Come una visita medica, un film di fantascienza, un pomeriggio d'amore, questo è un viaggio nel corpo. Di tutti i libri sul tema, l'unico segnato da una virgola: "Corpo, umano". Virgola che impone una pausa, respiratoria e mentale, dentro la quale cercare il proprio, di corpo, oggi al centro di mille attenzioni, ma di nessuna cura: la medicina lo scompone in oggetti parziali, la vita online lo sottrae alle relazioni toccanti, la politica lo strumentalizza. Vittorio Lingiardi lo riporta con sensibilità al centro della scena e ci racconta gli organi che lo compongono - uno per uno, dal fegato al cervello, dagli occhi al cuore - con la voce della scienza e del mito, dell'arte e della letteratura. E riesce nell'impresa di restituircelo intero: «elettrico», direbbe Whitman, «vivente», direbbe Winnicott. Tutt'uno con la psiche. Autobiografico e psicoanalitico, medico e immaginifico, questo libro concepito in tre stanze - "il corpo ricordato", "il corpo dettagliato", "il corpo ritrovato" - ci accompagna in un viaggio avventuroso all'interno del corpo, celebrando la sua fisicità senza separarla dalla sua poetica. Il sangue e le cellule, i simboli e i ricordi. Con le spiegazioni della scienza, le immagini dell'arte, le parole della letteratura, Vittorio Lingiardi racconta la vita del corpo che è «il nostro io, ma anche il primo tu». Nella sua pratica clinica, nell'esercizio della cura, ne ha ascoltati molti, di corpi. La ricerca del contatto e dell'attaccamento, il tumulto dell'adolescenza, l'esperienza della malattia, il risveglio del desiderio, le metamorfosi del genere. Ma anche i sintomi e i silenzi: il taglio sulle braccia che attenua il dolore mentale; le ossa appuntite dell'anoressia; i muscoli gonfi della vigoressia; lo sguardo dismorfico che vede un difetto dove non c'è; il panico che simula l'infarto. Il nostro corpo ci segue e ci accompagna, sa consolarci, può essere nemico. È un laboratorio alchemico capace di apparizioni infinite: anatomico, fisiopatologico, sociale, politico, religioso, estetico, nudo, vestito, danzante, energico, stanco. "Corpo, umano" è un'evocazione, una ricostruzione idiosincratica e incantata. Dove pagina dopo pagina, organo dopo organo, affiora la consapevolezza che, anche quando rischia di svanire, l'unico modo per ritrovare il corpo è raccontarlo.
«In questo libro, Enzo Bianchi, con la sua abituale profondità umana e intelligenza spirituale, mostra che la fraternità è la vocazione dell'umanità. Siamo tutti fratelli e sorelle in umanità, mortali ma con la consapevolezza di essere viventi per stare in relazione gli uni con gli altri. Il grande dono che possiamo accogliere è l'altro: vicino o lontano, conosciuto o sconosciuto, amico o nemico. Se ci mettiamo accanto, abbiamo sempre di fronte un fratello, una sorella, e sentiamo di avere un'unica vocazione: passare dal dire "io" al dire "noi", per vivere insieme» (Dalla prefazione di Papa Francesco).
«Non abbiate paura!», è il monito che Gesù indirizza agli uomini. Non soltanto per sottrarre la loro vita a un'interpretazione solo moralistica e sanzionatoria della Legge, ma per affermare l'esistenza di un'altra Legge che li autorizza a coltivare il proprio desiderio - la propria vocazione, i propri talenti. È l'eredità fondamentale del messaggio cristiano ripresa dalla psicoanalisi di Freud e Lacan: la parola di Gesù mette in valore una Legge che attraverso il desiderio serve la vita e non la morte. Il tema centrale di questo libro concerne la parola di Gesù, riletta originalmente da Massimo Recalcati come una delle radici inaudite della psicoanalisi dell'«ebreo» Freud e del «cattolico» Lacan. Non si tratta di sottomettere la vita alla Legge, ma di vedere nella Legge - quella dell'amore e della grazia - una forza al servizio della vita. La Legge non incute più il timore della punizione severa, non esige più lo zelo scrupoloso del rispetto formale, ma si libera della morte che porta con sé per divenire una Legge che non annulla il desiderio, ma, al contrario, lo sostiene. È questa l'eredità essenziale assunta dalla psicoanalisi: la Legge non è nemica del desiderio, ma il suo fondamento più radicale. I riferimenti alle parabole, ai miracoli, alle guarigioni, a Pietro e a Giuda, alla notte del Getsemani, alla resurrezione e al pensiero di Paolo di Tarso sono rivisitati in modo sorprendente. Qui Recalcati sfida luoghi comuni e stereotipi della lettura psicoanalitica del cristianesimo mostrando con grande audacia come la testimonianza di Gesù sia innanzitutto testimonianza della vita indistruttibile del desiderio.
