Pregare è una facoltà umana: nasce probabilmente dall'intuizione di poter comunicare con le presenze viventi, umane e non, che sono intorno a noi o sono passate o sono altrove. La preghiera è un anelito comune, al di là delle differenze teologiche, ideologiche e politiche. Significa invocare la divinità fuori o dentro di noi perché ci venga incontro e migliori le nostre vite. Si tratti di monoteismo o di politeismi, di animismi o di culto degli antenati, pregare è rivolgersi a una presenza o a più presenze al di fuori di noi, stabilendo una reciprocità fondamentale per motivare il proprio stare al mondo. La nostra società è l'unica che nega questa facoltà, come se avesse deciso di vivere in un quadro dell'adesso impoverito da tutte le ispirazioni che vengono da altrove.
Il Liceo di Atene, di cui abbiamo pochi resti, è considerato a ragione uno dei luoghi più significativi dell'umanità. È il sito della scuola di Aristotele. Qui il filosofo insegnava e discuteva le risposte ai misteri più profondi della condizione umana, cambiando il modo in cui pensiamo. Oggi può essere difficile comprendere l'influenza straordinaria delle sue lezioni. Eppure le sue osservazioni sul mondo intorno a lui, unite alle sue riflessioni sulla natura della conoscenza, hanno gettato le fondamenta di tutta la scienza empirica. Il suo studio del pensiero razionale ha posto le basi della logica formale, pietra angolare dell'indagine filosofica. Il suo esame delle città-stato greche ci ha dato la scienza politica, mentre la sua analisi della tragedia rimane un pilastro dei corsi di letteratura in tutto il mondo. Il noto filosofo John Sellars ci conduce in un viaggio nel pensiero di Aristotele, mostrando come molte sue idee continuino a incidere sul modo in cui pensiamo e viviamo oggi. E ci suggerisce che tenere aperte le porte della mente alla curiosità e al desiderio di conoscere significa anche realizzare compiutamente la nostra natura umana. Le riflessioni di Aristotele, mostra Sellars, hanno oggi ancora molto da insegnarci.
I classici antichi sono diventati soggetti di cui aver paura. Non era facile prevedere che un giorno qualcuno avrebbe messo in guardia i giovani dalla lettura delle opere greche e romane, cospargendole di avvisi di pericolo o addirittura escludendone direttamente alcune dal canone; gli stessi che avrebbero accusato i classici di aver contaminato la nostra cultura con il razzismo, il sessismo, il suprematismo bianco, arrivando al punto di auspicare addirittura l'abolizione del loro insegnamento. Invece è accaduto. Si tratta di un fenomeno recente, ma soprattutto nuovo, inatteso, le cui motivazioni non possono essere ignorate: e come tutte le cose nuove e inattese, ha fatto sì che fosse necessario tornare a riflettere sullo stesso problema - che cosa sono i classici per noi? - da un nuovo punto di vista. Maurizio Bettini ci esorta dunque a tenere vivo il dialogo e a fuggire i pericoli insiti nella sua interruzione. Perché è proprio questo che avviene, quando si manifesta la paura dei Greci e dei Romani: un'interruzione di dialogo fra noi e i classici; non solo, fra noi e la storia, fra noi e il passato.
La vita umana, quando perde il suo fuoco, è destinata a diventare fredda come la morte. Questa nostra epoca pare aver smarrito il fuoco. Quando tutto smette di avere senso, l'unica cosa che sembra delinearsi davanti a noi è trovare qualcosa che ci distragga da questa assenza di significato. Viviamo vite imprigionate in un eterno intrattenimento, ed è difficile dissentire da una società che pare ormai organizzata solo per creare esigenze di consumi e vendere. Ma se tutto questo a un tratto finisse? Se tutto il mondo che conosciamo crollasse lasciando solo macerie e rovine? Che ne sarebbe di noi? Cormac McCarthy (1933-2023), tra i più grandi scrittori americani contemporanei, ha messo in scena un racconto nel suo romanzo "La strada" che conduce a un ribaltamento dello sguardo. Persino il padre protagonista del racconto di McCarthy nel suo pessimismo cosmico riesce a conservare al fondo di se stesso un desiderio di felicità. È la vita di quel figlio l'olio della sua fiamma, il combustibile vero del suo fuoco. Le persone felici sono quelle che hanno trovato il tesoro nascosto. Non hanno nulla, secondo la logica del mondo, ma hanno un motivo, un fuoco e per questo hanno tutto.
