Il cinquantesimo anniversario dell'apertura del Vaticano II (11 ottobre 2012) segna una tappa importante nel processo di ricezione del Concilio. Costituisce infatti una sorta di spartiacque tra la generazione che il Concilio lo ha 'fatto' (vescovi e teologi) e quella che ora lo eredita. Non si tratta di un passaggio facile. Infatti, le giovani generazioni conoscono poco del Vaticano II o non ne sono comunque particolarmente interessate. La distanza temporale comporta inevitabilmente uno scarto culturale e quindi anche un senso di estraneità rispetto all'epoca in cui il Concilio fu celebrato, così aperta al futuro e propensa all'ottimismo antropologico. E tuttavia il mutare dei tempi non rende obsoleto il Vaticano II, non pregiudica il suo essere realmente "la bussola sicura per orientarci nel cammino" di questo secolo, secondo una famosa espressione di Giovanni Paolo II. Al contrario, la tradizionalissima 'operazione' di ritorno alle fonti bibliche e patristiche, che costituisce l'anima più propria del Concilio, ha portato la Chiesa a una percezione maggiormente nitida della sua identità: quella di un popolo profondamente radicato nella storia umana, che va ascoltata e accompagnata con cordialità per poter proclamare fedelmente oggi il Vangelo di sempre. Come proporre il cristianesimo a questo tempo? È la domanda alla quale ci invita qui Gilles Routhier, uno dei massimi studiosi del Vaticano II. E che è stata, egli ci ricorda, proprio l'appassionato assillo dei Padri conciliari.
Pregare con il Salterio, nello stile d'Israele, di Gesù, della Chiesa primitiva e dei Padri - come ormai da cinquant'anni il Concilio Vaticano II propone di fare - è impresa esaltante e impegnativa. Bene lo sanno tutti coloro che ne hanno fruttuosamente abbracciato la pratica confidando nel fatto che "una comunità cristiana perde un tesoro incomparabile se non ricorre al Salterio, mentre scopre in sé una forza insospettata, quando lo ritrova" (Dietrich Bonhoeffer). In questa prospettiva si pone il libro raccolto e curato da Maria Ignazia Angelini e Roberto Vignolo - già curatori nella stessa collana di "Un libro nelle viscere. I salmi, via della vita" (2011) - nel quale si cerca di accompagnare i lettori a una maggiore familiarità con i salmi, così che ognuno arrivi a pregarli "come se lui stesso ne fosse l'autore" (Cassiano). Questo invito a entrare attraverso la porta del Salterio "nei paesaggi dell'anima" - come recita l'evocativo titolo del volume - si snoda mettendo a fuoco alcune attitudini spirituali fondamentali che caratterizzano certi salmi: fiducia (Sal 23 e Sal 56), penitenza (Sal 50 e Sal 51), memoria (Sal 77). Ma si sofferma anche a richiamare le modalità in cui tradizioni ecclesiali antiche - in particolare la tradizione siriaca e quella dei padri del deserto - sollecitavano a "mettere il tuo cuore nel tuo salmo", per poi addentrarsi nella tematica più generale e cruciale dell'amore di Dio. Il libro è dedicato al cardinal Martini (1927- 2012).
