuro e che si fa potenza di relazione con l'altro, in grado di trasformare anche il dolore in creazione di una nuova promessa di sollievo e ripartenza.
La centralità moderna del soggetto ha sigillato la dignità di ogni singolo venire al mondo: umani si nasce. Tale conquista, però, non ha spostato di un millimetro la nostra resa all'insignificanza della destinazione di questo nascere: l'umano è un effetto senza causa adeguata - praticamente un miracolo - ma la sua morte azzera tutto. Insomma, si nasce per niente. Non abbiamo il coraggio di dirlo ai figli, ma ci siamo convinti, dati scientifici alla mano, che il passaggio della nascita non si ripeterà in nessun altro modo. Eppure, nemmeno l'astrofisica, oggi, lo giurerebbe in tribunale. I segnali più antichi dell'ominizzazione della vita della coscienza coincidono con la ritualizzazione della morte come passaggio: come se lo sapessimo da sempre. Il cristianesimo, poi, ha introdotto la generazione e la risurrezione nell'intimità dell'essere divino, aprendovi la destinazione per un'umanità imperfetta. Impensabile anche per la religione più alta: eppure la fede cristiana non si muove da lì. Credenti o non credenti, quanti siamo, abbiamo forse dilapidato l'eredità migliore della nostra storia?
Proveniamo da un lungo periodo storico, quello della modernità, il cui imperativo era realizzare il sogno di un mondo disciplinato dalla ragione, finendo per addomesticare, e spesso negare come fragili e perdenti, l'esperienza del corpo, le pulsioni, i legami affettivi, l'interazione con la natura. Questo sogno dell'onnipotenza della ragione è stato travolto dall'irruzione della pandemia. L'incertezza, la complessità, la fragilità sono tornate con prepotenza nel nostro quotidiano, smascherando l'illusione del percorso moderno. È una presa di coscienza chiamata dal dolore e dalla paura, ma da questa fragilità può emergere qualcosa di nuovo e positivo. La crisi del coronavirus, secondo Benasayag e Cany, può diventare l'evento a partire dal quale immaginare nuovi rapporti di coabitazione tra il pensiero critico e la conoscenza che proviene da quel 'senso comune' che è la trama dinamica all'interno della quale le nostre vite acquistano senso.
Domande all'apparenza semplici quali «come va?» o «da dove vieni?» o «come ti chiami?», se colte nel loro senso più profondo, ci conducono al centro della nostra anima, là dove - ci spiega il filosofo catalano Josep Maria Esquirol nel saggio Umano più umano - siamo toccati da quattro realtà fondamentali con cui abbiamo a che fare per tutta la nostra esistenza: la vita, la morte, il tu e il mondo. L'incontro con questi «infiniti essenziali» segna una «ferita», un'apertura inesauribile che sottrae a ogni pretesa di autosufficienza e che ci costituisce nella nostra umanità. Imparare a vivere è imparare ad accompagnare queste ferite, non a suturarle. Esse infatti sempre ci sorpassano con il loro eccesso e chiedono la pazienza di continue risposte. Risposte da cercare non nell'oltre postulato dalle odierne tendenze transumanistiche, ma restando dentro questa condizione, intessuta di vulnerabilità e debolezza.
La fecondazione in vitro, tramite l'unione di medicina e tecnologia, scompone il processo organico della maternità in fasi artificiali da catena di montaggio: cosa provocherà a livello culturale lo stravolgimento dello statuto dei figli e della differenza tra esseri umani e prodotti della scienza?
Fare l'elogio del rischio in un'epoca che cerca prima di tutto la sicurezza, l'azzeramento dell'incertezza e ci inonda di previsioni, calcoli delle probabilità, scenari politici e finanziari, valutazioni psichiche, sondaggi...sembra un'impresa impossibile, controcorrente, destabilizzante. Ma proprio questo fa Anne Dufourmantelle: rimette, si può dire, le cose a posto, restituendo al rischio la sua valenza di occasione per riattivare la libertà di decidere, per aprire una linea d'orizzonte nuova e trovare una dimensione del tempo e della relazione non più schiava del controllo e della dipendenza. Perché il rischio di cui parla in questo libro non è certo la temerarietà, la scossa adrenalinica di chi gioca a dadi con la vita, ma, nelle sue stesse parole, una «piccola musica», un «meccanismo segreto» in grado di condurci davanti alla notte, all'ignoto, al desiderio, per riconquistare la vita vera. È il rischio di affrontare e riconoscere le nostre «passioni negative», le esperienze critiche che ritmano la nostra esistenza, di fronte alle quali di solito indietreggiamo, e un po' moriamo. Perché spesso, per volerla proteggere troppo, finiamo per perderla, la vita. Quella vera, ricca di senso, di amore, di gioia. In brevi capitoli, con una scrittura che è la sua cifra personale, poetica e profonda, lancinante e delicata, Anne Dufourmantelle affronta «crisi» tra le più consuete e le più impegnative - la tristezza e la paura, la dipendenza, i traumi familiari e l'omologazione sociale, la solitudine e l'abbandono, i rimossi, le nevrosi - ben consapevole che superarle positivamente non è affatto facile. Ma, alla fine, prendersi il rischio della libertà interiore è prendersi il rischio di amare e di amarsi, di assaporare la vita come un dono quotidiano e aperto all'incognito, all'insperato.
Cosa significa guardare ai media con un approccio ecologico? Ce lo spiega Fausto Colombo, uno dei nostri più autorevoli sociologi della comunicazione, in questo suo libro dove analisi critica e prospettiva etica si integrano in un discorso puntuale e suggestivo insieme. I media nel loro complesso appaiono un ecosistema in continua evoluzione. Come ondate sempre più potenti, si riversano sul mondo prima i mezzi a stampa, poi la radio e la televisione, poi ancora la prima digitalizzazione e l'utopia di internet, per arrivare oggi alle grandi piattaforme, macchine algoritmiche la cui benzina è costituita dai comportamenti degli utenti. Un ecosistema, quest'ultimo, che produce effetti sulla vita sociale e che, oltre a offrire straordinarie opportunità, può anche letteralmente inquinare il nostro universo simbolico, come fanno i discorsi d'odio e le false verità circolanti sui social, che le piattaforme non sembrano completamente in grado di limitare. Ma praticare un'ecologia dei media significa anche preoccuparsi di agire per migliorare le relazioni interpersonali e il rapporto con il mondo attraverso i media, non limitandoci a seguire, in modo spesso ingenuo, le impronte del progresso tecnologico o delle leggi del mercato e cercando invece di reagire alla saturazione dei nostri tempi e dei nostri spazi vitali. Perché è arrivato il momento di fermare la frenesia 'social' e di guardare come i nostri avatar o nickname ci parlano di noi stessi in quanto umani. Dopo averci guidato attraverso le riflessioni teoriche e le pratiche quotidiane che promuovono una rinnovata sensibilità etica nell'uso dei media, Colombo ci propone un 'manifesto per una comunicazione gentile', dove gentile sta certamente come invito ad abbassare i toni tornando al garbo della conversazione faccia a faccia e al rispetto degli interlocutori, ma sta anche e soprattutto come richiamo alla gens cui tutti apparteniamo, alla nostra unica famiglia, la specie umana, che, sola fra tutte le specie, attraverso la comunicazione può pensare se stessa oltre il presente, in continuità con le generazioni passate e con lo sguardo aperto sulle future. Una possibilità straordinaria e preziosa, e ora fragile più che mai nelle nostre mani.
