La "Teoria della giustizia" nasce dal corso che Norberto Bobbio tenne nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Torino nell'anno accademico 1952-53, come ordinario di filosofia del diritto. Un paragrafo per lezione, all'incirca, testimonia l'intensità del suo insegnamento e il ritmo con cui sviluppava i diversi passaggi delle varie problematiche. Si può dire che in quel corso del 1953 si chiarisca in Bobbio stesso il disegno della sua riflessione successiva: da quel momento in poi egli sarà sempre meno (soltanto) giurista e sempre più (anche) filosofo politico. Nell'idea di giustizia egli individua l'incontro e l'intreccio tra tre fondamentali dimensioni della realtà umana: pace, uguaglianza e libertà. Bobbio mostra come queste si sviluppino nella storia del pensiero politico e le riconduce infine a unità, attraverso la logica delle coppie antitetiche (una tecnica argomentativa che egli utilizzerà un'infinità di volte) dapprima, per cercare poi di ricondurre a unità i tre valori della giustizia, pur sempre comunque emblematicamente coinvolti nella "crisi politica del nostro tempo", come Bobbio conclude. Allora come oggi. Una intensa e affettuosa Prefazione, scritta per questa occasione, di Gregorio Peces-Barba Martínez attualizza la lezione bobbiana e ne illustra l'ancora intatta capacità didattica e la fecondità delle interpretazioni che discute.
"Le dit du sourd et muet" (ora tradotto per la prima volta in italiano, ma scritto dall'autore in francese) è l'ultimo romanzo di Gabriele D'Annunzio, e il suo più sentito e potente testamento spirituale, l'ultimo atto, l'estrema testimonianza, dolente e insieme affascinata, di un intellettuale europeo, dall'anima duplice, italo-francese, anzi molteplice, universale, ansiosa di abbracciare ogni esperienza, ogni realtà e ogni sollecitazione, bruciandole e sublimandole nel fuoco vivo dello stile.
Pubblicato per la prima volta nel 1967, il volume "Musica e verità. Diario 1939-1964" offre la cronaca di un venticinquennio di vita musicale vissuta in prima persona dall'autore: le annotazioni, vivaci e originali per l'immediatezza della testimonianza concreta, descrivono opere e concerti tenutisi in gran parte alla Scala di Milano, alla Fenice di Venezia e al Comunale di Firenze, ma anche ritratti di illustri personalità, viste da vicino e colte insolitamente in momenti inediti e privati. Questo zibaldone di giudizi e memorie si segnala non solo per l'eccezionale competenza critica dell'autore, ma anche per la raffinatezza della scrittura.
Il libro che qui si presenta in una nuova edizione è certamente un pamphlet politico volto a spiegare le ragioni che hanno impedito a lungo la formazione di una coscienza nazionale e statuale in Italia e ad esortare gli italiani a formarsela soprattutto con una battaglia laica e repubblicana che li liberi della confusione fra coscienza religiosa e autorità papale. Quinet ricostruisce i conflitti sociali del Medioevo italiano mettendone in luce le analogie con quelli dell'Europa degli stessi decenni: una linea di ricerca che possiamo trovare negli studi ormai classici di Salvemini. Sullo sfondo del libro la dolorosa esperienza delle contraddizioni sociali del 1848 che Quinet aveva vissuto personalmente come colonnello della guardia nazionale partecipando alla repressione dell'insurrezione operaia del giugno e l'appassionata valorizzazione della Repubblica romana in cui si intravvede il nucleo di una potenziale nazione italiana, attraverso l'eroica prova delle armi e del rinnovamento religioso e morale.
Scritto per la riforma di un monastero benedettino, questo "Discorso sulla riforma dell'uomo interiore", per la prima volta tradotto in italiano, è uno degli scritti più segreti di Giansenio, lontani dai rumori del mondo, ma anche tra i più significativi. Sainte-Beuve ci racconta come questo testo arrivò nelle mani di Blaise Pascal. I temi austeri, rigorosi, spietati di Giansenio, che condannava i tre peccati fondamentali dell'uomo, sconvolsero l'anima del giovane Pascal e dettero un nuovo indirizzo al pensiero scientifico, filosofico, teologico di una delle più alte menti della cultura occidentale.
Il nuovo libro di poesie di Alberto Bertoni, il settimo di una storia compositiva cominciata negli anni Ottanta (e il secondo pubblicato da Aragno, a nove anni di distanza da "Le cose dopo"), prende le mosse dall'esperienza diretta degli anni di demenza vissuti dalla madre dell'io narrante. Ma poi si allarga ad altri, meno chiusi, orizzonti, attraverso i modi del viaggio nel tempo e nello spazio, aggiungendo alla voce poetica propria dell'autore, che riconosce i suoi modelli di scrittura nelle opere in versi di Sereni, di Giudici, di Bevilacqua e di Cucchi, un approdo nuovo alla scrittura in prosa: vero e proprio contrappunto ai testi più tradizionali.