
La quaestio de veritate non smette di sfidare la filosofia. Il volume raccoglie una pluralità di voci che ne esplorano il profilo formale, rispetto alla più ampia ricerca sulle relazioni tra pensiero, linguaggio e realtà.
L’invenzione della Libertà di coscienza è il segno del nostro ingresso nella modernità e indica un cambiamento della nostra cultura, prodotto dalla riscoperta della’Antichità greco-romana e dallo shock della Riforma protestante, continuato dal Cartesianesimo e dal secolo dei Lumi e quindi vissuto in modo militante dalla Massoneria adogmatica e dal Libero pensiero. Purtroppo, però, la Libertà di coscienza è da sempre trascurata e abbandonata alla strumentalizzazione della Chiesa cattolica, che l’assimila alla libertà di religione e ne altera il senso, mentre, sotto la pressione dell’islam fondamentalista o dell’ebraismo ortodosso, un certo numero di politici eletti la sacrificano.
Da questa constatazione è nata l’idea di un’opera collettiva, dedicata a questa tematica, la prima redatta in una prospettiva umanista. Ciascuno dei suoi autori è impegnato in una delle famiglie di pensiero costitutive di questa storia. E il progetto comune che li unisce è di aprire un dibattito pubblico sulla Libertà di coscienza, concepita come il banco di prova della laicità e come la grande sfida della democrazia.
Da dieci anni non passa giorno senza che qualcuno invochi l'esigenza di una nuova classe dirigente. Eppure quasi nessuno sembra accorgersi che, se tale espressione suona ormai logora all'orecchio dei più, non è per l'inettitudine o la disonestà dei singoli, ma anche e soprattutto perché l'età globale ha inesorabilmente compromesso le condizioni d'esistenza di una classe dirigente in senso proprio. Le oligarchie si sono sgretolate, dunque, in una società liquida e trasparente? Nient'affatto. Il nostro è il tempo opaco dei gruppi di interesse privato, che premono sui decisori pubblici in vista di un tornaconto particolare. Che cosa resta, quindi, della democrazia? Finché si ignorerà che le élites politiche sono essenziali per una democrazia libera e pluralistica, partecipata e consapevole, i partiti soccomberanno ai movimenti e il potere scivolerà indisturbato nelle mani di pochi giganti transnazionali.
Quale fu l'atteggiamento dei filosofi greci nei confronti delle tradizioni mitico-religiose delle loro città? Come caratterizzare la loro «teologia», la loro concezione della pietà, durante i tre grandi periodi della storia del pensiero greco? Da Talete agli Stoici, in un itinerario pregno di contrasti, ambiguità e impreviste armonie, Daniel Babut accompagna il lettore nelle nervature più sottili del pensiero religioso dei filosofi greci, mostrandone il progressivo sviluppo nel tempo e ricreando al contempo, con perizia, un dialogo tra i diversi attori posti in scena. La rete di somiglianze e dissomiglianze che ne deriva rivela l'originalità e il carattere peculiare di ciascuna posizione, sfatando falsi miti e dimostrando come, da cornici di pensiero spesso congeneri, poterono scaturire esiti antitetici, talvolta paradossali. Un solo punto fermo: l'inseparabilità della religione dei filosofi dalla religione popolare, nell'impossibilità di una completa fusione tra le due. Come il sofista nell'omonimo dialogo platonico, il Dio dei filosofi greci sembra sfuggire a qualunque tentativo di cattura; prendendo a prestito le parole di Eraclito, egli «vuole e non vuole essere chiamato con il nome di Zeus» (22 B 32 D.-K.). Da acuto storico della filosofia, Babut osserva e non giudica, dando voce agli Antichi, senza pretendere di trasferire loro le categorie e i criteri forgiati dagli sviluppi religiosi occorsi nei secoli successivi.
"Suggerimenti e suggestioni rispetto al modo in cui si può presentare la filosofia a persone da 0 a 150 anni e oltre, che non la conoscono, che la conoscono per luoghi comuni, che la odiano per colpa di qualche professore o di qualche 'autore'". Così recitava, tra il serio e il faceto, il primo sottotitolo di quest'opera, che in un primo momento voleva essere un semplice vademecum per invogliare docenti di scuola alla pratica filosofica con bambine e bambini. Negli anni, il fiorire e il consolidarsi di questa pratica ha arricchito di esperienze, esempi e riflessioni teoriche e suggestioni pratiche questo libro, dove si parla di filosofia, ma filosofia intesa come pratica, "cantiere" e non "tempio", ricerca continua, per e a tutte le età, di quel sapere che, come dice lo stesso dizionario, "porti un effettivo vantaggio all'uomo". In questa investigazione, che ha come coordinate forti la relazione (dunque la comunicazione) e il grande rispetto per tutto ciò che concerne l'umano, si attraversano scuole, università e luoghi "altri", come quelli della riflessione personale e dei rapporti umani, fino a quello più compiuto di tutti, l'amicizia.
Questo testo misura, nella maturità della riflessione teorica di Bachelard, il complicarsi e ristrutturarsi incessante del pensiero scientifico fin dall'inizio del secolo e il progressivo arricchirsi del sapere fisico, in quanto «attività razionalista». Che senso ha oggi riproporre un razionalismo epistemologico? Per Bachelard il razionalismo non è una pretesa della ragione di avere già da sempre la chiave di lettura della realtà, foss'anche nei termini di un metodo; il razionalismo è un movimento della ragione che non si pone prima o al di là dell'esperienza, ma che l'approfondisce smascherandola nel suo presentarsi chiara, immediata e definitiva. Il pensare bachelardiano permette di riattraversare il dibattito sulla formazione della teoria e sulle sue possibilità conoscitive oggi, perché spezza il parlare della filosofia sulla scienza e inaugura un lavoro di produzione del fisico in laboratorio. Questa la risorsa del testo: indicare una strada di militanza per la ragione in quanto difende non i risultati della scienza, ma la dignità dello scienziato nella sua pratica teorica di laboratorio.