Anna Politkovskaja è stata assassinata il 7 ottobre 2006, sul pianerottolo di casa sua. Il 19 febbraio del 2009 un tribunale moscovita ha giudicato non colpevoli i tre imputati del delitto. La difesa aveva sostenuto che erano meri capri espiatori, e che i veri colpevoli godevano di altissime protezioni. Da chi sia stata uccisa l'indomita giornalista forse rimarrà un mistero. Ma non le ragioni per le quali non erano pochi a volersi liberare della sua ingombrante presenza: gli articoli raccolti in questo libro (grazie al lavoro appassionato dei due figli di Anna, i quali, insieme ai colleghi della «Novaja gazeta», hanno scandagliato lo hard-disk dei suoi computer, il suo archivio personale e gli archivi del quotidiano) ci consentono di leggere, in drammatica successione, le cronache che, dal 1999 a fine settembre 2006, hanno decretato, appunto, la sua condanna a morte. Si tratta di un documento straordinario: una sorta di reportage sulla Russia contemporanea in cui tornano, illuminati da nuovi dettagli, gli scenari delineati nei libri precedenti: il fronte bellico del Caucaso si dispiega in tutta la sua complessa, torbida geografia; sui retroscena dell'attacco terroristico al teatro na Dubrovke getta luce l'eccezionale colloquio con un terrorista sopravvissuto (un agente infiltrato?); le trame del potere sepolte tra le rovine della scuola di Beslan si intrecciano a storie quotidiane di una Russia devastata da «guerra, razzismo e violenza come metodo decisionale»; mentre lo sguardo che da Occidente si posa sul «paese pacifico» è quello cinico, lusinghevole o distratto dei politici. Il giornalismo di Anna Politkovskaja era costantemente teso alla testimonianza della verità: una verità che si imprime nella nostra memoria anche grazie a una magistrale padronanza dello stile, a un sottile senso dello humour, a una sensibilità così acuta da consentirci di scrutare l'anima dei vincitori come dei vinti, delle vittime come dei carnefici.
Il libro Franza «non è solo un viaggio attraverso una malattia. Cause di morte, tra queste rientrano anche i delitti. Questo è un libro che parla di un delitto... Esso tenta di far conoscere, di ricercare qualcosa che non è scomparso dal mondo. Perhé oggi è soltanto infinitamente più difficile commettere delitti, ed ecco perché questi delitti sono tanto raffinati che quasi non riusciamo ad accorgercene e a comprenderli, sebbene vengano commessi ogni giorno nel nostro ambiente, tra i nostri vicini di casa. Anzi io affermo - e tenterò soltanto di fornire una prima prova - che ancora oggi moltissime persone non muoiono ma vengono assassinate». Queste parole, che non potrebbero essere più chiare, leggiamo in una delle quattro prefazioni d'autore che figurano nella nuova - sin dal titolo - edizione del Libro Franza, dove i materiali radunati e pubblicati per la prima volta nel 1978 vengono sottoposti a un radicale riassetto filologico che fa riaffiorare, tra l'altro, importanti tasselli mancanti nella versione precedente e destinati ad agevolarne la comprensione. In queste pagine postume della grande scrittrice austriaca si mette a nudo, dolorosamente, e a tratti raggiungendo il calor bianco della furia e della lucidità, quello che era il presupposto dell'intero ciclo Cause di morte, avviato con Malina e rimasto incompiuto: una catena di delitti invisibili, di «sublimi» assassinii dell'anima, crimini che «avvengono senza spargimento di sangue» e spesso si presentano come atti innocui o addirittura altruistici e disinteressati. Crimini dove gli assassini possono essere rispettabili psicoterapeuti o giovani, promettenti scrittori, malati di quel singolare «genere di malattia che fa soffrire gli altri e il malato no».
Non è un caso che il Comitato rivoluzionario affidi la missione di «liquidare» Valerian Aleksandrovič Kurilov, l'odiato ministro della Pubblica Istruzione del regime zarista, proprio a Léon M.: orfano di due rivoluzionari russi, allevato in Svizzera a spese del «partito», questi non ha avuto altra famiglia che i «compagni», ed è cresciuto con l'idea «che una rivoluzione sociale fosse inevitabile, necessaria». Nel gennaio del 1903 Léon, non ancora ventenne, assume dunque la falsa identità del dottor Marcel Legrand e riesce a entrare nella casa di colui che gli studenti universitari hanno soprannominato il Pescecane. Perché oltre che un avido uomo di potere, Kurilov è anche feroce: non esita infatti a far sparare sugli studenti, né a farli arrestare, processare e giustiziare. Eppure, vivendo costantemente al suo fianco, il falso dottor Legrand scopre un uomo diverso: già al primo sguardo gli sembra «più flaccido, più sgretolato, più vulnerabile», e presto apprenderà che è gravemente malato. Inoltre, Kurilov è molto innamorato della seconda moglie, un'ex cocotte francese che i sovrani si rifiutano di ricevere, e a causa di questa donna, che tutti giudicano «sconveniente», affronterà perfino la disgrazia politica. E per finire è anche molto più scettico e pieno di dubbi di quanto le sue posizioni pubbliche lascino credere.
