
Si parla molto di amore nelle poesie di Wislawa Szymborska: ma se ne parla con una così impavida sicurezza di tocco e tonalità così sorprendenti che anche un tema sin troppo frequentato ci appare miracolosamente nuovo. «Sentite come ridono – è un insulto» scrive di due amanti felici. «È difficile immaginare dove si finirebbe / se il loro esempio fosse imitabile» – e ad ogni modo «Il tatto e la ragione impongono di tacerne / come d'uno scandalo nelle alte sfere della Vita». Anche parlando d'amore la voce della Szymborska sa dunque essere irresistibilmente ironica: non a caso Adam Zagajewski diceva di lei che «sembrava appena uscita da uno dei salotti parigini del Settecento». Ma sa anche essere, dietro lo schermo della colloquiale naturalezza e dell'ingannevole semplicità, grave e trafiggente, come quando affida a un panorama divenuto ormai intollerabile il compito di proclamare l'assenza («Non mi fa soffrire / che gli isolotti di ontani sull'acqua / abbiano di nuovo con che stormire») o all'amore a prima vista quello, ancor più temerario, di smascherare il caso-destino che ci governa: «Vorrei chiedere loro / se non ricordano – / una volta un faccia a faccia / in qualche porta girevole? / uno “scusi” nella ressa? / un “ha sbagliato numero” nella cornetta? / – ma conosco la risposta. / No, non ricordano».
Ogni suo nuovo libro di versi, insinua Borges nel Prologo con incantevole autoironia, è un appuntamento con temi che il «rassegnato lettore» prevede: specchi, spade, il tempo che è «la varia / trama di sogni avidi che siamo», il labirinto senza fine che ci serra, Buenos Aires che è la «milonga fischiettata che non riconosciamo e ci emoziona». E ancora il dialogo con gli autori in cui Borges si rispecchia - Ricardo Gu?iraldes, il «fratello della notte» De Quincey, il persiano che concepì le Rubaiyat, Hilario Ascasubi - o che, come Joyce, lo hanno riscattato con il loro ostinato rigore: le «segrete leggi eterne», del resto, dove altro sono se non nei libri? Nei libri letti, certo, perché la lettura è arte più raffinata della scrittura («Altri si vantino delle pagine che han scritto; / io vado fiero di quelle che ho letto»), ma anche nei libri semplicemente catalogati, perché ordinare una biblioteca «è esercitare, / umilmente e in silenzio, / l'arte della critica». Sono temi che il «rassegnato lettore» ritroverà qui, in realtà, con la intatta, particolare gioia «delle vecchie cose amate», scoprendo oltretutto che due nuovi, essenziali, se ne aggiungono (basti pensare a Una preghiera e a Elogio dell'ombra): l'etica, che non aveva mai smesso di appassionare l'amato Stevenson, e che al dottor Johnson aveva fatto dire: «La prudenza e la giustizia sono prerogative e virtù di ogni epoca e luogo; siamo eternamente moralisti e solo a volte geometri». E la vecchiaia, che è «dolcezza», quieta attesa della morte e di una luminosa rivelazione: «Presto saprò chi sono».
A Keyla la Rossa nessuno resiste: né Yarme - un seducente avanzo di galera -, né il giovane e fervido Bunem - che pure era destinato a diventare rabbino come suo padre -, né l'ambiguo Max. Se questo magnifico libro è rimasto praticamente inedito fino a oggi, è forse perché Singer esitava a mettere sotto gli occhi dei lettori goy il «lato oscuro» di quella via Krochmalna da lui resa un luogo letterariamente mitico. In Keyla la Rossa si parla infatti in modo esplicito di due argomenti tabù: la tratta, a opera di malavitosi ebrei, di ragazze giovanissime, che dagli shtetl dell'Europa orientale venivano mandate a prostituirsi in Sudamerica, e l'ignominia di un ebreo che va a letto sia con donne che con uomini. Alle turbinose vicende dei quattro protagonisti (e dei numerosi, pittoreschi comprimari) fa da sfondo, all'inizio, la vita brulicante, ardente, odorante e maleodorante del ghetto in cui era confinata, in condizioni di estrema miseria, la comunità ebraica di Varsavia, e poi quella, non meno miserabile e caotica, delle strade di New York in cui si ammassavano gli emigrati nei primi decenni del secolo scorso: affreschi possenti, che non a caso molti hanno accostato a quelli ottocenteschi di Dickens e Dostoevskij.
