
La distinzione tra «via antiqua» e «via moderna» propriamente assume significato solo quando, con l’apparire di una teologia ispirata da Ockham, saranno compresenti nelle università della cristianità due modi di insegnare la teologia: quello tradizionale e quello ockhamiano. Il segmento storico che questo volume considera è anteriore a Ockham, ma ci sembra che negli anni che vanno dalla morte di san Tommaso d’Aquino (1274) all’insegnamento di Duns Scoto a Parigi (inizi del Trecento) si assista ad una ricerca di rinnovamento dell’antico metodo teologico. Una ricerca di rinnovamento sia nel giudizio sulla presenza e lo statuto della ratio nel sapere della fede, sia per la visibilità di forme di teologia profilate non solo sulla ragione filosofica, ma sulle esperienze estetica e mistica e le loro capacità di generare intelligenza del mistero in ambito cristiano, ma anche in quello ebraico. Il volume tratta le figure di Sigieri di Brabante, espressione estrema di un naturalismo filosofico ispirato all’aristotelismo di Averroè; di Raimondo Lullo, che si distingue per il tentativo di conquistare alla razionalità della verità cristiana gli infedeli, in particolare i responsabili delle comunità e gli intellettuali; di Enrico di Gand, Egidio Romano, Goffredo di Fontaines e «principalmente il modo in cui il primo dà vita al più ambizioso e per certi versi audace tentativo scolastico di fondare scientificamente la teologia». Della teologia dei tre domenicani Eckhart, Enrico di Berg [Suso] e Giovanni Tauler, è posta in luce la base scolastica del loro edificio spirituale; l’emblematica figura di Pietro di Giovanni Olivi si rivela filo conduttore per una rivalutazione della storia delle idee in ambito francescano prima di Duns Scoto; il «teologo Dante» esprime nella bellezza, secondo l’arte di cui dispone, la verità della Parola, e configura quindi un’estetica del mistero o epifania della sua gloria. Duns Scoto, infine, è il teologo che, mentre sottolinea con forza il fine pratico della scienza teologica, che deve alimentare lo slancio di carità, ne esaspera l’attitudine alle analisi dialettico-speculative. Se in questo volume il fuoco principale è concentrato sulle vicende scolastiche e quindi speculative dell’ultimo quarto del secolo XIII e sulle loro interne ricerche di rinnovamento, in esso si documenta anche il riemergere della «teologia mistica», che risponde a una più immediata esigenza esperienziale del divino. Non solo in ambito cristiano, con la mistica renana, le inquietudini presenti nei teologi francescani del tardo Duecento, le visioni poetiche di Dante, ma anche nell’ambito ebraico si acuisce il bisogno di conoscenza mistica che si esprime nel Chassidismo e nella Qabbalah.
La presente raccolta di scritti sui mistici delle grandi tradizioni nasce dall’omaggio a Raimon Panikkar rivoltogli da amici e studiosi provenienti da diversi paesi del mondo in occasione del convegno tenutosi a Venezia nel maggio 2008 per festeggiare il suo novantesimo anniversario. L’omaggio che si vuole offrire a Panikkar con questa pubblicazione è quello di far rivivere mistici di tradizioni tanto diverse che hanno percorso come lui il cammino verso il Sé, divenendo un faro di luce per coloro che ne sono alla ricerca. La raccolta segue l’ordine cronologico della storia umana, dagli aborigeni australiani ai filosofi moderni, quasi a descrivere la presa di coscienza dell’uomo. È un percorso affascinante che non mancherà di sorprendere e di commuovere il lettore, anche se l’esperienza è sempre ineffabile per chi la vive e quindi incomunicabile, ma se ne può cogliere un riverbero. I linguaggi sono diversi perché diverse sono le tradizioni religiose in cui vengono descritte le esperienze mistiche, ma unico e commovente è l’anelito che da sempre spinge l’uomo alla conoscenza di sé, per scoprire di essere un riflesso del Sé, dello Spirito, di Brahman, di Allah o anche del Vuoto o comunque si voglia chiamare il Mistero della Vita stessa. Il libro è arricchito da un DVD che riprende Panikkar nel contesto del convegno di Venezia, un ricordo per tutti i partecipanti, ma un dono anche per coloro che non hanno potuto essere presenti.