L'Italia ha imparato a comprendere la sua scuola in termini che le sono profondamente ostili. È questo il lascito di don Milani. E sta qui il nucleo di un equivoco che accompagna il nostro discorso educativo dagli anni Settanta in avanti. Ebreo convertito al cristianesimo e prete in odio alla borghesia, che nella Chiesa aveva aperto un'aspra polemica in nome dei poveri, don Milani sembrò incarnare una potente richiesta di cambiamento. In una maniera che ha qualcosa di profondamente ironico, tuttavia, la cultura pedagogica italiana ha finito per restare impigliata nelle stesse contraddizioni in cui si dibatteva il suo eroe. Il fatto è che don Milani, figura del nuovo, sarebbe rimasto fedele fino alla fine all'antico, al messaggio di Cristo e alla Chiesa. E a ben vedere anche a una idea di borghesia come classe di cultura. A pensarci è sorprendente come una figura così complessa, piena di tante cose, ambigua, contraddittoria e indubbiamente carica di fascino sia stata poi ridotta al figurino senza spessore del pedagogismo nostrano. L'ideologia che nel nome di don Milani pretende di bandirne il messaggio finisce così per imprigionare il prete a Barbiana ma svuota contemporaneamente Barbiana di ogni significato.
Che differenza c'è tra danzare per far piovere, e schiacciare un tasto per illuminare uno schermo? In entrambi i casi, un movimento del nostro corpo fa accadere qualcosa. Nel primo caso, la danza della pioggia si rivolge a una qualche divinità e il dispositivo che ne attiva l'intervento è il nostro corpo. Nel secondo caso il dispositivo è un prolungamento del corpo. Norbert Wiener, matematico, sottolineava, già negli anni Cinquanta del Novecento, la pericolosa e facile identità tra religione e tecnologia. È dunque ragionevole domandarsi oggi quanto politiche culturali prive di immaginazione abbiano allontanato la tecnologia dalla scienza, trasformandola in una fede che ha i propri sacerdoti, i black fridays di festa, gli eretici, gli atei e i martiri da social network.
Nel centenario della marcia su Roma che dette inizio alla dittatura fascista tocca a Liliana Segre - che nel 1938 fu espulsa da scuola a causa delle leggi razziste e nel 1944 fu deportata ad Auschwitz - presiedere la prima seduta del Senato della XIX legislatura. Ne nasce un discorso memorabile, di rilevanza storica e civile, una dichiarazione d'amore per la Costituzione repubblicana, «non un pezzo di carta, ma il testamento di centomila morti caduti nella lunga lotta per la libertà». Se il fascismo è stato «il filo nero che dalle leggi razziali ha portato alla Shoah», l'articolo 3 della nostra Costituzione è la «stella polare» che, afferma la senatrice Segre, «bandisce le discriminazioni e impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono ai cittadini il pieno sviluppo dei loro diritti, delle loro libertà, della dignità». Completano il volume una accorta introduzione di Alessia Rastelli, un breve nuovo testo di Liliana Segre e il saggio conclusivo di Daniela Padoan, che situa il discorso al Senato nella parabola di una tra le più alte testimoni della Shoah. Introduzione di Alessia Rastelli.
Questo è un elogio della lentezza, intesa come elogio della lettura e della scrittura attenta. Se scrivere è indugio intorno al «fare», e leggere un restare in totale compagnia di se stessi, percorrendo un percorso individuale, il testo in quanto oggetto privilegiato deve di conseguenza assorbire ogni attenzione. E l'attenzione e l'indugio sono virtù da coltivare per i loro effetti positivi soprattutto in un'età come la nostra, l'età della velocità. E la velocità porta con sé, insieme ai notevoli agi, un'erosione culturale di cui ancora non siamo in grado di valutare le conseguenze.
Per molti secoli sono state ritenute interessanti solo le opere e i libri degli uomini, mentre le donne sono state addestrate a non avere talento. Sono state silenziate, dimenticate, messe fuori. La soluzione ora è ricostruire l'intero campo su cui si gioca la partita della cultura. La tesi di fondo di questo libro è: come smettere di considerare il mondo solo in termini maschili. Uscire da questa "naturalezza" e da questa "normalità" pregiudiziali non è un obiettivo polemico, ma un'opportunità critica di crescita e di confronto, anche interculturale. Per smettere di considerare il mondo e la cultura solo in termini maschili non si tratta di guardare il paesaggio culturale del Novecento, per esempio, aggiungendo anche le donne, né di ripetere la logica dell'harem, dell'aiuola, o del club per soli uomini. Bensì di far contare la presenza e l'importanza delle donne, anche quando sono state ammutolite o oscurate. Per tanto tempo le donne sono state abituate a sentirsi incapaci e senza talento. La memoria delle loro opere non ha contato. Per illuminare uno spazio così fuori campo non basta aggiungere nomi, né la soluzione è cancellare il passato. Piuttosto, servono altre parole e nuove inquadrature.
L'avvocato, avevano scritto a suo tempo gli autori di questo libro, è quanto mai necessario. E questa necessità si è sentita fin dall'inizio della storia. Ma, rispetto al secolo scorso, il suo lavoro è profondamente cambiato. Nella relazione con i clienti, nella natura degli spazi fisici della giustizia (i tribunali) e nella ritualità del processo. Ma anche nel reperimento delle fonti e dei casi. L'incontro con le nuove tecnologie, con le norme che cambiano e con l'Intelligenza artificiale ha reso quello dell'avvocato un lavoro ibrido e versatile, nel bene e nel male. Un esempio per tutti: quando si ha a che fare con l'Intelligenza artificiale, chi è che può decidere, che può rappresentare, che può ragionare a favore di qualcun altro se non un essere umano? Fulvio Gianaria e Alberto Mittone delineano in questo libro ciò che sarà dell'avvocato nel futuro: prospettive, problemi, opportunità di una professione la cui necessità oggi, e domani, non verrà meno.
