Come un grande drammaturgo, Plutarco rievoca, sullo sfondo delle "Vite di Nicia e di Crasso", i personaggi principali che in quei tempi vissero ad Atene e a Roma: Pericle, Cleone e Alcibiade, Silla, Pompeo e Cesare. Davanti ad essi, Nicia e Crasso sono personaggi minori: entrambi prudenti, amabili e moderati. Nicia tende a nascondersi, mentre alla fine Crasso viene travolto dall'avidità e dall'euforia. Ma nessuno dei due possiede l'energia, la determinazione, la forza che permettono a un uomo di interpretare il proprio tempo e di simboleggiare un periodo storico.
In queste due Vite, Plutarco rivela il dono capitale del drammaturgo: l'amore per il disastro. La follia collettiva che sconvolge Atene e la conduce alla guerra del Peloponneso, il massacro in Sicilia della spedizione guidata da Nicia, il crollo della civiltà ateniese. I segni infausti che accompagnano la spedizione romana in Oriente, il fascino e le insidie del mondo iranico, la sinistra e scurrile mascherata alla corte dei Parti, dove un doppio in vesti femminili impersona Crasso, compaiono le cortigiane, vengono recitate le "Baccanti" di Euripide, mentre la testa del generale romano viene gettata nella sala del banchetto...
Leggendo le due Vite qualcuno si chiederà cosa Tucidide e Shakespeare avrebbero pensato di pagine così straordinarie, capaci di rivaleggiare con la grandiosa obiettività dell'uno e la fantasia visionaria dell'altro.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Nicia
La vita di Crasso
Confronto fra Nicia e Grasso
Scolî
COMMENTO
La vita di Nicia
La vita di Crasso
Confronto fra Nicia e Crasso
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
1. La "Vita di Nicia". In questa biografia è a prima vista percepibile un tratto che la distingue, insieme con poche altre, nel corpus cui appartiene: la ricostruzione della personalità del protagonista non ha le evidenti contraddizioni che, per esempio, si riscontrano nella "Vita di Cìmone". Al primo capitolo, dedicato alla rassegna dei principi metodologici, segue la descrizione del carattere del protagonista, che fluisce ininterrottamente, sotto forma di notazioni quasi mai marginali, anche in quella parte della Vita dedicata al racconto delle sue gesta. In via preliminare va detto che il ritratto di Nicia risulta nient'affatto elogiativo, perché il suo comportamento appare sempre permeato di viltà, di cautela che sconfina nel timore e di superstizione. Plutarco sostiene che Nicia era per natura privo di coraggio e pessimista; in guerra la sua pusillanimità veniva dissimulata dalla fortuna che gli fu propizia in quasi tutte le campagne militari. Nel 425, con un comportamento simile a quello che Dante avrebbe attribuito a Celestino V, Nicia "fece per viltade il gran rifiuto", cedendo all'avversario Cleone il comando dell'impresa di Pilo. E ciò - commenta Plutarco - apparve una vergognosa manifestazione di debolezza, più grave ancora che gettare lo scudo o la clamide in battaglia.
Nicia era costantemente in preda alla paura: per timore dei delatori non pranzava con alcuno dei concittadini, non osava conversare con nessuno, non trascorreva mai le giornate in compagnia di altri; se non aveva affari pubblici da sbrigare, era assai difficile avvicinarlo, perché se ne stava chiuso e rintanato in casa. Non attribuiva mai i suoi successi a prudenza, ad abilità o a virtù personali, bensì alla sorte, e si trincerava dietro l'intervento divino per timore dell'invidia suscitata inevitabilmente dalla fama. Nel 415, non essendo riuscito a dissuadere gli Ateniesi dall'intraprendere la spedizione in Sicilia e posto contro il suo volere a capo dell'armata, Nicia mostrò un'esitazione e un timore sconfinati. Come un fanciullo - nota Plutarco - si volgeva a guardare indietro dall'alto della nave, rimuginando sull'insuccesso dei discorsi da lui pronunziati per evitare la guerra e finendo così con lo scoraggiare i colleghi e spegnere l'ardore dell'impresa. Non c'è da stupirsi che il suo modo di agire offrisse il destro al nemico Ermocrate di esclamare che Nicia era uno stratego veramente ridicolo, in quanto rivolgeva tutti gli sforzi a evitare di combattere, quasi non fosse venuto in Sicilia per questo scopo. Infatti, a furia di calcoli, esitazioni e cautele, finiva con lo sciupare sempre le occasioni propizie. Era facile allo sconforto: battuto dai Siracusani guidati da Gilippo, si lasciò prendere dallo scoraggiamento. Scrisse agli Ateniesi d'inviare in Sicilia un'altra armata oppure di ritirare quella che già c'era; in ogni modo li pregava di esonerarlo dal comando a causa delle cattive condizioni di salute: soffriva terribilmente di "nefrite".
Sulle orme di Tucidide, Plutarco iscrive Nicia nella schiera di quanti temono fortemente gli dèi e sono perciò troppo inclini alle pratiche divinatorie. Quando il 27 agosto 413 si verificò un'eclissi totale di luna proprio mentre gli Ateniesi erano in procinto di lasciare la Sicilia, egli, per ignoranza o superstizione atterrito da quel fenomeno, convinse i suoi uomini a restare per la durata di un'altra lunazione. Così, trascorrendo le giornate a fare sacrifici e a consultare oracoli, rinunziò a una fuga ancora possibile, condannando sé stesso e l'esercito tutto a una sicura sconfitta. E, con una punta di cinismo, Plutarco sostiene altrove che Nicia avrebbe fatto meglio a togliersi la vita, anziché lasciarsi accerchiare per timore dell'ombra prodotta da un'eclissi lunare.
Dotato di straordinari beni di fortuna, non era alieno dal ricorrere alla corruzione: nel 421, conclusa la pace fra Atene e Sparta, con una somma di denaro comprò segretamente il risultato del sorteggio, sicché toccò ai Lacedemoni restituire per primi territori, città conquistate e prigionieri. Ciò che maggiormente viene sottolineato nel corso della Vita è la debolezza di carattere di Nicia: per non combattere contro gli Spartani, consegnò all'inesperienza di Cleone navi, soldati, armi e un comando militare che richiedeva il massimo della competenza, compromettendo non solo il proprio prestigio, ma anche la sicurezza della patria. Infine, nonostante le commoventi parole poste sulla sua bocca, Plutarco sottolinea che, a differenza di Crasso, Nicia si diede in balia dei nemici con il miraggio di una possibile salvezza, procurandosi invece la più ingloriosa delle morti. E quasi a commento, Pausania riferisce che lo stratego ateniese non ebbe il nome inciso sulla stele dei caduti per essersi arreso. Come già Aristofane, Plutarco biasima l'abituale tendenza di Nicia a temporeggiare; ne disapprova la viltà e la debolezza; ne riprova la politica e denunzia il fatto che egli, privo delle qualità di Pericle e della ciarlataneria con cui Cleone compiaceva e insieme controllava il demo, era costretto a cattivarselo per mezzo di spettacoli teatrali, ginnici e altre munificenze.