La fine del dominio maschile - trasformazione storica alla quale stiamo assistendo nel mondo occidentale - costituisce un evento che tocca nel profondo la società, là dov'è essa di costuituisce e si perpetua. Il saggio mostra che per la prima volta nell'avventura umana abbiamo la possibili di entrare nei meccanismi che hanno presieduto a questa organizzazione plurimillenaria dei ruoli sessuali , tale ente radicata da tempo immemorabile da sembrare inscritta nell'ordine della cose. Talmente radicata che esiste un legame intimo tra dominio maschile e religione. Essi hanno finora modellato insieme, a livelli diversi, l'esistenza collettiva; così oggi entrambe stanno subendo una profonda crisi. Garantivano l'esistenza della società e la continuità nel tempo della sua cultura e organizzazione: le donne assicuravano la riproduzione fisica del gruppo umano, gli uomini quella culturale. L'essenza della mascolinità e della sua supremazia stava nella possibilità di elevarsi al di sopra del suo sesso, per raggiungere lo statuto di di individuo universale. Ma ora sono cambiate le condizioni della riproduzione biologica così come quella della riproduzione culturale, cambiando i riferimenti del maschile e del femminile. La perita di importanza della religione patriarcale ha minato il fondamento del dominio maschile (ed è per questo che i fondamentalismi religiosi insistono tanto sul rapporto asimmetrico tra i sessi), aprendo la strada all'autorità di impronta affettivo-materna che permea profondamente i legami sociali oggi, non senza problemi.
Penultima bontà: perché quell'aggettivo? Perché 'penultima'? Domanda legittima, persino scontata, di fronte al titolo di questo libro del filosofo catalano Esquirol, la cui risposta si snoda lungo pagine di parole semplici e dense insieme, calde e profondamente vere, scritte con finezza di tessitura letteraria e originalità di pensiero. Abbiamo davvero bisogno di uscire da quell'orizzonte di senso che ingabbia la vita umana tra un inizio perfetto e perduto e una fine ineluttabile e definitiva, perché quello che avvertiamo, con la certezza di un'esperienza che ci percorre continuamente dalla pelle al cuore mentre viviamo qui e ora, è che il mistero della vita non risiede in un paradiso impossibile da cui siamo stati cacciati né nell'ultimità della morte, ma nella penultimità, appunto, della vita che vive e si sente vivere. Questa, ci dice qui Esquirol dialogando con il libro della Genesi, con Platone, con san Francesco e Zarathustra/Nietzsche, con Heidegger, Simone Weil e tante altre voci del pensiero filosofico, è la caratteristica propria dell'umano: sentirsi vivere, essere coscienti di un'esperienza vitale che non si fa rinchiudere, ma vibra e pensa e ama scoprendosi imperfetta, spesso ferita, mai compiuta e sempre penultima, eppure proprio per questo capace di riconoscere la stessa condizione negli altri e di creare comunità. Una comunità fraterna che vive ai 'margini', per usare la bella espressione con cui Esquirol indica il quotidiano, fatto di crepe, di deserto, di fatica, ma anche di prossimità, di resistenza, e soprattutto di cura e di gratitudine.
Anziani considerati ormai 'vecchi', fuori dal ciclo produttivo e soprattutto da quello del consumo. Giovani che non hanno più il diritto di essere giovani, ma sono inseriti da subito nella giostra delle competenze da acquisire, dei risultati da conseguire, con l'imperativo di essere 'imprenditori di se stessi'. Fragilità umane di tutti noi che vengono stigmatizzate come intoppi nella realizzazione di una felicità del qui e ora, col risultato di impregnarci di angoscia e paura del futuro. Non è lo scenario distopico di un libro di fantascienza, ma il panorama della nostra situazione attuale. Come ci siamo arrivati? Quando abbiamo abdicato alla nostra irriducibilità a una modellizzazione meccanica? Perché abbiamo accettato di diventare un mero 'bilancio di competenze' governato da un algoritmo ottimista, e perché ci siamo lasciati convincere che saremo migliori e più felici se ci lasceremo 'aumentare' dalle macchine? Ma soprattutto: c'è una via di resistenza a tutto questo? Miguel Benasayag, che da sempre si muove all'incrocio tra psicanalisi, biologia e filosofia e che per il suo essere un resistente ha anche pagato un prezzo personale, come racconta più volte in questo libro, raccoglie l'appello di una società impaurita e le propone una scommessa per un futuro diverso: un futuro di persone singolari, ricche delle proprie diversità, delle proprie qualità e incrinature, che vivono in relazione tra loro. Solo accettando di andare al di là del semplice 'funzionamento' della macchina e riguadagnando invece la complessità piena di senso dell'umano, si può tornare a considerare senza angoscia la morte come parte dell'esperienza sapida della vita, a guardare la fragilità del corpo e delle emozioni come ricchezza della relazione con gli altri. E recuperare così uno sguardo aperto verso un futuro che sia sempre meno un risultato e sempre più un cammino, a volte facile e a volte difficile come la vita vera.
Lo stato della giustizia penale è lo specchio della salute morale di una società. Quando i suoi modi e campi d'intervento superano certi livelli di guardia, ci si trova di fronte a quella patologia culturale, prima ancora che giuridica, che è l''eccedenza' di sanzioni vistosamente esibite, ma spesso prive di efficacia (specie dove invece dovrebbero averne di più): sintomo della regressione a una condizione primitiva, 'sacrificale', ansiosa di trovare capri espiatori prima di capire e di saper vedere i problemi. Ciò costituisce anche una forma di corruzione delle regole di convivenza, la quale è al contempo causa ed effetto della corruzione propriamente detta, pubblica e privata, a cui con leggi recenti si è cercato di porre rimedio, ma che continua a pesare come un macigno sul futuro del Paese e specialmente dei suoi giovani. Non è però dall'ennesima riforma legislativa che ci si può attendere la 'guarigione' da un tale groviglio di corruzioni. Occorre soprattutto prendersi cura delle norme, giuridiche e non: un compito per tutti, perché ognuno - individuo o istituzione - dovrebbe dotarsi almeno un po' di quella 'nobiltà di spirito' necessaria per volgere nuovamente lo sguardo verso la luce del sapere e dei saperi, giusti in quanto capaci di ascoltare veramente le storie delle persone e delle comunità e di allontanare la diabolica tentazione divisiva della violenza e dell'inganno. Luce cui sa ispirarsi non l'impaziente Faust, ma Ifigenia, testimone meravi-gliosa di umanesimo etico e protagonista del dramma omonimo di J. Wolfgang Goethe. Attorno a questo grande scrittore (e giurista) tedesco innamorato dell'Italia, che "non conosceva risentimento", il libro annoda i fili di un dialogo appassionato e rigenerante tra letteratura e diritto, tesse una trama di percorsi tra i quali il lettore è invitato a trovare da sé la via per rispondere alla grande domanda di giustizia che non smette di interpellare ogni essere umano degno di questo nome.
Tutti ricordiamo l'immagine di Alan Kurdi, il bambino di tre anni annegato sul finire dell'estate 2015 nel Mar Egeo mentre con la famiglia cercava una nuova vita lontano dalla guerra in Siria. Anche oggi che l'onda emotiva si è calmata e in varie parti del mondo occidentale soffiano venti diversi, ci torna in mente con grande vivezza, fosse pure soltanto nel giorno dell'anniversario, dietro la sollecitazione dei media. Si è radicata saldamente nella nostra memoria. Perché proprio quella piccola foto? Si tratta di un caso di esaltazione mediatica collettiva o di una manifestazione singolarmente intensa dei nostri sentimenti più umani? È solo frutto della cultura della nostra epoca, che segna ogni cosa con lo stigma della velocità e della diffusione, o affonda le sue radici in una storia più antica, iniziata con le prime fotografie alla metà dell'Ottocento? Fausto Colombo, uno dei nostri più importanti sociologi della comunicazione, affronta queste domande non limitandosi a utilizzare gli strumenti scientifici dello studioso, ma mettendosi anche in ascolto delle proprie emozioni di spettatore tra gli altri e cercando l'origine della propria commozione di fronte all'immagine di quello sfortunato bambino. Ecco allora il suo 'diario di viaggio'. La ricostruzione delicata della storia della famiglia di Alan e quella della velocissima diffusione delle immagini attraverso i social, rilanciate e ridisegnate da utenti comuni e da grandi artisti. L'analisi della forza simbolica dell'immagine già agli albori della storia della fotografia, con il suo profondo legame con il tempo e la morte. Il racconto delle storie delle più famose immagini giornalistiche di guerra o sofferenza, diventate icone in grado di segnare la storia, e dei reporter a cui quello scatto spesso ha cambiato la vita. La riflessione sul discorso umanitario e sulla potenza del dolore infantile. Un'indagine nei meccanismi comunicativi e nel sentire umano fino all'ultima domanda: la nostra compassione vincerà la sfida dell'empatia? Sapremo riconoscere nell'immagine di Alan, e attraverso essa nelle altre vittime come lui, un nostro figlio, uno dei nostri piccoli fratelli nella famiglia umana che ci lega tutti in un'unica comunità di destino?