Come noto, Jacques Derrida dedicò gran parte della propria vita all’insegnamento: prima alla Sorbona, poi, per una ventina d’anni, presso l’École normale supérieure di rue d’Ulm e infine, dal 1984 alla morte, presso l’École des hautes études en sciences sociales, oltre che in molte università nel mondo (regolarmente negli Stati Uniti). Presto aperto al pubblico, il suo seminario richiamò un uditorio vasto e plurinazionale. Nonostante molti dei suoi libri prendano spunto dal lavoro che conduceva, questo rimane una parte originale e inedita della sua opera. Con il presente volume inauguriamo quindi una vasta impresa: la pubblicazione di questi seminari. A partire dal 1991, presso l’EHESS, con il titolo generale di Questions de responsabilité, affrontò le questioni del segreto, della testimonianza, dell’ostilità e dell’ospitalità, dello spergiuro e del perdono, della pena di morte. Infine, dal 2001 al 2003, tenne quella che doveva essere non la conclusione, ma l’ultima tappa di questo seminario, che prese il titolo di La bête et le souverain. Ne pubblichiamo qui la prima parte: l’anno 2001-2002. In questo seminario Jacques Derrida affronta, per dirla con parole sue, una ricerca sulla «sovranità», «la storia politica e onto-teologica del suo concetto e delle sue figure», ricerca presente da molto tempo in molti dei suoi libri, in particolare in Spectres de Marx (1993), Politiques de l’amitié (1994) e Voyous (2003). Questa ricerca sulla sovranità incrocia un altro grande motivo della sua riflessione: il trattamento, sia teorico che pratico, dell’animale, di ciò che, in nome di un «proprio dell’uomo» sempre più problematico, viene chiamato abusivamente, al singolare generale, «animale», sin dall’alba della filosofia e ancora ai giorni nostri. Partendo dalla celebre favola di La Fontaine, Il lupo e l’agnello, nella quale confluisce una lunga tradizione di pensiero sui rapporti tra forza e diritto, tra forza e giustizia, a monte e a valle, in una minuziosa analisi dei testi di Machiavelli, Hobbes, Rousseau, Schmitt, Lacan, Deleuze, Valéry o Celan, Derida tenta «una sorta di tassonomia delle figure animali del politico» e della sovranità, esplorando così le logiche che ora determinano la sottomissione della bestia (e del vivente) alla sovranità politica, ora svelano una sconcertante analogia tra la bestia e il sovrano, così come tra il sovrano e Dio, che condividono una posizione in qualche modo esterna rispetto alla "legge" e al "diritto".
Il volume raccoglie le due più autorevoli biografie medievali di Anselmo d’Aosta, presentate in edizione scientifica e con testo latino a fronte. La Vita Anselmi redatta da Eadmero, a parte lo stesso epistolario, è la fonte più ampia e sicura per la conoscenza della biografia anselmiana. Eadmero si presenta come «compagno di esilio dell’arcivescovo, nostro signore e padre», professandosi indegno di tale esilio e di tale compagnia. Anselmo a sua volta lo chiamerà «figlio carissimo, bastone della mia vecchiaia», «al quale - egli afferma - i miei amici sono debitori tanto quanto mi amano». L’autore ha potuto stendere il suo racconto o per aver ascoltato le effusive rievocazioni di Anselmo stesso e le testimonianze di persone affidabili, o per aver fatto constatazioni di persona nell’assidua comunione di vita. Vi troviamo il monaco amante della riflessione lucida e sottile, l’educatore illuminato e profondamente amato, il vescovo retto e tribolato, tenace difensore della «libertà della Chiesa», il pastore premuroso e umile del popolo di Dio, talora accompagnato da segni miracolosi straordinari. Autore della seconda Vita di sant’Anselmo è il colto e raffinato Giovanni di Salisbury - specialmente celebre per il Metalogicon -, il quale la redige su invito di Thomas Becket, che mirava a ottenere da papa Alessandro III la canonizzazione del suo predecessore nella sede di Canterbury. La sua fonte sono i «grossi volumi» - come egli li chiama - della Vita redatta da Eadmero: egli ne ha fatto la sintesi, al fine di offrire «un po’ di conforto a dei pellegrini». Non mancano tuttavia nella