Trent'anni fa un giovane giornalista del "Corriere della Sera" viene assegnato alla sala stampa del palazzo di giustizia di Milano. Siamo nel 1992 e la grande Storia ha deciso di mettersi improvvisamente in movimento e di farlo proprio a partire da qui. Nasce Mani pulite e a raccontarla è una banda di giornalisti ragazzini, i 'mozzi' delle diverse redazioni lasciati a seguire quelle che in un primo momento erano apparse come indagini senza futuro. Come un romanzo di formazione, li vediamo confrontarsi con i protagonisti di quei giorni, alle prese con la ruvida genialità di Di Pietro e le enigmatiche strategie di Borrelli, gli iperbolici paradossi di Davigo e l'amara saggezza di Colombo. Attorno, imprenditori e politici, avvocati e spioni, faccendieri e boiardi compongono una polifonia che non fa sconti su errori e orrori, dagli eccessi negli arresti alla catena di suicidi. Un'Italia dove si staglia la figura drammatica di Craxi e già emerge quella affabulatrice di Berlusconi; l'Italia scossa dagli attentati a Falcone e Borsellino e dalle stragi del '93; quella della gogna per la Prima Repubblica in diretta tv al processo Cusani. È un racconto che abbraccia la vita di redazione di un grande giornale e le avventure sulle tracce dei latitanti di Santo Domingo. Trent'anni dopo, sarà solo la delusione di un gioco a somma zero.
Questo libro è stato scritto mentre imperversava la disumana 'chiusura dei porti' imposta dal governo italiano allora in carica a danno di profughi in fuga dall'inferno libico. Quella pagina vergognosa della nostra storia recente, che ha macchiato l'onore del nostro paese, è stata anche rivelatrice di un male antico e sempre latente: il lauto consenso che premia la demagogia xenofoba. Drammatica conferma, nell'ottantesimo anniversario delle leggi razziali italiane, della vitalità, anche da noi, di quello che Umberto Eco definì efficacemente il «fascismo eterno».
Mistero e sospetto: questi i due sostantivi che normalmente associamo alla Massoneria. La segretezza, i rituali stravaganti e occulti, il coinvolgimento in trame e complotti, non hanno fatto che rafforzare questo giudizio o pregiudizio, specialmente nel nostro paese. Eppure, fratelli massoni furono uomini come Winston Churchill e Walt Disney, Wolfgang Amadeus Mozart e Benjamin Franklin, Rudyard Kipling e 'Buffalo Bill' Cody. Fondata a Londra nel 1717, la Massoneria mostrò immediatamente la propria influenza pervasiva, tanto da diffondersi in tutto il mondo in solo due decenni. Così, se con George Washington divenne il credo della nuova nazione americana, furono le reti massoniche a tenere insieme l'Impero britannico. Se con Napoleone divenne uno strumento dell'autoritarismo, con la Restaurazione funzionò da copertura per le cospirazioni rivoluzionarie del Risorgimento. Ai rituali e alle formule di affiliazione della Massoneria si ispirarono, fino a copiarli, tanto i mormoni quanto la mafia siciliana. La Chiesa cattolica ne ha temuto l'influenza al punto di scomunicare gli aderenti già dal 1738 e la temettero anche Hitler, Franco e Mussolini che considerarono le logge uno strumento di diffusione del pacifismo e del giudaismo internazionale. In questo libro, John Dickie ricostruisce con una prosa avvincente il lato oscuro della modernità.
Le terre dell'Adriatico orientale sono state uno dei laboratori della violenza politica del ?900: scontri di piazza, incendi, ribellioni militari come quella di D'Annunzio, squadrismo, conati rivoluzionari, stato di polizia, persecuzione delle minoranze, terrorismo, condanne del tribunale speciale fascista, pogrom antiebraici, lotta partigiana, guerra ai civili, stragi, deportazioni, fabbriche della morte come la Risiera di San Sabba, foibe, sradicamento di intere comunità nazionali. Queste esplosioni di violenza sono state spesso studiate con un'ottica parziale, e quasi sempre all'interno di una storia nazionale ben definita - prevalentemente quella italiana o quella jugoslava (slovena e croata) -, scelta questa che non può che originare incomprensioni e deformazioni interpretative. Infatti, è solo applicando contemporaneamente punti di vista diversi che si può sperare di comprendere le dinamiche di un territorio plurale come quello dell'Adriatico orientale, che nel corso del ?900 oscillò fra diverse appartenenze statuali. Inoltre, le versioni offerte dalle singole storiografie nazionali non fanno che rafforzare le memorie già a suo tempo divise e rimaste tali generazione dopo generazione. Sono maturi i tempi per tentare di ricostruire una panoramica complessiva delle logiche della violenza che hanno avvelenato - non solo al confine orientale - l'intero Novecento.