Qua e là Plutarco è indotto a riconoscere che a Nicia non mancavano doti e qualità, ma lo fa sempre con riserva. Se ne apprezza la moderazione, l'umanità, l'esperienza e l'abilità; se lo presenta come un individuo onesto e saggio che non si lasciò esaltare da speranze nè insuperbire dall'importanza del comando; se ne loda l'astuzia dei piani militari e l'abilità come stratego; se ne ammira l'energia, l'efficacia e la rapidità di movimenti;
Il secondo volume delle "Confessioni" comprende i libri quarto, quinto e sesto, commentati da Luigi E Pizzolato, Patrice Cambronne e Paolo Siniscalco. Composti a onde che si avanzano e si ritirano, secondo un fitto intreccio di motivi sinfonici, questi libri sono da un lato ritmati dal passo inesorabile e vano del tempo ("le cose che vanno dove vanno sempre, per non essere, per non essere più") e, dall'altro, dal passo di Dio che, "per vie nascoste e meravigliose", si insinua nel cuore di Agostino e di ogni uomo. Quando il libro quarto inizia, Agostino possiede una religione e una cultura: crede nel manicheismo, nell'astrologia, nella retorica; e vive come vivono tutti, accanto a una donna e a un figlio. Ma tutto precipita. Presto non crede più nella "massa tetra e informe" del Male, opposta alla quiete imperturbabile di Dio; nell'astrologia ne alle parole di Cicerone e di Aristotele. Intanto ha conosciuto lo slancio entusiastico dell'amicizia, la coscienza di essere due in uno, la morte dell'amico, il dolore straziante della separazione definitiva, il gusto e l'amore delle lacrime. "Tutto mi faceva orrore, persino la luce, e qualsiasi cosa non fosse lui m'era insostenibile e fastidiosa, eccetto il gemito e il pianto. " E su questo terribile strazio grava, nel testo delle "Confessioni", il senso della vanità di tutte le passioni terrene. Alla fine del libro sesto, Agostino ha lasciato l'Africa ed è a Milano. Ascolta e intravede Ambrogio e la sua lettura silenziosa. Ormai è sulla soglia. Attraverso Ambrogio, incomincia a capire le Scritture e la sostanza spirituale. Il Dio "altissimo e vicinissimo, segretissimo e presentissimo" sta per rivelarglisi.
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglorum
Libro IV
Libro V
Libro VI
COMMENTO
Abbreviazioni e sigle
Libro IV
Libro V
Libro VI
Se alla fine del ventesimo secolo esiste un pensiero religioso-filosofico vivo, è certamente quello di tradizione gnostica. Da Kafka a Jung, da Heidegger alla Weil, da Pessoa alla Cvetaeva a Cioran, la letteratura e la psicologia moderne sono state profondamente plasmate dai grandi temi gnostici. La formicolante moltitudine degli dèi; l'idea della luce divina caduta nella materia, da cui cerca di liberarsi; il mondo materiale come carcere; l'ineffabilità come legge segreta dello spirito; l'esilio di ogni uomo; il mito dell'uomo-donna; la rappresentazione mitologica del pensiero e dei sentimenti - non c'è quasi nessun tema gnostico che non risvegli un'eco profonda in un cuore di oggi. Come dice il "Vangelo di Filippo": "La verità non è venuta nuda nel mondo, ma è venuta in simboli ed immagini".
La scoperta dei testi gnostici copti di Nag Hammadi ha fatto dimenticare che i frammenti gnostici conservati, in lingua greca e latina, dai polemisti cristiani sono spesso molto più ricchi e complessi. Nel volume che presentiamo, tutti questi frammenti sono raccolti da Manlio Simonetti e accompagnati da un commento di ammirevole precisione e chiarezza. È la prima volta che testi accecanti per ardore intellettuale e forza di immaginazione vengono messi alla portata di qualsiasi lettore. Tutti comprenderanno che l'apparentemente complicatissima mitologia gnostica continua a parlare di ciascuno di noi. Che cos'è la gnosi? Un'eresia cristiana? O una religione autonoma, di carattere sincretistico, con apporti orientali, greci, ebraici e cristiani? Esiste una gnosi precristiana? A queste domande storico-culturali, da cui dipende il nostro posto nel mondo, il libro curato da Simonetti risponde secondo un'ottica nuova, la quale tiene conto di tutta l'immensa ricerca degli ultimi tempi.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
TESTI E TRADUZIONI
- Parte Prima - Simon Mago e la sua scuola
- Parte Seconda - Ofiti e Sethiani
- Parte Terza - Basilide e i Basilidiani
- Parte Quarta - Carpocrate e suo figlio Epifane
- Parte Quinta - Valentino e la sua scuola
COMMENTO
INDICI
- Indice dei passi biblici e di altri autori
- Indice dei nomi e di alcune cose notevoli
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Esperienza e dottrina dello gnostico
Nell'antichità non si ebbero dubbi sull'appartenenza dello gnosticismo al novero delle eresie che pullularono dal II secolo in poi nella Chiesa cattolica compromettendone in vario modo unità e stabilità. Di esso si misero in luce soprattutto gli stretti legami con la filosofia greca e la pretesa di rappresentare una rivelazione divina (gnosi) riservata a pochi eletti, moralmente e intellettualmente preparati, in contrapposizione alla fede comune della gran massa dei cristiani. Tale fede aveva il suo fondamento nella predicazione pubblica di Gesù continuata dall'opera missionaria degli apostoli: invece la rivelazione gnostica traeva origine da una sorta di insegnamento segreto riservato da Gesù solo a pochi dei suoi discepoli e impartito durante il suo soggiorno in terra fra la resurrezione e l'ascensione, che gli gnostici volentieri consideravano ben più esteso dei quaranta giorni fissati dalla tradizione. Tale insegnamento segreto era stato tramandato per occulta via parallelamente a quello ufficiale della Chiesa, a beneficio di pochi eletti.
In tal modo lo gnosticismo si configurava come rivelazione di tipo superiore e più approfondita rispetto alla tradizione comune della Chiesa: di qui la suggestione che esso esercitò, nei suoi aspetti più intellettualmente impegnati (Basilide, Valentino), sui ceti colti della società cristiana, che più avvertivano l'ambizione e l'esigenza di un approfondimento del dato elementare di fede. Per tal motivo, nel II e III secolo lo gnosticismo rappresentò per la Chiesa il massimo pericolo, maggiore ancora di quello rappresentato dal marcionismo e dal montanismo, anche se non riuscì a darsi la salda organizzazione unitaria del primo né alimentò l'entusiasmo delle folle al pari del secondo. Ma la pronta reazione della Chiesa sul piano sia disciplinare sia organizzativo sia dottrinale fu tale che già alla metà del III secolo lo gnosticismo era ovunque in fase decrescente, anche se sporadicamente continuò a sopravvivere nel IV e anche nel V secolo. I resti delle varie sette gnostiche per lo più confluirono, a partire dal IV secolo, nel manicheismo, che presentava notevoli punti di contatto con l'esperienza e la dottrina gnostica, esasperandone gli aspetti più significativi.