narrazione di Giovanni di Salisbury dati o parole anselmiani nuovi, che egli poté raccogliere a Canterbury e soprattutto, pur nella identità fondamentale della figura e delle sue vicissitudini, si trova elaborato e proposto un profilo di Anselmo che porta con chiarezza i segni esegetici del suo autore. Anselmo - secondo Giovanni di Salisbury - si pone nella linea della figliolanza degli apostoli e dei profeti, quale successore della loro fede ed erede della loro virtù e delle loro opere: egli è «un uomo apostolico», un vero seguace degli apostoli». Giovanni di Salisbury scorge nella vita di Anselmo, come in filigrana, lo spirito e le azioni degli apostoli, la loro santità e il loro stile. In aggiunta alle due Vite, il volume contiene una serie di altri testi Vita brevior, Epitaffi, Miracoli... relativi alla figura di Anselmo.
Lettura dei saggi di Giacomo Biffi In dialogo sul cristocentrismo è la raccolta delle varie introduzioni di Inos Biffi ai saggi teologici di Giacomo Biffi che, nel volgersi di non pochi anni e per diverse vie, hanno percorso il tema del cristocentrismo, sul quale fin dalle prime ricerche si erano intrattenuti il suo gusto e la sua compiacenza. Una riflessione ampia e puntuale, a introduzione della raccolta, precisa il senso di questa originaria progettazione di tutta la realtà nel Cristo crocifisso e risuscitato, e ne illustra le risorse per un rinnovamento della teologia e della vita medesima della Chiesa, in questi tempi di diffuso smarrimento della fede cattolica. Inos Biffi come nessun altro aveva le carte in regola per cimentarsi fruttuosamente nella rilettura dell’itinerario teologico di Giacomo Biffi; è questi stesso ad affermarlo: «Il mio itinerario teologico si è svolto, per così dire, passo passo sotto i suoi occhi, favorito e lievitato dalle molte ore di una periodica conversazione che reciprocamente ci arricchiva e ci illuminava. Sicché ambedue trovavamo naturale che il più delle volte le mie pubblicazioni fossero supportate e impreziosite da una sua puntuale, oggettiva, benevola introduzione»; «È bastato radunare questi interventi, aggiungendovi un nuovo prologo ampiamente orientativo, perché fosse felicemente raggiunto lo scopo di accreditare con l’autorevolezza incontestabile del teologo acuto, invidiabilmente informato e teoreticamente robusto la mia modesta ma appassionata proposta cristocentrica».
Si tratta di una biografia breve e chiara, di stile accuratissimo, opera di un “umanista” del Medioevo considerato «forse il miglior stilista del suo tempo». Giovanni di Salisbury infatti, tra i più acuti testimoni della vita culturale del Medioevo, ci dà con questa opera un capolavoro letterario per il genere biografico. La narrazione attinge largamente all’ampia Vita di sant’Anselmo del monaco Eadmero, compagno di esilio e di peripezie dell’arcivescovo di Canterbury. Vi si trovano delineati, con molta finezza e passione, il profilo e l’opera di una delle figure tra le più vive sia nella tradizione della santità e della dottrina della Chiesa, sia nella storia del pensiero filosofico, anche al di fuori dei confini della fede. Se il pensiero sottile e audace di Anselmo destava interesse – e tuttora lo desta – presso gli uomini di studio e di scuola, la sua bontà, i suoi gesti pieni di grazia, la sua parola accessibile e suadente lo rendevano popolare e attraevano facilmente la gente che lo incontrava nei suoi numerosi e tribolati viaggi. L’antico monaco e arcivescovo non ha perso nulla di questa sua attrattiva: basta conoscerlo; ed è quanto potrà avvenire con la lettura di questa Vita, dove, in una narrazione limpida e lineare, Anselmo è soprattutto presentato come un «uomo apostolico», «un vero seguace degli apostoli», nella cui condotta, come in filigrana, si scorgono lo spirito e le azioni degli apostoli, la loro santità, la loro fede e la loro virtù. Diffondendosi, questa Vita susciterà ammirazione e amicizia per un uomo dalla coscienza retta e cristallina di fronte alle ragioni della verità e della libertà, e insieme dalla sorprendente e affascinante amabilità.