Sono profonde le differenze economico-culturali tra il nord e il sud dell'Europa. Le loro radici risalgono a cinque secoli fa, all'epoca della riforma protestante. Lutero, Calvino e gli altri riformatori furono all'origine di una spiritualità improntata all'etica del lavoro. Da essa nacquero poi il capitalismo moderno e il liberismo anglosassone. Il sud Europa, cattolico e comunitario, seguì invece la traiettoria iniziata nel Medioevo con il pensiero di Tommaso d'Aquino e la sua etica delle virtù, dando vita nel Settecento all'Economia civile napoletana, italiana e più in generale latina. Esistono così diversi spiriti e modi di concepire il mercato e l'impresa. La cooperazione, le banche popolari, le imprese famigliari, i distretti, il welfare-state, l'economia mista sono tratti tipici del capitalismo latino. La grande impresa, la finanza, il liberismo, l'interesse individuale costituiscono invece i segni distintivi del capitalismo nordico di derivazione protestante. Luigino Bruni ricostruisce la genesi culturale, anche teologica, di questi due paradigmi economici, descrivendone lo sviluppo nella storia. Ma gli ultimi decenni stanno conoscendo un forte appiattimento delle forme di economia: il capitalismo anglosassone (soprattutto nella sua versione americana) grazie alla globalizzazione si sta affermando nel mondo intero, riducendone drasticamente la biodiversità economica, finanziaria e sociale. Il libro affronta le sfide cruciali per il futuro del modello civile europeo e italiano, sfide che si chiamano uguaglianza, lavoro, reciprocità, beni comuni, legami sociali, radicamento nel genius loci. Quella "pubblica felicità" senza la quale è difficile che esista felicità individuale.
Oggi più che mai occorre riprendere, e a volte anche ricostruire, quell'intreccio tra spiritualità e politica che dà senso e forma alla nostra esistenza singolare e plurale. Perché se l'uomo è, per definizione aristotelica, un animale politico, cioè un essere che vive nella pluralità della polis, è anche vero che ciascun uomo di fronte al progetto dell'esistenza si pone da solo, con la sua originalità unica. Ecco allora la necessità di riflettere sulle questioni essenziali che accompagnano la costruzione del senso dell'esistenza (oggetto della spiritualità) per arrivare a disegnare l'orizzonte del proprio camminare nel tempo e nella comunità umana (che è essenza della politica). È quanto fanno gli autori di questo libro, che declinano il tema in modi diversi e peculiari: rintracciando le intime connessioni tra politica e anima nella filosofia greca; dialogando con le riflessioni della modernità, da Hannah Arendt a Simone Weil, da Heidegger a Lévinas, a Weber e tanti altri; ricostruendo le sembianze dello 'spazio interiore' come primo spazio di libertà e di resistenza; puntando l'attenzione sulle forme etiche del prendersi cura e dello sguardo accogliente nei confronti del diverso e della fragilità così facilmente ostaggio della violenza; ripercorrendo la metamorfosi dello spirituale e la sua resilienza nella società dell'imperio economico e secolare... Questa è la strada da percorrere se si vuol togliere la spiritualità dal recinto chiuso della vita unicamente privata e restituire alla politica il senso di pratica al servizio della comunità, orientata a costruire una polis dove vivere una vita giusta, bella e buona.
Una delle affermazioni più note di Kant è che ciò che contraddistingue gli uomini è la «capacità di rappresentarsi il proprio io». Da qui parte il filosofo inglese Roger Scruton nella sua appassionata difesa dell'unicità umana. Confrontandosi con la psicologia evoluzionista e l'utilitarismo e con filosofi materialisti quali Richard Dawkins e Daniel Dennett, Scruton ribatte che non si può ridurre gli esseri umani a semplici realtà biologiche che progrediscono attraverso l'adattamento e la lotteria dei geni: siamo qualcosa di più che animali umani proprio in virtù di quella nostra capacità di vederci come esseri riflessivi consapevoli di sé e profondamente immersi nella relazione con altri soggetti. Questo dato di fatto, che tutti avvertiamo, si manifesta attraverso le nostre emozioni, i nostri interessi, nel dialogo interpersonale. E fonda le nostre esperienze estetiche, il nostro senso morale, le nostre credenze religiose, grazie a cui diamo forma al mondo conferendogli un significato. Scruton sviluppa questa sua concezione della natura umana con un ricco percorso nella storia della cultura, da Platone e Averroè fino a Darwin e Wittgenstein, soffermandosi anche, come suo solito, su opere letterarie, pittoriche, musicali che hanno il dono di attivare e rendere riconoscibile la particolare autoconsapevolezza dell'io. Contro la visione distorta della scienza come 'nuova religione' e le antropologie oggi dominanti che tendono a comprimere l'originalità e l'ampiezza della nostra stessa esperienza, Scruton propone una visione della natura umana definita nella sua essenza più vera dal termine 'persona', storicamente nato per indicare una maschera che nasconde il volto, ma poi divenuto l'appellativo di un'identità che si riconosce nel tempo, un'entità morale responsabile di azioni e promesse, in un mondo condiviso dove interagiscono individui liberi che si ispirano a valori e rispondono l'uno dell'altro.
C'è uno strumento efficace per contrastare le forze disgreganti di questi nostri tempi, per difendersi da un'attualità che banalizza e disperde, e spesso anche dalle proprie derive e dalle proprie paure. È la capacità umana di resistere; anzi: un particolare tipo di resistenza, che in questo libro il filosofo catalano Josep Maria Esquirol chiama 'resistenza intima', un modo di opporsi agli ostacoli e al freddo non solo climatico della vita sviluppando la propria forza nello spazio esperienziale degli affetti. Una resistenza morale, che assomiglia alla virtù della fortezza, capace anche di modestia e di generosità. Non rivela i valori supremi o il senso occulto del mondo, ma guida proteggendo dalla notte cupa, mostra la bellezza delle cose vicine, e conforta. Questa resistenza è 'intima' non perché 'privata', ma, al contrario, perché 'prossima'. La prossimità, dice Esquirol, ci appartiene nel profondo e ha a che vedere con la semplicità e la concretezza del quotidiano contro le complicazioni e le astrazioni del mondo attuale; con il linguaggio degli affetti, che si fa canto e poesia e scaccia la paura del vuoto; con la cura reciproca del corpo e del cuore; con il ritorno a casa, la mensa condivisa, la protezione del riparo... Non si tratta di tornare a un mondo semplice e ingenuo o di rinchiudersi nell'intimismo dei legami: la resistenza intima ha occhi ben aperti e letture attente, vive nel mondo e ne conosce e sperimenta i dolori e le fragilità. Come chiarisce bene un'altra delle metafore potenti di Esquirol, noi siamo come una filza di punti di imbastitura, la cucitura più precaria e debole che esista, che unisce due lembi, due limiti, due provvisorietà. Ognuno di noi è uno di questi fragili punti, che prendendosi cura l'uno dell'altro, accettandosi come diversi nella prossimità, si aiutano a non cedere e nel loro 'congiungimento' sono capaci di unire la terra e il cielo.
