
L'ideologia del terrore ha caratterizzato l'affermazione tragica dei sistemi totalitari nel corso del Novecento. La follia rigeneratrice per la costruzione dell'uomo nuovo, per il trionfo delle leggi della storia o della natura ha animato una dimensione ferocemente spietata del potere. Questo libro tiene conto di quella vicenda, ma si concentra sulla possibile esistenza di una nuova versione del totalitarismo o, meglio, della tendenza totalitaria che attraversa le società cosiddette democratico-liberali. Quali forme assume l'attuale totalitarismo postideologico? Si tratta di un totalitarismo senza un centro identificato ma socialmente diffuso, intrecciato alla potenza del mercato globalizzato e allo scientismo tecnologico, con le sue pretese di misurazione e di controllo dell'esistenza. Un totalitarismo che, pur in un contesto storico-politico profondamente diverso, conserva il nocciolo della versione originaria, ovvero l'incidenza del potere, nella sua variante biotecnologica, sulle condizioni di possibilità della vita stessa.
Il filosofo Enrico Castelli ha combattuto per tutta la sua vita una battaglia in nome di un pensiero religioso, teologico, che gli ha permesso di aprirsi alle più diverse e innovative correnti della cultura a lui contemporanea, dalla linguistica alla psicoanalisi, dalla cibernetica alla teoria dell'informazione. Già nel 1945, Castelli, iniziando a raccogliere immagini e appunti su temi legati all'arte sacra, al bene e al male, alla Grazia, annotava che "il discorrere della filosofia ha dei punti di contatto con l'arte di Bosch, perché permette di mostrare facendo sentire". Questo libro risponde all'interrogativo tutto filosofico sul bene e il male, sui loro limiti e le loro potenzialità, attraverso l'esame dell'arte sacra tra il XIV e il XVII secolo e commentandone le varie rappresentazioni del demoniaco in modo da mostrare come alcuni artisti siano stati, in un certo senso, dei veri e propri teologi.
"La Flagellazione" di Piero della Francesca è senza dubbio uno dei dipinti più celebri del Rinascimento. Ma anche uno dei più enigmatici. Chi sono infatti i tre misteriosi personaggi in primo piano, che non sembrano avere alcun legame con il martirio di Cristo? E perché l'evento è collocato in un contesto tutto quattrocentesco? La risposta di Roeck è che il dipinto nasconde una velata accusa di omicidio, costruita con i sottili strumenti artistici di cui Piero aveva piena padronanza e che gli permettevano di dialogare con i più eminenti umanisti e mecenati del suo tempo. Inserito in questo codice culturale condiviso, il dipinto alluderebbe all'omicidio di Oddantonio da Montefeltro, giovane duca di Urbino, vittima illustre di un attentato nel 1444. Ma chi fu il principale beneficiario della morte del duca? In altre parole, chi poteva essere il mandante dell'assassinio? Attraverso una ricostruzione attenta alle fonti e sorretta da una rigorosa analisi formale, l'autore si mette sulle tracce dell'assassino di Oddantonio e del possibile committente dell'opera (naturalmente interessato a smascherarlo), guidando il lettore in un intrigante viaggio nel mondo delle corti rinascimentali.
Il rancore è un sentimento (o un'emozione?) oggi più che mai diffuso, un sentimento che permea e ammorba la società e i singoli. Gli autori si propongono (tralasciando volutamente l'aspetto religioso) di esplorare i possibili itinerari attraverso i quali il rancore si esprime: dal piccolo astio all'invidia, dalla rabbia all'odio, fino agli esiti più propriamente psicopatologici. Ecco quindi che il rancore (dal latino "ranceo", essere rancido) si differenzia dal risentimento per la ruminazione continua e torturante, che induce l'individuo a tornare sul torto subito - e talvolta perpetrato -, e che spesso non si estingue neanche con la vendetta. In questo volume sono esaminate tutte le declinazioni di questo sentimento complesso e sfaccettato, tanto nelle sue espressioni "sociali" (arte, storia, antropologia, politica), quanto in quelle "psicologiche" (criminologia, psicopatologia, componenti cognitive).
In questo libro del 1956, Günther Anders muove dalla diagnosi della "vergogna prometeica", cioè dalla diagnosi della subalternità dell'uomo, novello Prometeo, al mondo delle macchine da lui stesso create, per affrontare il tremendo paradosso cui la bomba atomica ha posto di fronte l'umanità, costringendola fra angoscia e soggezione. La vergogna prometeica è legata anche a un senso di "dislivello", di non sincronicità, tra l'uomo e i suoi prodotti meccanici che, sempre più nuovi ed efficienti, lo oltrepassano, facendo sì che egli si senta "antiquato". Oltre che perfetta la macchina è ripetibile, standardizzata, riproducibile in esemplari sempre identici; quindi possiede una specie di eternità che all'individuo umano è negata. Di qui, una rivalità, una impari gara dell'uomo, una inversione dei mezzi con i fini, di cui Anders analizza con grande anticipazione tutta la portata. In particolare, là dove tratta delle tecniche di persuasione, soprattutto televisive e radiofoniche, che ci assediano con immagini-fantasma, irreali, di fronte alle quali l'individuo diventa passivo, maniaco, incapace di pensare e comportarsi liberamente.