Il pensiero individualista e libertario che dagli anni Settanta disegna l’uomo come artefice di se stesso, guidato solo dalle proprie scelte e dai propri desideri, si rivela oggi più pericoloso di quanto potevamo immaginare. Conquiste importanti, come la fine dell’autoritarismo, il venir meno della distanza incolmabile tra le generazioni o l’affrancamento delle donne da un destino gregario, hanno finito per scorrere lungo una deriva che, da acquisizioni di civiltà, le ha trasformate in gabbie di solitudine e fragilità. Un nuovo imperativo, sociale ed economico, all’autodeterminazione a tutti i costi si è sostituito alle regole del passato, sulle cui macerie l’individuo si ritrova oggi disorientato e incerto. La sua stessa consistenza è in discussione. Lo testimoniano le nuove ansie e le inedite forme depressive, ben note a psichiatri, psicanalisti, medici generici, e a chiunque stia in ascolto della sofferenza umana. Forme di disagio che non riguardano solo la precarietà sociale o le vere e proprie patologie psicologiche. Il suolo umano si è impoverito, si è svuotato del suo humus di relazioni, legami, responsabilità, è divenuto friabile, inconsistente. Su questo terreno incerto l’uomo stesso diventa ‘di sabbia’. Una figura inafferrabile e impastata di contraddizioni, ma con un tratto distintivo che si staglia nitido sotto lo sguardo attento di Catherine Ternynck: la sensazione di una stanchezza. È un uomo che fatica a portare la sua vita. Costantemente dubita del tragitto e del senso. Chiede riconoscimento e rassicurazione. È per questo che Ternynck sceglie di affiancarlo attraversando «quei luoghi deteriorati dall’individualismo, dove le fondamenta umane sono in difficoltà»: in famiglia, all’interno della quale i bambini vengono spinti a un’autonomia troppo precoce, adorati e minacciati nello stesso tempo, e i rapporti tra le generazioni si trovano a fronteggiare le metamorfosi dei legami; nel sociale e nel mondo politico, con la crisi di legittimazione di chi ha il compito di riscrivere le regole o aiutare la coesione della vita in comune; nell’universo simbolico, dove l’identità stenta a costruirsi nel luccicante mercato del tutto e subito. Quest’uomo smarrito, dai contorni fluttuanti, ci parla di sé attraverso le tante voci che Catherine Ternynck ha ascoltato nel suo lavoro di terapeuta. Un racconto collettivo, una trama di esperienze che l’autrice tesse con una scrittura avvincente, limpida ed emozionante al tempo stesso, di grande empatia verso tutte le sfumature dell’umano e insieme lucida nel denunciarne le derive. Un’avventura dello spirito cui è invitato non solo lo specialista, lo psicanalista, ma l’uomo curioso, e forse preoccupato, della nostra epoca.
Che ci troviamo di fronte a una svolta epocale nella civiltà umana, tutti lo avvertiamo, più o meno lucidamente: come mai in passato, oggi l’individuo cerca di costruirsi da sé, insofferente a ogni limite, sia esso la tradizione o la natura. Una sorta di mutazione antropologica sta cambiando le strutture profonde dell’umano, esito sempre più appariscente della postmodernità. Giuliano Zanchi ne illumina il meccanismo coerente, implacabile e potente nei suoi diversi risvolti, da quello scientifico a quello economico, politico ed estetico. Di fronte a questo sogno estremo di emancipazione, la coscienza cristiana si sente profondamente turbata. Essa oscilla tra un rifiuto arroccato sulle vestigia di un passato glorioso e una resa spesso inconsapevole allo spirito del tempo. La grande bussola del Concilio Vaticano II, che negli anni Sessanta aveva restituito slancio e idealità a un cattolicesimo alle prese con le sfide moderne, sembra aver perso le sue capacità magnetiche. Eppure il credente sa di non poter restare umano separandosi dalla storia. Semplicemente perché il Dio di Gesù Cristo ad essa si è legato per sempre. I discepoli pertanto accompagneranno queste «prove tecniche di manutenzione umana» con una cordialità non acritica, mettendo in gioco la propria antica sapienza a proposito dell’umano: «La presenza cristiana», ci ricorda Zanchi, «è chiamata, proprio mentre la civiltà sembra impegnata in un lungo esodo verso mete ancora incerte, a riaffermare la sua irrinunciabile affezione per una forma comunitaria della vita evangelica impiantata nel cuore dell’esistenza comune, umilmente a fianco della costruzione umana collettiva, decisa a scegliere sempre per propria dimora il luogo dove gli umani hanno le loro case, la loro vita, le loro speranze».
Giuliano Zanchi, licenziato in Teologia fondamentale presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, è Segretario generale della Fondazione «Adriano Bernareggi» di Bergamo. Si occupa di temi al confine fra l’estetica e la teologia. Ha pubblicato Lo spirito e le cose (Vita e Pensiero, 2003); La forma della chiesa (2005); Nella luce dell’essere: conversazioni sul caso Van Gogh (2005), Il destino della bellezza (2008), Salomone e le formiche. La legge di tutti i giorni (Vita e Pensiero, 2010), Il Genio e i Lumi. Estetica teologica e umanesimo europeo in François-René de Chateaubriand (Vita e Pensiero, 2011).