I ricchi sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Ma se quelli di una volta erano megacapitalisti, quelli di oggi sono gigacapitalisti. La pandemia, il periodo più calamitoso di sempre per i nove decimi dell'umanità, è stata una pacchia per loro. Jeff Bezos ha aggiunto un'ottantina di miliardi di dollari al suo già cospicuo patrimonio. Elon Musk, per un momento, l'ha superato come uomo più ricco al mondo. La nazione virtuale da due miliardi di utenti fondata da Mark Zuckerberg, se fosse reale, sarebbe la più popolosa al mondo. Ma il punto non è soltanto la quantità del denaro in sé. È che tale quantità dà a singoli individui un potere che, un tempo, competeva solo agli Stati sovrani. Come si fa a fermare la cavalcata verso nuovi tipi di monopoli di questa manciata di plutocrati che non ambiscono a influenzare solo che cosa compriamo ma anche che cosa pensiamo? Con tasse giuste, leggi migliori, più diritti ai lavoratori sfruttati e una nuova consapevolezza collettiva. Perché se continui a dire di mangiare brioche a moltitudini senza pane, la storia insegna, di solito non va a finire bene.
Migliaia di chiese sono oggi inaccessibili, saccheggiate, pericolanti. Altre sono trasformate in attrazioni turistiche a pagamento. Oggi non sappiamo cosa farcene, di tutto questo «ben di Dio», e bene pubblico: mancano visione, prospettiva, ispirazione. Ma è anche lì che si potrebbe costruire un futuro diverso. Umano. Le antiche chiese italiane ci chiedono di cambiare i nostri pensieri. Con il loro silenzio secolare, offrono una pausa al nostro caos. Con la loro gratuità, contestano la nostra fede nel mercato. Con la loro apertura a tutti, contraddicono la nostra paura delle diversità. Con la loro dimensione collettiva, mettono in crisi il nostro egoismo. Con il loro essere luoghi essenzialmente pubblici sventano la privatizzazione di ogni momento della nostra vita individuale e sociale. Con la loro viva compresenza dei tempi, smascherano la dittatura del presente. Con la loro povertà, con il loro abbandono, testimoniano contro la religione del successo. Possiamo decidere che anche questi luoghi speciali che arrivano dal passato devono chinare il capo di fronte all'omologazione del pensiero unico del nostro tempo. O invece possiamo decidere di farli vivere: per aiutarci a vivere in un altro modo.
Essere in dialogo con la solitudine significa entrare in relazione con gli abissi della nostra interiorità. In un mondo collegato continuamente in ogni suo aspetto, la solitudine rappresenta l'occasione per scendere lungo i sentieri che portano dentro di sé, e ascoltare le ragioni della immaginazione e del cuore. Eugenio Borgna ci indica in questo libro la direzione, molto spesso confusa e difficile, per aprirsi al dialogo con la solitudine. L'esperienza della pandemia, che ancora permane, ha posto tutti di fronte al significato della solitudine e a quanto essa sia un valido strumento per conoscere il mondo esterno, nelle sue luci e nelle sue penombre. La solitudine è l'anima nascosta e segreta della vita, ma come non avere la sensazione che oggi, nel mondo della modernità esasperata e della comunicazione digitale, sia grande il rischio di naufragare nell'isolamento?
Dopo il populismo serve una nuova idea di cittadinanza per salvare le nostre democrazie, un patto sociale che prenda sul serio le domande sollevate dall'onda sovranista ma offra risposte più eque ed efficaci. La grande ondata populista che ha portato al successo di Donald Trump, alla Brexit e al governo Cinque Stelle-Lega si è esaurita: la pandemia ha confermato in modo drammatico i limiti dei populisti al potere e la loro incapacità di mantenere le promesse. Nel pieno di una crisi ancora più grave di quella che ha originato il voto di protesta degli anni scorsi, le nostre democrazie sono di fronte a una alternativa: fare scelte radicali per ricostruire una società più giusta e dinamica, oppure consegnarsi alla nuova destra che avanza sulle macerie dell'illusione populista. È ora di smettere di essere popolo, è ora di tornare cittadini.
Questo libro tenta una lettura unitaria delle cause economiche e politiche del declino dell'Italia, che dura da un quarto di secolo. La tesi di fondo è che il Paese è organizzato in modo meno equo ed efficiente dei suoi pari: la supremazia della legge e la responsabilità politica sono più deboli, in particolare, e ciò comprime sia la produttività delle imprese sia le opportunità dei cittadini. Il senso di questo equilibrio politico-economico è la difesa della rendita, e la sua forza è la tensione tra la razionalità individuale e l'interesse collettivo. Questa logica è ferrea ma reversibile. Una battaglia di idee può scardinarla, liberando energie civili e risorse materiali ora sperperate, e avviare il rilancio.
