Cosa fa la gente tutto il giorno? Nel mondo dei racconti di Peter Cameron, che assomiglia terribilmente al nostro, cerca sé stessa, rimpiange qualcuno che ha perso, fa i conti con un perenne senso di inadeguatezza, si sforza - spesso invano - di trovare un modo per comunicare con le persone vicine. Conduce una vita ordinaria, insomma, che però d'un tratto può conoscere una svolta spiazzante. Accade all'uomo che preferisce far credere alla moglie di avere una relazione anziché rivelarle che tiene un cane nascosto in un ripostiglio, e che ogni notte esce per portarlo a spasso; alla giovane inquieta che scopre un inaspettato alito di calore domestico nel più artefatto degli ambienti: un parco a tema per turisti; ad adolescenti invischiati nelle dinamiche disfunzionali degli adulti ma non ancora contaminati dalla loro ipocrisia; a donne che si aggirano sole in case diventate di colpo gelide e vuote. Nel mondo di Peter Cameron, sospeso in un'atmosfera rarefatta e straniante, piccoli e grandi drammi familiari, amorosi, esistenziali si consumano in sordina, mentre una vena sotterranea di dolore invade l'esistenza e finisce inesorabilmente per travolgerla e stravolgerla. Quanto a noi, saremo accompagnati a lungo da un sottile turbamento, una volta chiuso il libro - e dovremo arrenderci all'evidenza che ancora una volta Cameron ci ha messi a nudo e raccontati, come solo lui sa fare.
Primo, folgorante scampolo dei famigerati inediti rubati nel 1944 dall'abitazione di Céline, e rocambolescamente ricomparsi più di settant'anni dopo la sua morte, "Guerra" narra episodi contemporanei alla prima parte del "Viaggio al termine della notte". Nel racconto, scandito in sei sequenze, seguiremo il giovanissimo Ferdinand, alter ego dell'autore, ferito a un braccio e con una grave lesione all'orecchio dovuta a un'esplosione, mentre cerca come un sonnambulo di guadagnare le retrovie attraverso campi di battaglia disseminati di cadaveri martoriati dalle bombe, in una notte visitata da presenze ostili, fantasmi quanto mai reali. Lo ritroveremo poi in un ospedale, in mezzo a infermi d'ogni risma, circondato da infermiere vampiresche nella foia scatenata dal clima bellico. Qui fa amicizia con un altro parigino, malavitoso intraprendente e cinico al punto di far venire la moglie al fronte perché batta il marciapiede per lui. Spunto per nuovi episodi grotteschi, esilaranti e raccapriccianti al tempo stesso, dove Céline preme come mai avrebbe fatto, né prima né dopo, sul pedale di una sessualità estrema. Céline è scrittore da dimenticare, hanno detto, se vuoi vivere, anche se vuoi soltanto leggere, capace com'è di rendere illeggibili gli altri scrittori. Con lui non resta che lasciarsi portare da quel parlottio ipnotico, sbracato e ininterrotto, come il fischio del rimorchiatore sulla Senna, nella notte, che chiudeva il Voyage. Dai primi velenosi accordi di quella petite musique spiritata che seduce, cattura e non lascia scampo. Alla fine, attraverso il suo delirio, ci si accorge che Céline è l'unico scrittore che sia stato capace di nominare quegli avvenimenti. Dalla parte dei Buoni nessuno ha trovato la parola. Con una premessa di François Gibault.
Quando nel 1943, dopo due anni di occupazione tedesca, Vasilij Grossman entra al seguito dell'Armata Rossa nei territori liberati dell'Ucraina orientale, a colpirlo non sono tanto le lacrime e le grida straziate, quanto piuttosto «il silenzio della morte», il silenzio di un popolo massacrato con aritmetica ferocia. «Dov'è il popolo ebraico? ... Dov'è il milione di ebrei che tre anni fa viveva e lavorava su questa terra in pace e armonia con gli ucraini?». Ben prima di trovarsi dinanzi all'«inferno di Treblinka» e che i crimini nazisti siano svelati al mondo in tutta la loro efferatezza, Grossman non si accontenta di rispondere a questa domanda, ma scandaglia le cause di quello che già si delinea ai suoi occhi come «il crimine più grande che sia mai stato commesso nella storia».
