Tutto ciò che si può dire della croce da un punto di vista umano è negativo: come ha potuto diventare un segno positivo? È stato possibile grazie al modo in cui Gesù ha vissuto quella sofferenza ingiusta, grazie al suo legame d'affetto col Padre. La croce non è un semplice simbolo, perché rappresenta la persona stessa di Gesù e richiama la vicenda da lui vissuta, un dramma di morte e di risurrezione. Nei secoli quell'oggetto si è caricato di riferimenti teologici e artistici, fino a diventare gioiello prezioso che orna corone e scettri, segno da porre sui campanili e sulle montagne, simbolo religioso per le scuole e le case. Percorriamo dunque le vie dell'arte e della storia seguendo la croce, per soffermarci su questo mistero capace di sconvolgere, affascinare e ispirare i cristiani di ogni epoca, che vi riconoscono il segno glorioso dell'amore di Dio per l'umanità.
La memoria è una scatola. Aprirla, guardare, ricordare, raccontare sono atti naturalmente concatenati in questa raccolta di storie e racconti di Carlo Verdone. L'attore e regista aveva già lavorato sulla memoria ne "La casa sopra i portici", pubblicato da Bompiani nel 2012, ritornando nelle stanze della casa di famiglia e ascoltando le vicende evocate da quel luogo. Nel suo nuovo libro è il disordine delle immagini in cui si imbatte, immagini dal passato, ad accendere la narrazione. Ogni racconto è un momento di vita vissuta rivisitato dopo tanto tempo: dal legame col padre ai momenti preziosi condivisi con i figli, dai primi viaggi alla scoperta del mondo alle trasferte di lavoro, dalle amicizie romane a un delicato amore di gioventù. Ovunque, sempre, il gusto per l'osservazione della commedia umana, l'attenzione agli altri - come sono, come parlano, come si muovono - che nutre la creazione dei personaggi cinematografici, e uno sguardo acuto, partecipe, a tratti impietoso a tratti melanconico su Roma, sulla sua gente, sul mondo. Leggendo queste pagine si ride, si sorride, ci si commuove, si riflette; si torna indietro nel tempo, si viaggia su treni lentissimi con compagni di viaggio sorprendenti, si incontrano celebrità e persone comuni, ugualmente illuminate dallo sguardo di un artista e di un uomo da sempre attento, per indole, vocazione e professione, all'altro da sé.
Nei giorni 27-29 settembre 2018 si è svolto, presso il Santuario Maria Madre della Chiesa di Jaddico (BR), il IV Convegno di Mariologia Carmelitana organizzato da entrambe le famiglie carmelitane. L’iniziativa di tali Convegni ha una sua storia partita proprio da questo santuario nel 2012 quando vi fu celebrato il primo sui tratti mariani più tipicamente carmelitani. Ad esso ne sono seguiti due celebrati nel 2014 a Sassone (Roma) e nel 2016 a Maddaloni (CE), ognuno con una tematica propria del carisma mariano dell’Ordine dei Carmelitani, in un’ottica di progressiva specificazione. Il tema trattato in questo IV Convegno è di grande interesse e assai importante per vari motivi. In primo luogo, perché l’immagine, l’icona, la rappresentazione del sacro hanno provocato sempre nella storia delle religioni una certa controversia, in molte occasioni non esente da violenza. Di fronte all’abbondanza e all’esuberanza delle immagini di alcune religioni, che potremmo definire politeiste (da alcune tradizioni orientali fino alla religione greco-romana), il monoteismo ha teso a pensare che il divino non è, per definizione, rappresentabile. Dio è al di sopra di qualsiasi espressione umana, di qualunque immagine e persino di qualsiasi nozione (si pensi alla teologia apofatica più radicale). Perciò, quando rappresentiamo Dio, il sacro, il divino, creiamo idoli che, in ultima analisi, finiscono