
Tre uomini (il vecchio Zio Ather, il giovane Sylder che contrabbanda liquori e il ragazzino John), sono i protagonisti di una vicenda che ruota attorno a un cadavere, quello del padre di John, ucciso da Sylder e vegliato da Ather in un orto fra le montagne del Tennessee. Ma in un'agghiacciante commedia degli errori nessuno dei tre ha davvero compreso l'identità dell'altro. Il romanzo, primo dell'autore, ricorre a una lingua volutamente arcaica.
L'autobiografia di Günter Grass si apre nel 1939, con lo scoppio della guerra, nella quale risulta immediatamente coinvolta Danzica, la città natale dello scrittore e il centro nevralgico dell'opera che gli diede la fama, "Il tamburo di latta". E proprio con la stesura e la pubblicazione del grande romanzo negli anni Cinquanta, il libro si chiude. L'attenzione della stampa internazionale si è soprattutto concentrata sulle pagine in cui Grass confessa di essere stato nelle Waffen-SS: presentatosi volontario a quindici anni per servire nei sottomarini, viene, due anni dopo, arruolato in un battaglione delle SS appena costituito. La sua presenza sul fronte orientale dura poche settimane: sopravvive ad alcune operazioni di guerra e finisce prigioniero degli americani. Ciò che fa scandalo non è il suo arruolamento, ma il successivo silenzio e il ruolo di censore intellettuale e morale assunto dall'autore negli ultimi sessant'anni. Al centro della seconda parte dell'autobiografia c'è la Germania del dopoguerra, con Grass che per un anno e mezzo non sa se i famigliari siano ancora vivi. Nonostante tutto, l'autore riesce a descrivere la vita del campo di prigionia americano con pagine esilaranti. Ritrovata la famiglia decide di diventare scultore, ma presto iniziano i contatti con il mondo letterario (Benn e il Gruppo 47) e, come dal nulla, preceduto solo da qualche racconto, pubblica il primo grande romanzo, "Il tamburo di latta".
Le protagoniste di "Le lune di Giove" sono donne a una svolta: una svolta dell'età o del gusto, della rabbia o della passione, una delle piccole o grandi svolte quotidiane che plasmano le vite e i caratteri, e che potrebbero forse passare inavvertite non fosse per l'intelligenza vivida e acuminata che le individua e le svela. Per molte di loro la svolta è amorosa, e in qualche raro caso la reazione rabbiosamente solutiva. La protagonista di "Agganci" replica al commento sarcastico del marito su una zia che solo lei si sente in diritto di disprezzare con il lancio stupefacente di una torta al limone nel suo piatto di pirex. Più spesso il verdetto è meno teatrale ma ugualmente definitivo. La rinuncia di Valerie al gioco della seduzione viene così commentata in "Festa di fine estate": "II suo modo di vivere, la sua persona, ricordano all'interlocutore come l'amore non sia né buono né onesto e come non contribuisca alla felicità della gente in maniera affidabile". Ma non c'è alcuna autocommiserazione nella rinuncia; semmai una buona dose di pragmatismo. E l'imperativo categorico di non voltarsi mai indietro: "Quanto alla vita che è sepolta qui, meglio pensarci su due volte, prima di rimpiangerla".
Storie che formano un'unica storia, quella della parte nascosta e criminale del nostro paese e la storia di chi si è opposto, o è rimasto vittima. Una storia straziante e sanguinosa, ma appassionante e necessaria come ogni grande narrazione. Lucarelli prende la storia d'Italia appena dietro la memoria più recente e la trasforma in un patrimonio di trame, personaggi e vite esemplari, sul filo che unisce la realtà criminale e l'altra, quella alla luce del sole. Riscopriamo così, fin dall'immediato dopoguerra e dai contadini che occupano le terre in Sicilia e si scontrano con Cosa nostra, le imprese di banditi milanesi e sardi, della Camorra dal lontanissimo passato, di mafiosi e uomini della 'Ndrangheta che hanno impresso il loro segno su ogni zolla di terra, ogni metro cubo di cemento. E scopriamo, soprattutto, la storia di chi ha cercato di resistere, perché da lì nasce la speranza del nostro tempo.
C'erano una volta due bambini: un futuro re e un povero bramino. I due crebbero insieme nella scuola di un grande saggio, ma venne il giorno in cui dovettero separarsi tra le lacrime. Il futuro re fece allora una promessa: quando si fossero rincontrati, metà delle sue ricchezze sarebbero state dell'altro. Poi gli anni passarono, e quando gli amici si rincontrarono si scoprirono acerrimi nemici; e la promessa che entrambi ricordavano non venne mantenuta; e il seme della Grande Guerra fu gettato. Comincia così l'epopea del Mahabarata, l'antico poema che tra mito e favola, tra racconto d'amore e trattato filosofico condensa la millenaria cultura indiana in un pantheon unico di eroi: da Krishna, il dio incarnato, a Vyasa, il profeta che ha già visto e scritto ogni cosa; da Dhri, nato dal fuoco per vendicare il vecchio padre, a Karna, eroe invincibile per gli uomini ma condannato dal suo oscuro passato. Un tesoro di storie ancora poco conosciuto che Chitra Divakaruni torna a raccontare per i lettori occidentali. È però nel ritratto della principessa Panchaali, causa prima e testimone privilegiata del conflitto, che la sapienza narrativa dell'autrice tocca il suo apice: scegliendo di affidare il racconto a una donna, alla donna più amata e odiata della mitologia indiana.