Una palestra comunale, decine di cadaveri che saturano l'aria di un "orribile tanfo putrido". Siamo a Gwangju, in Corea del Sud, nel maggio 1980: dopo il colpo di Stato di Chun Doo-hwan, in tutto il paese vige la legge marziale. Quando i militari hanno aperto il fuoco su un corteo di protesta è iniziata l'insurrezione, seguita da brutali rappresaglie; "Atti umani" è il coro polifonico dei vivi e dei morti di una carneficina mai veramente narrata in Occidente. Conosciamo il quindicenne Dong-ho, alla ricerca di un amico scomparso; Eun-sook, la redattrice che ha assaggiato il "rullo inchiostratore" della censura e i "sette schiaffi" di un interrogatorio; l'anonimo prigioniero che ha avuto la sfortuna di sopravvivere; la giovane operaia calpestata a sangue da un poliziotto in borghese. Dopo il massacro, ancora anni di carcere, sevizie, delazioni, dinieghi; al volgere del millennio stentate aperture, parziali ammissioni, tardive commemorazioni. Han Kang, con il terso, spietato lirismo della sua scrittura, scruta tante vite dilaniate, racconta oggi l'indicibile, le laceranti dissonanze di un passato che si voleva cancellato.
Nell'impulso irrefrenabile che ci spinge talora a strapparci alla nostra sedentarietà e a partire verso una meta ignota non c'è quasi mai nulla di razionale; sono piuttosto le nostre antenne a suggerirci su quali sentieri potrà placarsi, forse, l'irrequietezza che ci consuma. Lo sa bene Vasilij Golovanov, che ha elevato la prassi del «viaggio insensato», oltre che a esercizio spirituale, a vero e proprio genere letterario. Le sue «derive» ci conducono verso destinazioni improbabili, e non importa che si tratti della sorgente quasi invisibile dello sterminato Volga o del suo delta nel Mar Caspio - uno dei «luoghi più volatili della Storia», dove ogni ondata migratoria ha lasciato, come su una lavagna, una traccia di civilizzazione inesorabilmente rimossa da quella successiva. Dalle steppe dove la Russia europea si smarrisce nei meandri dell'Asia centrale fino alla mitica località di Chevengur, scaturita dall'immaginazione di Platonov, passando per la tenuta aristocratica di Prjamuchino, culla dell'anarchico Michail Bakunin - di cui ripercorre, in modo a dir poco strepitoso, le tragicomiche vicende -, Golovanov esplora il complesso rapporto di filiazione tra lingua e territorio, spazio geografico e luogo metafisico. Nella convinzione che solo inoltrandoci in questi labirinti potremo davvero comprendere la letteratura russa, altrimenti destinata a restare per noi indecifrabile al pari di un'iscrizione cuneiforme.
Tutti gli scritti di Kafka sono attraversati dalla presenza del Nemico. Ma il suo nome si dichiarò soltanto alla fine, nei tre lunghi racconti di animali - Ricerche di un cane, Josefine la cantante o il popolo dei topi, La tana - che hanno scandito gli ultimi mesi della sua vita, chiudendola come un sigillo. Non si trattava di un tribunale ubiquo e ferreo, come nel Processo, né di un'autorità avvolgente, che poteva attirare a sé e al tempo stesso condannare, come nel Castello. Ma di animali dispersi e brulicanti, sopra e sotto la superficie della terra. Erano diventati gli unici interlocutori di colui che narrava. Come se Kafka fosse voluto scendere in uno strato più largo di ciò che è, là dove gli uomini possono essere una presenza superflua. A quel luogo - separato dal mondo ma da sempre già presente - e al suo ideatore è dedicato questo libro, che è insieme la via più diretta e labirintica per raggiungerlo.
Scandito in tre parti - «Le vittime», «Gli imputati», «La corte» -, V13 raccoglie, rielaborati e accresciuti, gli articoli (apparsi a cadenza settimanale sui principali quotidiani europei) in cui Emmanuel Carrère ha riferito le udienze del processo ai complici e all'unico sopravvissuto fra gli autori degli attentati terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015 - attentati che, tra il Bataclan, lo Stade de France e i bistrot presi di mira, hanno causato centotrenta morti e oltre trecentocinquanta feriti. Ogni mattina, per quasi dieci mesi, Carrère si è seduto nell'enorme «scatola di legno bianco» fatta costruire appositamente e ha ascoltato il resoconto di quelle «esperienze estreme di morte e di vita» - le testimonianze atroci di chi ha perduto una persona cara o è scampato alla carneficina strisciando in mezzo ai cadaveri, i silenzi e i balbettii degli imputati, le parole dei magistrati e degli avvocati -, e lo ha raccontato, come solo lui sa fare, senza mai scivolare nell'enfasi o nel patetismo, e riuscendo a cogliere non solo l'umanità degli uni e degli altri (sconvolgente, ammirevole o abietta che fosse), ma anche, talvolta, la quasi insostenibile ironia dei discorsi e delle situazioni. Da questo viaggio al termine dell'orrore e della pietà, da questo groviglio di ferocia, di fanatismo, di follia e di sofferenza, Carrère sa, fin dal primo giorno, che uscirà cambiato - così come uscirà cambiato, dalla lettura del suo libro, ciascuno di noi.