col separarci da quello che vorremmo rappresentare. In secondo luogo, il tema trattato è fondamentale perché viviamo in un’epoca davvero “iconica”: siamo immersi nella cultura dell’immagine. I moderni metodi informatici hanno relegato in un secondo piano molte forme di comunicazione tradizionali. Il messaggio breve, abbreviato, talvolta ridotto ad immagini, a dubbiose trascrizioni fonetiche o a parole sconnesse è il linguaggio più abituale tra i nostri giovani. C’è chi vede questo processo con un forte pessimismo, come un ritorno alla barbarie o un regresso ai geroglifici, con conseguenze incalcolabili per l’espressione scritta e orale; c’è poi chi, al contrario, lo vede come un ventaglio di nuove forme di espressione, di maggiori possibilità di divulgazione culturale e di nuove manifestazioni artistiche e letterarie e, perché no, di nuovi linguaggi. In ogni caso, e quale che sia la valutazione di questo processo culturale in cui viviamo, non c’è dubbio che la riflessione teologica (la catechetica, la spiritualità, la missiologia e persino la teologia sistematica) non può eludere questo tema e deve riconsiderare il senso e la missione dell’immagine nella trasmissione della fede. Né la vita religiosa in generale, né il Carmelo in particolare, possono eludere questa riflessione così necessaria al momento di prendere in considerazione la propria missione.
«Dopo il volume inaugurale sui Vangeli dell'Infanzia, il secondo volume della collana L'arte racconta la Bibbia - come sottolinea p. Giulio Michelini nella Prefazione "non poteva che occuparsi della Passione: la vera origine dei Vangeli, infatti, è l'insieme degli eventi narrati alla fine dei quattro libri canonici, che vanno dall'ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme fino alla sua sepoltura. [...] Le rappresentazioni pittoriche della Passione, che questo volume, così prezioso, ci permette di comprendere e conoscere meglio, contengono non solo la storia delle sofferenze e della morte di Gesù, ma anche del modo in cui la teologia e la spiritualità si sono posti davanti a quello che è il cuore dell'iconografia cristiana". Articolato come un grande polittico di otto quadri che rispettano le scansioni evangeliche nella successione degli eventi, il testo delinea le varie tipologie iconografiche, analizza la raffigurazione dei personaggi in scena, spiega gli elementi simbolici che caratterizzano le opere, e lo fa - come è tipico di questa collana - grazie a «un'immensa convocazione di artisti che coprono l'intero arco della storia dell'arte cristiana» (card. Gianfranco Ravasi).»
Secondo una indovinata definizione di Renzo Arbore, Massimo Troisi era «un napoletano moderno». Moderno è anche il napoletano da lui portato in televisione e poi al cinema. In questo libro la lingua e lo stile di Troisi attore sono visti in correlazione con le modalità comunicative dei suoi anni, mentre si ridimensionano alcuni giudizi critici e stereotipi. "La Smorfia" di Troisi, Lello Arena ed Enzo Decaro irrompe in televisione negli anni Settanta del Novecento, con un uso consistente del dialetto, proprio quando si comincia frettolosamente a parlare di fine dei dialetti. Moderna è anche la soluzione adottata nel cinema, con un parlato recitato apparentemente incontrollato, ma in realtà minutamente dosato in un fluire dialogico che concede ampio spazio al dialetto. Oggi nella comunicazione spontanea i parlanti realizzano spesso frasi e discorsi in cui italiano, dialetto, italiano regionale si susseguono e si accavallano, proprio come accade nei film di Troisi, che sono documenti di modernità linguistica e di una rinnovata vitalità artistica dei dialetti.