L'uso scientifico dei termini implica che abbiamo eliminato i "fumi della fantasia" e trovato l'esatta correlazione fra termini e concetti. Chiarezza, distinguibilità e precisione sono gli ideali - e le condizioni dell'intelligibilità scientifica. I termini sono espressioni visibili e udibili dei concetti, e un concetto è un "medium quo", un mezzo con e attraverso il quale significhiamo la cosa reale. Ma questo non è tutto e non è certo l'aspetto più importante del linguaggio, dell'uomo e della realtà. Ridurre il linguaggio a mezzo, l'uomo a un sistema di informazioni e la realtà a una rete globale di comunicazioni è un impoverimento del linguaggio, dell'uomo e della realtà. Panikkar mette in discussione l'equivalenza fra parola e termine e rivendica il potere creativo della parola, che si rinnova e si arricchisce ogni volta che è pronunciata, rinnovando e arricchendo chi la pronuncia. Il termine è solo l'ombra della parola: se si identifica la parola come termine la si inchioda a un significato specifico e relativo, impedendole di volare nel ciclo della coscienza umana.
Che cosa lega logica e mistica, linguaggio e forma di vita? L'aspetto più affascinante del pensiero di Ludwig Wittgenstein è affrontato in queste pagine dal grande storico della filosofia antica Pierre Hadot. E cioè proprio da chi ebbe il merito di introdurre, alla fine degli anni cinquanta, il pensiero di Wittgenstein in Francia, con una serie di conferenze tenute presso il College Philosophique diretto da Jean Wahl. I quattro saggi scritti tra il 1959 e il 1962 e qui riuniti da Hadot costituiscono un itinerario unico nel suo genere: il filosofo, e non lo storico o lo specialista, si interroga sulla natura dell'indicibilità che il Tractatus logico-philosophicus ha svelato nel cuore del linguaggio, e la reinterpreta alla luce delle nozioni centrali delle Ricerche filosofiche, quelle di "gioco linguistico" e di "forma di vita". Questo libro famoso ci pone con la sua prosa piana e felice di fronte a un'immagine nuova e più vicina di Wittgenstein, l'immagine che ha poi ispirato l'idea centrale dell'opera di Hadot: il linguaggio filosofico, e dunque l'essenza della filosofia, è un'attività, o meglio un "esercizio spirituale".
L'albero o pianta miracolosa è una delle immagini archetipiche che ricorrono più di frequente nel folclore, nei miti e nelle fiabe, e in questo saggio Jung si propone di scandagliarne le molteplici valenze simboliche. Partendo dalla propria esperienza di terapeuta e dallo studio dell'alchimia medievale, il fondatore della psicologia analitica dimostra come dai prodotti spontanei dell'inconscio nell'uomo moderno affiori un archetipo che lascia riconoscere paralleli evidenti con la figura dell'albero in tutte le sue modificazioni storiche. Ai disegni spontanei dei pazienti, presentati nella prima parte del volume, fanno da contrappunto le dotte descrizioni dell'"arbor philosophica" degli alchimisti. Identica è la fisionomia simbolica che ne emerge: fonte di vita e di protezione, luogo della trasformazione e del rinnovamento, l'"albero" è di natura femminile e materna, è l'albero della saggezza e della conoscenza, simbolo della totalità del Sé.
Il libro si presenta nella sua terza edizione ampliata e riveduta dall'autore: fin dalla sua prima apparizione contestava tradizionali dualismi e superficiali opposizioni. Per esempio tra formalismo logico e metafisica speculativa o tra semiotica empirica di tradizione anglosassone e pensiero ermeneutico continentale. Ponendo in modo radicale la questione della verità del segno e del linguaggio e articolandola in autori come Peirce e Nietzsche, Foucault e Derrida, il percorso del libro invita a considerare l'unità profonda del cammino della filosofia del Novecento. Nel contempo suggerisce nuovi orizzonti per l'elaborazione del significato e del senso, nuove figure possibili della verità.
Un progetto comune, il traguardo di un cammino percorso in due, il frutto desiderato di un Tu e un Io che sono diventati un Noi: questo rappresenta un figlio per la maggior parte delle coppie. Ma quando l'infertilità si frappone tra il desiderio e la sua realizzazione, molte ombre calano sui mancati genitori, modificando profondamente la percezione sociale e individuale che uomo e donna hanno di sé. In questo libro Pier Luigi Righetti e Serena Luisi, entrambi psicologi (con la collaborazione di diversi specialisti) analizzano le conseguenze della genitorialità inappagata, le ansie, le aspettative che accompagnano ogni momento del ricorso ai protocolli di procreazione assistita. Un momento di crisi per la coppia, ma anche un'opportunità di crescita e rafforzamento del legame reciproco. Gli aspetti fisiologici e quelli psicologici trovano entrambi spazio in questa trattazione piana ed esaustiva di un tema quanto mai di attualità: psiche e soma, corpo e mente sono entrambi in gioco in un momento di vita così delicato da esigere una cura e un'attenzione che non possono e non devono limitarsi all'aspetto esclusivamente medico.