Sorto nel XV secolo sulle rovine dello stato selgiuchide e di Bisanzio, l'impero ottomano si estende rapidamente sino alle frontiere dell'Austria-Ungheria, in Medio Oriente e nell'Africa settentrionale. Questo volume ne ripercorre la storia politica dalle origini all'apogeo, e poi fino alla sua disgregazione, cominciata già nel XVII secolo e consumatasi nel corso dell'Ottocento, con il risveglio dei nazionalismi balcanici e sotto la spinta imperialista delle nuove potenze industriali. Particolare attenzione è dedicata all'economia, alla cultura, alle arti e al ruolo delle donne nella società ottomana.
A quarant'anni dal suo completamento, la Ostpolitik del cancelliere Willy Brandt continua a rappresentare un esempio di accettazione del tragico passato collettivo tedesco e di riconciliazione con il presente di un Paese diviso. Tuttavia, essa fu anche un laboratorio progettuale orientato alla ridefinizione della futura sicurezza europea e alla promozione di un nuovo ordine di pace per il continente. Dato il suo carattere di accentuata autonomia, la Ostpolitik comportò fasi di dissidio e competizione con la distensione promossa dal presidente statunitense Richard Nixon, incentrata sul dialogo esclusivo con l'Unione Sovietica. Tali processi furono fortemente condizionati dal riaffiorare a Washington di timori e sospetti in merito alla rinnovata intraprendenza della politica estera condotta dalle autorità federali tedesche, a un quarto di secolo dalla fine della Seconda guerra mondiale. Grazie alle fonti d'archivio oggi disponibili, il volume ricostruisce le dinamiche attraverso cui i due processi si influenzarono reciprocamente e posero le basi per la riformulazione della Guerra fredda in Europa, conferendole alcuni caratteri che essa avrebbe conservato fino al definitivo smantellamento della "cortina di ferro" e alla riunificazione della Germania.
Un morbo che ha profondamente influenzato il corso della storia: dalla "peste di Giustiniano", fra VI e Vili secolo, alla peste nera fra XIV e XVIII secolo, alla pandemia che solo cento anni fa fece tredici milioni di vittime in Cina e India. Questo libro ci racconta che cos'è la peste sotto il profilo medico, come è stata identificata, come si è manifestata nel tempo, in che modo la vivevano le persone e con quale politica sanitaria fu contrastata, come ne venne elaborata l'immagine nell'arte e nella letteratura.
L'uomo è davvero un "animale politico" come lo definiva Aristotele? Esistono dei vincoli naturali nei modi di governare degli animali sociali? E se ciò fosse vero, che ruolo svolgono nella crisi che stiamo vivendo? A partire da una critica dell'ingegneria politica di Platone, il libro delinea una biopolitica alternativa fondata sui regolatori naturalistici dell'evoluzione: il linguaggio, la riproduzione e le migrazioni. L'autore mostra come qualsiasi organizzazione politica degli animali sociali non dipenda dalla trasmissione ereditaria dei "buoni geni", ma dall'insieme delle relazioni speciali che si instaurano per massimizzare la cooperazione sociale e l'intelligenza ecologica.
Questo libro presenta le nozioni di base della linguistica, illustrandone di pari passo l'utilità nella vita delle persone. La materia è organizzata secondo gli ambiti dell'agire umano nei quali conoscere la linguistica rappresenta un consistente vantaggio. Una esposizione chiara e articolata, che si avvale di numerose esemplificazioni, ne fa uno strumento utile per chi si avvicina allo studio del linguaggio e della comunicazione. Questa nuova edizione è significativamente ampliata, e arricchita da un gran numero di esercizi.
Il volume è dedicato alla ricca stagione che la letteratura italiana ha vissuto dall'inizio del Novecento fino alle soglie del Duemila. Tra sperimentalismi, cultura della tradizione e nuove forme letterarie della civiltà di massa e della globalizzazione, sono delineati i caratteri generali del periodo, dando opportuno risalto agli autori di maggior spicco sino agli anni Sessanta, ma segnalando anche i valori ormai accertati del periodo successivo.
È la crescita economica l'unico obiettivo a cui deve mirare una politica pubblica? O il fine dello sviluppo non è piuttosto quello di mettere in grado le persone di vivere un'esistenza piena? Dunque creare "capacità" che consentano a ognuno di realizzarsi e di vivere la propria vita all'insegna della pari dignità umana. È questo l'"approccio delle capacità", qui illustrato come nuovo paradigma che misura la ricchezza di uno stato sulla base dei bisogni soddisfatti e delle opportunità realmente offerte ai cittadini.
Colpito dalla cattiva sorte - la morte di una persona cara, la perdita del raccolto, un disastro naturale - l'uomo primitivo ascriveva l'evento all'agire di forze maligne scatenate dalla violazione di un tabù, e andava alla ricerca del colpevole. L'uomo moderno, invece, ritiene di essere in grado di stabilire una relazione tra cause materiali ed effetto senza ricorrere alla magia. Ma il processo di attribuzione della colpa - sostiene Douglas - lungi dal costituire una falla nel pensiero dei primitivi, vale a svelarci aspetti relativi al patto sociale su cui si regge una comunità e alle strategie messe in atto per difenderla dai nemici esterni ed interni. Il processo di attribuzione della colpa e le procedure rituali per gestirla sono, in sintesi, una spia delle strutture sociali e politiche di una comunità.
Non sono solo le verità o le idee ad avere una storia, ma anche il criterio stesso di vero e di falso. Attingendo a Platone, Aristotele, Pausania, Paul Veyne esamina i differenti "regimi di verità" in vigore presso quegli stessi greci a cui i moderni fanno risalire la nascita della storia, della ragione, della scienza. Ecco che la verità si configura come l'effetto del variare dei rapporti e degli interessi; nessuna verità è migliore delle altre, è semplicemente incommensurabile con le precedenti e le successive, perché i suoi orizzonti mutano costantemente.
L'Italia è divisa in due: Pil pro capite, condizioni di vita, diritti sociali, libertà civili dicono che il Mezzogiorno rimane arretrato rispetto all'Italia e all'Europa. Perché? Alcune spiegazioni parlano addirittura di una diversità genetica dei meridionali, o risalgono alla monarchia normanna; altre puntano il dito contro il Nord colpevole di aver sfruttato un Sud che prima dell'Unità sarebbe stato florido e avanzato; o chiamano in causa la sfavorevole collocazione geografica. Secondo Felice, sono state le classi dirigenti meridionali a ritardare lo sviluppo, dirottando le risorse verso la rendita più che verso gli usi produttivi. Al Sud occorre dunque modificare la società, spezzando le catene socio-istituzionali che la condannano all'arretratezza.