Viviamo in perenne mancanza di tempo. Quasi in apnea, ci affrettiamo per poter fare esperienza di tutto quello che il nostro mondo iperproduttivo ci mette davanti. Accelerare per avere più tempo è diventato l'imperativo della nostra vita. Ma questa 'epoca dell'affanno', in definitiva, ci rende ansiosi, stressati, disorientati. L'accelerazione della tecnologia e delle trasformazioni sociali non solo ha annientato lo spazio e la geografia stessa (ogni luogo è a portata di un clic o di qualche ora di aereo), ma ha atomizzato il tempo, lo ha frammentato in tanti 'attimi presenti' che si sostituiscono l'uno all'altro, che non conoscono più pause e intervalli, soglie e passaggi, e soprattutto non costruiscono più un'unica storia: la nostra. Perché questa disgregazione riguarda anche la nostra identità, che si impoverisce e si riduce, soffocata dalle proprie attività senza durata. Sono queste le riflessioni che Byung-Chul Han, il filosofo coreano che ama riflettere sull'uomo svelandone la situazione critica di fronte agli stimoli della società contemporanea, mette a fuoco in questo libro dal titolo seducente. Percorrendo in modo originale il pensiero filosofico sul tempo, da Aristotele e Tommaso a Heidegger e Arendt, passando per Hegel, Marx e Nietzsche (ma soffermandosi anche a lungo sull'opera di Proust), egli ci mette di fronte a quella che riassume come un'assolutizzazione della vita activa: la necessità di produrre (e consumare) come forma di realizzazione umana, che finisce per sottrarre all'uomo respiro e spirito. Bisogna allora riguadagnare un posto alla vita contemplativa, nella sua forma più quotidiana e vicina. Vale a dire reimparare a fermarsi, a 'indugiare': bellissimo verbo che parla di pause, di ozio meditativo, di sguardo lungo e cordiale sulle cose. In una parola, lo sguardo contemplativo restituisce al tempo il suo 'profumo', che è lento e permanente, che sa di ricordo e di memoria. Acquista allora un senso nuovo e smette di essere solo una stravagante curiosità l'orologio 'a profumo' dell'antica Cina, cui l'autore dedica pagine piene di poesia, che misura il tempo col bruciare di un profumato sigillo d'incenso: alla fine, resta un'eccedenza speciale, un aroma che riempie lo spazio, che indugia nell'aria in un momento sospeso e denso che apre alla felicità.
Parlare della donna significa spesso, oggi, soffermarsi sulle discriminazioni cui va incontro, sulla necessità di fare altri passi importanti nel campo dell'uguaglianza con l'uomo, sulla preoccupazione per l'escalation della violenza di genere. Molto cammino ci aspetta ancora, ma un aiuto prezioso può arrivarci da una strada finora poco percorsa, che supera gli stereotipi dei luoghi comuni e rovescia i termini della questione: non si tratta di promuovere la rincorsa della donna a essere 'come l'uomo', ma di evocare l'identità femminile come risorsa anche per l'uomo e per la società. Partendo dalla teoria psicoanalitica della donna come portatrice di un'apertura che crea varchi nella realtà ordinata e regolata dallo sguardo maschile, Francesco Stoppa costruisce un'originale riflessione su come l''anomalia' femminile, con la sua capacità di accogliere l'inatteso, di tracciare solchi e aprire spazi di incontro, possa rappresentare un modello diverso di approccio alla vita e di costruzione dei legami. Questa diversità della donna oppone infatti all'autoreferenzialità e alla semplificazione maschile l'esercizio di civiltà che consiste nel dare ospitalità a tutto ciò che non entra mai a regime, ma in cui riposano i tratti più autentici dell'umano. È come il comune 'gioco del quindici', ci suggerisce sorridendo Stoppa, dove è la casella assente a far funzionare tutto, a permettere, per il fatto di essere vuota, il movimento delle altre. Ed è come la costola perduta di Adamo: una 'rottura', una perdita di equilibrio, capace di riportare all'uomo un surplus di vita. «Questo è una donna per l'uomo: il precipitato, la forma, certo effimera ma per i suoi effetti miracolosa, grazie a cui il richiamo della vita, il suo mistero, trovano di che incarnarsi. La vita di cui allora possiamo anche cessare di avere paura, che possiamo accogliere in noi fino a prendercene cura, fino a esserle grati di aver interrotto il nostro sonno senza sogni».
La libertà dell'individuo, l'affermazione di sé e dei propri diritti e desideri, punto focale della modernità, è diventata oggi il culto ossessivo dell'identità personale. Un vero e proprio 'monoteismo del sé' che, consumando compulsivamente il mondo e gli altri come puri strumenti della propria realizzazione, finisce per consumare la sua stessa umanità. Il primo santo del calendario post-moderno non è più, come annunciava Marx, Prometeo, che sfidava gli dei in favore degli uomini. È Narciso, che vive dell'amore dell'altro ma non lo riconosce e non restituisce nulla. È un destino segnato per l'umano? Questo dogmatico 'tutto intorno a me' che ormai mostra in molti modi il suo carattere distruttivo - dal ripiegamento narcisistico dell'amore al fanatismo religioso, dallo svuotamento della comunicazione alla soggezione della tecnica, dalla commercializzazione del dono alla burocrazia del diritto - non conosce alternativa? Pierangelo Sequeri dice di no, noi non siamo questo, l'umano non funziona affatto come lo racconta il pensiero unico. E una via d'uscita c'è. Occorre avere il coraggio di disarmare questa pulsione ossessiva che conduce al nulla, andando al meccanismo che la innesca: si tratta, nelle parole di Sequeri, di «rovesciare il tavolo del soggetto moderno». Invece di accanirsi sulla domanda 'chi sono io', alla quale l'individuo non è in grado di dare risposta, guadagnandone solo frustrazione e maggiore aggressività, bisogna imparare a chiedersi 'per chi sono io', un interrogativo capace di aprire il varco verso un'avventura personale e di relazione che ha il sapore della libertà. Rovesciando l'ordine delle sue domande di senso, l'umano trova eccome la sua destinazione, e cambiare rotta non è poi così difficile: «Non si tratta di cancellare la dignità del soggetto libero e consapevole, sacrificandola all'alterità o alla collettività. Si tratta di uscire - mentalmente, anzitutto - dall'incantamento di Narciso, impasticcato e afasico, rompendogli lo specchio e mandandolo a lavorare. Scoprirà di essere migliore, sarà felice. (E anche noi)».
Partendo dal tema dell’io e della soggettività, nell’incrocio tra domanda di felicità e offerte del mercato globale, il libro di Adriano Pessina affronta il tema dell’insoddisfazione come emerge nella società dell’efficienza e del benessere. In questa prospettiva, vengono discussi sia i temi legati all’uso quotidiano delle tecnologie informatiche, sia alcune delle più recenti proposte di miglioramento, di sé e delle future generazioni, ottenibili grazie a interventi di stampo medico o farmaceutico. L’io, consumatore di immagini, perennemente collegato con una solitudine affollata in cerca di relazioni, partecipa di una continua trasformazione delle sue esperienze. La rete gli permette di condividere emozioni e parole senza la mediazione del corpo, del luogo e del tempo; medicina, biologia, farmacologia gli prospettano l’avvento di quella grande salute che non è solo liberazione dalla malattia e dalla sofferenza, ma dal fardello di una finitezza che non è mai all’altezza del desiderio. Di che cosa, o di chi, l’io è dunque insoddisfatto? Il dislivello permanente tra desiderio umano e mondo dei possibili, offerto dalla tecnologia e dal suo mercato, traccia un nuovo volto della perfezione: un ideale che sembra a portata di mano e che è sorretto da teorie che prospettano il futuro di una nuova umanità. Uscendo dall’alternativa tra bioconservatori e post-umanisti, si apre allora di nuovo la domanda sullo specchio nel quale l’io potrà ritrovare il suo autentico volto. Tra Prometeo e Dio, la questione dell’io non trova facili risposte e richiede la pratica di un tempo per pensare.