Se c’è una cifra in cui il nostro tempo si riassume emblematicamente, è il drammatico venir meno dell’orizzonte della speranza: la vita appare schiacciata sul presente e sulle sue necessità, il futuro ha cessato di rappresentare una promessa capace di mobilitare desideri, energia, prospettive di azione. In un tempo di crisi radicale come quello che stiamo vivendo, il cristiano non può sottrarsi a un compito, quello di tenere viva la speranza, essenziale alla qualità umana stessa dell’esistenza. Ma la speranza non è facile da vivere, per nessuno, neppure per un cristiano. Essa infatti chiede lo sguardo lungo, cioè il coraggio della pazienza, che sa sopportare e non si lascia piegare da nessuna difficoltà. L’uomo paziente è l’uomo che si muove entro ampi orizzonti e sa attendere a lungo, come il contadino, dopo la semina. La speranza è affidata a un terreno la cui vitalità è nascosta. L’attesa è lunga, ma anche certa. Il cristiano fonda infatti la sua speranza nella memoria del Dio di Gesù Cristo: il seme del suo Regno è deposto nella terra della storia umana e certo porterà frutto. Questa visione di fondo ispira il libro di Bruno Maggioni, le sue riflessioni sugli aspetti fondamentali del cristianesimo, pensate per aiutare la lettura evangelica di questo tempo difficile, in cui i cristiani sono chiamati a vivere e testimoniare una speranza che non delude.
Bruno Maggioni è nato nel 1932 a Rovellasca (Como) e dal 1955 è sacerdote della diocesi di Como. Ha studiato Teologia e Scienze bibliche all'Università Gregoriana e al Pontificio Istituto Biblico di Roma. E' docente di Introduzione alla Teologia presso l'Università Cattolica di Milano.
Autore di numerosi libri, con Vita e Pensiero ha pubblicato: Le parabole evangeliche (1992), Padre nostro (1995), La pazienza del contadino (1996), La brocca dimenticata (1999), Davanti a Dio (2 voll., 2001-2002), Il seme e la terra (2003), Un tesoro in vasi di coccio (2005), Come la pioggia e la neve (2006), Come l'erba che germoglia (2009).
Il volume prende in esame, in un'ottica comparativa, alcune tematiche oggi importanti per comprendere le trasformazioni che la famiglia sta attraversando: la solidarietà tra le generazioni, le modalità di ingresso nella vita adulta e la formazione della coppia, la transizione alla genitorialità, con un'attenzione particolare al diventare padri, l'ultima transizione e le possibili forme di sostegno alla famiglia in questo 'passaggio', il complesso rapporto tra famiglia e lavoro, osservato anche dal punto di vista della figura paterna, le nuove forme del riunirsi in comunità familiari, l'esperienza della migrazione come evento che riguarda l'intera famiglia. L'approccio teorico adottato è quello della sociologia relazionale a motivo della sua valenza analitica ed esplicativa: da questa prospettiva, la famiglia è considerata come una relazione tra generi e generazioni, che attraversa un percorso costellato di transizioni, di passaggi critici che rappresentano una sfida per tutti i componenti della famiglia, al fine di costruire un nuovo equilibrio. Per l'attualità dei temi trattati, il volume rappresenta uno strumento utile per coloro che si affacciano allo studio delle tematiche familiari e un aggiornamento specifico per coloro che già operano e lavorano in questo ambito.
L'uomo nasce con un progetto educativo, che si realizza mediante i quattro incontri d'amore che la vita gli ha riservato: con la madre, con il padre, con il partner, infine con il figlio. Ogni incontro serve a preparare il successivo, e l'ultimo decide l'esito favorevole del primo incontro. Questo volume lancia una vera sfida al mondo dell'educazione, suggerendo che forse l'uomo non è mai stato educato a svolgere i ruoli nei quali soltanto matura e si esprime il sentimento della sua umanità. È diventato urgente che l'uomo apprenda ciò che un tempo era in lui spontaneo: crescere per impegnarsi verso una nuova generazione. Diventare adulti è il solo modo per scongiurare il pericolo di un uso improprio e distruttivo di un così grande potere acquisito mediante la conoscenza. Ora, crescere vuole dire maturare una serie di sentimenti, fiducia, speranza, verità, libertà, volontà, giustizia, amore, senza i quali non è possibile rispondere ai compiti della vita, che sono pochi, ma fondamentali per realizzare la natura dell'uomo. Compito di ogni bambino è diventare un figlio, trasformarsi in coniuge, convertirsi in genitore.
