DESCRIZIONE: Il tema della nuova definizione della morte su base neurologica, e in connessione a ciò quello del trapianto di organi da soggetti in stato di morte cerebrale dichiarati cadaveri, è tornato negli ultimi tempi all’attenzione anche in Italia. Quantunque – a quarant’anni dall’introduzione, con il Rapporto di Harvard, di quella nuova definizione – le voci di dissenso stiano crescendo anche in ambito medico, vogliamo qui riproporre la prima grande critica fatta a quella definizione da un classico del pensiero filosofico del Novecento, nonché uno dei protagonisti dell’attuale dibattito bioetico: Hans Jonas. Quella critica, infatti, contiene in nuce tutti i problemi che sono ancora in discussione e li affronta con un linguaggio rigoroso, ma accessibile anche al pubblico di non specialisti, ed è significativo che essa stia al centro dell’attenzione nel recente documento del Council on Bioethics americano che riapre ufficialmente il dibattito sulla morte cerebrale.
COMMENTO: Il celebre saggio di Hans Jonas che contesta la definizione di morte cerebrale decisa dal Protocollo di Harvard del 1968. Un saggio toccante, profondo, di un maestro dell'etica contemporanea.
HANS JONAS (1903-1993), allievo di Heidegger e Bultmann all’Università di Marburgo, è stato tra i maggiori filosofi della seconda metà del Novecento. Tra le sue opere in italiano: Lo gnosticismo; Dalla fede antica all’uomo tecnologico; Il principio responsabilità; Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Presso la Morcelliana: Scienza come esperienza personale. Autobiografia intellettuale (1992); Agostino e il problema paolino della libertà. Studio filosofico sulla disputa pelagiana (2007).
Nel nostro tempo è sempre più dominante la convinzione che la verità, qualsiasi forma di verità, abbia un carattere storico e pragmatico. Ne deriva una concezione della filosofia, oggi oltremodo diffusa, che nega ogni verità e riconosce la propria stessa controvertibilità, storicità, pragmaticità.
A partire da questo sfondo Emanuele Severino discute le posizioni di alcuni filosofi italiani che hanno rivolto critiche e obiezioni al suo pensiero: da Massimo Cacciari a Vincenzo Vitiello, da Carlo Arata a Umberto Galimberti, da Massimo Donà a Vero Tarca, solo per citarne alcuni. Per Severino non solo c'è una dimensione comune sia alla concezione tradizionale della verità, sia alla distruzione di tale concezione – quella operata appunto dal pensiero filosofico del nostro tempo.
Ben oltre questa dimensione, anzi, la verità stessa è destinata a un senso che non appartiene alla storia dell'Occidente. E come tale già da sempre appare in ciò che vi è di più profondo in ciascuno di noi.
Emanuele Severino (Brescia, 1929) è uno dei più importanti filosofi contemporanei. Ha pubblicato numerose opere soprattutto con Adelphi e Rizzoli. Accademico dei Lincei, è da molti anni editorialista del "Corriere della sera".
Crisi della ragione, perdita del centro, decadenza dei valori: il nichilismo si è presentato a volte con il proprio nome, a volte sotto altre sembianze. Ma che cos'è propriamente il nichilismo? Da dove viene quest'"ospite inquietante" - come Nietzsche lo definisce - che si aggira ormai ovunque in casa nostra e che nessuno può mettere alla porta? Attraverso un'analisi storico-concettuale, Volpi risale alle radici del fenomeno, ne illustra il manifestarsi nel pensiero del Novecento e prepara una prospettiva "oltre il nichilismo".
"È evidente che tutte le scienze hanno una relazione più o meno grande con la natura umana, e anche quelle che sembrano più indipendenti, in un modo o nell'altro, vi si riallacciano. Perfino la matematica, la filosofia naturale e la religione naturale dipendono in certo qual modo dalla scienza dell'uomo, poiché rientrano nella conoscenza degli uomini, i quali ne giudicano con le loro forze e facoltà mentali. E impossibile prevedere quali mutamenti e progressi noi potremmo fare in queste scienze se conoscessimo a fondo la portata e la forza dell'intelletto umano, e se potessimo spiegare la natura delle idee di cui ci serviamo e delle operazioni che compiamo nei nostri ragionamenti."
L’assunto fondamentale di questa monumentale opera del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, OP, è un approfondimento scientifico della nozione metafisica di persona, nei suoi tre gradi fondamentali (persona umana, persona angelica e persona divina), mediante l’uso delle categorie metafisiche della analogia e della partecipazione.