Rosvita, l’umile suora di Gandersheim – come ella stessa amava definirsi – appare come una figura straordinaria nella letteratura altomedievale, rara avis nei cieli di Sassonia, per citare le parole del monaco benedettino di Clus, Enrico Bodo. Voce altisonante nella Germania del X secolo, grazie alla creazione di un teatro cristiano sul modello di Terenzio e alla composizione di poemetti edificanti e panegirici imperiali, Rosvita - le cui opere furono scoperte da Conrad Celtis nel 1493 - venne entusiasticamente celebrata dagli umanisti tedeschi come l’undicesima Musa, la più grande poetessa dopo Saffo. Autrice feconda di migliaia di versi in latino, sperimentatrice di più generi letterari, taluni all’epoca inconsueti come le commedie, ella illumina il secolo con le sue opere, scritte nel breve arco di tempo tra il 962 e il 968, spaziando dall’agiografia al teatro, dall’inno religioso ai carmina epico- storici. La sua attività fu strettamente legata alla corte ottoniana, tramite le sollecitazioni della badessa Gerberga, nipote di Ottone I, e il probabile incoraggiamento dell’arcivescovo Brunone di Colonia, fratello dell’imperatore. La sua figura si inscrive in quel rinnovamento culturale patrocinato dalla Casa di Sassonia e favorito anche dalle figure femminili che affiancarono gli imperatori, nel promuovere lo studio delle lettere e il culto della memoria. Il volume, attraverso la figura di Rosvita, offre anche uno spaccato dell’epoca ottoniana, animata da una intensa vita culturale di corte, con fecondi contatti con gli ambienti monastici.
In questo volume sono raccolti i discorsi sulla Scienza che i Papi hanno tenuto nel corso degli ultimi cento anni; si tratta degli interventi che alla Pontificia Accademia delle Scienze i Papi Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno rivolto a fisici, astrofisici, biologi, neurologi, medici, matematici e altri studiosi, lì convenuti in rappresentanza delle principali aree scientifiche e geografiche del mondo. In aggiunta, sono presenti i discorsi che, dal 1994, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno rivolto annualmente alla nuova Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Le Pontificie Accademie delle Scienze e delle Scienze Sociali sono luoghi di dialogo internazionale di altissimo profilo che raccolgono scienziati, economisti, sociologi, giuristi senza alcuna discriminazione né religiosa né razziale. I discorsi dei Papi qui riuniti ci danno il quadro dell’attenzione che i Pontefici hanno riservato alle scienze e alle scienze sociali nel secolo scorso e all’inizio del nuovo millennio. I discorsi dei Papi hanno un interesse sia per il lettore comune, sia per gli specialisti e forniscono risposte ai nuovi bisogni e alle nuove sfide del mondo contemporaneo. Naturalmente, con il passare dei decenni, sono cambiate le forme linguistiche impiegate, mentre una diversa enfasi è stata posta sui vari problemi e sulle molteplici questioni. Tuttavia, ciò che resta immutato è l’interesse riservato al lavoro scientifico e alle dimensioni teologiche, filosofiche, etiche, politiche, culturali e, in definitiva, antropologiche che tale attività implica. Spesso i Papi hanno anche precorso i tempi, cogliendo l’importanza di nuovi ambiti del sapere, oppure percependone i possibili pericoli e individuandone i limiti, o anche proponendo iniziative utili al confronto e alla ricerca