Traduzione di
Paola Novarese
La storia di un ragazzino timido e ansioso, irriverente e saggio, costretto ad affrontare il proprio destino portando sulle spalle il peso degli adulti e del loro mondo di fantasmi, commuove, appassiona e diverte in modo irresistibile. Un inno alla fragilità dell'adolescenza, alla sua voce acerba e miracolosamente indulgente.
«Continuai a guardarmi in giro mentre Nonna continuava a parlarmi e fu allora che lo vidi. Fu allora che vidi il Fantasma di mio Padre».
Philip ha tutte le tristezze, le allegrie, le paure di un ragazzino che si affaccia all'adolescenza. E ora il padre sostiene che la sua morte non è stata un incidente, ma c'entra lo zio Alan, che vuole la mamma di Philip e il pub di famiglia. E continua a tormentare Philip con la storia del Club dei Padri Estinti, una sgangherata congrega di spettri che si ritrova davanti al pub...
Improbabile Amleto del XXI secolo, Philip cercherà di portare a termine la vendetta del padre fantasma in un crescendo di avventure, disavventure ed episodi esilaranti fino alla tragedia finale.
Un libro toccante e profondo sulla necessità di trovare un senso a un lutto incomprensibile, sulla difficoltà di diventare grandi, sul ribaltamento dei ruoli nel rapporto padri-figli, sull'ineluttabilità del proprio destino. Narrato dalla voce freschissima di un ragazzino strambo, che obbliga noi adulti a fare i conti con le nostre meschinità e ipocrisie quotidiane.
«È uno di quei libri, come Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, che affascinano lettori grandi e piccoli».
The Daily Mail
«Se avete amato Il sesto senso troverete questo libro una lettura compulsiva. Offre pertinenti riflessioni sulla condizione umana».
Reader's Pick
«È ancora la cupa storia di Amleto, forse piú frastornante perché riguarda un adolescente. Geniale».
Usa Today
Dopo l'omaggio al padano Boiardo, alla vena divagante e comica dell'" Orlando innamorato", Gianni Celati si dedica a un altro autore che sente vicino per ragioni territoriali, di scrittura e forse anche di vita. Il libro riunisce una scelta di racconti di Delfini, in parte editi in parte inediti, e alcune pagine dei suoi Diari. Nei numerosi cappelli introduttivi Gianni Celati inquadra la figura di uno scrittore che sente come una specie di maestro, un eccentrico dall'intelligenza paradossale difficilmente incasellabile nel canone del Novecento letterario. Le storie di Delfini possono apparire a volte dei bozzetti di provincia, ma in realtà sono sempre mine pronte a deflagrare per accessi di autoironico narcisismo, di malinconia o per continue provocazioni intellettuali.
"Questo libro nasce da un sentimento semplice. Dal vuoto che lascia il troppo pieno. Di politica parliamo tutti, in parlamento come nei bar, e viceversa. Ma lo spazio che riempiono le parole, immenso, è direttamente proporzionale al vuoto di senso che lasciano dietro di sé. Tanto che oggi è frequente vivere la politica come un territorio da cui tenersi lontani. Eppure non è sempre stato e non è sempre così. La politica, oltre che il principio della guerra con altri mezzi, è, soprattutto, il fare che ha per interesse la vita in comune. Senza retorica e senza la retorica del cinismo. Con questa idea, abbiamo provato allora ad affidare la politica a chi non ne fa in un modo o nell'altro una professione. Il linguaggio della letteratura, il suo sguardo che disloca, forse, avrebbe potuto mostrarci o farci recuperare un senso nascosto o perduto anche della politica. Forse, avrebbe potuto farci ricominciare a capire. Ne è venuto fuori il libro spietato e fantasioso che ora il lettore, cui spetta il giudizio ultimo, ha fra le mani. Ci sembra di poter dire, però, che di certo non troverà in questi racconti le formule che la politica sembrava dover necessariamente portare con sé. Infine va detto che il titolo del libro proviene da una frase contenuta in un ormai antico discorso di Enrico Berlinguer". (dalla nota dell'editore)
Siamo passati dal nazionalpopolare irrisolto all'irrazionalpopolare attraverso una società dello spettacolo sempre più integrale, liberamente totalitaria, attivamente demagogica. L'avanguardia ha fatto scuola, la cattiva maestra e le sue assistenti sono le nuove muse. C'è informazione più che formazione, situazione e non circostanza, divertimento più che intendimento, de-costruzione e non invenzione. Di un cretino patentato con due apparizioni tv si dice "Guarda che non è uno stupido". Se diventa ospite fisso si dice "Bisogna dire che è bravo". Nell'irrazionalpopolare è bello ciò che piace senza un motivo. Anzi, è proprio la mancanza apparente di un motivo a rendere qualcosa incredibilmente più bella. E bello ciò che piace "agli altri come me" e senza un motivo apparente si prova a capire perché. Contribuendo alla crescita del suo successo. Per capire lo si penetra e se ne viene penetrati. Contagiati. Il bello, come il segnale della telefonia mobile, è tutto intorno a noi. Ed è anche dentro di noi, anche se non è nostro. La gara è con il tempo, a vivere ciò che crediamo bello, a fissarlo su un supporto tecnologico: attimo fermati perché voglio capire se sei bello. Novelli Faust incerti ma risoluti, ci basta una macchina fotografica digitale per catturare e riprodurre all'infinito quello che ci piace. Perché viviamo in una società dove regna un imperativo categorico di natura estetica: compiacersi.