Arrivato alla soglia dei novant'anni, dopo aver affascinato i suoi lettori con i segreti della Storia, della musica e della religione, Corrado Augias racconta l'avventura di una vita, la sua. E con grande talento di narratore, evoca l'infanzia in Libia, il ritorno a Roma, l'incubo dell'occupazione tedesca, il collegio cattolico, i primi passi nel giornalismo, e poi «Telefono giallo» e «la Repubblica». È un racconto che ha il calore e l'empatia della conversazione tra amici: la vita s'impara, ci dice Augias - soprattutto se non si perdono mai la curiosità intellettuale e la passione civile. A quasi novant'anni, Corrado Augias è un prezioso testimone del cambiamento. L'Italia di oggi - esclusi gli eterni vizi nazionali - assomiglia poco a quella di ieri. Augias ci racconta l'infanzia passata in Libia al seguito del padre ufficiale della Regia Aeronautica; la guerra e i bombardamenti; l'incubo di una feroce e lugubre occupazione; gli anni in un collegio cattolico, per lui che oggi si confessa ateo. E poi la vita professionale, il giornalismo, i libri, le fortunate circostanze che lo hanno reso partecipe di tre eventi importanti nella vita culturale del paese: la nascita della Direzione centrale programmi culturali della Rai; la fondazione del giornale «la Repubblica» nel 1976, il rilancio di RaiTre nel 1987. L'invenzione di alcuni fortunati programmi televisivi da «Telefono giallo» a «Babele», da «Città segrete» alla più recente creatura «La gioia della musica», ultimo programma ideato per la Rai prima del passaggio a La7 ancora una volta con un fortunato programma di cultura: «La Torre di Babele». Accadimenti che sono però solo la parte pubblica di un percorso che ha una componente intima ancora più interessante: il lungo apprendistato a una matura dimensione d'intellettuale. Agli eventi che hanno scandito la sua vita, Augias affianca le letture di cui s'è nutrito e dalle quali ha «imparato a vivere». Da Tito Lucrezio Caro a Renan, da Feuerbach a Freud e poi Spinoza, Manzoni, Beethoven, Nietzsche, Leopardi, i suoi maestri sono pensatori, poeti, narratori, musicisti: una costellazione ampia che non esita a chiamare il suo pantheon, figure che hanno arricchito il suo percorso professionale e, insieme, la sua consapevolezza di cittadino.
Di che colore è la vaghezza? E qual è la differenza tra il grigio sopra le nubi e il grigio lama smussata? Quanto è buio il nero cecità? L'indaco di montagna, il marrone vento d'inverno, il bianco cielo con luna: tutto in Giappone ha un suo colore, perché col colore si può dire ogni cosa. Laura Imai Messina racconta il Giappone in un modo unico ed emozionante: attraverso i suoi colori. In un caleidoscopio di storie, leggende, tradizioni, e con le splendide illustrazioni di Barbara Baldi, "Il Giappone a colori" ha la forza gentile e dirompente dei viaggi che ci cambiano lo sguardo. «Cade la pioggia, sulla riva rocciosa di Jogashima / cade una pioggia color Rikyu», scrive il poeta Hakushu Kitahara: ma Sen no Rikyu è un antico maestro della cerimonia del tè vissuto molti secoli prima, come può una persona indicare una precisa sfumatura del grigio? E perché a un certo punto alcuni colori divennero «colori proibiti» appannaggio esclusivo della corte imperiale e come reagì la popolazione a quel «furto»? O ancora: quante sfumature di un sentimento si possono comunicare attraverso la semplice scelta del colore della carta di un messaggio d'amore? Fra i tanti segreti che il Giappone tuttora conserva allo sguardo occidentale, c'è il suo straordinario rapporto con i colori. Color piume bagnate di corvo, color piume nere di gru, campo arido, cielo illuminato dalla luna, lama smussata: i nomi dei colori tradizionali del Giappone sono già un assaggio di poesia. Ma quando scopriamo le storie, le tradizioni o le leggende che si nascondono dietro questi nomi, la meraviglia si moltiplica. Ognuno di essi (a cominciare dai fondamentali: grigio, bianco e nero) si porta dietro una storia che è parte della Storia del paese, della sua letteratura e della sua arte. Una ricchezza che arriva fino al presente. Quando poi a raccontare questo universo di infinita varietà è la penna di una scrittrice come Laura Imai Messina, i colori del Giappone riescono a illuminare angoli bui del cuore di ognuno con imprevedibili risonanze. Unendo la sua competenza di studiosa (e la conoscenza di prima mano della cultura giapponese) con le sue doti di narratrice, Laura Imai Messina scrive un libro unico e prezioso, un invito al viaggio e all'immaginazione, un romanzo epico i cui protagonisti sono i colori.
In questo nuovo "Museo del mondo", Melania Mazzucco crea una galleria di capolavori nei quali la donna è "soggetto due volte": perché concepisce e realizza l'opera e perché ritrae se stessa o un'altra donna. Qui il lettore incontrerà artiste straordinarie, la cui grandezza è stata ignorata, sminuita o del tutto negata, poiché spesso gli uomini insinuavano che dietro la sapienza inventiva e la perizia tecnica si nascondesse una mano maschile. Anche quando riconoscevano alle donne una certa bravura, trovavano il modo di ridimensionarla. Di Plautilla Nelli, Vasari diceva: «Avrebbe fatto cose meravigliose se, come fanno gli uomini, avesse avuto commodo di studiare et attendere al disegno e ritrarre cose vive e naturali». Mazzucco ci chiede di rovesciare la frase: «Nonostante, invece che se. Nonostante non avesse potuto studiare né conoscere il mondo e la natura, nonostante avesse dovuto lavorare su repertori e immagini di altri e creare pittura dalla pittura e non pittura dalla natura e dalla vita, nonostante avesse difficoltà ad aggiornarsi e nessuna libertà di muoversi, Plautilla Nelli possiede cognizioni geometriche, un buon disegno, il dono di combinare i colori. È una Maestra, insomma». Da Artemisia Gentileschi a Plautilla Briccia ("l'architettrice"), da Frida Kahlo a Georgia O'Keeffe, fino a Carol Rama, Louise Bourgeois e Marlene Dumas, Mazzucco ci affascina e ci coinvolge con nuovi, emozionanti racconti dall'universo della pittura e della scultura. Un percorso collettivo, tutto femminile, nel quale le donne rivendicano il diritto di realizzarsi nell'arte, superando i ruoli che la società e la cultura del tempo hanno sempre assegnato loro.