Abbiamo accennato alla mancanza di unità del movimento gnostico; in effetti esso prese consistenza in numerose sette, spesso notevolmente diverse fra loro sul piano sia dell'organizzazione e del culto sia della dottrina, con un'articolazione a diversi livelli per cui si passava da sette di tono e carattere popolari, largamente aperte alle suggestioni magiche e poco esigenti sul piano dell'impegno intellettuale, a sette molto più aperte in questo senso e tali da alimentare un'approfondita riflessione dottrinale e una sincera esperienza mistica. Date tali differenze fra le varie sette gnostiche anche sotto l'aspetto dottrinale, basterà qui solo un rapido cenno sullo sfondo comune un po' a tutte.
Alla base dell'esperienza di ogni gnostico, che si sente alienato nel mondo materiale che lo circonda e lo condiziona, e sostanzialmente estraneo a esso, c'è la convinzione di essere depositario di una rivelazione divina destinata a pochi eletti. Questa rivelazione riguarda la sua più autentica natura, consistente in un germe, una particella di sostanza divina, degradata e caduta nel mondo, prigioniera del corpo materiale da cui anela a liberarsi per tornare al mondo divino da cui ha tratto origine. Ma la redenzione è possibile soltanto grazie all'opera di un Redentore divino, che o scende in persona dal cielo sotto apparenza umana o fa sentire in altro modo la sua presenza, per tramite di un uomo (Gesù) particolarmente meritevole di diventare strumento dell'opera divina di redenzione. Tale opera affranca l'uomo depositario del germe divino dalla schiavitù in cui era tenuto nel mondo materiale: questo infatti aveva tratto origine dall'errore o dal peccato di un essere divino, per lo più di genere femminile (Sophia), ed era stato plasmato da un Dio inferiore, il Demiurgo, identificato col Dio creatore del Vecchio Testamento. Il completo graduale recupero del seme divino degradato e imprigionato nel mondo materiale renderà superflua l'esistenza di questo, che perciò è destinato ad avere fine.
Da tale complesso di dottrina scaturiscono due fondamentali prese di coscienza da parte dello gnostico: I) concezione completamente negativa del mondo materiale, visto come prigione e sepolcro temporaneo del germe divino caduto dal ciclo e immerso in un letargo mortale da cui solo la rivelazione divina (gnosi) lo libera, dando coscienza all'uomo, in cui tale germe è racchiuso, della sua vera origine e del suo destino. Da questa concezione consegue l'opposizione fra il Dio supremo, Padre del Redentore divino che opera il recupero del seme divino, e il Dio inferiore, creatore del mondo, identificato col Dio del popolo ebraico, creatore del cielo e della terra. 2.) La redenzione ha per oggetto soltanto la parte divina dell'uomo, lo spirito (e in alcuni sistemi gnostici anche l'anima, vista come elemento divino di secondo ordine), non il corpo materiale, che perciò è destinato alla dissoluzione finale e non partecipa alla resurrezione e al ritorno dello spirito nel mondo divino (Pleroma, Eone). Quanto alla presenza dell'elemento divino nell'uomo, non c'è completo accordo fra i vari sistemi gnostici: ma è prevalente la convinzione che solo pochi privilegiati (gnostici) abbiano in sé il seme divino, lo spirito, infallibilmente destinato alla presa di coscienza del suo vero essere e perciò alla redenzione e al ritorno nel mondo divino d'origine. Altri uomini albergano soltanto l'elemento divino di secondo ordine (l'anima, sì che tali uomini sono detti psichici), e sono destinati a redenzione e recupero a livello inferiore rispetto agli spirituali.
Molte ipotesi sono state fatte sul culto dei martiri nella Chiesa cristiana primitiva, e sugli "Atti e Passioni", raccolti in questo volume. Sappiamo con certezza che questi acta martyrum presuppongono un'opera di redazione, che poggiava sia sulla consultazione degli archivi sia su quella dei testimoni oculari. Quando il redattore greco o latino - spesso uno scrittore di grandi qualità letterarie - aveva ultimato il proprio lavoro, il documento era riconosciuto come ufficiale dalla Chiesa e depositato nei suoi archivi. Lo si impiegava nella celebrazione dell'anniversario, sul luogo stesso del martirio. Oggi riconosciamo in questi "Atti e Passioni dei Martiri" alcuni dei grandi testi, in cui l'antichità - sia pagana che cristiana, persecutori e vittime - ci parla con voce più diretta e commovente. La passione del martire è una continuazione della passione di Cristo: Dio è sempre presente nella storia, e " mantiene le sue promesse in ogni tempo, come testimonianza per i non credenti, come grazia per i credenti ". Gli Atti e le Passioni sono elaborate opere letterarie, dove gli orrori e le crudeltà e gli strazi di gusto elisabettiano, le visioni oniriche che anticipano il martirio, la fedeltà, la fiducia, le estasi e il fanatismo dei credenti, la strana tolleranza dei persecutori, un grandioso senso teatrale e spettacolare, radiosi anticipi celesti si fondono in forme sovente perfette. Questo volume, curato da un gruppo di studiosi olandesi allievi di Christine Mohrmann, raccoglie tutti i testi più significativi: il "Martirio di san Policarpo", il "Martirio dei santi Carpo, Papilo e Agatonice", il "Martirio di san Giustino", gli "Atti dei Martiri di Lione", gli "Atti dei Martiri di Scili", la "Passione di Perpetua e Felicita", il Martirio di san Pionio, gli "Atti di Cipriano", gli "Atti di Massimiliano", gli "Atti di Filea", il "Testamento dei quaranta Martiri", la "Passione di Agnese".