In questo romanzo acido e nichilista Irène Némirovsky non solo si conferma un'eccellente narratrice ma dà prova di una inconsolabile lucidità sui destini del genere umano, e sulla sua derisoria pretesa di cambiare il corso della storia.
Leggere Lolita a Teheran era l'ultima cosa in ordine di tempo (dopo Innamorarsi a Teheran, Guardare i Fratelli Marx a Teheran) che Azar Nafisi aveva elencato in un taccuino segreto - e che si rimproverava di aver taciuto a tutti. Molte delle altre, a tanti anni di distanza, ha deciso di raccontarle in questo libro. Che è un magnifico ritratto del padre, sindaco di Teheran all'epoca dello Scià, e della madre, primo membro femminile del parlamento iraniano. È la storia dei tradimenti di lui, del mondo fantastico in cui lei a poco a poco trasforma la realtà insopportabile che la circonda, e soprattutto della forzata, dolorosa connivenza dell'autrice con il padre. Ma è anche e soprattutto la rivelazione di come a volte le dittature sembrino riprodurre i silenzi, i ricatti, le doppie verità su cui si regge il primo, e più perfetto, sistema totalitario: la famiglia. Chi conosce Nafisi sa già cosa troverà, qui, in ogni pagina: l'emozione di leggere sempre, a dispetto di tutto, qualcosa di vero e di importante. Qualcosa che magari arriva da molto lontano - dalle strade e dai giardini di Teheran, certo, ma anche dalle pagine di Firdusi, o dei grandi cantastorie persiani -, eppure ci riguarda molto da vicino.
«A te, che non mi hai mai conosciuta»: è questa l'intestazione della lettera che, nel giorno del suo compleanno, riceve un romanziere viennese, un quarantenne di bell'aspetto a cui la vita ha offerto i suoi doni più ambìti: la ricchezza, la fama e un fascino «morbido e avvolgente» a cui è impossibile resistere. «Ieri il mio bambino è morto»: così esordisce la misteriosa scrivente, e continua: «adesso al mondo mi sei rimasto solo tu, tu che di me non sai nulla». Quando lui leggerà quelle righe, lei sarà già morta: per questo, solo per questo, concede a se stessa di raccontargli la propria vita - la vita di una creatura che per più di quindici anni (prima bambina, poi adolescente, e poi donna) gli ha votato, «con la dedizione di una schiava, di un cane», un amore «disperato, umile, sottomesso, attento e appassionato», senza mai rivelargli il proprio nome, senza mai chiedere nulla, ottenendo in cambio solo poche notti d'amore e portandosi dentro un unico, struggente desiderio: che incontrandola, almeno una volta, la riconoscesse. Ma quasi sempre il volto di una donna rappresenta per l'uomo «solo lo specchio di una passione, di un gesto infantile, di un moto di stanchezza, e svanisce altrettanto facilmente di un'immagine allo specchio». E il destino di lei è stato di non essere mai riconosciuta. Con la consueta maestria Zweig ci trascina nel labirinto di un amore assoluto, regalandoci lo straordinario ritratto di una donna viva, vera e appassionata che è al tempo stesso una «creatura invisibile», immateriale «come una musica lontana».
Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco, si trova a Palermo nel dicembre 1782 per via di una tempesta che ha fatto naufragare la sua nave sulle coste siciliane. È questo il caso che fa nascere, nella mente dell'abate Vella, maltese e incaricato di mostrare all'ambasciatore le bellezze di Palermo, un disegno audacissimo: far passare il manoscritto arabo di una qualsiasi vita del profeta, conservato nell'isola, per uno sconvolgente testo politico, Il Consiglio d'Egitto, che permetterebbe l'abolizione di tutti i privilegi feudali e potrebbe perciò valere da scintilla per un complotto rivoluzionario. Apparso nel 1963, Il Consiglio d'Egitto è in certo modo l'archetipo, e il più celebrato, dei romanzi-apologhi di Sciascia, dove lo sfondo storico della vicenda si anima fino a diventare una scena allegorica, che in questo caso accenna alla storia tutta della Sicilia.