Pubblicate grazie al lavoro di decine di artigiani tra il 1861 e il 1868, le incisioni di Gustave Doré per la "Divina Commedia" riscossero da subito un grande, meritato successo, tanto da imprimere i regni d'oltretomba nell'immaginario di più generazioni. Forse solo Michelangelo, nelle sue illustrazioni perdute per la "Commedia", aveva saputo rendere con energia paragonabile la plasticità tormentata dei corpi dei dannati, solo Botticelli la grazia e la leggerezza angelica dei beati. Impareggiabile resta la capacità di Doré di creare paesaggi inediti, dai mostruosi antri infernali mai toccati dal sole alla luminosità rarefatta dell'Empireo. Questo volume riproduce in forma integrale le centotrentacinque tavole, legandole con didascalie narrative che consentono di ripercorrere il viaggio dantesco "leggendo" le immagini: un omaggio al genio di Doré e insieme un invito a esplorare la "selva" dell'opera dantesca.
Oggi in Italia tutti hanno una ricetta in tasca per avvicinare gli italiani all'arte. Si tratta spesso di ricette a base di usurate pratiche di marketing, che dovrebbero far digerire Botticelli, come uno zuccherino aiuta a buttar giù la medicina amara, a cittadini considerati soltanto orde di consumatori inconsapevoli e irredimibili. Il risultato è desolante: ammesso (e per nulla concesso) che questa spintissima mercificazione serva a vendere qualche biglietto in più, è certo che non alimenta in alcun modo il nostro dialogo con l'arte. E se invece la ricetta fosse molto più semplice e rispettosa dell'intelligenza di ognuno di noi? Montanari traccia in queste pagine agili e appassionanti una possibile via per un'educazione artistica che sia anche educazione sentimentale e civica. E ci accompagna tra le strade del bello, dove alto e basso si mescolano, dove contemporaneo e classico sono parte di un unico grande discorso, che parte dalle mani impresse sulla roccia in una caverna e arriva a Banksy, passando per Raffaello, Monet, Pellizza da Volpedo e Rothko. «I monumenti ci parlano. In ogni modo provano ad attirare la nostra attenzione, implorano uno sguardo, una nostra sosta. Lo fanno perché, pur eterni o quasi, non vivono se non attraverso la vita dei vivi. Se accettiamo di far loro un po' di spazio nella mente e nel cuore, in cambio essi rendono più intensa, più profumata, più profonda la nostra vita. Temo che nessun produttore o responsabile di rete lo accetterebbe, ma il programma televisivo che davvero vorrei realizzare consisterebbe in una lentissima camminata in una qualunque chiesa storica del nostro Paese: e invece di fermarmi a far due chiacchiere con i passanti e i conoscenti, mi fermerei a leggere ogni lapide. Ognuno di quei brevi testi ha il potere di convocare davanti ai nostri occhi uomini e donne, eventi e pensieri, storie e vite di dieci secoli, e oltre. Dalla più sperduta chiesa si stende una rete di storie che avvolge l'Europa o il mondo interi, capace di farci sprofondare nei recessi intimi della nostra comune umanità».
Nel quadro del progetto editoriale «Percorsi Mechrí», la collana «Mappe del pensiero» mette annualmente a disposizione dei lettori i risultati della ricerca condotta dall'Associazione milanese «Mechrí / Laboratorio di filosofia e cultura», con la direzione organizzativa di Florinda Cambria e la supervisione scientifica di Carlo Sini. Preceduto da "Vita, conoscenza" (2018) e "Dal ritmo alla legge" (2019), il nuovo volume collettaneo "Le parti, il tutto" propone una retrospettiva sui lavori svolti a Mechrí nel 2017-2018. Tali lavori sono riattraversati dalla curatrice mediante un montaggio di testi e materiali grafici che rammentano il senso delle ricerche svolte da ciascuno degli Autori nel Laboratorio di Mechrí. Oggetto d'indagine condiviso è la relazione fra il molteplice e l'intero, interrogata entro una costellazione di linguaggi diversi. Filosofia e matematica, cinematografia e scienze naturali tracciano così un orizzonte transdisciplinare, nel quale ogni prospettiva testimonia il proprio essere manifestazione di un «sapere comune». Il volume è arricchito da un'ampia riflessione sul tema della transdisciplinarità, come criterio compositivo di funzioni o forme del conoscere, e da un'ampia riflessione sulla nozione stessa di «forma». In Appendice una raccolta di scritti, nati durante i recenti mesi di confinamento per emergenza sanitaria, esaminano gli effetti di didattica e «formazione a distanza» sulle attuali dinamiche di trasmissione e costruzione di conoscenza e coscienza collettiva. Contributi di Mario Alfieri, Enrico Bassani, Eleonora Buono, Florinda Cambria, Andrea Cavaggioni, Riccardo Conte, Francesco Emmolo, Rossella Fabbrichesi, Giovanni Fanfoni, Gianfranco Gavianu, Lorenzo Karagiannakos, Egidio Meazza, Manuela Monti, Andrea Parravicini, Gabriele Pasqui, Enrico Redaelli, Carlo Alberto Redi, Carlo Sini, Michela Torri, Fernando Zalamea.