L’analisi di P.Tyn consente così di raggiungere un concetto unitario e nello stesso tempo plurificato di persona. In modo speciale è interessante la distinzione tra la persona umana, composta di anima e di corpo, e la persona puramente spirituale (angelica e divina). Inoltre è importante la distinzione tra persona finita (umana ed angelica), dove si dà la composizione reale di essenza-esistenza e di sostanza-accidenti, e la Persona divina, la quale è pura sostanza e nella quale l’essenza coincide con l’esistenza, ciò che S.Tommaso chiama l’ipsum esse per se subsistens.
La Persona divina in quest’opera non è considerata nel senso trinitario della fede cattolica, come “Relazione Sussistente”, ma in senso puramente metafisico, come quella che il Concilio Vaticano I chiama una singularis substantia spiritualis, ossia la natura divina.
La parte teoretica è preparata da una dotta e ricca disamina storica, nella quale l’Autore presenta, a partire dall’antica Grecia fino ai nostri giorni, l’evoluzione del concetto metafisico di persona posto in stretta relazione con le categorie fondamentali dell’ente, dell’essere, dell’essenza, della forma, dell’atto e della potenza.
La grande utilità che sorge da quest’opera di P.Tyn è data dal fatto che essa espone i fondamenti metafisici della morale e quindi fornisce un’illuminante indicazione su quelli che devono essere i criteri fondo per discernere nella complessa situazione di oggi ciò che serve alla persona umana e ciò che invece la distrugge.
"Diritto naturale e storia" è l'opera fondamentale di Leo Strauss. La tesi provocatoria secondo cui la filosofia politica degli antichi pensatori greci è di gran lunga superiore alla scienza politica dei moderni, viene sostenuta e esposta nel corso di un'ampia trattazione che ha per oggetto la storia del concetto di diritto naturale. Strauss vuole dimostrare che la teoria classica del giusnaturalismo è l'unica capace di conferire un genuino fondamento filosofico non solo ai diritti inalienabili dell'uomo e del cittadino sanciti nelle costituzioni delle democrazie occidentali, ma anche ai nuovi diritti di cui la società contemporanea avverte l'esigenza.
A cura di Fabio Cicero
Traduzione di Roberto Piumini
Testo inglese a fronte
“E di chi è la colpa?
Di chi se non di lui che da me ebbe,
ingrato, tutto quello che poteva:
lo feci giusto e retto, ed abbastanza
forte per non cadere, benché libero.”
Scritto in un periodo di profonda crisi personale e politica dell’autore, Paradise Lost è il più grande poema epico della letteratura inglese. L’opera ha avuto un’enorme influenza sui Romantici inglesi e, attraverso questi, sulla poesia moderna. Il tema principale del poema riguarda la caduta dell’uomo dal suo stato originario di grazia, e lascia già intravedere le condizioni che gli permetteranno, grazie all’intervento divino, di recuperare tale stato. Ma la forte personalità di Milton ha saputo disegnare dei personaggi originali che riflettono la tensione del suo autore, uno spirito libero che in qualche caso non riesce, e non vuole evitare il conflitto con l’ortodossia cristiana. Personaggi quali Dio, Satana, Eva hanno fatto e fanno ancora discutere molti critici, dando adito a ciò che lo stesso Milton ha sempre perseguito con estremo rigore e accesa passione: la ricerca instancabile della verità nel messaggio cristiano.
Il testo originale a fronte si basa sull’edizione di Barbara K. Lewalski, Paradise Lost, Oxford, Blackwell, 2007, che riproduce fedelmente la versione finale del 1674.
Fabio Cicero, studioso di letteratura moderna inglese e tedesca, ha già curato per Bompiani Storia dell’arte dell’antichità di Winckelmann (2003) e Opere in prosa di S.T. Coleridge (2006).
Roberto Piumini scrive poesie, poemi, fiabe, racconti, romanzi, filastrocche, testi per canzoni, per teatro, televisione, radio e cinema. Ha una cinquantina di traduzioni all’estero. Ha tradotto in versi i poemi di Browning, i Sonetti e il Macbeth di Shakespeare e l’Aulularia di Plauto. Legge e recita i suoi testi di prosa e poesia.
Nelle quattro lezioni tenute al Collège de France e raccolte in questo volume, Jean Francois Billeter, sinologo di fama mondiale, cerca di "dare un'idea delle scoperte che si possono fare quando ci si accinge a studiare in modo scrupoloso e al tempo stesso immaginativo" il testo di Zhuangzi, grande filosofo cinese del IV secolo a.C. Partendo da una nuova traduzione e interpretazione di aneddoti, espressioni e termini contenuti nel libro, Billeter rende con grande forza l'esperienza sapienziale che nasce dallo studio del Zhuangzi e, insieme, consente al lettore contemporaneo di condurne una parallela attraverso le parole del filosofo: la ricerca di un livello più completo di percezione e conoscenza nel quale, superando i limiti dell'attività intenzionale e cosciente e aprendosi a quella necessaria e spontanea, si congiungono tutte le risorse e le facoltà che dimorano in ognuno di noi - quelle conosciute e quelle sconosciute. Ne deriva un sentire più profondo e essenziale dei fenomeni, del mondo e di se stessi, una visione più integra e inesplorata dell'esperienza umana.