Indice - Sommario
Introduzione
Bibliografia generale
TESTI E TRADUZIONI
- Martyrium Polycarpi
- Martyrium Carpi, Papyli et Agathonicae
- Acta Iustini
- Martyrium Lugdunensium
- Acta Martyrum Scilitanorum
- Passio Perpetuae et Felicitatis
- Martyrium Pionii
- Acta Cypriani
- Acta Maximiliani
- Acta Phileae
- Testamentum XL Martyrum
- Peristephanon Hymnus XIV - Passio Agnetis
COMMENTO
- Martyrium Polycarpi
- Martyrium Carpi, Papyli et Agathonicae
- Acta Iustini
- Martyrium Lugdunensium
- Acta Martyrum Scilitanorum
- Passio Perpetuae et Felicitatis
- Martyrium Pionii
- Acta Cypriani
- Acta Maximiliani
- Acta Phileae
- Testamentum XL Martyrum
- Peristephanon Hymnus XIV - Passio Agnetis
Indice dei passi della Sacra Scrittura
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
1. Questioni di terminologia
L'antichità cristiana ci ha trasmesso una serie di scritti di carattere assai particolare, comunemente denominati acta martyrum: gli atti dei martiri. Si tratta di resoconti di processi e di esecuzioni, inflitti a uno o più cristiani in ragione della loro fede in Cristo. Il termine acta, qui, non va inteso nel senso tecnico di procedimento verbale di una sessione giudiziaria, che condanna i cristiani. In nessun caso si tratta di un documento ufficiale proveniente dalla magistratura imperiale: tutt'al più, di uno scritto nel quale tale documento è stato utilizzato. Ma, poiché negli scritti in questione uno degli elementi importanti è il processo, il confronto col giudice terreno, davanti al quale il confessore pronuncia la sua testimonianza, il termine acta non è del tutto improprio. Del resto, fuori del gergo burocratico il termine latino acta sta anche a designare azioni coraggiose, gesta, e di qui può applicarsi senza difficoltà al comportamento eroico del martire, che sopporta azione giudiziaria, torture e morte in nome della sua fede. Quindi l'espressione acta martyrum, purché non la si prenda in un'accezione strettamente burocratica, ma in senso lato, a comprendere tutta la serie di afflizioni che il fedele di Cristo deve subire nel suo confrontarsi col potere temporale, è giustificabile, e non proviamo imbarazzo a utilizzarla. Si trova a volte, aggiungiamo, il termine gesta, che nella sua accezione e nel suo impiego coincide perfettamente con acta.
Esiste anche, per designare gli scritti relativi al martirio, il termine passiones, in uso fin dal principio della latinità cristiana nell'accezione di "passioni dei martiri"': lo si trova ad esempio in un canone del concilio d'Ippona del 393, il quale stabilisce che a fianco delle scritture canoniche si debbono anche leggere in chiesa le passiones martyrum. E evidente che in questo termine è sottolineata, da una parte, l'idea di sofferenza, e che, d'altra parte, è messo in evidenza il carattere narrativo: si tratta di una narrazione di lotte e di dolori, culminanti nella morte. La distinzione rispetto ad acta non è, a rigore di termini, che una distinzione di punto di vista. Ma l'impiego del termine passio s'impone là dove l'elemento narrativo è preponderante, come in quello scritto che, parzialmente redatto dalla sua propria mano, riferisce gli avvenimenti ai quali partecipava Perpetua durante i giorni di prigionia. Tuttavia, come si è detto, la parola acta come termine generico è da raccomandarsi, e ce ne serviremo regolarmente nelle pagine che seguono.
2. Influssi pagani all'origine degli acta martyrum?
Che cosa ha portato i cristiani a comporre gli acta dei loro martiri? La domanda ha suscitato risposte svariate, ciascuna delle quali merita la nostra attenzione. La prima di esse vi scorge forti connessioni pagane e affonda le sue radici nella pregiudiziale sin-cretistica che, all'inizio di questo secolo, permeava gli studi sulle origini del cristianesimo. Si dava grande importanza ai frammenti di papiro, scoperti in Egitto, che trattavano di processi e di morti subiti da alessandrini per mano delle autorità romane. I frammenti riflettevano il conflitto che non cessava di turbare i rapporti tra alessandrini e romani, poiché Alessandria, città ellenica per eccellenza e centro di cultura, non poteva che rassegnarsi difficilmente alla preponderanza politica dei latini, gente ai suoi occhi sprovvista di cultura. Durante i primi due secoli della nostra era questo conflitto si accendeva ad ogni istante; veniva complicato, a volte, da tratti di antisemitismo, fenomeno endemico ad Alessandria, che ospitava un gran numero di ebrei. Vi furono sommosse, processi a Roma, chiamate di testimonianza dinanzi agli imperatori, recriminazioni nei loro confronti, accuse di lesa maestà e, spesso, vi fu la pena capitale. I nostri papiri presentano gli alessandrini nel loro conflitto con lo stato romano quali protagonisti della cultura ellenica, difensori dei valori della patria, veri martiri, morti d'una morte gloriosa. Per stabilire la parentela con gli atti dei martiri cristiani, l'erudizione moderna si basava sull'aspetto giudiziario: i dibattiti fra giudici e accusati erano messi in luce, e si inventò il termine di acta martyrum paganorum, atti dei martiri pagani. Si cercava anche di stabilire rapporti fra questi acta e gli exitus virorum illustrium, le descrizioni della fine di personaggi eminenti vittime di imperatori tirannici, che, a quanto dice Plinio il Giovane, erano di mano di letterati del suo tempo. E sotto l'influsso delle tendenze sincretistiche del principio del secolo si pervenne alla tesi che gli acta martyrum christìanorum erano scritti di mano cristiana, imparentati a questi exitus virorum illustrium e, soprattutto, modellati su questi acta martyrum paganorum.
La tesi è insostenibile, poiché i punti di contatto che collegherebbero gli acta dei martiri pagani a quelli dei martiri cristiani fanno difetto. Indubbiamente, l'ammirazione dinanzi alla morte eroica di pagani non mancava da parte cristiana. Cosi, Clemente d'Alessandria e Tertulliano presentano, quale esempio per i loro correligionari, patrioti come Muzio Scevola e Attilio Regolo, filosofi intrepidi come Eraclito di Efeso, Socrate e Zenone d'Elea, donne coraggiose come Didone e Lucrezia. Ma non vi è alcuna menzione, nemmeno in Clemente, loro compatriota e, parzialmente, loro contemporaneo, né dei "martiri" alessandrini ne delle loro testimonianze davanti alle autorità, che dovrebbero essere i modelli delle testimonianze cristiane. Sembra proprio che la storia dei nostri alessandrini fosse troppo oscura per attirare l'attenzione cristiana. E non è immaginabile che ciò che era oscuro persino ad Alessandria potesse spingere i cristiani d'Asia Minore, d'Africa, di Spagna alla redazione degli atti dei loro martiri.