Il concetto di Umanità è antico e attraversa la storia dell'Occidente. Ma nel Novecento esso subisce una brusca torsione, per effetto del superamento di una doppia soglia: quella che separa Umano e Inumano, da una parte. E quella che divide Umano e Postumano, dall'altra. Due fratture che si sono consumate in rapida successione. Con Auschwitz si rompe la soglia tra Umano e Inumano. La Disumanità come In-umanità diventa la trama del nostro presente, nel momento in cui, per esempio, si chiudono i porti all'arrivo dei migranti, decidendo di non salvare altri esseri umani. Il superamento della seconda soglia è quella tra Umano e Postumano, laddove la tecnologia è costruita a somiglianza dell'essere umano, assumendo aspetti a volte salvifici, a volte inquietanti.
Questo libro sostiene l'ipotesi non ovvia che la «morale per eccellenza», cioè quella che riguarda il sesso, sia una delle cose in cui la nostra civiltà è progredita di meno negli ultimi 4000 anni. Chi ritiene di non avere limiti non oserebbe mai farlo in piú di due. Tutte le coppie ostentano una stretta monogamia, e ogni contatto con terzi è considerato un tradimento che può distruggere il rapporto. Anche i giovanissimi vivono sostanziali matrimoni di reciproca sorveglianza. E mentre tutti si dichiarano libertari, di fatto si danneggia continuamente la reputazione delle persone a partire dai loro comportamenti sessuali. Nel profondo la morale sessuale è mutata pochissimo, e per alcuni aspetti sta tornando indietro, come segnalano molti intellettuali. Il libro si rivolge a coloro che sono perplessi rispetto al perdurante ruolo degli insegnamenti cattolici nel condizionare la mentalità comune, e rispetto ai principi cui obbedisce tuttora il legislatore in materia di diritto di famiglia. E viene incontro ai figli - e alle figlie - di genitori piú o meno dichiaratamente repressivi. Ma soprattutto, vuole indurre a dubitare della propria convinzione di essere liberi.
La matematica rivista come prassi politica, e non solo come teoria, è un formidabile esercizio di democrazia: come la democrazia si fonda su un sistema di regole, crea comunità e lavora sulle relazioni. Come la democrazia, la matematica amplia ma non nega. Studiando matematica si capiscono molte cose sulla verità. Per esempio che le verità sono partecipate e pertanto i principî di autorità non esistono; che le verità sono tutte assolute ma tutte transitorie perché dipendono dall'insieme di definizione e dalle condizioni al contorno. Svolgere un problema matematico è un esercizio di democrazia perché chi non accetta l'errore e non si esercita nell'intenzione di capire il mondo non riesce né a cambiarlo né a governarlo. Chiara Valerio tesse in un pamphlet polemico un parallelo tra matematica e democrazia, due aree che non subiscono la dittatura dell'urgenza.
La speranza ci consente di vedere la realtà con occhi non annebbiati e non oscurati dalle esteriorità e dalle consuetudini, dalle convenzioni e dalle ripetizioni, e ci consente di aprirci al futuro, liberandoci dalla ostinata prigionia del passato e del presente. Eugenio Borgna traccia un lucido percorso attraverso le tappe della letteratura, da una parte, e del suo lavoro di psichiatra, dall'altra, sul concetto di speranza. Essa è fragile ma è l'unica via per liberare l'essere umano dalla solitudine e dagli abissi dell'anima. In perenne ascolto dei suoi pazienti e in dialogo serrato con Cesare Pavese, ricostruisce l'esile figura di una delle forze più rivoluzionarie della vita.
Nelle nostre relazioni quotidiane respiriamo un clima sempre piú offuscato da intolleranza, facile offesa e una fin troppo vivace propensione all’accusa. Il crescendo di espressioni di ira e insofferenza va di pari passo con il rifiuto di fare i conti con le proprie fragilità, utilizzando gli altri come proiezione di parti scomode di sé. A partire dalle inimicizie interiori costruiamo cosí un mondo popolato da tanti presunti nemici esterni a cui addossare la colpa di scontento e malumori. La difficoltà a mettersi in discussione ben si evidenzia nell’attività psicoterapeutica, ma è anzitutto nella vita di tutti i giorni che i sentimenti negativi proiettati alimentano spirali di rabbia e divisioni. Riconoscere in se stessi ciò che troppo facilmente viene attribuito agli altri, assumersene la responsabilità, è l’unica strada per conoscersi, rispettarsi e ricercare forme pacifiche di convivenza, sottraendosi al rischio che la rabbia sia strumentalizzata dai giochi di potere e della politica.