Quasi tutti sanno che Murakami è un avido ascoltatore di musica, un determinato collezionista di dischi - possiede oltre diecimila vinili - o che è un patito della corsa. In pochi, però, sono a conoscenza di un'altra sua speciale e curiosissima passione: le T-shirt! Sì, perché le magliette sono il capo d'abbigliamento che Murakami preferisce indossare in assoluto, e nel corso degli anni ne ha accumulate così tante che oggi il grande scrittore giapponese può vantare una vera e propria collezione, e tra le più invidiabili. T-shirt a tema surf che arrivano dalle spiagge delle Hawaii oppure acquistate durante i viaggi negli Stati Uniti a ricordare uno speciale rituale gastronomico, le T-shirt mai indossate - scritte alquanto appariscenti o animali troppo carini -, quelle che le case editrici in giro per il mondo hanno fatto stampare in occasione dell'uscita dei suoi libri, o ancora l'emblematica T-shirt, con la sua storia affascinante, che ha ispirato il racconto Tony Takitani diventato anche un film. Dalla gioia di entrare in un negozio dell'usato pieno di dischi, all'emozione di ogni concerto, dalla gratificazione che deriva dal traguardo di una maratona allo sconfinato amore per la letteratura, Murakami ci guida alla scoperta della sua passione per le T-shirt attraverso le immagini dei suoi pezzi da collezione e i racconti a essi legati. Di fatto ci invita nel suo straordinario mondo quotidiano a passare un po' di tempo con lui. Proprio come si fa con i vecchi amici.
Le donne furono protagoniste della Resistenza: prestando assistenza, combattendo in prima persona, rischiando la vita. Una «metà della Storia» a lungo silenziata a cui Benedetta Tobagi ridà voce e volto, a partire dalle fotografie raccolte in decine di archivi. Ne viene fuori un inedito album di famiglia della Repubblica, in cui sono rimesse al loro posto le pagine strappate, o sminuite: le pagine che vedono protagoniste le donne. "La Resistenza delle donne" è dedicato «A tutte le antenate»: se fosse una mappa, alla fine ci sarebbe un grosso «Voi siete qui». Insieme alle domande: E tu, ora, cosa farai? Come raccoglierai questa eredità? La storia delle donne italiane ha nella Resistenza e nell'esperienza della guerra partigiana uno dei suoi punti nodali, forse il più importante. Benedetta Tobagi la ricostruisce facendo ricorso a tutti i suoi talenti: quello di storica, di intellettuale civile, di scrittrice. "La Resistenza delle donne" è prima di tutto un libro di storie, di traiettorie esistenziali, di tragedie, di speranze e rinascite, di vite. Da quella della «brava moglie» che decide di imbracciare le armi per affermare un'identità che vada oltre le etichette, alla ragazza che cerca (e trova) il riscatto da un'esistenza di miseria e violenza, da chi nell'aiuto ai combattenti vive una sorta di inedita maternità, a chi nella guerra cerca vendetta e chi invece si sente impegnata in una «guerra alla guerra», dalle studentesse che si imbarcano in una grande avventura (inclusa un'inedita libertà nel vivere il proprio corpo e a volte persino il sesso), alle lavoratrici per cui la lotta al fascismo è la naturale prosecuzione della lotta di classe. Tobagi racconta queste storie facendo parlare le fotografie che ha incontrato in decine di archivi storici. Ne viene fuori quasi un album di famiglia della Repubblica, ma in cui sono rimesse al loro posto le pagine strappate, o sminuite: le pagine che vedono protagoniste le donne. Un libro che possiede il rigore della ricostruzione storica, ma anche una straordinaria passione civile che fa muovere le vicende raccontate sullo sfondo dei problemi di oggi: qual è il ruolo delle donne, come affermare la propria identità in una società patriarcale, qual è l'intersezione tra libertà politiche, di classe e di genere, qual è il rapporto tra resistenza civile e armata, tra la scelta, o la necessità, di combattere e il desiderio di pace?
Un tramonto e un'aurora, un declino e un'affermazione. La fine di Roma assomiglia a due figure che si rispecchiano l'una nell'altra, ora opposte ora strettamente connesse, come lo sono due lottatori che si stringono reciprocamente nel tentativo di sopraffarsi. In questo nuovo, affascinante affresco storico, Corrado Augias ci presenta la Roma cristiana, raccontando le storie di uomini, donne, luoghi e monumenti che caratterizzarono la fine del vecchio mondo, e annunciarono l'inizio e il trionfo di una nuova epoca. All'inizio del IV secolo l'Impero romano contava circa settanta milioni di abitanti, e si stima che meno del dieci per cento della popolazione aderisse alla religione cristiana. Una minoranza, ma in crescita. Adottare dunque quella religione, ammetterla tra le fedi consentite e dichiararsene membro, fu, da parte di Costantino, un gesto di immensa audacia. Dopo aver annientato il penultimo dei suoi concorrenti, Marco Aurelio Valerio Massenzio, nella famosa battaglia di Ponte Milvio, Costantino entrò trionfalmente a Roma percorrendo per l'intera lunghezza la via Lata (attuale via del Corso). Era il 29 ottobre del 312, giorno che può essere scelto come la data ufficiale di passaggio tra mondo antico e mondo cristiano. Ma nei fatti non è proprio cosí. Le date che indicano i grandi passaggi della storia umana sono sempre convenzionali. È difficile dire da quanto tempo quei nuovi modi di sentire e di vivere avessero realmente avuto inizio, quali e quanti fattori li avessero determinati e quali altri provocarono invece il declino e la scomparsa di riti, simboli, credenze, costumi sui quali milioni di individui avevano basato la propria esistenza. Resta che nel 324, diventato imperatore unico Costantino, la religione cristiana aveva assunto un'importanza e una dimensione mondiali e che sul finire del secolo l'imperatore Teodosio, detto il Grande, con il suo Editto di Tessalonica, la rendeva unica e obbligatoria. Era solo un primo passo; sarebbe stato via via completato proibendo culto e sacrifici pagani con la minaccia di punizioni severissime, compresa la pena di morte. In pochi anni i cristiani si erano trasformati da perseguitati in persecutori, e il mondo si apprestava a conoscere una nuova fase della sua storia. Tra sapere e meraviglia, Corrado Augias ci guida sui luoghi che furono protagonisti della rivoluzione cristiana, svelando monumenti e rovine che continuano a dare potente testimonianza della fine di un mondo. Ne risulta un'avventura affascinante - e un modo nuovo di vedere Roma - che dà alle pagine l'incanto che sempre deriva dal piacere della scoperta.