Adolescenza e crisi sono parole che da sempre vanno di pari passo. Tutti i genitori lo sanno bene. Ma cosa succede quando questo processo di trasformazione, insieme fisica e d'identità, che investe i ragazzi si svolge sullo sfondo di una crisi economica, come accade oggi? Le preoccupazioni per i figli in crescita rischiano di sfociare nel pessimismo e nello sconforto, portando i genitori a vedere solo i problemi e le conflittualità dell'adolescenza e a dimenticarne invece la dimensione creativa, il suo portare dentro di sé la spinta verso il cambiamento, il seme potente del futuro. Philippe Jeammet, psicanalista francese e vera autorità nel campo dell'età adolescenziale, arriva in soccorso degli adulti disorientati e preoccupati con questo libro che invita a "schierarsi dalla parte della vita", a fare proprio il dovere della speranza, oltre lo spirito depressivo che affligge il nostro tempo. Ricorrendo alla sua esperienza clinica e utilizzando anche le testimonianze, raccolte appositamente, di una ventina di ragazzi provenienti da ambienti diversi, affronta tutti i "nodi" dell'età ingrata: la paura di non essere all'altezza della felicità, il delicato passaggio all'età adulta, il faticoso controllo delle emozioni, la scoperta dell'affettività, il rapporto con la scuola e la cultura, l'incognita del lavoro e del proprio ruolo nella società... Per ognuno, troviamo qui una serie di riflessioni ma anche di indicazioni pratiche, da mettere subito in atto.
Una coppia scrive un libro a due voci sulla vita di coppia. Meglio ancora: una coppia che per professione, psicoterapeuta lei psicoanalista lui, di storie a due ne ha ascoltate tante. Nicole e Philippe Jeammet si rivolgono qui agli uomini e alle donne d'oggi alle prese con la costruzione di un rapporto d'amore. E proprio nella declinazione odierna della parola "amore" individuano la chiave per leggere la coppia contemporanea. Oggi, essi dicono, non è più al legame coniugale che si chiede di durare, ma al sentimento amoroso. L'amore, o meglio il bisogno di riconoscersi degni d'amore nello sguardo di un altro, sembra essere la nuova forma di sacro, al riparo della quale si cerca di scongiurare l'angoscia trasmessa da questo nostro mondo difficile e insicuro. Ci si specchia negli occhi dell'amato e ci si trova belli e degni: un'esperienza di felicità tanto perfetta quanto fragile. Perché quei momenti magici possono rivelarsi un'illusione, soprattutto quando dietro l'incontro amoroso si celano le aspettative e i sogni dei primi legami infantili. La coppia diventa allora il luogo potenzialmente esplosivo in cui si agitano i retroscena affettivi non risolti nell'infanzia. Come darle una possibilità di riscatto? Non certo tornando indietro, alla coppia immobile e codificata, ma, da una parte, comprendendo meglio i meccanismi all'opera nel gioco d'amore e, dall'altra, riscoprendo che questo gioco è anche un "lavoro" di costruzione di sé e dell'altro.
Di lavoro oggi si discute molto, principalmente riguardo alla sua profondissima crisi e alle scelte politiche che dovranno sanarne le drammatiche emergenze. Ma il lavoro non ha soltanto a che fare con la produzione di ricchezza e benessere materiale: esso 'fonda' la Repubblica italiana, come recita l'articolo 1 della nostra Costituzione, e soprattutto fonda tutti noi, che siamo veramente cittadini perché lavoriamo, lavoreremo, abbiamo lavorato (o perché non possiamo lavorare pur volendolo fare). Spesso, in questo parlar molto del lavoro, ci si sofferma troppo, se non esclusivamente, sui suoi aggettivi - precario, dipendente, autonomo, nero... - mentre viene elusa la domanda decisiva: che cosa è il lavoro? Su questo riflette qui Luigino Bruni, esplorando i temi del lavoro non sotto forma di un trattato sistematico, bensì con felici escursioni tra la vita e la teoria, senza mai perdere di vista la valenza fondativa del lavoro nella vita umana. Ecco allora la ripresa in questa prospettiva della lunga storia del lavorare degli uomini e delle donne, fino al rapido tramonto delle forme del lavoro contadino e poi di quello della fabbrica, dove si erano condensati secoli, se non millenni, di storia di arti e mestieri, di professioni e abilità. Un tramonto dopo il quale non si intravede ancora con chiarezza quale sarà il futuro delle nuove forme di produzione di beni e servizi: se una modalità più umana e umanizzante o invece il ritorno di una dipendenza quasi servile, una sorta di neo-feudalesimo. E poi, l'attenzione alle realtà giovanili, schiacciate tra la fine dei mestieri e la chiusura dei mercati, eppure miniere di speranza che la scuola e la formazione possono ancora far fiorire. E infine, la rilettura sotto una nuova luce delle 'parole' del lavoro: a cominciare da charis, 'gratuità', passando per oikonomia, la vera 'economia', cioè il bene comune domestico, per arrivare a 'festa', la dimensione autentica del lavoro come lo intende Bruni, vale a dire la produzione all'interno della dimensione relazionale e simbolica, della fraternità e del dono reciproco.
Per la prima volta nella storia dell'Occidente si sta verificando una cesura tra le generazioni, un'interruzione del passaggio del 'testimone' da una generazione all'altra. Che cosa passano i genitori ai figli? E più radicalmente: i genitori passano ancora qualcosa ai figli? In un'epoca come la nostra di vertiginoso cambiamento sociale, economico, valoriale, la generazione adulta rischia di vivere come inutile o irrealizzabile la consegna ai giovani degli 'attrezzi' per vivere. Eppure è in momenti come questi che il patto generazionale della trasmissione consapevole e del ricevimento critico si rivela indispensabile per la crescita e il futuro degli uomini e delle civiltà. I contributi raccolti in questo volume, firmati da studiosi di discipline e orientamenti diversi, cattolici e laici, riflettono sulla fragilità che caratterizza oggi il rapporto genitori-figli, ricostruendo il percorso che ha portato alla smarrita autorefe-renzialità odierna, con la generazione adulta ripiegata su se stessa e quella giovane sempre più a disagio per una sedicente autonomia che ha piuttosto il sapore dell'abbandono. I padri (e le madri) non più generativi, ma persi nell'individualismo dell'iperconsumo anche affettivo. I figli che sopravanzano i genitori nella capacità tecnologica, ma poi si fermano ad aspettare, come Telemaco, il ritorno di un padre che metta ordine e indichi la strada...
