Quando entra nell’aula di tribunale in cui verrà giudicata per l’omicidio del suo giovanissimo amante, Gladys Eysenach viene accolta dai mormorii di un pubblico sovreccitato, impaziente di conoscere ogni sordido dettaglio di quella che promette di essere l’affaire più succulenta di quante il bel mondo parigino abbia visto da anni. Nel suo pallore spettrale, Gladys evoca davvero l’ombra di Jezabel, l’ombra che nell’Athalie di Racine compare in sogno alla figlia. La condanna sarà lieve, poiché la difesa invoca il movente passionale. Ma qual è la verità – quella verità che Gladys ha cercato in ogni modo di occultare limitandosi a chiedere ai giudici di infliggerle la pena che merita?
«Nella tragedia classica, è il peccato di tracotanza, commesso dai padri o dalle madri, a condannare i figli ... Ma Irène Némirovsky, che pure in questo come in altri suoi libri dà sfogo al dolore di un’infanzia rubata, riesce ad attuare il riscatto» (Gabriella Bosco).
Attraverso la vicenda di Mr Earbrass, uno scrittore alle prese con il suo nuovo romanzo, un documentario surreale – e perciò crudelmente realistico – sugli esilaranti vizi e le risibili virtù del mondo letterario.
Gli eroi greci sono figure molto più complicate e sconcertanti di quanto l’accezione moderna della parola non lasci presagire: anzitutto vissero nella quarta èra – convulsa e grandiosa – dell’umanità (dopo l’età d’oro, quella d’argento, quella di bronzo) e si estinsero subito dopo la guerra di Troia; in secondo luogo, erano esseri semidivini – e necessariamente mostruosi. L’argomento, come si sa, è tutt’altro che sprovvisto di bibliografia. Ma per una volta non sarà azzardato definire fondamentale questo libro, imponente edificio che ancora oggi, a più di cinquant’anni dalla sua costruzione, si rivela un indispensabile punto d’osservazione, da cui lo sguardo può spaziare su un territorio sconfinato. Indispensabile come lo è, certo, anche Gli eroi della Grecia di Karl Kerényi, di cui Brelich è stato allievo. Ma Brelich non ha tardato a percorrere una strada divergente da quella archetipica praticata dal maestro, procedendo risolutamente verso una prospettiva storica e comparatistica. Muovendosi tra antropologia, etnologia, archeologia, storia e filologia, Brelich riesce così a estendere e al tempo stesso a rendere più nitido l’orizzonte d’indagine, e attraverso la sua magistrale analisi degli eroi greci – enigmatici nell’orizzonte culturale moderno, dove «c’è ancora posto per un’idea di dio, ma difficilmente per esseri “semidivini”» –permette di cogliere in tutta la sua specificità il rapporto, in Grecia, fra rito e mito.
Nel 1953 Goffredo Parise si trasferisce a Milano, dove ha trovato lavoro presso un grande editore. Ha pubblicato due romanzi che pochi conoscono – Il ragazzo morto e le comete e La grande vacanza – e ha il vago desiderio di scriverne un terzo che lo diverta e commuova «tanto da cacciare il freddo e la solitudine»: un romanzo «con molti personaggi allegri», ma soprattutto «estivo». Uscito nel maggio del 1954, Il prete bello conoscerà un clamoroso successo e diventerà il primo best seller del dopoguerra. E rileggendolo oggi, quando ormai le etichette impugnate per celebrarlo o denigrarlo sono definitivamente alle nostre spalle, ci accorgiamo che il suo segreto sta tutto in quella genesi: nella festosa eccentricità dei personaggi che popolano un labirintico e fiabesco caseggiato nella Vicenza del 1940, e di colui che saprà stregarli tutti, e attirarli a sé con la forza di un magnete: don Gastone, il «prete bello». Personaggi quali la ricca signorina Immacolata, con i suoi strani cappellini a piume e l’occhialino d’oro cesellato; le Walenska, madre e figlia, che si scaldano ingrandendo con una enorme lente l’unico raggio di sole che al tramonto penetra nella loro stanza; il cav. Esposito, che tiene sotto chiave le cinque figlie concupiscenti; Fedora, la cui rigogliosa natura si spande dagli occhi e da tutto il corpo, quasi che «dai pori uscisse un polline dolciastro»; e la cenciosa banda di ragazzi truffaldini e sentimentali che nei vicoli e sotto i portici cercano ogni giorno di sopravvivere trasformandosi in ladri, ruffiani e mendicanti – in particolare Sergio, il narratore, e il suo amico Cena. In tutti loro, nelle vene e nel sangue, l’atletico, elegante, vanesio don Gastone si infiltra come una passione oscura, violenta ma capace di dare improvvisamente vita – e come nel Ragazzo morto e le comete ci troviamo di fronte a «una sostanza poetica che ribolle e rifiuta di assestarsi entro schemi definiti», a «un quadro di Chagall con orsi e streghe volanti» (Eugenio Montale).