Il Sabato santo rischia di essere considerato un intervallo vuoto tra la morte di Gesù e la sua risurrezione. Si tratta in realtà di un passaggio fondamentale per il cuore della fede cristiana, perché si colloca nel punto in cui morte e vita rifluiscono l'una nell'altra. Per spiegarlo, l’autore fa ricorso a tre film di Sean Penn, Spike Lee, Anne Fontaine e a un video di Bill Viola come se si trattasse di parabole contemporanee. Lo spettatore, con i protagonisti, è costretto a precipitare nel fondo oscuro della morte. Lì, con una logica sorprendentemente ineccepibile, avviene il rovesciamento e la vita si impone in tutto il suo fulgore. Luce e tenebre sono più intimamente connesse e la vittoria finale è completa proprio perché porta inscritto il dolore patito, non come un affronto fortunatamente superato o come la testimonianza di uno scampato pericolo, ma attraverso il segno dei chiodi sulle mani del Signore risorto.
Sommario
Introduzione. I. 11’09’’01 (Sean Penn, 2002). II. The 25th Hour (Spike Lee, 2002). III. Les innocents (Anne Fontaine, 2016). IV. Earth Martyr (Bill Viola, 2014).
Note sull'autore
Fabio Landi, licenza in Teologia sistematica, è docente al Liceo classico Parini di Milano e responsabile dell’Ufficio di pastorale scolastica della diocesi ambrosiana.
«Civiltà» è da sempre un concetto delicato, da maneggiare con cura. Una categoria ambigua, controversa, spesso definita per contrapposizione: da una parte «noi», i civilizzati, dall'altra «loro», i «barbari», vale a dire tutti quelli che non condividono i nostri valori. Anch'essi, però, hanno una loro storia da raccontare e persino una loro idea di arte. In realtà, con il termine «civiltà» dovremmo intendere una pluralità di mondi che si confrontano e dialogano fra loro attraverso il linguaggio dell'arte. E che attraverso l'arte ci parlano. Ma di cosa parlano le opere d'arte? Secondo Mary Beard, classicista di Cambridge, al cuore della creazione artistica ci sono due questioni coinvolgenti e controverse: la rappresentazione del corpo umano e la raffigurazione della divinità. Dai colossali faraoni egizi di Luxor alle ceramiche degli antichi greci, dalla statua di Afrodite ai guerrieri di terracotta sepolti insieme al primo imperatore della Cina, la figura umana è la chiave per comprendere non solo la rappresentazione del potere e la definizione dei ruoli sociali, ma anche la sessualità, l'erotismo, la virtù morale e politica, i valori di una comunità. Al punto che una particolare rappresentazione del corpo, risalente alla Grecia classica, ha contribuito a fissare i canoni della bellezza e della perfezione formale con cui per secoli l'Occidente ha valutato le altre culture. La seconda questione riguarda invece la raffigurazione visiva del sacro, un dilemma che tutte le religioni - spesso in bilico tra vanità idolatra e furore iconoclasta - hanno dovuto affrontare, giungendo a soluzioni superbe e affascinanti, come testimoniano lo splendore delle immagini musive della basilica di San Vitale a Ravenna, la Moschea Blu di Istanbul o le pitture rupestri delle grotte di Ajanta, che ritraggono il Buddha in cerca dell'illuminazione. "Civiltà" è un viaggio attraverso alcune delle pagine più emozionanti e meno note della storia dell'arte. Portando alla luce i tesori nascosti delle civiltà antiche, Mary Beard guarda oltre il canone tradizionale dell'immaginario occidentale e si rivela una guida preziosa per educare lo sguardo.