Pensare che Dio sia "soltanto" una parola non significa ridurne il valore nella storia. Al contrario, può significare dare contenuto di realtà alle radici profonde che hanno indotto, nei secoli, comunità di esseri umani a lavorare intorno a questa immagine, costruendo una foresta di simboli, tracciando cammini di conoscenza e di relazione tra gli uomini. Ma poiché ogni pensiero deve fare i conti con la contemporaneità, è necessario capire se la parola «Dio» sia oggi sfibrata, svuotata di senso oppure se sia possibile rinvenirne un significato nuovo, in cui al di là della narrazione mitologica si possa intravedere l'ossatura di una inesausta ricerca. Potremmo allora considerare la parola «Dio» come il punto di intersezione tra le piccole vicende umane di ogni tempo e le vorticose dimensioni della ricerca intorno all'universo. Forse è in questo incrocio di strade che la parola «Dio» è stata formulata. E forse si può tentare oggi di immaginare una nuova mappa. Interrogando la vita, ma anche le scienze, la poesia, la storia e le Scritture stesse.
Incisi nella pietra con caratteri di fuoco, i comandamenti impongono all'uomo l'obbedienza e al tempo stesso esigono la libertà di trasgredirli: la legge divina ha senso solo se ammette la facoltà di non osservarla.
Nonostante siano il passo biblico più conosciuto e citato al mondo, simbolo per eccellenza del monoteismo, i Dieci comandamenti hanno ancora molto da raccontare. Che cosa rappresentano oggi e che suggestioni nascono dalla loro (ri)lettura? La rivelazione della parola divina a Mosè sul Sinai è un dialogo fra terra e cielo ricco di chiaroscuri, fraintendimenti, emozioni che prendono il sopravvento, come quando, infuriato con il popolo d'Israele per il vitello d'oro, il profeta spezza le prime Tavole della Legge. Dall'analisi di Elena Loewenthal emerge che il principio di responsabilità – la consapevolezza che ogni azione o pensiero porta con sé delle conseguenze – è senz'altro la filigrana dei comandamenti. In questa breve sequenza di imperativi positivi o negativi si snodano la storia passata e le aspettative future. Ma malgrado una struttura apparentemente semplice, i due passi biblici che enunciano i comandamenti nascondono sottintesi, dubbi, difficoltà. Ed è proprio attraverso le aporie che si dipana la ricchezza di significati, che le infinite rifrazioni del testo si aprono alla lettura.
A chi appartiene la nostra vita? Detto altrimenti: sul nostro fine vita è preferibile che decidiamo noi o un estraneo che non conosciamo, scelto dal caso o dai rapporti di forze, che potrebbe essere anche un nostro nemico? Questo è l'unico interrogativo intellettualmente onesto, logicamente e moralmente onesto, con cui affrontare il tema del fine vita, del suicidio assistito, dell'eutanasia. Ed è l'interrogativo che Paolo Flores d'Arcais si pone in questo pamphlet. La risposta ovvia è che preferiamo decidere noi. Perché mai dovremmo sottometterci a un altro, alla Chiesa, a una maggioranza politica? Tutti e ciascuno, senza eccezioni, preferiremmo essere noi a scegliere. Ad essere logicamente e moralmente onesti, perciò, la questione del fine vita non costituisce un problema, non dovrebbe, almeno. Ha in sé la sua risposta: nessuno può imporre la propria volontà sul fine vita di un altro.
La follia non è qualcosa di estraneo alla vita, ma una possibilità umana che è in noi, in ciascuno di noi, con le sue ombre e con le sue incandescenze emozionali. La tristezza e l'angoscia sono esperienze umane non estranee alla nostra esistenza.
La fenomenologia ha portato a considerare la psichiatria finalmente non solo come una scienza naturale, ma anche come una scienza umana, che nella cura delle interiorità ferite segue sentieri conoscitivi nutriti di gentilezza e di sensibilità, di etica e di umanità, sondando aree solo apparentemente estranee alla psichiatria, ma a questa vicine nel loro comune retroterra emozionale. Le emozioni ferite entrano a fare parte delle diverse forme di sofferenza psichica, e non solo di quelle depressive. Ma le emozioni accompagnano la nostra vita in ogni sua circostanza, si voglia o non si voglia, quando stiamo male e quando stiamo bene e non solo nelle condizioni di malessere, anche se non sempre ne siamo consapevoli. In questo libro Eugenio Borgna intesse le sue riflessioni su passato, presente e futuro della psichiatria con frammenti della sua vita «rapsodici e serpeggianti, nei quali sono confluite esperienze lontane e vicine nel tempo».
Per il pensiero liberale una «politica della verità» è un'assurdità e un pericolo, il principio di una società dogmatica, paralizzata da un potere totalitario e ingiusto. È davvero così? La teoria sviluppata in questo libro rovescia l'ipotesi. Uno sguardo più attento al ruolo del vero e del falso nelle nostre vite ci fa capire che oggi il destino della libertà e della giustizia è inestricabilmente legato al concetto di verità. Ma si tratta di guardare alla verità in un modo diverso: considerando anzitutto il suo speciale potere in democrazia, in cui le credenze (vere, false, incomplete o distorte) dei cittadini orientano le stesse condizioni della vita pubblica. Contro la proliferazione del falso e dell'insensato, una nuova politica della verità deve tutelare, per tutti noi, il diritto alla verità non soltanto in relazione al bisogno di sapere, ma anche al bisogno di essere garantiti in quei beni e valori critici che si legano a un uso razionale delle conoscenze.