«Non ho riscritto il libro. Ne ho mitigato gli eccessi barocchi, ho limato asperità, ho cancellato sentimentalismi e vaghezze» dichiara Borges nel 1969 ripresentando la sua prima raccolta poetica. Il giovane ultraista colpevole di «innocenti novità rumorose» che l’aveva pubblicata nel 1923 e colui che ora «si rassegna o corregge» sono inequivocabilmente la stessa persona: «entrambi diffidiamo del fallimento e del successo, delle scuole letterarie e dei loro dogmi; entrambi veneriamo Schopenhauer, Stevenson e Whitman» – e «Fervore di Buenos Aires prefigura tutto ciò che avrei fatto in seguito». Diagnosi non si potrebbe più precisa. Buenos Aires, non v’è dubbio, è la protagonista assoluta: con i suoi patios «che hanno fondamenta / nella terra e nel cielo», i crocevia trafitti «da quattro lontananze senza fine», i sobborghi «riflesso del nostro tedio». Ma non è un caso che la città dischiuda i suoi segreti al tramonto, quando il silenzio che abita gli specchi «ha forzato il suo carcere», e di notte, allorché gli orologi spargono un tempo vasto e generoso, «dove ogni sogno trova posto, / tempo di ampiezza d’anima». È la terribile congettura di Berkeley e di Schopenhauer: il mondo è atto della mente, sogno ostinato che rischia di dissolversi non appena sono pochi a sognarlo e «solo qualche nottambulo conserva, / cinerina e abbozzata appena, / l’immagine delle strade / che poi definirà con gli altri».
Adelina ha un destino segnato: diventerà ianara, come sua madre, come sua nonna. Al pari di loro, potrà attraversare ogni porta, anche quella che separa la vita dalla morte. E sarà dannata. Vivrà in una capanna sui monti dell'Irpinia - una terra nel dopoguerra non ancora toccata da quel che avviene altrove, in un'Italia apparentemente remota - come una bestia selvatica; gli uomini e le donne verranno a supplicarla di aiutarli quando avranno bisogno di curarsi, di vendicarsi, o di liberarsi di un figlio non voluto - e la schiveranno come la peste se oserà avvicinarsi al paese. Per sfuggire a tale destino Adelina si incamminerà da sola per boschi e per montagne, finché non giungerà in vista di un grande e magnifico palazzo, proprietà di un Conte: vi entrerà come l'ultima delle sguattere e - sorta di funebre, allucinata Jane Eyre, schiava amorevole e possessiva fino al delitto - servirà e accudirà il padrone con assoluta, cieca fedeltà. Gli rimarrà accanto anche quando il palazzo sarà ridotto a una splendida rovina, quando più nessuno ci metterà piede per paura della maledizione che lo ha colpito dopo i tragici eventi di cui è stato teatro: il misterioso omicidio del figlio del Conte, l'orrendo suicidio della temibile Signora, la scomparsa della piccola Lisetta a cui il Conte era legato da un torbido affetto - e lei, Adelina, sarà rimasta la sola ad aggirarsi silenziosa nelle immense sale vuote.
Con una lingua asciutta, potente, evocativa, Licia Giaquinto ci trascina in una trama fitta di storie e di magia, dove animali, uomini, cose si fondono e si trasformano di continuo. Così come è destinato a trasformarsi, di fronte a una minacciosa «modernità», quel mondo arcaico che ci si squaderna davanti, e che ha anch'esso un destino segnato: quello di scomparire, per essere evocato solo da chi ancora ce lo sa raccontare.
Quando apparve nel 1988, questo libro - qui riproposto in una nuova edizione aggiornata e accompagnato da un'Introduzione che passa in rassegna i risultati più significativi della ricerca successiva - diede luogo a una feroce polemica. Gli allievi di Scholem, che pure a Idel era legato da un profondo rapporto di stima, si scagliarono unanimi contro quella che ai loro occhi appariva come la confutazione dell'opera del maestro e la demolizione di un dogma. Benché estraneo agli intenti blasfemi che gli furono attribuiti, il libro - oggi divenuto un classico - segnava innegabilmente un punto di svolta nelle indagini sulla mistica ebraica, offrendo, sulla scorta di una sterminata documentazione inedita, un'interpretazione innovativa della Qabbalah e in particolare dei suoi aspetti più affascinanti e trascurati: quelli magici. L'assoluta rilevanza dei temi affrontati - a partire dalla questione dell'antichità della Qabbalah (Idel sovverte qui una classica teoria di Scholem, giungendo a dimostrare l'influsso determinante dell'ebraismo sulla Gnosi) -, l'ampiezza dei materiali esplorati, le inedite prospettive dischiuse alla ricerca, i riferimenti comparativi alla filosofia greca, a quella araba medioevale e alle più diverse forme di pensiero religioso contribuiscono a fare di quest'opera una lettura imprescindibile per chiunque voglia accostarsi alla tradizione mistica della Qabbalah.