La Legge del Dio ebraico è la Legge della parola. Questa Legge non è solo scritta sulle tavole di pietra, ma intende inscriversi innanzitutto nel cuore degli uomini. Essa sancisce l'impossibilità dell'uomo di farsi Dio e, nello stesso tempo, dona a esso la possibilità generativa del suo desiderio. Si tratta di una dialettica ripresa in modo originale dalla lezione di Freud e di Lacan. In un lavoro senza precedenti, Massimo Recalcati dimostra che non solo non c'è contrapposizione tra il logos biblico e la psicoanalisi, ma che quell'antico logos ne costituisce una delle sue radici più profonde. La critica freudiana della religione come illusione sembra condannare il testo biblico senza alcuna possibilità di appello. La psicoanalisi è sin nelle sue fondamenta atea perché non crede all'esistenza di un «mondo dietro al mondo» se non come una favola che serve ad attutire il dolore dell'esistenza. La lettura delle Scritture che Massimo Recalcati propone in questo libro rivela invece l'esistenza inaudita di radici bibliche della psicoanalisi. Non è una tesi teologica o una dimostrazione filologica, ma un effetto del suo incontro singolare con il testo biblico. Non si tratta di psicanalizzare la Bibbia, ma di riconoscere in essa la presenza dei grandi temi che verranno ereditati dalla psicoanalisi, con particolare riferimento all'opera di Freud e di Lacan: il carattere originario dell'odio rispetto all'amore; la radice invidiosa del desiderio umano; il fallimento e la necessità della fratellanza; il rapporto dialettico tra Legge e desiderio; la funzione simbolica del Nome del padre; il lutto necessario della totalità; la centralità attribuita al resto salvifico che sottrae la vita alla morte e alla distruzione; la maledizione della ripetizione e la sua interruzione; la tentazione idolatrica come desiderio perverso dell'uomo di essere Dio; la critica al fanatismo ideologico del sacrificio; il taglio virtuoso della separazione; l'eccedenza della gioia erotica; la scissione della Legge di fronte al reale della sofferenza e al suo grido.
Il male che si accanisce contro Giobbe non può più essere concepito come una punizione, poiché egli non ha commesso alcun delitto; non può più essere una vendetta, poiché egli non ha colpito nessuno. Nel trovarsi esposto alla violenza insensata della sofferenza Giobbe si trova immerso in una esperienza intraducibile. Resta solo il grido rivolto a Dio come il modo più radicale della domanda. La stessa che egli porta nell'etimo del suo nome: Giobbe significa nella lingua ebraica «dov'è il padre?» Domanda che sovrasta ogni possibile risposta. «Il dolore di Giobbe - come scrive Recalcati - non può essere ricondotto all'ordine del senso perché nessuna teologia, come nessuna altra forma di sapere, è in grado di spiegarne l'eccesso». Il grido di Giobbe accade quando le parole sono costrette al silenzio, spezzate dal trauma del male. Esso non è indice di rassegnazione ma di lotta e di resistenza. Dopo La notte del Getsemani e Il gesto di Caino, con Il grido di Giobbe continua l'intenso e sorprendente viaggio di Massimo Recalcati lettore della Bibbia, impegnato a rintracciare l'eredità più profonda del pensiero psicoanalitico che si concluderà, a breve, con un'ampia e attesa opera.
È il 23 dicembre 1834 quando due gesuiti bussano a una porta di via di Sant'Anna. Sono stati chiamati al capezzale di una giovane donna «ritenuta ossessa», Veronica Hamerani, per liberarla dagli assalti del demonio. Inizia così questa vicenda inquietante, di cui la storica Fernanda Alfieri compie un'accuratissima ricostruzione partendo dal ritrovamento di un manoscritto nell'Archivio generale della Compagnia di Gesù. È il diario che gli esorcisti hanno tenuto durante i mesi in cui si è protratto il rito: non solo è un racconto disturbante, in cui "il diavolo", tra violenti improperi e battute in romanesco, prende direttamente la parola, ma è anche la testimonianza straordinariamente viva delle tensioni di un'epoca. Da una parte lo sguardo della Chiesa, la convinzione che il Maligno abbia preso possesso del corpo della ragazza e la volontà di riportarlo, quel corpo, sotto il proprio controllo; dall'altra quello della medicina che vede le convulsioni di Veronica come una malattia curabile, l'isteria. Dall'anziano padre Kohlmann, che aveva attraversato i continenti, fuggendo dalla Francia in Rivoluzione e approdando, attraverso l'Impero russo, negli Stati Uniti, e ogni volta vedendo il mondo, il suo mondo di antico regime, distrutto da un tempo presente ingovernabile; al giovane malinconico padre Manera, il più colto e dubbioso (e se la ragazza stesse solo fingendo?) E poi i medici, la famiglia, il Vaticano, la Roma papalina, tesa tra la superstizione e la modernità, fra la chiusura e il cosmopolitismo. Tutti sguardi e volontà di controllo che si stringono intorno al corpo di Veronica. Lo scrutano, lo misurano, lo interpretano. Lo zittiscono. A questo corpo conteso, a questo nome cancellato, a questa parola sottratta, Fernanda Alfieri restituisce la dignità di una storia. "Veronica e il diavolo" è uno spaccato affascinante e perturbante della nostra storia, del nostro rapporto con la scienza e col soprannaturale, dell'intreccio violento fra saperi e poteri.