A partire dalla fine del XV secolo l'Occidente europeo cambia radicalmente il modo di combattere. Le armi da fuoco diventano finalmente efficienti. Si passa rapidamente dall'archibugio al moschetto, al fucile a baionetta. Le fortificazioni si trasformano: i bastioni a punta di freccia sostituiscono le mura alte e merlate. Nel frattempo si rinnova l'organizzazione delle forze armate. La dimensione degli eserciti cresce enormemente e muta anche la loro composizione: la fanteria diventa la regina delle armi e la cavalleria la specialità dei giovani gentiluomini. Si tratta di ordinamenti sempre più professionalizzati. Dai mercenari del Seicento, accompagnati in guerra anche da donne e bambini, ai reparti ben allineati e disciplinati del Settecento. Nella guerra sul mare dominano le acque i grandi vascelli, che montano a bordo fino a 120 cannoni. Ovunque servono equipaggi addestrati, materiali, pezzi da fuoco e munizioni: cioè denaro, denaro, denaro. Così la guerra diventa un costosissimo affare di Stato. Insomma, finita l'era 'romantica' dei combattimenti faccia a faccia con la spada, i nuovi protagonisti sono un nuovo genere di soldati, addestrati e specializzati. In questo libro li vedremo in azione e ne riascolteremo le esperienze e le emozioni.
Gli uomini sono tutti 'rei', ovvero malvagi e dediti alla sopraffazione e al proprio interesse? È sempre e comunque indispensabile pensare al diritto come strumento di coercizione e di pena per reprimere queste tendenze innate? Oppure il diritto mette necessariamente in gioco anche le nostre risorse relazionali: la solidarietà e la cooperazione, in altre parole la fiducia reciproca? Riscoprire lo spazio della fiducia nel diritto non è solo un modo per mettere in primo piano la responsabilità di chi agisce e di chi fa cultura giuridica, ma è anche l'unica via per riportare al centro del nostro discorso giuridico le qualità migliori di cui siamo in possesso.
Siamo sempre più consapevoli che ogni paesaggio armonioso, vivibile, è una forma di equilibrio tra natura e cultura, tra ciò che è dato e ciò che è opera dell'uomo, e che quindi il paesaggio che troviamo bello può diventare un modello per quel giusto rapporto tra naturale e artificiale che avvertiamo come ogni giorno più necessario, perché messo continuamente in pericolo. Come lavorare al mantenimento di questo difficile equilibrio? Innanzi tutto riflettendo sulla nozione di paesaggio, sulle categorie con le quali lo pensiamo e lo interpretiamo. In secondo luogo, rivisitando alcuni snodi storici fondamentali attraverso i quali si è formata l'idea moderna del paesaggio. Infine, mostrando in atto la compresenza di natura e storia attraverso la descrizione di alcuni luoghi paesaggistici esemplari, ad esempio nelle Puglie e nel Lazio. Perché ogni bel paesaggio italiano è un contesto stratificato, nel quale si legge il risultato di un rapporto non sempre facile, ma talvolta straordinariamente felice, dell'interazione dell'uomo con la natura in cui si è trovato a vivere.
Viviamo in una situazione paradossale. La scienza dei nostri giorni nasce - sotto vari profili - come bene pubblico, ma finisce con l'essere privatizzata. Questo meccanismo di privatizzazione della conoscenza produce diseguaglianza sociale e contribuisce ad una distribuzione disomogenea dei redditi e dei patrimoni che sta minando le fondamenta degli stati e la convivenza sociale. Salute umana, cambiamento climatico, governo dei dati: sono queste le sfide cruciali per la prossima generazione. Non è possibile affrontarle senza smettere di trasformare la scienza in un bene privato. Occorre invece creare infrastrutture pubbliche ad alta densità di conoscenza, sintesi ideale del modello dell'infrastruttura di ricerca e di un nuovo tipo di impresa pubblica.
"Ascoltare Verdi" ci accompagna sapientemente nella conoscenza delle opere del grande compositore: dal Nabucco al Falstaff, ogni capitolo del libro è dedicato a una fondamentale composizione di Giuseppe Verdi, della quale si raccontano la trama, la genesi e il contesto, ma soprattutto si approfondisce la sostanza musicale e drammatica. Ampio spazio è infatti riservato al modo in cui il compositore usa le voci e gli strumenti dell'orchestra, alla sua personale, ricchissima concezione drammatica, all'originale ripensamento delle forme e delle convenzioni dell'opera ottocentesca. Il lettore, risalendo cronologicamente l'evoluzione del pensiero drammatico di Verdi, lo sviluppo della sua poetica, la costante volontà di guardare il mondo attraverso le note, scopre la sua visione allo stesso tempo artistica, morale e politica - il modo in cui, secondo molti studiosi, Verdi ha contribuito a fare l'Italia e soprattutto a fare gli italiani.
Una storia delle principali concezioni filosofiche sull'anima, la mente, l'io e lo spirito dall'antichità ai giorni nostri attenta a sottolineare le linee di continuità con le concezioni dell'anima e dello spirito proposte dai filosofi classici e a evidenziare il modo in cui le scienze cognitive e le neuroscienze hanno cambiato l'immagine che l'essere umano ha di se stesso. Il libro offre anche una breve rassegna sistematica delle soluzioni filosofiche al problema mente-corpo ed è aggiornato ai nuovi indirizzi di ricerca sulla mente che vanno affacciandosi nel XXI secolo.