Giorgio Tonelli e Norbert Hinske hanno messo in evidenza come le fonti dell'aristotelismo tedesco siano necessarie per chiarire l'uso kantiano del termine "trascendentale", ma non sono riusciti a documentare legami diretti. Grazie a nuovi ritrovamenti, l'Autore propone Franz Albert Aepinus come "l'anello di congiunzione" cercato sovente anche da altri. Su questa base, la filosofia trascendentale kantiana viene interpretata come una risposta al problema strutturale della filosofia trascendentale scolastica: la necessità e impossibilità di pensare un ambito antepredicativo.
Sulla religione raccoglie una serie di brevi saggi, pamphlet e un dialogo dello scrittore e filosofo tedesco sul tema della religione. In Sulla religione si ripropongono saggi poco conosciuti al grande pubblico, ma che a pieno titolo stanno tra quelle cosiddette "opere minori" di Schopenhauer che hanno riscosso grande popolarità tra le più variegate tipologie di lettori. Sulla religione non fa eccezioni, e il rapporto tra uomo e Dio, con i suoi inganni ed autoinganni, verità rivelate e smentite, abusi e storture viene sviscerato con la consueta intelligenza e caustica ironia. L'ebraismo, l'islamismo e il cristianesimo sono analizzati, soppesati e giudicati con intelligenza e profondità. Grazie all'inconfondibile stile aforistico, acuto e al contempo semplice e chiaro il filosofo nato a Danzica fa luce su 5.000 anni di "storia di Dio", dall'induismo, di cui Schopenahuer fu primo e grande divulgatore in Europa, all'ebraismo, padre del fanatismo islamico e crociato. La certezza di Schopenhauer di vedere il cristianesimo (e le religioni tutte) prossime all'estinzione, le divagazioni illuminanti sul rapporto tra religioni e animali, tra dei e demoni, morale e potere e perfino la massima cardine di questo volume "si tratta di credere o di pensare" restituisce tutta l'attualità e la forza viva di questi scritti.
Nel corso che tiene nel 1983, Michel Foucault, già malato, continua la sua rilettura della filosofia antica e inaugura la ricerca sulla nozione di parresia (dire la verità, parlar franco). L'attività della parresia si configura come pratica di libertà, collocata in uno spazio di "esteriorità" rispetto alle istanze di potere. Attraverso lo studio di questa nozione, Foucault torna a interrogarsi sul significato di cittadinanza nella Grecia antica e mostra come il "coraggio della verità" - assolutamente evidente nella posizione antagonista dei cinici - costituisca il fondamento etico dimenticato della democrazia greca. Con la decadenza della polis, il coraggio della verità si trasforma e diventa il modo con cui il filosofo esercita la sua direzione sulla formazione dell'anima del principe e quindi sul governo degli altri. Nel rileggere i pensatori greci, Foucault costruisce una figura di filosofo in cui si riconosce: ciò che va definendo è la propria appartenenza alla modernità, il proprio ruolo di filosofo, il proprio modo di pensare e di essere.
Il termine "decostruzione", solitamente associato all'opera di Jacques Derrida, è forse uno dei più equivocati della filosofia del Novecento, e sembra ancora lontano il tempo in cui si giungerà a una piena comprensione di quanto abbia prodotto e produca ben al di là delle semplificanti formule a cui lo si è spesso ridotto. In questo secondo volume di "Psyché. Invenzioni dell'altro" è possibile verificare in che senso la decostruzione non è né un'analisi né una critica tecnicamente intese come scomposizioni padroneggiabili, ma un esercizio del pensiero che si produce come lettura esigente e rigorosa, capace di svelare le domande e le genealogie insospettate o nascoste che hanno strutturato e legittimato la tradizione filosofica occidentale. I saggi qui radunati - inaugurati dall'ormai famosa (ma non per questo conosciuta) "Lettera a un amico giapponese" - interrogano Heidegger, Kant, Michel de Certeau e attraversano campi del sapere quali l'architettura, la storia, la teologia, il diritto e la politica, imponendo a ciascuno la radicale presa in carico dei non sempre dichiarati o consapevoli moventi epistemologici, politici, culturali che innervano i loro gesti e le loro procedure.