Dopo i primi due volumi, dedicati all'Attica, alla Corinzia e all'Argolide, la Guida della Grecia giunge al terzo volume, incentrato su Sparta. I capitoli iniziali possono deluderci. Pausania non ama la storia, e questo scorcio di storia laconica, diviso tra le due famiglie reali, sembra di un infimo compilatore. Ma, appena comincia a descrivere luoghi - un folto di querce o una spiaggia di ciottoli -, Pausania si trasforma: si rivolge al lettore, dicendo: "arriverai presso un tempio" o "vicinissimo ai sepolcri vedrai una stele" - ed ecco che una città quasi completamente scomparsa come Sparta risorge nitidamente davanti ai nostri occhi. In apparenza, Pausania è antilaconico: ma, in realtà, Sparta incarna quanto lo affascina di più: l'arcaico, il sacro, il crudele. Tutto ciò che egli racconta sulle gare violente degli efebi spartani, o sulle vecchie statue di legno, come quelle che Oreste e Ifigenia avrebbero trafugato dalla Tauride, ha un'intensità straordinaria. Tra le più belle pagine del libro c'è la minuziosa descrizione del trono di Batticle nel thesaurus di Amicle: questa vetta sperduta della scultura arcaica greca, attorno alla quale Pausania intreccia le sue storie mitiche. E il rapido scorcio su Achille, che dopo la morte sposa Elena nell'Isola Bianca: simbolo della candida e profonda venerazione che Pausania ha sempre nutrito per gli eroi.
Indice - Sommario
Nota introduttiva al Libro III
di Mario Torelli e Domenico Musti
Bibliografia
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
a cura di Domenico Musti
Sigla
Libro III: La Laconia
COMMENTO
a cura di Domenico Musti e Mario Torelli
Libro III: La Laconia
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La Laconia, argomento del III libro della "Guida della Grecia", è presentata da Pausania in tre fondamentali sezioni: l'area della Laconia vera e propria, centrata su Sparta, ma articolata in più itinerari (A-F), e l'area degli Eleuterolaconi, suddivisa per ovvie ragioni geografiche nelle due grandi penisole del Parnone e del Taigeto, che vengono entrambe visitate con propri itinerari (G-H e I). Da ciò discende la ripartizione dell'intero libro attorno ai seguenti nuclei di itinerari, la cui descrizione è preceduta dal poderoso insieme di capitoli (1-10,5) relativi alla storia della Laconia e di Sparta:
a) itinerario che reca a Sparta partendo dall'ingresso in Laconia dall'Argolide al passo delle Erme, con i siti di Carie, Sellasia e Tornace (10,6-11,1);
b) la città di Sparta (11,1-18,5);
e) itinerario per Amicle (18,6-19,6);
d) itinerario per Terapne e di lì per il Taigeto e la pianura centrale della Laconia con i siti di Terapne, Phoibaion, Fari, Brisee, Euora, Therai, Lapiteo, Dereo e Arplea (19,7-20,7);
e) itinerario per l'Arcadia, con i siti di Pellana e Belemina (20,8-21,3);
f) itinerario per Gizio, con i siti di Crocee ed Egie (21,4-5);
g) area degli Eleuterolaconi e primo itinerario della penisola del Parnone, con la parte marittima da Gizio ad Acrie, comprendente i siti di Gizio, l'isola di Cranae, il Migonion, Trinaso, Elo e Acrie e la parte montana da Acrie verso Gerontre e di li verso i siti di Palea Kome, Mario, Glippia e Selinunte (21,6-
22,8);
h) secondo itinerario, tutto costiero, della penisola del Parnone, da Acrie a Brasie, toccando i siti di Asopo, Paraciparissie, Hyperteleaton, la penisola di Onou Gnathos ("Mascella d'asino"), Boiai, Etide, Afrodisiade, Side, l'isola di Citerà, con l'omonima città e il porto di Scandea, Ninfeo, Epidelio, Epidauro Limera, Zarace, Cifanta e Brasie (22,9-24,5);
i) periplo della penisola del Taigeto, da Gizio ad Alagonia ai confini con la Messenia, toccando Las, Ipsi, Pirrico, Teutrone, il porto Achilleo, Psamatunte, il santuario di Posidone al capo Tenaro, Cenepoli, Tiride, Ippola, Messa, Etilo, Talame, Pefno, Leuttra, Cardamile, Gerenia e Alagonia (24,6-26,11).
A) Pausania riprende il cammino là dove aveva concluso il libro II, al triplice confine delle Erme, e la discesa in Laconia tocca il bosco di querce e il santuario ctonio di Zeus Skoritas, che da nome alla località, sede anche di un culto di Eracle legato al ricordo degli Ippocoontidi, mito che sta alla base del "ritorno degli Eraclidi"; prendendo poi la "terza strada sulla destra" si giunge a Carie, sito per noi di incerta identificazione, ma di notevole fama nell'antichità grazie al santuario di Artemide Karyatis e alle feste annuali con le celebri danze delle fanciulle spartane, mentre sulla via del ritorno si toccano le rovine di Sellasia, luogo della nota battaglia del 222 a.C. circa. Proseguendo il cammino verso Sparta, poco prima di toccarla, si arriva a Tornace, anche questo sito non sicuramente identificato e sede di un altro celebre santuario, quello di Apollo Pythaeus, che si lega nel culto e nella storia - soprattutto per il dono prezioso di Creso - all'ancor più noto Apollo di Amicle.
B) Giunto da Tornace a Sparta, Pausania organizza la visita della capitale della Laconia, "a forma di ruota", come afferma Polibio, con il consueto sistema che prevede prima il giro dell'agora, quindi otto ulteriori itinerari: tre partono dall'agora (l'Afetaide, l'" altra strada" e la "via verso occidente"), tre invece innervano la raggiera del tessuto urbano di Sparta (il Dromos, la "via dal Dromos a oriente" e la "via dal Chitone alle porte"), ma, a differenza dei precedenti, partono da un luogo diverso dall'agora. Il settimo itinerario infine concerne l'acropoli, mentre, partendo forse ancora una volta dall'agora e seguendo una strada ancor oggi ben individuabile che passa attraverso la porta settentrionale delle mura tardoantiche, l'ottavo percorso si dirige "verso l'Alpio", ossia verso nord-est. Ma vediamo analiticamente questi nove percorsi urbani.
1) L'agora. Pausania vede certamente un'agora interamente rifatta in epoca romana, al cui centro non a caso troneggiano i due templi di Cesare e di Augusto. Secondo la ricostruzione che se ne propone nella discussione analitica delle note al testo, l'agora va riconosciuta nel luogo dove ancor oggi è visibile la cosiddetta "stoa romana", in realtà terrazzamento monumentale atto a sostenere gli edifici pubblici, che nel testo di Pausania sembrano essere suddivisi in tre lati chiusi nel quarto dalla sostruzione: un lato (orientale?) conterrebbe tutti gli edifici politici del nuovo assetto ellenistico-romano, il bouleuterion della gerusia e gli uffici degli efori, dei nomofilaci, e dei Bidiei, un lato (settentrionale?) il "portico dei Persiani", e un lato (occidentale?) i vecchi edifici di culto e politici, il Choros e i santuari di Gea, di Zeus e Atena Agoraioi, di Posidone Asphalios, di Apollo, di Era e delle Moire; attorno a quest'ultimo santuario è riconoscibile un vero e proprio pritaneo, con un complesso di antichi luoghi sacri e pubblici - le tombe eroiche di Oreste e di Epimenide, gli "antichi uffici degli efori", i culti di Estia e di Zeus e Atena Xenioi -, assieme a statue aggiunte in età molto più tarda, il colosso del "Demos degli Spar-tiati", l'immagine del leggendario "buon re" Polidoro e la statua di Ermes Agoraios.