Avviare un'impresa editoriale implica, da sempre, una buona dose di coraggio. Ma nel caso di Aldo Manuzio, che nel 1495 si propone di stampare libri greci guardando oltre i ristretti confini dell'Italia, sarebbe meglio parlare di temerarietà. Il suo rivoluzionario disegno comportava infatti difficoltà tali da scoraggiare chiunque, giacché esigeva, oltre che un fiuto fuori del comune, collaboratori di prim'ordine e con competenze linguistiche per quell'epoca rare - persino a Venezia, dove pure viveva una florida colonia greca; e manoscritti, non meno rari, su cui fondare le edizioni; e incisori di eccezionale abilità tecnica, capaci di creare tipi che gareggiassero con la grafia dei più eleganti copisti. Senza contare la difficoltà forse maggiore: il numero, inevitabilmente ristretto, dei possibili acquirenti. Ma di fronte a questi scogli Manuzio non arretra: e vara il suo programma editoriale con la grammatica greca di Costantino Lascaris, procuratagli da uno scout d'eccezione, Pietro Bembo. Altre meraviglie seguiranno: dalla prima, monumentale edizione di Aristotele a Sofocle - proposto nel 1502 nel nuovo formato (i cosiddetti libelli portatiles) con cui ormai da un anno aveva genialmente ampliato il suo pubblico -, da Tucidide ed Erodoto a Euripide, Omero e Platone. Nei vent'anni della sua attività Manuzio riuscirà a imporre non soltanto un modello di editoria ammirato in tutta Europa, ma un modo nuovo di accedere ai testi, svolgendo così un ruolo che era stato sino ad allora prerogativa dei grandi maestri della letteratura e della filologia.
Questo piccolo libro è forse il lavoro più personale, e anche più segreto, di Tullio Pericoli. E lo è al punto che, a tredici anni dalla sua prima edizione, Pericoli ha deciso di ridisegnarlo, avvicinandolo in modo ancora più preciso all'idea da cui era nato. Allora, infatti, "La casa ideale" era stato presentato come un piccolo film tutto di carta su Robert Louis Stevenson, e sulla sua fantasia dello spazio in cui sarebbe possibile una vita perfetta. Bene, quel piccolo film oggi Pericoli lo ripresenta nella veste in cui si è reso a poco a poco conto di averlo sempre pensato: in un bianco e nero assoluto, cioè, dove le immagini si possono anche leggere, e le parole - a loro volta presentate come fotogrammi - si possono anche guardare. Da un punto qualsiasi fra quelle due pellicole parallele è ricominciato il sogno di Pericoli e Stevenson: e da un altro punto ancora può ricominciare, adesso, quello del lettore.
Sempre più spesso usiamo con disinvoltura parole e nomi di cui pochissimo sappiamo. Bitcoin, ad esempio. Che cosa sono? Chi è Satoshi Nakamoto, l'individuo - o l'oscura entità collettiva - che li ha inventati? E perché li ha inventati? Che cos'è il dark web, e cosa significa «viverci» dentro? Che cos'ha veramente fatto, Julian Assange? E chi è? Per trovare le prime risposte serviva uno scrittore puro, qualcuno cioè disposto a partire per un viaggio senza mappa, provvisto di un'arma ancora efficace: una qualche confidenza con il romanzesco. Qualcuno come Andrew O'Hagan, insomma. O'Hagan è sceso davvero negli abissi largamente sconosciuti della rete. E al suo ritorno, come un esploratore vittoriano, ha steso tre relazioni estremamente accurate, che anche quando sembrano sul punto di sconfinare nella farsa - come nel caso dell'abortita collaborazione con Assange - sono in realtà altrettanti racconti del terrore. Di cui si ha da subito la sensazione, però, di non potere fare a meno.