Alla sua nascita nel 1999 l'euro era stato salutato come un formidabile impulso al mercato unico e quindi al libero scambio delle persone, delle merci e del denaro, nonché al consolidamento del processo di integrazione e di una sempre maggiore coesione tra i popoli europei, anche grazie alla valenza simbolica della condivisione della stessa moneta. Ma alla prima vera crisi avviata nel 2008 dal fallimento di Lehman Brothers - quel grande e ambizioso disegno si è rivelato del tutto inadeguato. La moneta europea ha da allora più volte rischiato di finire sugli scogli, travolta da una tempesta che era nata, sì, oltreoceano, ma che in Europa ha trovato un impianto strutturale troppo debole per poter reggerne l'urto. Dopo più di mezzo secolo di impegno nella realizzazione di un'integrazione economica e politica, l'Europa si trova oggi di fronte alla sfida più difficile: ritrovare le proprie potenzialità, oggi soffocate dai vincoli delle politiche di austerità che essa stessa si è costruita. Si può e si deve, ci dice in questo libro l'economista Andrea Terzi, seguire una strada diversa, quella di un'Europa che rinuncia a suicidarsi e riapre i giochi tornando a credere nelle proprie possibilità e nel proprio patrimonio intellettuale. Una strada che restituisca ai popoli europei un percorso di prosperità condivisa e all'Europa la capacità di contare ancora qualcosa negli equilibri internazionali.
Wall Street, settembre 2008: il fallimento della banca d'affari Lehman Brothers segna l'inizio della grande crisi che in questi anni ha causato tanta sofferenza. Si è trattato di un vero e proprio infarto del cuore del sistema finanziario mondiale. La metafora è semplice e immediata. Nella riflessione del sociologo Mauro Magatti, attento da sempre ai rapporti tra mondo economico e società, la figura dell'infarto diventa strumento efficace per capire la crisi e immaginare una prospettiva per il suo superamento. Come l'infarto si cura in prima battuta con un farmaco salvavita per evitare la morte del paziente, così il collasso del sistema è stato evitato dall'immissione di liquidità da parte degli Stati: un intervento tampone, però, insufficiente a rimuovere le cause. Occorre invece, come nel caso del paziente infartuato, analizzare con lucidità le cattive pratiche comportamentali che hanno portato alla crisi, l'infernale congegno del capitalismo tecno-nichilista che riduce l'uomo a una sorta di 'macchina desiderante' mai appagata e mai felice, quel consumatore insaziabile che dovrebbe alimentare una crescita senza fine. Se si vuole evitare lo schianto finale del sistema anche sotto il peso di un'ingestibile infelicità collettiva, vanno individuati, oltre a logiche economiche diverse, nuovi stili di vita, nuovi paradigmi mentali che permettano di recuperare quella relazione tra economia e società, tra efficacia tecnica e sviluppo umano, sistematicamente negata...
L'uomo semplificato è l'ultima frontiera della concezione tecnico-scientifica del mondo. Oggi l'ideale di una vita senza complicazioni viene posto nella linearità dei processi e nell'economia delle operazioni tipiche della macchina. L'efficienza è la porta della felicità. Questo non è lo scenario di una fantasia letteraria o la profezia apocalittica di qualche visionario nemico del progresso. È il contesto della nostra vita, la banalità del nostro quotidiano. Pensiamo infatti a come la televisione, il computer, i tablet e gli smartphone costituiscano il paesaggio d'oggi, regolando le relazioni con gli altri e il rapporto con il mondo. Ma pensiamo anche alle procedure standardizzate e automatizzate in cui ci imbattiamo ogni volta che cerchiamo di interpellare un gestore telefonico, un ufficio amministrativo, o anche solo un bancomat o il self-service di un distributore di benzina. Il libro del filosofo francese Jean-Michel Besnier nasce proprio dall'intento di aprirci gli occhi per vedere con chiarezza a cosa rinunciamo quando accettiamo che uno standard tecnologico diventi ciò che ci caratterizza come umani. Le macchine, egli dice, rendono sì semplice la vita (e a volte la salvano, questo non va dimenticato), ma al prezzo di livellarla a colpi di algoritmi e calcoli matematici. E non si tratta di un discorso nostalgico o conservatore...
L'ambiguità della scuola italiana appare radicale: forma cittadini, sviluppa talenti e genera intelligenza, ma crea anche sconfitti, produce indifferenza e induce emarginazione. L'impegno necessario a liberarla dalle sue annose criticità richiama quello profuso nell'innalzamento dell'obelisco in piazza San Pietro nel 1586. Sollevato da terra per mezzo di una fabbrica imponente di argani ingegnosi, evitò il crollo grazie all'esperienza e intraprendenza dell'operaio Bresca il quale, accorto che i canapi cui era assicurato stavano cedendo, gridò nonostante il divieto di parlare durante i lavoro: "Acqua alle funi!". Fu ascoltato. I canapi bagnati ressero allo sfarzo, e l'obelisco venne posizionato al centro della piazza, dove tutt'ora si trova.
Se oggi in Italia c’è un deficit che deve preoccupare e meritare attenzione, forse ancora più importante di quello economico per un debito pubblico fuori controllo, è indubbiamente il deficit di legalità. Ogni giorno la cronaca sta a documentarlo. La tendenza al rifiuto della legalità viene addirittura individuata quale elemento costitutivo e insuperabile dell’identità nazionale. E tuttavia la lotta per la legalità è seria e buona e come tale va combattuta. Le ragioni sono tante. Prima fra tutte la sopravvivenza del nostro Paese. Questo libro vuole configurarsi come un vero e proprio percorso di educazione alla legalità. Cominciando dalla constatazione dell’attuale livello degradato della legalità in Italia e dall’importanza di dare voce al bisogno di un suo ripristino, l’autore individua i valori di legalità all’interno della Costituzione (valore in sé, prima ancora che scrigno di valori) da rendere operanti in modo effettivo e aggiornato.
Dio ha ancora un posto in un mondo disincantato come il nostro, in una cultura in cui la fede, quando ancora suscita qualche interesse, è considerata un segno di immaturità emotiva e intellettuale? E se quel posto esiste, come trovarlo? Come vedere le tracce del volto di Dio nell'esperienza umana? In questo suo ultimo saggio, Roger Scruton, filosofo inglese che ama parlare all'uomo contemporaneo, vuole rispondere all'indifferenza religiosa che ormai permea l'Occidente, guidandoci nella scoperta di quello che perdiamo appiattendoci su un mondo di oggetti, chiuso da un orizzonte ristretto e privo di senso, quando non calpestato e sfigurato. Attraverso una lettura colta e del pensiero filosofico e scientifico così come dell'espressione artistica dell'Occidente, prendendo esempi dalla pittura, dalla musica, dall'architettura e dai più popolari capolavori letterari, Scruton ci fa trovare le tracce del divino nel nostro mondo. Non il Dio remoto e inarrivabile dei filosofi, non l'insieme di cause senza finalità dell'universo scientifico, ma la "presenza reale" nella nostra vita quotidiana di una realtà irriducibile al mondo degli oggetti, qualcosa che riconosciamo con sicurezza come nostra esperienza fondamentale. È la percezione del nostro essere 'io' di fronte a un 'tu', l'incontro tra soggetti che si riconoscono come qualcosa di più che esseri viventi inseriti nel ciclo naturale descritto dalla scienza.
Negli ultimi sessant'anni i trapianti di rene, midollo osseo, fegato, polmone, pancreas e intestino da donatore vivente sono diventati una consolidata realtà medica, sociale e giuridica, offrendo opportunità prima inimmaginabili in termini di vite salvate e salute ritrovata. La trapiantologia da vivente, però, continua a sollevare più di una questione. Ad esempio la relazione tra cedente e ricevente a trapianto effettuato, la discussione sugli aventi o non aventi diritto di ricevere (si pensi ai disabili, agli alcolisti, ai sieropositivi), i modi di affrontare il gender gap (secondo le statistiche, infatti, i cedenti sono in maggior numero donne e i riceventi uomini). E se sulla carta il legislatore richiede che a donare sia solo la persona capace d'intendere e di volere, nel concreto ci si deve confrontare con casi problematici: basti pensare al donatore minorenne, disabile mentale o concepito allo scopo. E ancora, la donazione di un organo si può imporre? È una scelta revocabile? Per non parlare, poi, della vendita degli organi umani, opzione legale in pochissimi Paesi, tuttavia ampiamente diffusa sul mercato nero e accettata socialmente da molti. Il volume di Giulia Galeotti ricostruisce, attraverso l'analisi di numerosi casi italiani e stranieri, tutto ciò che la trapiantologia da vivente è riuscita a fare, mettendone in evidenza con grande efficacia ombre e luci, nella certezza che si tratti di un tema destinato ad acquistare sempre più importanza nel quotidiano.