Lucio, chi sei tu? Un clarinettista jazz, un beatnik, un solista ventenne a Sanremo, un cantautore, uno dei più rivoluzionari musicisti della canzone italiana, una popstar globale adorata da quattro generazioni diverse? Lucio, dove vai? Nella tua Bologna in cui non si perde neanche un bambino, a Roma dove la sera fa miracoli, tra il caos di Corso Buenos Aires, nella Napoli il cui mare luccica? Lucio, cosa salvi dei momenti colorati che tu chiami vita? I dischi con il poeta Roberto Roversi, i concerti con De Gregori e Ron, le automobili delle Mille Miglia, «Caruso» cantata assieme a Luciano Pavarotti davanti a milioni di telespettatori? Ti contraddici, Lucio? Certo che ti contraddici: contieni moltitudini. E per fortuna le hai condivise con il mondo.
E ricomincia il canto è un viaggio nell’irripetibile, proteiforme, spettacolare esistenza di Lucio Dalla, narrato dalle sue stesse parole. Il ritratto di un artista che non si è mai negato ai microfoni, concedendosi generosamente a intervistatori di tutti i tipi – da Giorgio Bocca a Gianni Morandi, da Monica Vitti a Vincenzo Mollica – ed esponendosi no a mettere a nudo la sua più profonda intimità: la morte del padre a sette anni, l’intenso rapporto con la madre, i palchi calcati da adolescente autodidatta al fianco di Charles Mingus, Bud Powell ed Eric Dolphy, i lm con i fratelli Taviani e Mimmo Paladino, la passione per il basket, la devozione per Padre Pio, l’amore e il sesso, la creatività, la censura, le opinioni su venerati maestri e giovani esordienti – da Chet Baker ad Alanis Morissette, da Prince ai Nirvana –, le malinconie e le paure.
Curata dal musicologo Jacopo Tomatis, questa raccolta di interviste rappresenta un documento unico che attraversa i quarantacinque anni di carriera di una delle più grandi icone pop del nostro paese. Un’opera che ci ricorda che una canzone può terminare in qualunque momento, ma la sua musica continuare a risuonare: «Ma sì, è la vita che finisce / ma lui non ci pensò poi tanto. / Anzi si sentiva già felice / e ricominciò il suo canto».
Per secoli l'identità dell'Italia è stata legata ai suoi paesaggi e alla rappresentazione idealizzata delle loro forme. Un'immagine codificata da viaggiatori e artisti stranieri, che avevano riconosciuto l'unicità del Bel Paese in quella felice integrazione fra uomo e ambiente, fra architettura e natura, avvenuta in Italia nel corso della sua lunga storia. Il volume narra la parabola di quest'immagine, tracciandone la costruzione e le dinamiche legate ad alcuni elementi naturali simbolici, ma anche l'inefficacia e, in epoca recente, l'ambiguità. Gli autori dei saggi pubblicati in questo volume si interrogano sulle forze che hanno determinato le trasformazioni del paesaggio italiano contemporaneo e indagano l'avvio di nuove metamorfosi, dettate da una rinnovata consapevolezza per l'ambiente e le sue fragilità. In questo processo, un ruolo chiave è giocato dai paesaggisti. Operando con sensibilità su assetti compromessi, saranno loro a contribuire in modo significativo a una nuova Italia del paesaggio.