La vita nell'amicizia è adesso, lo sentiamo senza dovercelo dire. Vale la pena di vivere per questo, perché c'è l'amicizia. Essa libera la quotidianità dal suo carattere di «compito» e l'esistenza da qualunque sospetto di «doversela meritare». È la ricompensa dei viventi, che non bisogna aspettare anni o in un'altra vita. In questo senso, proprio oggi, per noi contemporanei è una delle più assurde e anacronistiche manifestazioni. Ricorda a una società che ne ha completamente smarrito il senso che non c'è un oltre, ma che esso è già qui, che c'è qualcosa che non corrisponde a nessuno scambio equo, è uno spazio della «ingiusta gratuità», ingiusta perché questa non è offerta a tutti.
Nel mondo di Chandra, dove la parola è anche immagine e poesia, meditare è anzitutto stare fermi; sedersi e seguire umilmente e con pazienza il respiro, accoglierlo in silenzio, conoscere ma senza pensare. Meditare è seguire i movimenti della nostra mente smettendo di affaccendarci in azioni, pensieri, preoccupazioni per il futuro, ricordi del passato. Meditare non è fare il vuoto intorno a noi. Anzi: è non separare i mondi, non dividere quel che consideriamo spirituale da quel che riteniamo ordinario. E i gesti quotidiani di cucinare, lavare i piatti, telefonare, pulire, leggere possono diventare forme di preghiera. È insomma stare dentro noi stessi, dentro tutto ciò che siamo in quel momento, consapevolmente. Spesso si pensa che la soluzione al dolore e all'ansia sia altrove, ma è nel dolore la soluzione del dolore (e nell'ansia la soluzione dell'ansia). Sentendolo, abitandolo, assaporandolo, non è più un estraneo, ma a poco a poco un ospite scomodo, irruente, tempestoso e infine un pezzo di noi.
Tutti, prima o poi, riceviamo una diagnosi. Un giorno arriva un esperto e con una parola ci dice qualcosa che modifica il corso della vita, in peggio o in meglio. Momento chiave della relazione medico-paziente, la diagnosi non è solo un processo di conoscenza compiuto da chi la formula, è anche un'occasione importante della conoscenza di sé. Ed è sempre un incontro: con il corpo, la chimica dei farmaci, la cura di sé, la scienza medica, la (s)fiducia nella medicina, il passato dell'anamnesi, il futuro della prognosi, la nostra personalità, le nostre paure e difese. Sulla malattia e l'essere malati si è scritto molto. Meno sulla diagnosi e l'essere diagnosticati. O con internet, sull'autodiagnosticarsi, solitari esploratori dei nostri sintomi. Le diagnosi non sono sentenze e le malattie non hanno un «significato», non sono metafore o colpe. Possono però abitare le nostre vite come narrazioni e mitologie personali.
Già i pittori offrivano al vasto pubblico immagini decisive della storia: ma, prima di dipingere una battaglia, si informavano su chi l'aveva vinta. L'invenzione fotografica fu invece salutata come l'avvento dell'informazione obiettiva. I cronisti possono mentire, gli scatti sul campo dovrebbero riprodurre la realtà. Eppure, la ricostruzione storica dimostra che le foto piú famose sono spesso il risultato di artifizi. La nuova tecnica, nata per aiutare il vero, scivola al servizio della propaganda, alleandosi al falso. La parabola della fotografia riassume quindi in icone una degenerazione dei mass-media. Il libro di Zoja discute otto fotografie celebri. Le quattro che rappresentano "guerrieri" provengono da messe in scena. Possiamo invece credere alle altre quattro: riproducono dei bambini, che ignorano finalità nascoste. Questa rassegna anticipa il problema della post-verità, analizza la psicologia retrostante e offre strumenti per capirla.
Eugenio Borgna continua, con questo libro, a elaborare un altro elemento del suo personale lessico delle emozioni. Qui racconta la nostalgia ferita, con le sue collaterali parole tematiche: quella della memoria, quella del tempo, quella della patria perduta, quella dell'infanzia. Ma c'è anche la nostalgia della morte, quella di un volto che, come diceva Rilke, ci accompagna, a volte introvabile; e anche la nostalgia della vita quando la malattia è in noi. La nostalgia aperta alla speranza è diversa da quella pietrificata nel passato. Queste sono alcune delle parole che tematizzano il libro. Ci sono nostalgie ferite dal dolore, e nostalgie che se ne salvano. Ovviamente, significa fare riferimento a Leopardi e Proust ma anche a Emily Dickinson e Guido Gozzano. La nostalgia, infine, può essere intesa come recupero del passato: come sua donazione di senso; come antitesi, anche, al drago dell'indifferenza che porta al deserto delle emozioni.