«Così, dopo lunghe titubanze e una serie di soluzioni provvisorie, nel febbraio o marzo del 1893, meditando intensamente un giorno intero, alla sera abbozzai una memoria ... che fu come una rivelazione di me a me stesso» scrive Croce in "Contributo alla critica di me stesso". In effetti, a partire da questa «memoria» fervidamente antipositivistica ? volta a confutare le tesi di storici come Droysen e Bernheim ? Croce si libera dal suo passato, dalla «scrittura di erudizione» come lui stesso la definiva, e, nell'affrontare le complesse relazioni fra arte, scienza e storia, scopre la sua vera vocazione: l'interesse, prepotente, per le questioni teoriche e le indagini storiche di più ampio respiro. Leggendola, ritroveremo non solo «la facilità e il calore» con cui Croce la compose, ma tutta la forza dimostrativa di uno stile ineguagliabile.
Turisti, terroristi, secolaristi, hacker, fondamentalisti, transumanisti, algoritmici: sono tutte tribù che abitano e agitano "l'innominabile attuale". Mondo sfuggente come mai prima, che sembra ignorare il suo passato, ma subito si illumina appena si profilano altri anni, quel periodo fra il 1933 e il 1945 in cui il mondo stesso aveva compiuto un tentativo, parzialmente riuscito, di autoannientamento. Quel che venne dopo era informe, grezzo e strapotente. Nel nuovo millennio, è informe, grezzo e sempre più potente. Auden intitolò "L'età dell'ansia" un poemetto a più voci ambientato in un bar a New York verso la fine della guerra. Oggi quelle voci suonano remote, come se venissero da un'altra valle. L'ansia non manca, ma non prevale. Ciò che prevale è l'inconsistenza, una inconsistenza assassina. È l'età dell'inconsistenza.
Una palestra comunale, decine di cadaveri che saturano l'aria di un «orribile tanfo putrido». Siamo a Gwangju, in Corea del Sud, nel maggio 1980: dopo il colpo di Stato di Chun Doo-hwan, in tutto il paese vige la legge marziale. Quando i militari hanno aperto il fuoco su un corteo di protesta è iniziata l'insurrezione, seguita da brutali rappresaglie; "Atti umani" è il coro polifonico dei vivi e dei morti di una carneficina mai veramente narrata in Occidente. Conosciamo il quindicenne Dong-ho, alla ricerca di un amico scomparso; Eun-sook, la redattrice che ha assaggiato il «rullo inchiostratore» della censura e i «sette schiaffi» di un interrogatorio; l'anonimo prigioniero che ha avuto la sfortuna di sopravvivere; la giovane operaia calpestata a sangue da un poliziotto in borghese. Dopo il massacro, ancora anni di carcere, sevizie, delazioni, dinieghi; al volgere del millennio stentate aperture, parziali ammissioni, tardive commemorazioni.
Se c'è un libro dove Manganelli ha mostrato, nella forma più radicale ed estrema, che cosa intendeva per letteratura, è questo. Ed è senz'altro una concezione allarmante rispetto a quelle correnti. Per Manganelli, la letteratura è qualcosa di ben più temibile ed enigmatico di quel che pensano quanti si sforzano «di mettere assieme il bello ed il buono». A costoro la letteratura non può che rispondere «con sconce empietà». Perché il suo compito non è di interpretare, documentare, esprimere idee, semmai di disorientare, inquietare. Di ridere - astratta e solitaria. È il riso antico di Dioniso, senza il quale non ci sarebbero parole. Cadono così, sotto i colpi di Manganelli, molte certezze: persino la fiducia che riponiamo nella figura dello Scrittore. Che in realtà è solo un «passacarte», un Grande Mentitore, agito dalle parole. La scrittura, infatti, accade, e lo attraversa e parla per suo tramite. Ma anche i lettori non hanno di che stare tranquilli. Devono finalmente rendersi conto che coltivano una «dolce e ritmica demenza».