Questo volume e i quattro successivi sostituiscono la prima, grande edizione commentata delle "Confessioni" di Agostino. Ad essa hanno collaborato i maggiori studiosi francesi e italiani della sua opera: Jacques Fontaine, che ha scritto l'introduzione generale; Patrice Cambronne, Goulven Madec, Jean Pépin, Aimé Solignac, che hanno scritto parte dei commenti; Manlio Simonetti, che ha curato il testo, l'apparato biblico, e commentato l'ultimo libro; Gioacchino Chiarini, autore della bellissima traduzione; mentre gli altri commenti sono stati affidati a Marta Cristiani, Luigi F. Pizzolato e Paolo Siniscalco; e José Guirau ha allestito la bibliografia generale.
Se l'Occidente deve una metà del suo cuore all'Odissea, certo l'altra metà è riempita da questo libro tessuto in parti eguali di luce e di tenebra. Quale libro immenso! Lode e celebrazione di Dio; storia di una vita, di un'anima, di due culture; sublime testo filosofico e metafisico; saggio sulla memoria, sul tempo, sulla Bibbia; e tutto questo materiale disparato è disposto nelle linee di un'architettura rigorosa e complessa come le chiese che, per dodici secoli, sorsero sulla base di una testimonianza così appassionata. Petrarca adorava le "Confessioni", "questo libro gocciolante di lacrime". Come noi, ne amava la stupenda retorica: il gioco delle ripetizioni, dei ritornelli, dei parallelismi, delle opposizioni, l'inquietante stregoneria verbale, l'ansia dolcissima e drammatica delle interrogative, la mollezza a volte quasi estenuata - la quale suscitava, in lui che scriveva, e suscita in noi, che stiamo leggendo, lo stesso contagio e la stessa commozione.
Indice - Sommario
Introduzione generale
Bibliografia generale
Nota al testo
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglorum
Libro I
Libro II
Libro III
COMMENTO
Abbreviazioni e sigle
Libro I
Libro II
Libro III
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione generale
Prologo
Il lettore del nostro secolo è tanto più sconcertato dalle "Confessioni" dal momento che le apre con una simpatia nutrita di illusioni molteplici. La discendenza dell'opera, ricca e diversa, può dargli l'impressione che gli basti risalire un certo filone delle letterature moderne per accostarsi con familiarità a un antenato comune di Jean-Jacques Rousseau, Alfred de Musset e André Gide; o anche, tra molti altri, di Michel de Montaigne, Ulric Guttinguer e Marcel Proust. Da questo punto di vista, è sufficiente il solo titolo dell'opera a risvegliare nel lettore echi ingannevoli. Non dimentico del dibattito tra Voltaire e Pascal sugli Essais di Montaigne, il lettore può accingersi a misurare con curiosità se anche chi scrisse le "Confessioni" meritasse già il giudizio di Pascal sullo "sciocco progetto, che egli ebbe di dipingersi", o la rettifica sarcastica di Voltaire, che lo riteneva da parte sua un "progetto affascinante". La memoria, intrisa di biografie e di autobiografie, può anche scoprire nella figura del vescovo d'Ippona un antenato di Nathanael, ubbidiente all'ultimo precetto delle Nourritures terrestres: "creato da tè... ah! il più insostituibile degli esseri". A meno che l'evocazione dell'adolescenza di Agostino non gli lasci sperare, sulle vicissitudini del giovane africano a Cartagine, dettagli piccanti come i ricordi del giovane Rousseau sulle sue avventure veneziane. Esistono infatti Confessioni e Confessioni. Qui non troveremo ne confidenze scabrose, ne l'apologia appassionata di un uomo di lettere assetato di giustificazioni, e neppure un'autobiografia intesa nel senso che i moderni (i quali del resto lo hanno inventato) danno al termine. Le Confessioni di Agostino sono prive di compiacimenti: sono lontane sia dal "culto di sé stesso", sia da un progetto letterario gratuito. Anzi esse sono solo parzialmente "autobiografichc"; quanto basta perché un'esperienza vissuta e individuale fornisca precisa materia e precisa illustrazione a una lode pubblica di Dio che fu misericordioso nei confronti del peccatore Agostino.
Le ultime parole fanno comprendere che non si entra in queste "Confessioni" con la tranquillità con cui si affrontano le confidenze troppo umane di un memorialista o di un romanziere moderno. L'universo interiore di Agostino e le forme del suo discorso possono, a prima vista, sembrarci ugualmente sorprendenti, o addirittura estranei. Non solo per il sentimento di estraneità ispirato dal racconto di ogni esperienza mistica, nel senso che diamo ancora a questa parola pensando a Teresa d'Avita o a Giovanni della Croce. Ma l'estremismo concertato della sensibilità religiosa di Agostino e della sua espressione non ci disturba meno di quanto ci imbarazzi, in alcune pagine, l'agilità sottile della sua ragione alle prese con le contraddizioni più delicate dell'animo umano. Le risonanze filosofiche e bibliche, sapientemente accordate o contrastate, sono difficili da cogliere a prima vista per un lettore che abbia scarsa familiarità con il tardo platonismo e spesso una familiarità appena maggiore con il Nuovo e soprattutto con l'Antico Testamento. Anche se iniziato discretamente alla complessità di una simile cultura classica e cristiana, il lettore talvolta faticherà nel seguire i meandri del pensiero di Agostino: si pensi alle pagine dove, sotto il riflesso cangiante e volutamente disparato delle metafore e delle astrazioni, si tesse un linguaggio adeguato con attenzione a esprimere il proprio oggetto: in questo linguaggio le perifrasi e le riprese si seguono a stento, come in un discorso esoterico.