«Scoprire» è togliere ciò che serve a nascondere alla vista, riscattare dalle profondità ciò a cui era negata la luce. Partire dall'oscurità, allora, per comprendere più chiaramente: è questo che si propone Robert Macfarlane quando decide di intraprendere i suoi viaggi di esplorazione nel sottosuolo. Girando il mondo alla ricerca dei luoghi più nascosti, inaccessibili, straordinari, l'autore si è affidato a scienziati e guide locali per scendere nel ventre della Terra, e alla pagina scritta per riemergerne con nuove consapevolezze. Perché qui, sotto i nostri piedi, la mappa delle relazioni tra gli esseri umani e la natura si fa complessa, ma anche più nitida e affascinante. E luoghi insospettabili si rivelano custodi di arcani segreti. Come le Mendip Hills - non troppo lontane da casa per Macfarlane - che sovrastano tumuli funerari dell'Età del bronzo, o Boulby, nello Yorkshire, dove in un laboratorio a quasi un chilometro sotto la superficie si registrano segnali della materia oscura dallo spazio. O la romantica Parigi che si sdoppia nell'inquietante città invisibile delle catacombe - in cui lo scrittore si cala sfidando coraggiosamente la claustrofobia -, oggi considerata meta di pellegrinaggio da chi pratica l'urban exploration. O l'altopiano del Carso, attraversato da fiumi sotterranei scavati nel calcare. O le remote isole Lofoten, animate da misteriosi danzatori rossi dipinti nelle grotte marine, o la Groenlandia, dove si può ascoltare il blu dei ghiacci sofferenti per i cambiamenti climatici. O ancora Olkiluoto, in Finlandia, dove i rifiuti nucleari vengono sepolti in un nascondiglio che potrebbe trasformarsi in un devastante vaso di Pandora per i posteri. Ogni avventura sotterranea di Macfarlane diventa un racconto speciale, affollato di personaggi autentici e appassionati e percorso dalle parole di poeti, scrittori, artisti, studiosi che hanno corteggiato le profondità della Terra prima di lui. E tra le stratificazioni del passato e del presente, Macfarlane scorge anche una speranza per il futuro: perché solo attraverso la conoscenza di ciò che è stato sarà possibile orientarsi negli abissi ignoti di ciò che verrà. E correggere la rotta prima che sia troppo tardi.
La sera del 29 gennaio 1996 un incendio illumina il cielo di Venezia: il teatro La Fenice brucia. L'incendio è stato appiccato dal titolare di una piccola ditta in ritardo sulla fine dei lavori per il restauro del teatro. Giorgio Falco ha scritto un libro che come un incendio illumina e divora il suo oggetto: ricostruzione di una storia vera e sua decostruzione; romanzo di un'ossessione; indagine sul desiderio e sul potere del denaro di trasformare le cose e i corpi; ritratto in maschera degli ultimi quarant'anni di storia italiana, autobiografia di tutti. Quando l'incendio si spegne, "Flashover" è il libro per capire il mondo che resta.
Il gesto di Caino è senza pietà: uccide il fratello spargendo il suo sangue sulla terra. Non lascia speranza, non consente il dialogo, non ritarda la violenza efferata dell’odio. È da questo gesto che la storia dell’uomo ha inizio. Sappiamo che l’amore per il prossimo è l’ultima parola e la piú fondamentale a cui approda il logos biblico. Ma non è stata la sua prima parola. Essa viene dopo il gesto di Caino. Potremmo pensare che l’amore per il prossimo sia una risposta a questo gesto tremendo? Potremmo pensare che l’amore per il prossimo si possa raggiungere solo passando necessariamente attraverso il gesto distruttivo di Caino? Quello che è certo è che nella narrazione biblica l’amore per il prossimo viene dopo l’esperienza originaria dell’odio.
Prendendo spunto dai temi e dai problemi con cui ci confrontiamo ogni giorno, attraverso la lettura di autori prediletti come Spinoza e Montaigne, Augias ricollega il presente al passato e alle cause che l'hanno provocato, rendendo più comprensibile e meno ansioso l'orizzonte degli eventi. «Viviamo anni rivoluzionari in cui scompaiono abitudini consolidate, canoni politici, riferimenti culturali ed etici che a lungo hanno dato fisionomia alla nostra civiltà. Innovazioni scientifiche e tecnologiche inimmaginabili fino a pochi decenni fa hanno reso possibili e anzi banali risultati e capacità smisurate; i cambiamenti si succedono con vertiginosa velocità trasformando non solo il nostro mondo fisico e virtuale, ma la psicologia delle nuove generazioni - secondo alcune diagnosi la loro stessa stessa antropologia -, e comunque introducendo nuovi modi di vivere, e nuove epidemie [...] Proprio perché siamo nel mezzo di una bufera, è ancora più importante avere consapevolezza e memoria del percorso che ci ha portato fin qui. Dovendoci attrezzare per sopravvivere in quanto Sapiens, è utile conservare quanto più si possa di un sapere che contiene insegnamenti fondamentali quale che sia il tipo di comunicazione e di convivenza che nel prossimo futuro ci aspetta [...] La memoria del passato serve a mettere i fatti in prospettiva, tracciare un percorso, individuare le cause e i loro effetti, fornire - quando è possibile - un punto d'orientamento. Non c'è futuro, luminoso o obbligato che sia, che ci salvi dal dovere di trasmettere il passato, prima che tutto finisca travolto da un nuovo mondo, come presto o tardi certamente avverrà».