Da qualche decennio l’arte romanica è alla moda. La si osserva archeologicamente, la si studia con moderni metodi filologici, la si visita persino nei viaggi organizzati. Piace la sua austerità imponente, la sua essenzialità percepita come segno di una forte religiosità, la sua facies nuda, spoglia, sobria. Ma la basilica di Ripoll o il Fondaco dei Turchi a Venezia sono veramente edifici romanici? Le cupole della cattedrale di Périgueux o la facciata di quella di Le Puy sono davvero medievali? Le statue lignee raffiguranti la Madonna e Cristo con il volto nero erano proprio così brutte e scarnificate? Ma l’arte romanica che oggi abbiamo davanti ai nostri occhi corrisponde davvero a quella medievale? In questo libro si mette in discussione il concetto stesso di romanico e di arte romanica, ne si indagano le origini, e soprattutto si contestualizza la sua genesi storiografica nel particolare contesto culturale della prima metà dell’Ottocento, quando in tutta Europa per la prima volta si scoprì, come d’improvviso, la produzione artistica anteriore all’avvento di quella maniera di costruire che Vasari definì come tedesca o portata dai Goti. In quei decenni segnati dalle campagne napoleoniche e dal Congresso di Vienna, tra Neoclassicismo e Romanticismo, i paesi dell’Europa decisero di riappropriarsi del proprio passato nazionale, catalogando, restaurando, studiando e anche ricostruendo l’arte costitutiva di ciascuna nazione: il romanico. Il libro analizza l’elaborazione storiografica e nazionalistica dell’idea di romanico, e ne decostruisce le invenzioni e gli errori, ponendo l’accento su alcune questioni controverse, come la popolarità degli artisti, il ruolo della donna nell’universo artistico misogino dell’epoca o la ricca policromia degli edifici. Ma nello stesso tempo svela la vera personalità del Medioevo romanico, dalla Francia all’Italia, dall’Inghilterra alla Catalogna, mettendo a confronto idee e modelli architettonici e figurativi, in un dialogo che dové essere in quei secoli molto più vivace e vitale di quel che oggi abitualmente pensiamo.
L'insegnamento dell'altra faccia del pianeta
«A lungo la storia dell’ambientalismo ha coinciso essenzialmente con la storia di come le élites bianche dei paesi ricchi hanno scoperto la bellezza e la fragilità della natura, e di come hanno cercato di proteggerla. Dietro questa versione dell’ambientalismo è possibile intravedere un’idea della natura e delle sue relazioni con la società: l’aspirazione a un ambiente sano e - perché no? - bello sarebbe, dunque, un lusso da ricchi e colti, fuori dall’orizzonte e dai bisogni dei poveri. Ma è un altro l’ambientalismo che qui interessa e che costituisce l’oggetto centrale dello studio di Alier: non l’ambientalismo dei ricchi, dei parchi nazionali o dello sfruttamento razionale delle risorse naturali, ma quello dei poveri, che mischia linguaggi e chiede giustizia sociale e ambientale più che una generica protezione della natura o un suo più efficiente utilizzo. Ovviamente questo approccio implica non solo una revisione delle culture ambientaliste, ma anche un ripensamento dell’idea stessa di natura; nel libro di Martínez Alier essa non è tanto un luogo di contemplazione o lo spazio della ricreazione, ma piuttosto la base materiale di sostentamento delle comunità che, difendendo quella natura, difendono se stesse e la loro sopravvivenza. Il rapporto tra riflessione teorica e narrazione è uno dei segreti di questo libro. Alier racconta storie di conflitti, dando al suo discorso sull’ecologismo popolare i volti, i nomi, spesso le parole dei protagonisti. Il libro è anche questo: una incredibile occasione per ascoltare storie che pochi ricordano o conoscono, storie di violenza e di resistenza che mostrano chiaramente come lo sfruttamento della natura sia spesso anche sfruttamento dei poveri e la liberazione dell’una non può avvenire senza giustizia per gli altri.» (dalla Prefazione di Marco Armiero)