"Fra gli eteronimi di Pessoa, quello di Antonio Mora resta fra i meno noti e più problematici. Si tratta infatti del personaggio di cui lo scrittore portoghese si serve per fondare e insieme sondare la poetica di due dei suoi eteronimi più famosi, Alberto Caeiro e il suo discepolo Ricardo Reis. Allo stesso modo di Reis, anche Mora viene presentato come discepolo di Caeiro; ma mentre Reis - scrive Pessoa in un abbozzo di prefazione all'edizione, mai realizzata, della sua opera - "ha intensificato e reso artisticamente ortodosso il paganesimo scoperto da Caeiro", il compito di Antonio Mora "è di provare definitivamente la verità, metafisica e pratica, del paganesimo". "Il ritorno degli dèi" viene concepito da Pessoa proprio come prefazione all'opera di Alberto Caeiro e rappresenta, pur nella sua inevitabile frammentarietà, una critica feroce del cristianesimo, sulla scorta certamente della filosofia di Nietzsche, ma con l'ambizione di superarla, di andare ancora oltre quel suo "sapore cristiano che non può ingannare". Del resto, il parallelismo con Nietzsche non si limita a questo; come il filosofo tedesco era morto all'interno di una clinica psichiatrica, Antonio Mora si trova internato, a causa del suo squilibrio mentale, in una casa di cura di Cascáis." (Paolo Collo)
Se la scienza moderna è stata sempre vista con sospetto e timore, indotti a volte dagli stessi comportamenti degli scienziati ma soprattutto dall’uso che è stato fatto a fini bellici delle scoperte scientifiche, non bisogna mai dimenticare che a questa stessa scienza si devono gli importanti progressi del mondo umano che ci aiutano a combattere non soltanto le malattie, ma anche e soprattutto catastrofi e miserie in ogni parte del mondo. Lo scopo che si prefiggono gli autori di questo libro è appunto quello di coniugare la ricerca scientifica con le ragioni del pacifismo, in nome di una comune lotta per la salvaguardia dei principali valori umani: una lotta laica e liberale, nel segno del rispetto di tutte le convinzioni ma che rifiuta ogni dogmatismo precostituito. Il volume si compone di una lunga conversazione fra Alessandro Cecchi Paone e Umberto Veronesi, seguita da una vera e propria storia del pensiero pacifista fra ispirazione religiosa e tradizione liberale e socialista, da San Francesco a Bertrand Russell, da Kant a Gandhi, da Aldo Capitini ad Einstein…
Non tutti sanno che Sir Arthur Conan Doyle, il grande inventore del moderno romanzo poliziesco e creatore di Sherlock Holmes, ha studiato medicina e ha praticato la professione per quindici anni come medico di bordo, prima di una baleniera e poi di un piroscafo, e infine con un suo ambulatorio con l'insegna della lampada rossa che in Inghilterra allora identificava gli ambulatori medici. Pubblicati nel 1894, quando oramai la fama di Conan Doyle aveva raggiunto dimensioni ragguardevoli, questi racconti sono prima di tutto un atto di amore non tanto verso la medicina quanto verso ciò che la figura del medico rappresenta, e soprattutto rappresentava nei tempi passati. Com'è noto, lo scrittore scozzese ha costruito Sherlock Holmes e il suo 'metodo' sulla base di un approccio scientifico ai fatti da interpretare non dissimile dal metodo diagnostico seguito dai medici in un periodo in cui non disponevano dei moderni strumenti di indagine. Questi racconti, sempre incentrati su tematiche riguardanti medici o medicina, si trasformano così nell'affresco sublime e leggero di un intero mondo e di un'intera società, la società vittoriana, descritta in personaggi che vanno dal ministro degli Esteri di Sua Maestà al piccolo borghese, dal grande chirurgo al medico alle prime armi, passando da un tono elegante e divertito al racconto 'nero'.
Rilke, come Kafka e Werfel, apparteneva a quella generazione di scrittori praghesi che si esprimeva in lingua tedesca. La sua poesia rappresenta senza dubbio il vertice più alto raggiunto dalla poesia di lingua tedesca nel Novecento – un po’ come è accaduto per la narrativa con uno scrittore come Franz Kafka. Rilke tuttavia, diversamente da Kafka, fu un grande e instancabile viaggiatore, dalla Russia all’Italia e alla Spagna e, soprattutto, alla Francia, paese al quale fu molto legato e che certamente influì in maniera determinante sullo sviluppo della sua poesia. Scritte in francese, queste “poesie francesi” furono composte dal 1924 al 1926, per lo più nei periodi di ricovero per l’aggravarsi della malattia che l’avrebbe di lì a poco condotto a una morte ancora precoce – aveva infatti da poco superato i cinquant’anni. Eppure queste poesie sono tutto fuor che il lamento di un uomo disperato; al contrario, respira in esse un alito leggero e nostalgico verso la vita e le sue forme, quasi un riposo dello sguardo sulle cose del mondo.