La cerimonia del tè è uno dei riti tradizionali più affascinanti del Giappone. I monaci buddisti del sedicesimo secolo hanno codificato ogni passaggio di questo rituale che, attraverso i gesti più semplici, chiama i partecipanti a concentrarsi sulla profonda ricerca di se stessi. Con quella sua ritualità che immutata attraversa i secoli, la cerimonia del tè sembra qualcosa di molto lontano dalla vita di tutti i giorni. Lo sembrava anche a Morishita Noriko quando, studentessa svogliata e indecisa sulla strada da intraprendere, su consiglio della madre prese a frequentare un corso sulla cerimonia del tè. Non sa che quelle prime lezioni sono l'inizio di un viaggio che durerà tutta la vita. I momenti dedicati alla cerimonia del tè, ai suoi riti, alla meditazione che impone e, contemporaneamente, dischiude diventano momenti per trovare un senso alle prove che la vita mette davanti a Noriko: un matrimonio annullato poche settimane prima della cerimonia, il tentativo di conciliare il lavoro con il privato, un trasferimento oltreoceano... il caos della vita si riconcilia nel tempo concentrato di una tazza di tè.
Sono le parole di un grande scrittore e non di un professionista del mondo delle arti figurative o di un accademico, quelle che Julian Barnes mette in conversazione con le immagini di alcune grandi opere del canone occidentale tra il 1850 e il 1920, dal maturo Romanticismo fino al Modernismo e oltre. Il punto di partenza è il dipinto noto come La zattera della Medusa di Géricault, di cui Barnes segue le fonti storiche nel naufragio della fregata francese Meduse nel luglio del 1816, per spostarsi poi sulla storia dei bozzetti preparatori e dell'autoreclusione del pittore per otto mesi durante il lavoro sulla grande tela, fino a offrire risposta su che cosa trasformi la catastrofe in arte, dopo aver trasformato l'evento in immagine. I saggi trattano dipinti di Manet, Bonnard, Vuillard, Degas, Cézanne, ma anche di Vallotton, Braque, Picasso e Magritte, fino agli inquieti ritratti di Lucian Freud, con la loro spietata ricerca dell'anima della carne, e al gigantismo giocoso di certa Pop Art destinata, nel giudizio di Barnes, a invecchiare male e approdare a una senilità precoce e un tantino ridicola. Si tratta di testi eruditi e brillanti che garantiscono tuttavia un piacere ulteriore a chi vi si accosta, quello di suggerire in controluce alle figure descritte potenziali personaggi o scene di romanzi di Barnes. Accade con l'analisi di certi interni borghesi di Vuillard, con l'attenzione tutta narrativa riservata alla posizione dei piedi nel dipinto di Manet L'esecuzione dell'imperatore Massimiliano; accade nel racconto delle vite a confronto di Braque e Picasso. Barnes si sbilancia, si diverte, ci incanta. E, dopo aver sommessamente contraddetto per quasi trecento pagine le indicazioni del maestro Flaubert, secondo il quale i grandi dipinti non vogliono parole a illustrarli, Barnes liquida se stesso commentando cosí le opere dell'amico Howard Hodgkin: «Questi quadri parlano ai miei occhi, al mio cuore, alla mia mente. Perciò, basta con le parole».
Nel 1938, Karl Schwarz, il nonno tedesco dell'autrice, rileva, nell'ambito del processo di arianizzazione voluto dai nazionalsocialisti, la piccola azienda di prodotti petroliferi di Julius Löbmann, pagandola assai meno di quanto in realtà valesse. E quando dopo la guerra questi, unico sopravvissuto della sua famiglia sterminata in un campo di concentramento, chiede di essere risarcito, Schwarz per anni si rifiuta di far fronte alle rivendicazioni del padrone di un tempo. Alla fine pagherà, ma in famiglia l'episodio verrà il più possibile nascosto e infine rimosso. Da questa situazione individuale prende avvio la ricognizione di Géraldine Schwarz, che allarga subito la visuale mettendo in evidenza come la «mancanza di memoria» della sua famiglia trovi un pendant nelle strategie politiche della Germania nel dopoguerra: Adenauer, il primo cancelliere tedesco, se da un lato vincola il paese alle democrazie occidentali, dall'altro in molti ambiti della vita pubblica tollera la presenza di importanti personaggi del regime hitleriano. Bisognerà attendere sino agli inizi degli anni Sessanta, prima che nell'opinione pubblica tedesca si avvii quella riflessione sulle proprie colpe che ha portato alla Germania contemporanea. Ma la disamina dell'autrice si sposta ben presto anche su altri paesi come l'Italia, dove per anni ha potuto tranquillamente essere rappresentato in Parlamento il Movimento sociale italiano, un partito che non nascondeva le sue radici fasciste; o l'Austria sempre ben attenta a negare l'entusiasmo con cui Hitler e le sue truppe vennero accolti il giorno dell' Anschluss o infine l'altro paese di origine di Géraldine Schwarz, la Francia, dove dietro il mito della resistenza si sono nascoste le precise responsabilità di molti cittadini: fra questi, forse, anche il nonno materno dell'autrice, di cui non si sa molto oltre al fatto che fu gendarme in una zona dove il governo di Vichy dava la caccia agli ebrei. E sono proprio i paesi in cui la rielaborazione critica di quegli anni è stata carente, in cui hanno avuto la meglio i «senza memoria», questa la tesi centrale e attualissima del libro, ad apparire oggi particolarmente esposti al populismo e al sovranismo, a tollerare e fomentare il razzismo, e a propugnare una concezione antidemocratica della vita politica.