Fra il 1923 e il 1929 Borges pubblica tre volumi di poesia su cui in seguito interverrà radicalmente, e tre di prosa che saranno ripudiati. Tutti gli altri scritti – dispersi per lo più in periodici e riviste – cui era affidata l’insolente riflessione di quegli anni verranno dimenticati. E si capisce: ansioso di giustificare una tumultuosa militanza ultraista, ma soprattutto di «disanchilosare l’arte» e di difendere la sua poesia, Borges dichiara la supremazia dell’«estetica attiva dei prismi», capace di forgiare una visione personale, sull’«estetica passiva degli specchi», che trasforma l’arte in copia; addita nel ritmo, elemento acustico, e nella metafora, elemento luminoso, gli strumenti imprescindibili di tale rivoluzione; regola impavido i conti con i morti e i loro esercizi di retorica; stigmatizza risolutamente il «nulla immobile» della letteratura coeva, preoccupata solo di cambiare di posto alle «cianfrusaglie ornamentali» che pretendono di discendere da Góngora e di «infilzare in quantità infinite i consunti aggettivi»; celebra una Buenos Aires che nelle «ore orfane che vivono come spaventate dagli altri e delle quali nessuno si cura» diventa libertà di poesia, ed esalta l’ultimo tango, «zolletta di zucchero che da sola addolcisce la città offuscata e molle». Anni spavaldi, certo, di fervori iconoclasti, ma che a ben vedere ci dischiudono il segreto lavorio da cui nascerà il più indimenticabile Borges, come appare evidente da questo passo del 1923: «le nostre nullità differiscono così poco, e così tanto influiscono le circostanze sulle anime, che è quasi una casualità che tu sia il leggente e io lo scrivente – il sospettoso e appassionato scrivente dei miei versi».
Supremamente ottuso è per Bernhard il mondo dei premi letterari, di cui traccia un ritratto insieme crudele e divertentissimo, senza risparmiare frecciate a nessuno, neanche a se stesso: «Tutto era repellente, ma più repellente di tutto trovavo me stesso» dice a proposito del premio Franz Theodor Csokor. Al grottesco balletto prendono parte stolidi largitori e beneficati vanesi; ministre che russano durante i panegirici per poi risvegliarsi di botto sbraitando imperiose: «Ma dove si è cacciato il nostro scrittorello?»; conferitori di attestati e di prebende che, scambiando il sesso dei poeti laureandi, parlano con disinvoltura della «signora Bernhard»; politici opportunisti e di abissale ignoranza preoccupati solo di fare passerella; giurie letterarie insipienti ma ben liete di trasferirsi, spesate di tutto, nei migliori alberghi e ristoranti; finanziatori che con un esborso spudoratamente basso si assicurano pubblicità a buon mercato e una fama di generosi mecenati; e grossolani esponenti dell’industria che presentandolo parlano diffusamente dello «straniero nato in Olanda», il quale però «già da qualche tempo vive tra noi», e al quale attribuiscono senza fare una piega un fantomatico romanzo ambientato in un’isola del Sud. «Se qualcuno offre del denaro vuol dire che ne ha ed è giusto alleggerirlo» pensa tuttavia Bernhard, e non nega affatto di averlo speso volentieri, soprattutto se gli ha dato l’occasione per comprarsi finalmente una Triumph Herald.
L'Agenzia investiga su tutto, e su tutti. Nei suoi immensi archivi viene classificato quanto accade nella cupa città là fuori. E il compito di Charles Unwin è ben preciso: organizzare in fascicoli i frammentari appunti del più celebre degli investigatori, Travis T. Sivart. Quando Sivart scompare, Unwin viene inopinatamente promosso detective e si fa carico delle indagini, che dovrà condurre affidandosi a due sole armi, un ombrello e un manuale di investigazione – questo, il libro che stiamo leggendo. Assistito da una segretaria narcolettica e da una femmina temibile riemersa dal passato, si ritrova a districare un mistero che a ogni passo sembra distorcersi e moltiplicarsi. Come può una mummia millenaria avere un'otturazione odontoiatrica? Dove sono finite tutte le sveglie della città? Perché manca il diciottesimo capitolo del Manuale? Sotto una pioggia che sembra non debba avere mai fine, Unwin si addentra in un mondo fatto di interni labirintici, di acque nere, o delle luci improvvise di un freak-show. Un mondo parallelo disegnato, si direbbe, dalle perversioni di uno scenografo impazzito o dal delirio di una mente criminale, dove a poco a poco il lettore, in un misto di curiosità, piacere e angoscia capisce di avere una sola certezza: che da questo sogno - da questo libro - non si sa come svegliarsi.
Una galleria di ritratti in parte nuova, ispirata a un principio antico, enunciato dallo stesso Pericoli: «una biografia diversa da quella ufficiale, una sintesi visiva, una sorta di faccia-riassunto» – un volto che «somiglia, certo, al volto vero, ma che è ancora più vero perché ne racconta la storia».
«Un famoso critico d’arte del secolo scorso aveva elaborato un metodo per attribuire i quadri. Credeva che la personalità di un pittore si rivelasse soprattutto nei piccoli particolari fisici che sfuggono alla sua coscienza. Botticelli o Giorgione o Raffaello o Michelangelo dipingevano le orecchie, le sopracciglia e il dito mignolo del piede in modi completamente diversi tra loro. Esiste l’orecchio secondo Botticelli o secondo Giorgione o secondo Raffaello. Credo che si possa riconoscere un vero Tullio Pericoli dai piccoli particolari».
PIETRO CITATI