Che ci troviamo di fronte a una svolta epocale nella civiltà umana, tutti lo avvertiamo, più o meno lucidamente: come mai in passato, oggi l’individuo cerca di costruirsi da sé, insofferente a ogni limite, sia esso la tradizione o la natura. Una sorta di mutazione antropologica sta cambiando le strutture profonde dell’umano, esito sempre più appariscente della postmodernità. Giuliano Zanchi ne illumina il meccanismo coerente, implacabile e potente nei suoi diversi risvolti, da quello scientifico a quello economico, politico ed estetico. Di fronte a questo sogno estremo di emancipazione, la coscienza cristiana si sente profondamente turbata. Essa oscilla tra un rifiuto arroccato sulle vestigia di un passato glorioso e una resa spesso inconsapevole allo spirito del tempo. La grande bussola del Concilio Vaticano II, che negli anni Sessanta aveva restituito slancio e idealità a un cattolicesimo alle prese con le sfide moderne, sembra aver perso le sue capacità magnetiche. Eppure il credente sa di non poter restare umano separandosi dalla storia. Semplicemente perché il Dio di Gesù Cristo ad essa si è legato per sempre. I discepoli pertanto accompagneranno queste «prove tecniche di manutenzione umana» con una cordialità non acritica, mettendo in gioco la propria antica sapienza a proposito dell’umano: «La presenza cristiana», ci ricorda Zanchi, «è chiamata, proprio mentre la civiltà sembra impegnata in un lungo esodo verso mete ancora incerte, a riaffermare la sua irrinunciabile affezione per una forma comunitaria della vita evangelica impiantata nel cuore dell’esistenza comune, umilmente a fianco della costruzione umana collettiva, decisa a scegliere sempre per propria dimora il luogo dove gli umani hanno le loro case, la loro vita, le loro speranze».
Giuliano Zanchi, licenziato in Teologia fondamentale presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, è Segretario generale della Fondazione «Adriano Bernareggi» di Bergamo. Si occupa di temi al confine fra l’estetica e la teologia. Ha pubblicato Lo spirito e le cose (Vita e Pensiero, 2003); La forma della chiesa (2005); Nella luce dell’essere: conversazioni sul caso Van Gogh (2005), Il destino della bellezza (2008), Salomone e le formiche. La legge di tutti i giorni (Vita e Pensiero, 2010), Il Genio e i Lumi. Estetica teologica e umanesimo europeo in François-René de Chateaubriand (Vita e Pensiero, 2011).
Il pensiero individualista e libertario che dagli anni Settanta disegna l’uomo come artefice di se stesso, guidato solo dalle proprie scelte e dai propri desideri, si rivela oggi più pericoloso di quanto potevamo immaginare. Conquiste importanti, come la fine dell’autoritarismo, il venir meno della distanza incolmabile tra le generazioni o l’affrancamento delle donne da un destino gregario, hanno finito per scorrere lungo una deriva che, da acquisizioni di civiltà, le ha trasformate in gabbie di solitudine e fragilità. Un nuovo imperativo, sociale ed economico, all’autodeterminazione a tutti i costi si è sostituito alle regole del passato, sulle cui macerie l’individuo si ritrova oggi disorientato e incerto. La sua stessa consistenza è in discussione. Lo testimoniano le nuove ansie e le inedite forme depressive, ben note a psichiatri, psicanalisti, medici generici, e a chiunque stia in ascolto della sofferenza umana. Forme di disagio che non riguardano solo la precarietà sociale o le vere e proprie patologie psicologiche. Il suolo umano si è impoverito, si è svuotato del suo humus di relazioni, legami, responsabilità, è divenuto friabile, inconsistente. Su questo terreno incerto l’uomo stesso diventa ‘di sabbia’. Una figura inafferrabile e impastata di contraddizioni, ma con un tratto distintivo che si staglia nitido sotto lo sguardo attento di Catherine Ternynck: la sensazione di una stanchezza. È un uomo che fatica a portare la sua vita. Costantemente dubita del tragitto e del senso. Chiede riconoscimento e rassicurazione. È per questo che Ternynck sceglie di affiancarlo attraversando «quei luoghi deteriorati dall’individualismo, dove le fondamenta umane sono in difficoltà»: in famiglia, all’interno della quale i bambini vengono spinti a un’autonomia troppo precoce, adorati e minacciati nello stesso tempo, e i rapporti tra le generazioni si trovano a fronteggiare le metamorfosi dei legami; nel sociale e nel mondo politico, con la crisi di legittimazione di chi ha il compito di riscrivere le regole o aiutare la coesione della vita in comune; nell’universo simbolico, dove l’identità stenta a costruirsi nel luccicante mercato del tutto e subito. Quest’uomo smarrito, dai contorni fluttuanti, ci parla di sé attraverso le tante voci che Catherine Ternynck ha ascoltato nel suo lavoro di terapeuta. Un racconto collettivo, una trama di esperienze che l’autrice tesse con una scrittura avvincente, limpida ed emozionante al tempo stesso, di grande empatia verso tutte le sfumature dell’umano e insieme lucida nel denunciarne le derive. Un’avventura dello spirito cui è invitato non solo lo specialista, lo psicanalista, ma l’uomo curioso, e forse preoccupato, della nostra epoca.
Motori di ricerca, smartphone, applicazioni, social network: le recenti tecnologie digitali sono entrate prepotentemente nella nostra vita quotidiana. Ma non solo come strumenti esterni, da usare per semplificare la comunicazione e il rapporto con il mondo: esse piuttosto disegnano uno spazio antropologico nuovo che sta cambiando il nostro modo di pensare, di conoscere la realtà e di intrattenere le relazioni umane. A questo punto, la domanda che Antonio Spadaro si pone e ci pone è: la rivoluzione digitale tocca in qualche modo la fede? Non si deve forse cominciare a riflettere su come il cristianesimo deve pensarsi e dirsi in questo nuovo paesaggio umano? Forse, egli risponde, è giunto il momento di considerare la possibilità di una ‘cyberteologia’, intesa come intelligenza della fede (intellectus fidei) al tempo della rete. Non si tratta però, semplicemente, di cercare nella rete nuovi strumenti per l’evangelizzazione o di intraprendere una riflessione sociologica sulla religiosità in internet. Si tratta piuttosto – e qui sta la pionieristica novità di Spadaro – di trovare i punti di contatto e di feconda interazione tra la rete e il pensiero cristiano. La logica della rete, con le sue potenti metafore, offre spunti inediti alla nostra capacità di parlare di comunione, di dono, di trascendenza. E, dal canto suo, il pensiero teologico può aiutare l’uomo in rete a trovare nuovi sentieri nel suo cammino verso Dio. È un territorio ancora inesplorato, nel quale Spadaro entra con indiscusso background teologico e grande competenza tecnica, ma soprattutto con spirito di fiducia nella capacità del cristianesimo e della Chiesa di essere presenti là dove l’uomo sviluppa la sua capacità di conoscenza e relazione. La rete è un contesto in cui la fede è chiamata a esprimersi non per una mera ‘volontà di presenza’, ma per una connaturalità del cristianesimo con la vita degli uomini. La sfida, dunque, non è come ‘usare’ bene la rete, ma come ‘vivere’ bene al tempo della rete.