Se un viaggiatore venuto da molto lontano cominciasse a sfogliare le pagine dei Vangeli totalmente ignaro della loro origine e di ogni possibile implicazione teologica, che cosa leggerebbe? In buona sostanza quattro versioni in parte (ma non del tutto) simili della tragica vicenda di un predicatore che, avendo sfidato il potere della Chiesa e dello Stato, viene processato e condannato a morte. Ma c'è un altro elemento che colpirebbe il nostro ipotetico lettore: la folla di personaggi in cui il protagonista s'imbatte, o da cui è accompagnato, nel corso della sua breve esistenza. Il nostro ipotetico lettore sarebbe colpito dalla diversità delle reazioni, dall'odio implacabile allo smisurato amore. Noterebbe le turbe, il popolo, una folla indistinta, poveramente vestita, rassegnata o crudele, fatta di pescatori, operai dei campi e delle vigne, pastori, in genere illetterati, alcuni gravemente malati, tutti fiduciosi nella storia del loro popolo e nell'aiuto costante del loro Dio. Dallo stupore per questa umanità, dalla meraviglia per queste straordinarie presenze umane, è partito Corrado Augias a colloquio con uno dei maggiori storici del cristianesimo, Giovanni Filoramo. Augias «stringe l'inquadratura» sugli uomini e le donne che appaiono nei Vangeli. Ne esamina le vite narrate dagli evangelisti ma anche i segreti taciuti, le origini o i destini. A cominciare dalla madre del giustiziato, ad esempio, figura che dovrebbe avere carattere centrale e che - stranamente - risulta, invece, appena abbozzata, presenza sfuggente caratterizzata da rapporti spesso aspri con suo figlio. O il padre (adottivo?), piccolo imprenditore edile, più che semplice falegname, perennemente muto di fronte alle straordinarie vicende che il destino gli ha riservato. O le figure enigmatiche e sfaccettate di Giuda e della Maddalena. Con questo libro, Augias e Filoramo riescono in un'impresa difficile: narrarci in maniera sorprendentemente nuova una storia che pensavamo di conoscere.
Secondo il racconto dei Vangeli, Gesú, dopo l’Ultima Cena, si ritira nei pressi di un piccolo campo poco fuori Gerusalemme: è il Getsemani, l’orto degli ulivi. Alla testa di un gruppo di uomini armati, arriva Giuda che indica Gesú ai soldati baciandolo. Questo bacio è divenuto il simbolo dell’esperienza straziante del tradimento e dell’abbandono. Ma anche i suoi discepoli e Pietro stesso, il piú fedele tra loro, tradiscono il Maestro lasciandolo solo. Nella notte del Getsemani non c’è Dio, ma solo l’uomo. È lo scandalo rimproverato a Gesú: aver trascinato Dio verso l’uomo. La notte del Getsemani è la notte dove la vita umana si mostra nella sua piú radicale inermità. In primo piano c’è l’esperienza dell’abbandono assoluto, della caduta, della prossimità irreversibile della morte e della preghiera. La notte del Getsemani è la notte dell’uomo.
Tutti vogliamo essere felici. Ma appena ci fermiamo a riflettere iniziano i guai: cos'è davvero la felicità? Cosa vuol dire essere felici? La felicità è uno «stato» o un «processo», è oggettiva o soggettiva? In questi casi conviene rivolgersi a chi per primo e meglio di tutti ha messo la felicità al centro delle proprie riflessioni: Aristotele. È quello che fa Edith Hall, una delle classiciste più importanti al mondo, che nelle dieci sapienti lezioni di questo libro ci mostra come il grande filosofo sia ancora la guida migliore per orientarsi nel caos della vita di ogni giorno. Le parole «felice» e «felicità» - happy e happiness - vanno alla grande. Potete comprare un Happy meal, o bere un cocktail a un happy hour. O magari prendere una «pillola della felicità» per tirarvi su, o postare una faccina felice sui social. Sulla felicità, tuttavia, abbiamo le idee confuse. D'accordo, tutti pensano di volere essere felici, ma cos'è, davvero, la felicità? È uno stato psicologico duraturo nel tempo o un attimo così effimero che, appena ci rendiamo conto di viverlo, è già passato? È qualcosa di oggettivo, riconducibile a determinati parametri (ad esempio godere di buona salute, essere liberi da preoccupazioni finanziarie o dall'angoscia esistenziale) o è qualcosa di soggettivo, che non può essere misurato né osservato, qualcosa che non va accostato al «benessere» ma alla «soddisfazione» o alla «letizia»? Aristotele fu il primo filosofo a chiedersi davvero cos'è la felicità e cosa possiamo fare per diventare persone felici: un programma che mantiene ancora intatta la sua validità. Edith Hall, una delle classiciste più importanti al mondo, presenta l'antica e veneranda etica aristotelica in un linguaggio contemporaneo. Applica cioè gli insegnamenti di Aristotele a svariate sfide pratiche della vita reale: prendere una decisione, scrivere una domanda di lavoro, parlare in un colloquio, usare la tabella dei Vizi e delle Virtù per un'analisi del proprio carattere, resistere alle tentazioni, scegliere gli amici e i partner. Sono pochi i filosofi, i mistici, gli psicologi e i sociologi che hanno fatto molto di più che riformulare le fondamentali intuizioni di Aristotele. Ma lui le ha dette per primo, meglio, più chiaramente e in modo più olistico di chiunque le abbia successivamente riprese. Ogni parte delle sue prescrizioni per essere felici si riferisce a una diversa fase della vita umana, ma al tempo stesso le interseca tutte. In qualsiasi periodo della vita vi troviate, le idee di Aristotele possono rendervi più felici.