Un piccolo libro con una tesi molto grande: per risolvere i conflitti che dilaniano il mondo, e in particolare l'Europa, dobbiamo partire dal concetto di «identità culturale». Un concetto pernicioso che porta a pensare alla cultura come a qualcosa di statico, determinato, immobile. Un concetto che tende a produrre da un lato comunitarismi integralisti, dall'altro relativismi inerti e indifferenti. Oppure barricate per difendere orticelli culturali o indifferentismo dove tutto va bene purché omologo e uniforme. Invece proprio della cultura è il dinamismo, lo scambio, la permeabilità. Usando la rara peculiarità intellettuale di una doppia conoscenza, quella del mondo occidentale e del mondo cinese, Jullien riesce a stabilire l'unica piattaforma possibile per un'umanità pacificata. Quella in cui le idee e le culture sono qualcosa di dinamico, di fluido, senza steccati. Un antidoto prezioso a un mondo che costruisce barriere.
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Vittime di violenza politica e intolleranza religiosa, inassimilabili malgrado il battesimo forzato, perseguitati dalle prime leggi razziste, costretti a un'emigrazione interiore, non più ebrei, ma neppure cristiani, i marrani sono «l'altro dell'altro». La scissione lacerante, la doppiezza esistenziale conducono alla scoperta del sé, all'esplorazione dell'interiorità. Gli esiti sono disparati: vanno dalla mistica di Teresa d'Ávila al concetto di libertà di Baruch Spinoza. Pur iscritto nella storia, il marrano ne eccede i limiti rivelandosi il paradigma indispensabile per sondare la modernità politica. Sopravvissuti grazie alla clandestinità, alla resistenza della memoria, al segreto del ricordo, divenuto con il tempo ricordo del segreto, i marrani non possono essere consegnati all'archivio. Il marranismo non si è mai concluso.
I populismi si alimentano di un'illusione, che può essere pericolosa: il recupero della sovranità. Ma si tratta di una promessa che non si può mantenere, perché le leve del potere sono, ormai, inesorabilmente altrove.
Di fronte a problemi che nessun governo nazionale è in grado di risolvere, elettori e politici, sfiduciati verso la globalizzazione, inseguono le sirene del populismo. Spaventati dai fantasmi di una sovranità che sembra svanire, stiamo cosí distruggendo proprio quegli strumenti che ci consentirebbero di ricostruirla in un mondo che non è piú quello dominato dagli Stati nazionali. Frustrati per l'impressione di non riuscire a far sentire la nostra voce e di non avere piú il controllo sulle nostre vite, ci rassegniamo a uno stato di natura del tutti contro tutti, incapaci di quella fiducia reciproca - tra persone e nazioni - che ci permetterebbe di riprendere in mano il nostro destino. Si è rotto il compromesso della delega, nemica giurata dei populismi, travolta da referendum, progetti di uscita dall'euro e ostilità a ogni élite politica e tecnocratica. L'errore finora è stato cercare di preservare il patto sociale che ha retto l'Europa nel lungo Dopoguerra - integrazione come garanzia di pace e di prosperità - invece che dare alla sovranità condivisa una base di legittimità piú attuale. Che può essere soltanto protezione e identità, sicurezza e difesa dalle conseguenze della globalizzazione.
Questa non è un'epoca per vecchi: nell'orgia di giovanilismo che contraddistingue i nostri giorni, donne e uomini anziani sono esposti a una sorta di rottamazione che nasce da un ingiustificato astio verso rughe e capelli bianchi, accompagnato da una ancora più ingiustificata esultanza per la giovinezza, della quale poco ci manca che si torni a cantarla «primavera di bellezza». Se poi la vecchiaia è una stagione della vita, una condizione del vivente che è lì per chiunque la raggiunga, che senso ha, ci chiediamo, parlare specificamente di vecchiaia delle donne? Non esiste una differenza delle qualità delle donne e degli uomini di tipo naturale, essenziale, oggettivo, genetico; esistono invece pregiudizi maturati nel tempo. Sulla vecchiaia delle donne pesano eredità di comportamento e «vestigia di gender», tra le quali sicuramente quella della sterilità, del venir meno della capacità di procreare che colpisce le donne diversi anni prima degli uomini.
Il postmoderno è morto. La tesi che proclamava la fine di ogni cosa (soggetto, verità, storia, morale) non è più capace di intercettare i movimenti epocali del presente. Il postmoderno non ha compreso le sfide create dalla crisi di una parte della modernità: positivismo e idealismo hanno infatti radicalizzato alcune intuizioni moderne, finendo per√≤ per tradirle profondamente. I postmoderni hanno rigettato quei travisamenti insieme alla radice sana, rifiutando in blocco la modernità. Ora, dopo il fallimento di quella diagnosi, ci troviamo in una nuova modernità. I problemi dell'Europa fra Cinquecento e Seicento si ripresentano su scala globale e in forma accelerata: conflitti politici ed economici sostenuti da ideologie religiose, mutamenti radicali di scenari culturali e geopolitici, rivoluzioni scientifiche che cambiano la percezione dell'umano. Di fronte a queste sfide, tornano a essere necessarie e credibili proprio le idee moderne che il postmoderno credeva finite e che abbiamo bisogno di ripensare.