Questa antologia – che prende il suo titolo da una delle più belle poesie incluse, quella di Cesare Pavese – vuole offrirsi come un omaggio ad una delle presenze più assidue e più discrete degli animali nelle nostre case: il gatto. Da tempo questo straordinario felino si contende con il cane la palma di animale più amato dall’uomo; tuttavia, a suo favore, occorre dire che la presenza dei gatti in poesia supera forse quella dei cani. Dipenderà probabilmente anche dalle caratteristiche di mistero e di indipendenza che questo animale possiede; forse, però, dipende soprattutto da un’illustre tradizione che, se ha avuto in prosa il suo grande capostipite moderno nel racconto de “Il gatto nero” di Edgar Allan Poe, in poesia ha visto Charles Baudelaire come capostipite di una ricca e straordinaria serie di testi dedicati ai gatti: da Verlaine a Pascoli, da Corazzini ad Apollinaire, da Yeats a Neruda, da Lorca a Borges, da Pessoa a Montale, da Saba a Pavese, da Penna a Rodari, da Eliot a Éluard, da Ferlinghetti a Bukovsky, da Prevert ad Auden, da Fortini alla Szymborska, fino ad alcuni dei maggiori poeti italiani dei nostri giorni: Raboni, Benni, Marcoaldi, Dario Bellezza…
“L’architettura è un’arte di frontiera. Solo se si accetta la sfida di farsi contaminare, di farsi costantemente provocare da tutto ciò che è vero, ha ragione di essere. Altrimenti è roba da salotto, da accademia. L’abbiamo già detto, c’è una profonda somiglianza fra la musica e l’architettura, così immateriale l’una quanto è materiale l’altra. La splendida esecuzione della Terza Sinfonia di Mahler diretta da Abbado al Lingotto (la cui sala rettangolare consente una delle migliori acustiche) era pura poesia, ed è svanita nell’aria. Penso all’Auditorium di Parma realizzato nella vecchia fabbrica dell’Eridania, di cui su quel tavolo vedi il modellino. Sì, nella musica come nell’architettura ritrovi la stessa voglia di precisione, di ordine matematico, geometrico, le stesse certezze, magari le stesse disubbidienze…”
“Sento molto gli elementi immateriali, come sono la luce, le trasparenze, le vibrazioni, il colore, tutti elementi che interagiscono con la forma dello spazio, ma che non sono riconducibili ad esso. Nella ricerca della leggerezza e della trasparenza, nel lavoro sulla luce, c’è una continuità logica e poetica. La luce naturale (spesso diffusa dall’alto) è una costante del mio lavoro. L’immaterialità è anche di Calvino, appartiene alla sua fantasia. Calvino non è solo lo scrittore delle Lezioni americane, ma è anche l’autore de Le città invisibili. Credo che in una delle prime edizioni avesse scritto di una città fatta di tubi, che in qualche modo richiamava il Beaubourg. Solo che i muratori in quella città non arrivarono mai e le Naiadi se ne impossessarono. Nella fantasia di Italo Calvino, insomma, il Beaubourg era diventato una città di tubi”.
Ormai giunto alla sua settima edizione, questo affascinante racconto-intervista di Renzo Piano con il giornalista Renzo Cassigoli si arricchisce di una inedita intervista di Enzo Siciliano al grande architetto. Altro tassello, dunque, di questo libro singolare che nelle sue sette edizioni si è progressivamente arricchito non solo dei commenti di Piano ai lavori che andava affrontando – dalla Potsdamer Platz di Berlino all’Auditorium di Roma, da Nouméa in Nuova Caledonia al museo di Sarajevo, dalla nuova sede de “Il sole 24 ore” al progetto per la Collina degli Erzelli, a Genova – e di riflessioni più generali sulla sua professione, sul concetto di “architettura sostenibile”, sulla responsabilità dell’architetto, su architettura e arte, sull’idea di città ma anche su temi più “eccentrici” quali il ricordo di Italo Calvino o il commento sull’attribuzione del Premio Nobel a Günter Grass.
Curato dal grande storico inglese Denis Mack Smith, famosissimo in Italia non solo per i suoi studi sul nostro Risorgimento, ma anche sulla storia contemporanea, questo volume si presenta come un approccio unico e interessantissimo alla figura più popolare e discussa della lotta per l’unità d’Italia. Il libro infatti, dopo un’ampia introduzione di Denis Mack Smith, si divide in tre parti che riportano rarissime testimonianze – lettere, discorsi, memorie, atti parlamentari - sulla vita e l’opera di Giuseppe Garibaldi: Garibaldi giudica se stesso, Garibaldi nel giudizio dei suoi contemporanei e Garibaldi nel giudizio degli storici. Così, attraverso più voci, da Garibaldi stesso a Francesco Crispi, da Ippolito Nievo a Costantino Nigra, da Vittorio Emanuele II a Camillo Cavour, da Alexandre Dumas a Giuseppe Mazzini, da Cesare Cantù a Benito Mussolini, nelle pagine di questo volume il lettore potrà trovare una singolare e rara panoramica della vita e dell’opera di un personaggio divenuto favoloso. Ma l’altra particolarità che rende questo volume adattissimo a una strenna natalizia è la ricchezza dell’apparato iconografico a colori che lo arricchisce, costituito da stupende illustrazioni tratte da quadri dell’epoca che ricostruiscono battaglie, incontri, episodi e personaggi della grande epopea garibaldina.