Non è però meno vero che, a questo proposito, noi non siamo più prevenuti, come lo erano i nostri predecessori, dall'ossessione del "genio luminoso". Di fronte a uno stile talvolta più barocco che classico, l'apertura del gusto moderno ci mette al riparo da molti pregiudizi anche recenti, scusabili in lettori del secolo scorso che non avevano ancora letto A rebours, ne conosciuto i deliri verbali della poesia dopo Rimbaud. Nonostante qualche difficoltà formale, il lettore di buona volontà non può declinare l'invito al viaggio nell'universo interiore di Agostino. Se accetta di compierlo può constatare che, a prezzo di uno sforzo minimo di attenzione, "tutto lì parla all'anima, in segreto, la sua dolce lingua natale". Anche per il lettore di oggi le Confessioni conservano fascini immediati: il calore umano, la freschezza dell'anima, le sfumature delicate e multiple di un sentimento religioso e poetico in accordo con quello del salmista, ma anche la convinzione, la passione dell'assoluto e la penetrazione metafisica, l'accanimento paziente nel comprendere le ambiguità umane, la rivendicazione incessante dei diritti della ragione e del libero arbitrio (anche di fronte a un Assoluto personale che precorre sempre le decisioni dell'uomo). Le Confessioni non smettono di testimoniare con foga quella che chiamiamo, dopo i filosofi del diciottesimo secolo, la "caccia alla felicità". Agostino si appassiona a ciò che noi chiamiamo la ricerca del senso: senso dell'esistenza umana, del male e della morte, della colpa, e dell'equilibrio perduto e ritrovato. Come noi, diffida dei sistemi, esercitando nei loro confronti una critica esigente; vive tragicamente la tentazione dello scetticismo disperato; e, anche quando pensa di aver trovato, continua con passione a cercare di comprendere le debolezze dell'uomo, i limiti della ragione e le oscurità del nostro destino. Non c'è bisogno che il lettore sia un credente per trovare nelle "Confessioni" quel "nutrimento di verità" che Agostino si dichiara capace di trarre dalla poesia classica, anche da quella più lontana dal cristianesimo. Quand'anche non condivida le sue convinzioni religiose e filosofiche, il lettore di oggi non può non ammirare le qualità invidiabili di questa personalità così attraente: l'onestà intellettuale; il coraggio di continuare a cercare sempre; soprattutto, forse, il gusto di vivere nel fervore del cuore e dello spirito.
In questo senso cercheremo di indicare la via al lettore, prima che egli la percorra in compagnia di guide migliori. Esiste sulle "Confessioni", tanto più su Agostino, una bibliografia sempre rigogliosa, più considerevole che sulle altre grandi opere dell'antichità classica. Eccellenti e recenti edizioni, soprattutto in francese e in italiano, possiedono introduzioni la cui ampiezza è pari al valore. Actum ne agas: ci guarderemo dal ripeterle. Cercheremo anche di non sciupare le note preparate in questi volumi da specialisti eminenti sui particolari del testo e dei suoi problemi. Bisogna innanzitutto che il lettore si impegni di buon grado e prenda coscienza delle affinità tra Agostino e un uomo d'oggi.
Nato a Cividale tra il 720 e il 730, Paolo Diacono ebbe rapporti con la corte dei duchi friulani e poi con quella regia di Pavia. Studiò il greco, insegnò il latino: aveva un'ottima cultura classica, sia letteraria che storiografica. A Pavia si dedicò agli studi sacri, diventò monaco a Montecassino; e infine visse alla corte di Carlo Magno, che consigliò e per il quale scrisse. La sua "Storia dei Longobardi" è uno dei capolavori della storiografia d'ogni tempo. Nelle oscure popolazioni discese dal Nord, alle quali deve la sua origine. Paolo Diacono scorge una forza potenziale, quasi priva di contenuto, che si adatta alla tradizione romana, e la rinnova dall'interno. La sua fedeltà alla propria gente si concilia, in equilibrio perfetto, con l'amore per la storia romana e cristiana, la cultura e la lingua che ha appreso. Pochi altri libri realizzano così meravigliosamente l'ideale di una storiografia totale. La "Storia dei Longobardi" è, in primo luogo, una storia della natura europea: stupendi scorci geografici, paesaggi visti e immaginati, diluvi, incendi, notizie meteorologiche, prodigi. Su questo sfondo, si accampa la storia di un'emigrazione barbarica, un flusso furibondo di genti, episodi di passione e di ferocia, raccontati da uno scrittore posseduto da un forte senso del mito. L'ingenuità di un cronista medievale, l'intuizione acutissima dello storico politico, la fede del cristiano si fondono, nelle sue pagine, con il genio del grande narratore, che racchiude in un episodio minimo il senso della storia universale. La traduzione di Lidia Capo riproduce mirabilmente la mescolanza di cultura e di rozzezza, che è propria dello stile di Paolo Diacono. L'ampio e meticoloso commento lascia affiorare, attorno alla storia tragica dei Longobardi, l'ampio respiro della storia d'Europa e di Bisanzio. Il volume è completato da una suggestiva rassegna di immagini, che rivelano i vertici dell'arte longobarda.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
Nota al testo
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
COMMENTO
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Indice dei nomi di persona e di luogo
Indice delle fonti citate nell'introduzione e nel commento
Prefazione / Introduzione
Nell'Europa rivoluzionata dalle invasioni germaniche, nell'inaudita realtà di regni guidati da popoli "barbari", venuti a rompere e sostituire l'unità e la tradizione dell'impero di Roma, maturò presto il bisogno di integrare il passato e il presente in una prospettiva storica che riuscisse a conciliare vecchio e nuovo e a rendere accettabile culturalmente quello che era inevitabile sul piano politico. Si trattò di un vero e proprio tentativo di interpretazione e di riconversione delle tradizioni storiche germaniche nel linguaggio e negli schemi della storiografia mediterranea: un'opera compiuta ovviamente da Romani, e non da letterati o storici "puri", bensì da personaggi in qualche modo vicini al potere, disposti ad accettare la presenza e il predominio dei Germani. La prima fase della storiografia europea dopo la dissoluzione dell'impero in occidente - quella rappresentata da Cassiodoro, da Gregorio di Tours, da Isidoro di Siviglia - nacque appunto dalla volontà di collaborazione dell'elemento romano con lo strato politico germanico e dal suo conseguente sforzo di romanizzare, cioè rendere comprensibili per il pubblico romano perché omogenee alla sua cultura, le vicende e le tradizioni, in sé molto diverse, dei singoli popoli germanici: un'operazione compiuta partendo dalla storia, perché è la storia che, in un mondo dominato dall'intervento umano e dalla memoria scritta come quello romano, distingue e definisce gli uomini, e soprattutto li redime dalla barbarie. Per questo Gregorio di Tours ha tanto cercato nelle vicende dei Franchi la comparsa dei re - primo embrione di uno stato - ed ha esaltato nell'opera di Clodoveo (quintessenza di grande barbarie) le linee di forza di un futuro civile. E per questo Cassiodoro ha manipolato le tradizioni dei Goti, combinandole con quelle di altri popoli da più tempo noti al mondo classico, compiendo un lavoro di adeguamento ed equiparazione culturale (in realtà trasformazione), che egli stesso ha definito con assoluta precisione e consapevolezza: "Originem Gothicam historiam fecit esse Romanam".