Raccogliendo nel 1974 interventi apparsi nell'arco di circa un decennio, Elvio Fachinelli additava proprio negli scarti e nelle devianze di un «procedere asistematico» le ragioni della loro intima coerenza. Snodi decisivi della psicanalisi, e più in generale dei mutamenti della società contemporanea, vengono anzitutto affrontati attraverso chiose e commenti a testi di maestri quali Freud, Reich, Benjamin o a narrazioni di pazienti: il saggio di Freud sulla «negazione», ad esempio, consente a Fachinelli di rileggere con magistrale acutezza il «disagio della civiltà » e il rapporto tra «analità » e «denaro» (da cui il «bambino dalle uova d'oro» del titolo), mentre il referto clinicamente delirante di una paziente psicotica, Rose Thé, è sorprendentemente eletto a metafora dell'ambiguità dell'utopia sessantottesca, fondata su «intelaiature ideologiche» già obsolete all'atto di nascita. E anche laddove lo sguardo si appunta su temi disparati e in apparenza eccentrici - dai deficit delle politiche per l'infanzia all'identità dei «travestiti» e dei loro clienti, dal marxismo in Cina alla lettura in prospettiva freudiana dell'Otello di Shakespeare o della Lettera rubata di Poe -, sempre riaf fiorano e si impongono possibilità interpretative sorprendenti e interrogativi radicali sulla psicanalisi stessa.
«Una delle letture più appassionanti ... Non bisogna lasciarsi spaventare dal fatto che siano oltre 600 pagine. Non dirò che lo si legge di un fiato, ma lo si centellina per sere e sere come se fosse un grande romanzo d’avventure, popolato di straordinari personaggi storicamente esistiti e di cui non sapevamo nulla» (Umberto Eco).
«… grande affresco storico sul Grande Gioco, come lo chiamò Kipling, che impegnò inglesi e russi, per buona parte dell’Ottocento, in Afghanistan, in Iran e nelle steppe dell’Asia centrale. Mentre il grande impero moscovita scivolava verso i mari caldi inghiottendo ogni giorno, mediamente, 150 chilometri quadrati, la Gran Bretagna cercava di estendere verso nord i suoi possedimenti indiani. Vecchia storia? Acqua passata? Chi darà un’occhiata alla carta geografica constaterà che i grandi attori hanno cambiato volto e nome, ma i territori contesi o discussi sono sempre gli stessi. In queste affascinanti “mille e una notte” della diplomazia imperialista il lettore troverà l’antefatto di molti avvenimenti degli scorsi anni in Afghanistan e in Iran» (Sergio Romano).
Lungo un decennio, dal 1953 al 1963 – nel pieno della loro amicizia –, William Burroughs e Allen Ginsberg intrattengono un epistolario «lisergico» tra i più immaginifici e radicali di tutto il movimento Beat, di cui rappresenta una vera sintesi estetica e cognitiva. Ma se il contributo di Ginsberg è concentrato in sostanza in una lunga lettera-poema da Pucallpa (Perù) dove gli effetti dell'ayahuasca si traducono in una visionaria tragicità cosmologica, i molti referti di Burroughs coniugano alle visioni dell'alterazione psicofisiologica lo sguardo acuto e mimetico dell'antropologo sul campo, fino a rendere i due piani intercambiabili. Burroughs si abbandona infatti alle tante droghe cercate e provate lungo un percorso che oltre al Perù comprende anche Panama e la Colombia – dalla liana dello yoka al mitico yage, estratto di una pianta che spalanca nella mente sterminati territori onirici. E nel contempo registra ogni frammento del paesaggio circostante, con esiti di violenta ambivalenza: in primo piano, una catena di fisionomie squallide di rado interrotta da qualche oggetto di accensione omoerotica, come il ragazzo di Cali dai «delicati lineamenti ramati» e dalla «bellissima bocca morbida»; sullo sfondo, luoghi e paesi degradati ma collocati in una natura immensa e sgomentante. E la cerniera tra la percezione-allucinazione e il mondo esterno è data come sempre da una scrittura eversiva, la cui inconfondibile tonalità horror si vena qui di una corrosiva ironia.