Ha scritto Italo Calvino che se il denaro rappresenta per Balzac una forza motrice della storia e per Dickens una pietra di paragone dei sentimenti, "in Mark Twain il denaro è gioco di specchi, vertigine del vuoto"; e di tale gioco e vertigine la testimonianza più emblematica viene offerta da questo racconto, apparso per la prima volta nel 1899, vero e proprio apologo che ha per protagonista un'intera cittadinanza, famosa per la sua sbandierata onestà, che si vede messa alla prova da un lascito di quarantamila dollari che paiono piovuti dal cielo, o meglio da un donatore sconosciuto per un destinatario altrettanto sconosciuto e da scovare. Sarà una beffa maligna, ma che servirà a svelare il terreno fecondo di ipocrisia su cui è cresciuta la nomea puritana della città di Hadleyburg. Ad uno ad uno tutti i notabili del luogo infatti si lasciano tentare, e per di più accusandosi l'un l'altro o tacitando la propria coscienza in veri e propri esercizi di oblio volontario. La tanto decantata onestà non era che una tenue, precaria e fittizia rispettabilità sociale, quella sì difesa strenuamente; e come sempre nella grande arte umoristica di Mark Twain, il comico era già nelle cose, bastava soltanto iniziare a guardarle.
Sandokan, il Corsaro nero, Robinson Crusoe, Ivanhoe, Oliver Twist, Long John Silver, ma anche Tintin, e Humphrey Bogart de Il falcone maltese o James Stewart di Nodo alla gola o de La donna che visse due volte: di quanti adorati personaggi in apparenza culturalmente "poco presentabili" è, fin dall'infanzia, popolata la nostra fantasia? Siamo abituati a considerarli personaggi 'umili', anche se amatissimi, ma ecco che un filosofo e scrittore del calibro di Fernando Savater ci viene in soccorso partendo da un'affermazione che rovescia termini consolidati: "È l'avventura - mistero, emozione, rischio... - che ci ha resi umani. E il resto sono storie". Allora, liberi tutti! Rileggiamo senza vergogna la storia dei nostri gusti letterari, guidati da un cicerone sapiente, libero e spiritoso come Savater, attraverso le storie dei pirati, degli avventurieri, dei detectives, dei vampiri, dei mostri. E allora, come dimostra Savater in questo suo excursus nel mondo della fantasia, scopriremo che alla base di ogni storia c'è sempre l'arte di raccontarla, e che scrittori come Robert Louis Stevenson o Emilio Salgari, Daniel Defoe o Walter Scott, ma anche attori, come appunto Bogart o Stewart, o fumetti come Tintin o Flash Gordon, possono a buon diritto costituire gran parte dei grandi amori non solo nostri, privati, ma anche di un intellettuale raffinato come Fernando Savater, che ci insegna che è l'avventura a renderci umani. Finalmente!
Anni '30: in un villaggio di pescatori della Costa Azzurra arriva dall'Austria una coppia di giovani sposi: belli, spensierati, si abbandonano volentieri al clima dolce della riviera, entrando in relazione con gli abitanti del luogo e con altri turisti. Senza mai rinunciare del tutto ad un loro senso di superiorità ironica e di distacco rispetto al nuovo mondo che li circonda, se ne sentono tuttavia pian piano risucchiare, come se la sensualità del posto si insinuasse lentamente nei loro corpi e nei loro sogni, fino all'imprevedibile esito finale. Ma non si deve pensare a un aspetto 'morale' della narrazione: a Vogel non interessa affatto giudicare i suoi protagonisti, censurarne una certa leggerezza o liberalità di costumi. Quello che è straordinario in questo breve romanzo è semmai proprio l'opposto, l'osservazione quasi distaccata di come piccoli e a prima vista insignificanti particolari arrivino ad incidere sul destino delle persone; e solo allora queste potranno rendersi conto dell'enorme, spaventoso vuoto che le contraddistingue e che non attende che di essere colmato, in un modo o nell'altro. Come scrive Alessandro Guetta nella postfazione al volume: "La piccola pensione della riviera è un laboratorio delle passioni in cui la soluzione è distillata lentamente, quasi inavvertitamente".