«Non lo so se l'idea che i buchi neri finiscano la loro lunga vita trasformandosi in buchi bianchi sia giusta. È il fenomeno che ho studiato in questi ultimi anni. Coinvolge la natura quantistica del tempo e dello spazio, la coesistenza di prospettive diverse, e la ragione della differenza fra passato e futuro. Esplorare questa idea è un'avventura ancora in corso. Ve la racconto come in un bollettino dal fronte. Cosa sono esattamente i buchi neri, che pullulano nell'universo. Cosa sono i buchi bianchi, i loro elusivi fratelli minori. E le domande che mi inseguono da sempre: come facciamo a capire quello che non abbiamo mai visto? Perché vogliamo sempre andare a vedere un po' più in là...?» (l'autore)
Fra le grandi narrazioni che hanno accompagnato la storia dell'uomo, quella dell'Esodo dall'Egitto è senza dubbio una delle più dense di significato, e il testo biblico che l'ha tramandata fino a noi ne è la vivida testimonianza letteraria. La potenza evocativa delle descrizioni - dalle dieci piaghe d'Egitto al prodigio del Mare dei giunchi - rischia tuttavia di lasciare in ombra gli sviluppi sotterranei del mito. In questo saggio Jan Assmann, con profondità e vastità di sguardo, interroga il libro dell'Esodo dal punto di vista dell'«egittologo che opera nel campo delle scienze culturali», risalendo alle origini dei suoi nuclei mitici e indagandone gli effetti e i riverberi nel tempo. Sarà così possibile vedere da una nuova prospettiva la cruciale rivelazione nel roveto ardente, allorché Yahweh manifesta la propria volontà e stabilisce un patto con il popolo eletto: «Con l'idea del patto viene al mondo la "fede", che rappresenta l'autentica, rivoluzionaria novità del monoteismo biblico, sia esso veterotestamentario, neotestamentario o islamico». Nell'Antico Testamento, infatti, «"fede" ha lo stesso significato di "fedeltà", ovvero fiducia nel patto». E il «monoteismo della fedeltà» porterà a una nuova idea di religione, in grado di gettare «le basi per un rapporto totalmente nuovo con il mondo, con Dio e con il tempo» - un rapporto destinato a perdurare fino alla modernità.
14 agosto 1941: a meno di due mesi dall'aggressione tedesca dell'Unione Sovietica, e solo due anni dopo la sottoscrizione del patto Molotov-Ribbentrop - che in un «protocollo segreto» aveva stabilito la spartizione della Polonia -, a fronte della minaccia nazista viene firmato l'accordo militare fra Stalin e Sikorski per la costituzione, sul territorio dell'URSS, di un'armata polacca composta da soldati in precedenza fatti prigionieri dai sovietici e deportati. All'inizio di settembre Józef Czapski, che ha servito come ufficiale nell'esercito polacco ed è stato internato dapprima a Starobel'sk e poi a Grjazovec, viene dunque liberato insieme ai suoi compagni dopo «ventitré mesi dietro il filo spinato». È l'inizio di un'odissea che porterà Czapski ad attraversare l'intera Unione Sovietica - e gli eventi più estremi del secolo scorso - con l'incarico di indagare sui quindicimila prigionieri polacchi che sembrano scomparsi nel nulla (e che verranno in parte rinvenuti, nel 1943, nelle fosse comuni di Katyn'). Un'odissea qui raccontata in presa diretta e in ogni - spesso sconvolgente - dettaglio: dall'esodo in condizioni disumane di militari e civili alle atroci testimonianze dei reduci dai campi, dall'incontro con il capo della Direzione centrale dei lager («padrone della vita e della morte di qualcosa come venti milioni di persone») ai contatti con le popolazioni. Esperienze che, per Czapski, diventano anche «una lenta, quotidiana iniziazione all'immensità della miseria umana».