Guglielmo di Ockham (1280ca-1349), maestro francescano all'Università di Oxford, versatile figura di intellettuale, viene variamente definito innovatore, scettico, soggettivista, nominalista, pansemiotista, per la sua massiccia utilizzazione della logica nei diversi ambiti del sapere. Nelle sue opere infatti la logica assume una particolare importanza e apre nuove prospettive, alcune delle quali verranno successivamente sviluppate dalla moderna logica formale (come le dottrine dell'inferenza o dell'errore). "La logica di Ockham" si inserisce nel contesto di rinnovato interesse per la logica medievale, soprattutto dagli studiosi di scuola anglosassone, e offre un'analisi completa della posizione ockhamista a partire dalla "Summa logicae", opera di una poliedricità notevole. Attraverso un'attenta indagine dei testi, supportata dagli stimoli della più recente storiografia, viene presentata un'impegnativa ermeneutica volta alla puntuale ricostruzione filologica delle singole dottrine e alla ricerca della continuità con la testualità dei logici precedenti, vicini e lontani, per intercettarne la carica innovativa. Grande attenzione viene data alla semantica e alla semiotica, cosi come alle condizioni di verità delle proposizioni e alla logica modale.
Il complesso e quanto mai attuale tema del welfare, e del welfare pensionistico in particolare, viene affrontato qui in modo innovativo e originale, rispetto ai classici lavori monografici di matrice esclusivamente storico-sociologica o giuridica o economica o inseriti nell'area della scienza delle finanze. Il libro sceglie un approccio multidisciplinare per una maggiore e più completa comprensione della materia, che viene analizzata nelle sue diverse sfaccettature, secondo un filo conduttore volutamente 'non ideologico', capace di guardare al sistema di protezione sociale (nella sua storia, nelle sue finalità, nei suoi elementi critici e nelle sue possibilità e potenzialità future) avendo come riferimento prima di tutto la 'natura' del soggetto da 'proteggere': l'uomo, con le sue differenti peculiarità e attitudini, membro di una società che comprende al suo interno grandi e innegabili elementi di diversità. Il lavoro inizia con una ricognizione completa dei modelli di welfare che si sono sviluppati prevalentemente in Europa e ne analizza il processo di convergenza, dalla nascita del welfare state alla crisi di questi anni; prosegue poi con una ricostruzione storica dell'evoluzione del welfare in Italia, dall'Unità a oggi. Si passa quindi a un'analisi dettagliata dei profili economici, attuariali e gestionali dei sistemi previdenziali, per finire con una originale riclassificazione del bilancio dello Stato e della spesa per welfare regionalizzata.
Siamo talmente abituati a guardare il mondo e gli altri a partire da noi stessi che neanche ci accorgiamo più di cosa sia il bene. Agli altri non si va in un secondo momento, quando si è già scoperto da soli e per proprio conto che cos'è il bene. Il senso di qualcosa d'altro entra piuttosto dall'inizio e in maniera costitutiva nel suo concetto, perché il bene interroga e smuove da come si è. Senza sapere di qualcosa di diverso da sé, per come si è, non può nascere il bene, né un dovere. Non è neppure questione di individui o di comunità. Ovunque si manifesti la pretesa di coincidere del tutto con se stessi, di centrarsi su di sé, si allontana il richiamo del bene. Vi sono epoche che sembrano a prima vista più sensibili a ciò che unisce, all'universale, e altre che paiono più inclini a rivendicare le diversità. Pur con le proprie peculiarità, questo vale allo stesso modo per la classicità (platonismo, aristotelismo, tomismo), per l'epoca della soggettività (Kierkegaard, Sartre, postmoderno), per il dibattito sull'altruismo (solidarietà). Il bene accomuna, ma non azzera. Il bene differisce, ma non isola. Porta oltre sé ma rifiuta ogni sintesi dell'umano. Tenendosi a distanza da cliché di comodo, attraverso tre articolati movimenti (archeologia, esistenza, condivisione) si restituisce in via teorica ed ermeneutica la struttura in tensione del bene verso l'altro da sé.