Questa collaborazione dei Romani, che aveva in fondo lo scopo di adattare a sé le novità, mantenendole sotto il proprio controllo, ebbe un successo variabile (solo in Francia poté dare frutti duraturi), ma l'ingresso dei popoli germanici nella "storia romana", come protagonisti, era ormai una conquista definitiva. Nel VII-VIII secolo nell'ambito del regno franco, nella prima metà dell'VIII nell'Inghilterra anglosassone, nel VII e VIII nell'Italia longobarda altri scrittori si posero di fronte allo stesso problema, l'inserimento dei nuovi popoli e regni nella storia "civile". Nonostante il tempo intercorso e nonostante il fatto che fossero, stavolta, Germani (meno, forse, il cosiddetto Fredegario), anche questi scrittori utilizzarono gli schemi della storiografia romano-cristiana. Si trattò dunque di una vittoria della cultura latina: la storia che viene scritta (e ovunque, meno che in Inghilterra, la storia sarà ancora a lungo scritta solo in latino) non è concepibile che attraverso le strutture portanti - tempo, spazio, scansioni di regni e pontificati, forme di organizzazione stabile - datele dalla cultura antica, integrata e riveduta dalla Chiesa.
Ma la vittoria non fu completa, perché dietro queste opere non esisteva più la stessa cultura di prima. Il mondo romano non era più una realtà concreta e la sua capacità di unificare e di uniformare era ormai affidata solo alla Chiesa, che non era in grado di esercitarla ovunque con la stessa intensità. Gli storici quindi, anche quelli forniti di migliore scuola, non avevano più i mezzi per integrare passato e presente in una prospettiva realmente romana; potevano al massimo utilizzare l'immagine che della storia romana si erano creati sulla base delle proprie esperienze e della propria cultura: un'immagine, ovviamente, che con l'effettiva realtà romana poteva avere pochissimo in comune e che in ogni caso era sempre un'interpretazione. E la distanza con la fase storiografica di Cassiodoro era ancora maggiore, perché gli storici della seconda ondata - e soprattutto i più colti e consapevoli, come Beda e Paolo Diacono - non volevano affatto trasformare la propria realtà in senso romano, ma solo darle una leggibilità e una dignità storica, grazie a certi parametri ricavati dalla cultura antica. "L'historia Romana" non significava dunque più adeguamento dei nuovi popoli ai valori e alle forme culturali del mondo classico, bensì impiego, per scrivere la loro originale vicenda, del "reticolo latino", cioè delle coordinate di spazio, tempo e relazioni. Perciò, nonostante la forma latina che le accomuna, il carattere autonomo, germanico, è essenziale nelle opere del VII-VIII secolo: esse sono anzi un primo bilancio che i Germani stessi ricavano dal loro incontro con la grande storia.
Ma nemmeno questo germanesimo è più allo stato puro, un inalterato principio di spiegazione e rappresentazione, sebbene sotto una veste altrui. Al contrario anch'esso è storico: ha subito un processo di crescita e di modificazione a contatto con un mondo estraneo. I nostri testi non sono più la testimonianza di un primo passo nell'incontro tra popoli diversi, bensì il frutto di percorsi storici ormai lunghi, compiuti con apporti variabili degli uni e degli altri: documenti preziosi della travagliata costruzione di un mondo nuovo, che crea e rielabora sulla base delle esperienze di culture differenti, in utile anche se non sempre facile confronto.
E questa vicenda, particolare per ogni paese, che gli autori hanno alle spalle: essa li forma, determina in senso materiale e spirituale il loro rapporto con il proprio passato e con la cultura latina, influisce sulla loro coscienza di sé e sulla loro visione del mondo. Essi riflettono così la qualità e il senso di queste vicende, gli equilibri raggiunti o falliti, gli specifici problemi delle singole realtà, offrendo una sintesi culturale che è un prodotto e uno specchio della loro storia.
Di questi testi "L'Historia Langobardorum" di Paolo Diacono è probabilmente il più complesso: quello che nasce da più intricate motivazioni e da più irrisolte difficoltà, logico riflesso di una storia mai arrivata a sciogliere i nodi essenziali alla sua stessa sopravvivenza.
Con il quinto volume, la grande raccolta del Cristo, a cura di Claudio Leonardi, Antonio Orbe e Manlio Simonetti, trova il suo culmine e la sua fine, in questi testi che dal XIII conducono al XIV e al XV secolo. Qui si ripete e si acuisce il contrasto tra linguaggio metafisico e mistico. Da un lato, l'intelligenza indaga la natura di Dio, concepito come Essere: il discorso su Dio diventa una scienza - la teologia. Ma già Tommaso d'Aquino è consapevole della crisi della teologia: se - come raccontano i suoi biografi - voleva bruciare i suoi scritti, considerandoli senza valore per conoscere realmente Dio. Giovanni Duns Scoto giunge alle più sottili conseguenze dialettiche, mentre un metafisico come Guglielmo Ockham demolisce la metafisica.
D'altra parte la mistica rinnova il tentativo di raggiungere l'unione con Dio, e di cogliere l'eterno nel presente. Ora essa tende ad esprimersi direttamente attraverso documenti autobiografici. Con Francesco, il volto dell'uomo rivela il volto stesso di Dio. Con Meister Eckhart l'esperienza mistica costruisce una teologia che le corrisponde: «la nascita di Dio, nudo e senza veli», avviene nell'anima di ogni uomo. Intorno a lui, il coro della grande mistica femminile: Geltrude di Helfta, che vede Dio faccia contro faccia, cuore contro cuore, corpo contro corpo; Angela da Foligno, la più rozza e intensa testimonianza del tempo, che grida nella chiesa perché Cristo l'ha abbandonata; mentre Giuliana di Norwich rivela che «tutto è bene, tutto sarà bene», annunciando la fine del regno del peccato.
Con la sua drammatica forza luminosa, inebriata di Dio e del mondo, Ildegarde di Bingen vede la Trinità: «una specie di fuoco luminosissimo, illimitato, inestinguibile, tutto vivo, tutto vita: in sé aveva una fiamma azzurra, che bruciava ardentemente». Ildegarde ci rivela che tutte le parole che, in questi cinque volumi, abbiamo letto sul Cristo, sono anche parole pronunciate sul cosmo: perché nel cosmo - «questo grandissimo strumento a forma di uovo» - «si manifestano le cose invisibili ed eterne».
Sotto il titolo Il Cristo la Fondazione Valla raccoglie quanto gli uomini hanno sognato, fantasticato, discusso e pensato intorno alla figura del Cristo, dagli albori del Cristianesimo sino alla fine del Medioevo. L'antologia - un progetto editoriale senza precedenti, che colma una secolare lacuna della cultura occidentale - documenta, in cinque volumi indipendenti, dieci secoli di vita cristiana e di riflessione cristologica. I testi antologizzati provengono dalle fonti più disparate: trattati teologici, meditazioni spirituali, pagine mistiche, discussioni polemiche, atti dei concili, scritti ortodossi ed eterodossi spesso rari, sconosciuti o inediti.
Le diverse sezioni individuano correnti di pensiero, problematiche o singoli autori. Ciascuna sezione è dotata di una propria introduzione e di una bibliografia specifica. Ogni volume comprende inoltre un'introduzione e una bibliografia generali, un dettagliato commento e un ricco apparato di indici.