L'antropocentrismo è costruito sulla presunta superiorità dell'umano sulle altre forme di vita, oltre che su quella di certi umani rispetto ad altri: ma che succede quando scopriamo di essere della stessa sostanza di tutti gli esseri viventi del pianeta? Quando le proprietà che pensavamo ci rendessero speciali, come la vita mentale o la capacità di soffrire, si manifestano anche in ciò che definiamo ingenuamente «non umano», allora l'umanità come sistema chiuso dell'umanesimo classico si dissolve. Molte sono state le soluzioni proposte, a questa domanda, ma ognuna, presa singolarmente, non basta. Il postumano, così come declinato qui, contrapposto anche ai primi fallimentari tentativi dell'ultimo decennio dello scorso millennio, è volto a riposizionare l'umanità in uno schema integrato nella Natura, verso un superamento dell'antropocentrismo, e la costruzione di una nuova narrazione per il nostro futuro.
Sminare il terrorismo, decostruirne la storia, è il percorso seguito da questo libro che affronta le questioni sollevate dal terrore planetario. Lo sguardo si concentra sulla scena dell'attentato, quel tentativo di forzare il ritmo della storia che sfida la sovranità, non per mostrare l'abisso, ma per soppiantarla. Perciò terrore e rivoluzione, spesso confusi, vanno separati. Piuttosto il terrorismo è lo spettro della sovranità moderna, sempre tentata di invocarlo. Di qui l'esigenza di ridescrivere la figura del terrorista che non è un nichilista, ma mira a un progetto politico o teologico-politico. Mentre affiora l'itinerario verso il terrore dei «cavalieri postmoderni dell'apocalisse», vengono considerati gli effetti di una violenza che colpisce la vittima nella sua nuda vulnerabilità. Questo terrorismo non può essere imputato alla religione. Sullo sfondo di un confronto fra sinistra e jihad si erge il terrore del capitalismo globale, emerge quell'insonnia poliziesca che sostenta la nuova fobocrazia.
Dove corre il confine fra «paesaggio» e «città»? E come giudicare o indirizzare gli interventi sull'uno e sull'altra, o la continua crescita delle periferie? Devono prevalere i valori estetici (un paesaggio da guardare) o quelli etici (un paesaggio da vivere)? L'architetto è il mero esecutore dei voleri del committente, anche quando vadano contro l'interesse della collettività, o deve mostrarsi attento al bene comune? Sfidare i confini difficili fra città e paesaggio, decostruire i feticci di un neomodernismo conformista (il grattacielo e la megalopoli) e le sue conseguenze (i nuovi ghetti urbani) vuol dire tentare il recupero della dimensione sociale e comunitaria dell'architettura. In un paesaggio inteso come teatro della democrazia, l'impegno etico dell'architetto può contribuire al pieno esercizio dei diritti civili. Diritto alla città, diritto alla natura, diritto alla cultura meritano questa scommessa sul nostro futuro.
Il populismo si è manifestato in forme molto diverse nel corso della storia, tra la fine dell'Ottocento e l'intero secolo breve; e anche oggi, la nuova disseminazione populista in Europa e negli Stati Uniti presenta differenze interne notevolissime, quelle che passano ad esempio tra la vittoria di Donald Trump e l'ascesa di Marine Le Pen. Ma un denominatore comune c'è: il populismo è sempre indicatore di un deficit di democrazia, cioè di «rappresentanza». Un deficit «infantile», per cosi dire, per i populismi delle origini, sintomo di una democrazia non ancora compiuta; e un deficit «senile», quando cresce il numero di cittadini che non se ne sentono più «coperti». Il populismo attuale - questa la tesi centrale del libro - è del secondo tipo: rappresenta una sorta di «malattia senile della democrazia». Il sintomo di una crisi di rappresentanza che si estende alla forma democratica stessa. È il segno più preoccupante del rapido impoverimento delle classi medie occidentali sotto il peso della crisi economica; ma anche della sconfitta storica del lavoro - e delle sinistre che lo rappresentarono - nel cambio di paradigma socio-produttivo che ha accompagnato il passaggio di secolo.
La domanda alla quale queste pagine abbozzano una risposta è nella alternativa seguente. La causa di questo mondo detestabile è da cercare presso presunti nemici dichiarati dei diritti, che del resto sarebbero difficili da individuare, e quindi in un dato esteriore ai diritti, cioè nella loro attuazione difettosa, onde il rimedio debba cercarsi nel loro potenziamento? Oppure, la causa è diversa ed è intrinseca alla concezione stessa dei diritti, in un mondo come l'attuale, che si rivela sempre più ingiusto e violento e sempre più piccolo, non nel senso di complicato ma nel senso etimologico di totalità dove ogni parte sta in rapporto di interdipendenza con ogni altra parte? Questo nostro mondo è tenuto insieme da forze attrattive centripete potenti. Paradossalmente, la rivendicazione di diritti, invece che promuovere diversità e diversificazione, rischia di spingere all'uniformità e all'omologazione.