Antonio Spadaro, gesuita, è direttore della rivista «La Civiltà Cattolica» e docente presso la Pontificia Università Gregoriana, dove ha conseguito il dottorato in Teologia. È Consultore del Pontificio Consiglio della Cultura e del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. Autore di molti volumi sulla cultura contemporanea, ha già dedicato a internet i saggi: Connessioni. Nuove forme della cultura al tempo di Internet (2006) e Web 2.0. Reti di relazione (2010). Con Vita e Pensiero ha pubblicato Svolta di respiro. Spiritualità della vita contemporanea (2010). Molto attivo in rete, nel 1998 ha fondato uno dei primi siti italiani di scritture creative, Bombacarta.it. Dal gennaio 2011 è autore del blog Cyberteologia.it (premio WeCa 2012).
La metafisica sembra non trovare casa nelle coscienze e nelle società moderne, che la vedono come un’eterea e inattuale sovrastruttura sovrapposta alla sola vera realtà, quella di cui le scienze ci forniscono una conoscenza sempre più esatta. L’unica base reale, si dice, è la natura, sulla quale è possibile edificare un’unica struttura: la società umana, cioè l’associazione degli uomini secondo regole che permettano lo sviluppo di tutti. Il resto è solo sovrastruttura di pensiero.
Questa convinzione diffusa, che si vanta di aver fatto pulizia di tanto sterile ragionare, viene qui affrontata e smentita dal filosofo francese Rémi Brague, il quale dimostra che al contrario, oggi più che mai, l’uomo è, per dirla con Schopenhauer, un «animale metafisico». Argo - menta infatti Brague che tanto la conoscenza della natura quanto l’organizzazione degli uomini in una società vitale e vivibile presuppongono l’esistenza stessa della collettività umana. E questa esistenza non è affatto scontata, soprattutto oggi che gli uomini sono sempre più in grado, per le conquiste scientifiche e tecnologiche, di scegliere di essere o di non essere, e anche di dare o non dare la vita.
Perché si deve volere l’essere? Perché scegliere la vita, il benessere sociale, il progresso? Queste sono, senza dubbio, domande cruciali per l’uomo moderno, e la risposta ad esse è squisitamente metafisica. Amare la vita, battersi per un’esistenza equa vuol dire, alla radice, pensare che l’essere è bene: l’equazione metafisica fondamentale. Da essa, ci ricorda Brague, dipende tutto quello che più ci sta a cuore: la costruzione di una società giusta, la conservazione di un ambiente vivibile, la volontà di dare la vita. In una parola, la convinzione che il futuro dell’umanità vale la pena.
La metafisica, dunque, non è affatto un’inutile costruzione ormai in disarmo, ma la radice stessa delle nostre scelte concrete; non una sovrastruttura superflua, ma l’infrastruttura indispensabile alla continuazione della vita degli uomini.
Queste le illuminanti parole con cui Brague chiude il suo scritto: «In un dialogo di Platone un personaggio dice che l’uomo è come un albero capovolto le cui radici stanno in alto. Forse come lontana eco di quest’immagine di Platone, più di due millenni dopo di lui, Antoine de Rivarol ha scritto: “Ogni Stato è un vascello misterioso le cui ancore sono in cielo”. Poco importa il contesto, in questo caso una difesa degli antichi regimi e del principio religioso della loro legittimazione. Oltrepas - siamo il limite dell’ambito politico. E arrischiamo: per ogni uomo, le ancore sono nel cielo. È in alto che bisogna cercare quello che ci salva dal naufragio».
Rémi Brague, membro dell’Institut de France, insegna Filosofia alla Sorbona di Parigi e all’Università Ludwig-Maximilians di Monaco. Autore di numerosi saggi, in Italia è noto soprattutto per il volume Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa (1998). Tra le altre sue opere tradotte: La saggezza del mondo. Storia dell’esperienza umana dell’universo (2005); Il Dio dei cristiani: l’unico Dio? (2009)
Che oggi la scuola sia in grave difficoltà è un'evidenza sotto gli occhi di tutti. Eppure mai come adesso ci si è preoccupati tanto dell'istruzione e si sono spese tante risorse e riposte tante aspettative in essa. Si è insomma di fronte a quello che Frank Furedi chiama "il paradosso dell'istruzione": mentre investiamo sempre di più nell'insegnamento, e sempre di più vorremmo ricavarne, le nostre scuole chiedono sempre meno agli studenti. Basse aspettative nei confronti dei ragazzi, la tendenza a infantilizzarli attraverso una forte psicologizzazione del rapporto educativo e un infinito maternage, la ricerca ossessiva delle loro motivazioni, il declinare dell'autorità degli adulti producono l'esatto contrario di ciò a cui l'istruzione dovrebbe mirare, cioè la formazione di persone autonome, critiche, capaci di una propria visione del mondo. La tesi controcorrente di Furedi è che l'istruzione è importante per se stessa, per i contenuti che veicola. Apprendere le conoscenze e le scoperte frutto di esperienze fatte da altri, in luoghi anche remoti e in situazioni storiche diverse da quelle cui sono abituati, permette ai giovani di sviluppare le imprescindibili capacità di pensare, conoscere, immaginare, osservare, giudicare, interrogare.
'Amore' è una parola magica, che sollecita pensieri positivi di realizzazione e, nella nostra società secolarizzata, sembra evocare l'ultimo luogo d'incanto in un mondo disincantato, l'ultimo rifugio del mito. Ma se andiamo a vedere cosa c'è dietro questa parola da tutti considerata il lasciapassare verso la felicità, scopriamo un intreccio fitto e nebuloso di stereotipi, di aspettative idealizzate, di desideri egocentrici. In una parola, di 'miraggi'. È per chiarire questi meccanismi e per restituire al nostro desiderio d'amore la sua prospettiva legittima che Xavier Lacroix ci conduce con mano sicura e piglio divertente attraverso gli stereotipi del neoromanticismo. È vero che 'basta amare'? Ma l'amore cos'è? Desiderio, tenerezza, passione, volontà? Conta solo l'effervescenza dell'innamoramento o l'alleanza coniugale? Ripercorrendo le strade dei miti classici e di quelli contemporanei, da Tristano e Don Giovanni ai film e alle canzoni, appoggiandosi alle voci e alle idee più illuminate del nostro tempo, Lacroix arriva a disegnare il volto vero dell'amore. Il desiderio di amore che la nostra anima contemporanea confusamente sente come vitale rimanda all'esperienza fondante in cui la relazione con l'altro diventa il luogo della rivelazione a se stessi. Mirando gratuitamente e generosamente al cuore dell'amato, alla sua interiorità, alla sua sostanza carnale e spirituale, finisco per incontrare il me più vero. Il miraggio si trasforma e si rivela. Diventa miracolo.
"La bellezza può consolare o turbare; può essere sacra o profana; può essere divertente, stimolante, ispiratrice, raggelante. Può influenzarci in infiniti modi, ma mai viene considerata con indifferenza: la bellezza esige di essere notata." Con queste parole il filosofo inglese Roger Scruton apre il suo ultimo saggio, una ricognizione al tempo stesso profonda e accessibile sul significato della bellezza e sul posto che essa occupa nella nostra vita. Il punto non è tanto trovare una definizione esaustiva di ciò che piace, ma riflettere sulla nostra esperienza della bellezza, trovare il senso delle emozioni che essa suscita. Tuttavia l'autore non si sottrae al confronto con un dibattito culturale e filosofico che ha radici lontane e voci di somma autorevolezza. Egli espone e spiega le idee di Platone, che vede il bello come via che conduce al trascendente; quelle di Tommaso d'Aquino, per cui la bellezza è un attributo dell'essere e un dono di Dio, per soffermarsi poi sulle teorie estetiche di pensatori moderni, primo fra tutti Kant, del quale analizza approfonditamente la dottrina sulla natura del giudizio estetico.