Chi è Max Fox? Chi è il trentenne ex allievo carabiniere, provinciale ambizioso nell'Italia berlusconiana, che strizza l'occhio all'idolo cinematografico della sua adolescenza - al Bud Fox arrampicatore di borsa in Wall Street - quando deve scegliere un contatto Skype per presentarsi nel mondo del terzo millennio? E perché questo figlio unico di due ligi funzionari comunisti somiglia piuttosto a un (dubbio) eroe ottocentesco, al Julien Sorel di Stendhal? Perché il suo sogno di «arrivare» lo rende disponibile a qualunque compromesso, con la destra o con la sinistra, con i chierici o con i laici, con la verità o con la menzogna, con gli onesti o con i disonesti? È quanto si domanda Sergio Luzzatto, lo storico che proprio su Skype accetta di intrecciare con Max Fox - con l'eroe ormai caduto - una sorprendente liaison dangereuse. Pericolosa, così come pericolose si sono rivelate, nel tempo, un po' tutte le relazioni di Massimo De Caro. Il pigro studente universitario che diventa, da giovanissimo, il portaborse di un senatore dell'Ulivo. Lo spavaldo mercante di libri che mette le mani su inestimabili tesori della Biblioteca Apostolica. L'astuto falsario che si fa beffe degli accademici del mondo intero fabbricando dal nulla, con lo scanner, un'opera di Galileo meravigliosamente unica nel suo genere. Il manager non laureato che fa carriera, nel settore delle energie rinnovabili, per conto di un elusivo oligarca russo. Il predatore di libri antichi che svaligia pubbliche biblioteche, ai quattro angoli del Belpaese. Ma ad attirare Luzzatto verso la relazione pericolosa non sono unicamente le varie, sconcertanti incarnazioni di un fenomenale Zelig del nostro tempo. Ad attirarlo è anche l'ombra dispettosa che qualunque storia del presente finisce per gettare sulla storia del passato, è la vertigine che lo storico prova quando si misura con il lato oscuro del suo mestiere.
Quella del presepio è una storia che conosciamo tutti: la nascita di Gesù. Ci sono la Sacra Famiglia, una grotta, una capanna, la stella cometa, una mangiatoia, il bue, l'asinello e i Re Magi. La sua iconografia sembra essere tanto luminosa quanto immutabile. Ma, come spesso avviene con i racconti forniti di un forte significato culturale - quelli che hanno valore fondativo per una comunità o per un gruppo -, anche la narrazione della Natività è frutto di centinaia di anni di riscritture, di racconti che nel tempo si sono sedimentati su una base originariamente povera di dettagli. Nei Vangeli di Luca e Matteo molti degli elementi che popolano i nostri ricordi di bambini, infatti, non sono presenti. Non si parla né di una capanna né di una grotta, e nemmeno di due bestie che avrebbero tenuto al caldo il corpo del neonato. Queste pagine descrivono dunque il processo che ha condotto alla formazione di una vera e propria scenografia culturale della Natività, in base alla quale Gesù, che secondo Matteo era nato in una casa, passo dopo passo è arrivato a vedere la luce in una grotta, vegliato da animali soccorrevoli: come tanti eroi mitici dell'antichità destinati a cambiare il destino dei popoli. Quanto ai personaggi più fiabeschi del presepio - il bue, l'asino, i Re Magi -, scopriamo con sorpresa che la loro creazione, e la loro definizione, è stata prodotta non dalle invenzioni del folclore, ma da dotte speculazioni teologiche. Infine, l'autore disegna una vera e propria antropologia del presepio, mettendo in luce la trama di relazioni che da un lato lega fra loro la Sacra Famiglia, i pastori e coloro che «fanno il presepio », simbolicamente rappresentati da queste figurine; dall'altro ristabilisce il contatto con le statuette utilizzate nelle pratiche votive di epoca classica, per testimoniare, ora come allora, fedeltà, memoria e gratitudine alla divinità. Bettini ricostruisce questo avventuroso percorso antropologico con la cura del filologo e la passione del narratore, mostrandoci tutta l'affascinante complessità meticcia che si nasconde sempre dietro la tradizione.
«Uno scrittore scrive quello che può, un lettore legge quello che vuole», disse una volta Jorge Luis Borges. Intendeva che il lettore gode di una libertà che allo scrittore è preclusa: libertà di immaginare e di imparare, certo, ma anche libertà di leggere o non leggere un libro, di decidere cosa è o non è un classico, di ignorare le mode o gli obblighi di lettura. Un lettore o è libero o non è. Forse non è eccessivo definire Alberto Manguel, scrittore, traduttore, critico, direttore della Biblioteca nazionale argentina, il «lettore definitivo». E infatti nel corso di una vita intera dedicata ai libri ha costruito una biblioteca personale di oltre 35.000 volumi. Ma cosa succede quando si ritrova a dover traslocare dalla sua casa nella Loira a un piccolo appartamento newyorkese? Succede che deve scegliere quali volumi portare con sé e quali lasciare in un deposito, passarli in rassegna, uno dopo l'altro, e ascoltare la loro voce. La biblioteca di Manguel, a parte una manciata di esemplari, non possiede volumi particolarmente rari: è composta tanto di umili tascabili quanto di volumi rilegati in pelle, di novità luccicanti e di malconci libri che si porta dietro in ogni trasloco fin da quando era bambino, libri belli e libri brutti. Il fatto è che i libri raccontano tutti una storia. Non solo quella che c'è scritta dentro (che a volte non è nemmeno la più importante), ma quella che si portano dietro. Perché ogni biblioteca è un luogo di memoria: sugli scaffali si succedono non solo i volumi ma anche il ricordo di quando leggemmo quel determinato testo, la città in cui l'abbiamo comprato, la persona che ce lo consigliò, il piccolo o grande dolore che quella lettura ha saputo lenire. Una libreria è una collezione di malinconie e di gioie, un repertorio di persone amate o dimenticate, un tributo alla speranza (o all'illusione) che quell'inerme massa di carta possa in qualche modo restituirci l'immagine degli individui che siamo. Così, mentre imballava la sua biblioteca e ne ascoltava la voce, Manguel ha scritto questa luminosa elegia con «dieci digressioni» che è tanto un diario di letture quanto una meditazione appassionata e urgente sulla lettura nel tempo presente; un'autobiografia e una riflessione sull'importanza delle biblioteche pubbliche e delle librerie per cucire insieme il tessuto civile di una comunità; una storia d'amore e di libertà degna di Eco e di Borges.
Dalle coltivazioni della Terra dei fuochi alle fabbriche di Pomigliano, dai merluzzi di Somma Vesuviana alle strade della periferia di Ercolano, fino alla nuova Pompei nata duemila anni dopo l'eruzione del 79 d. C.: Il Vesuvio universale è il ritratto di una terra di prepotente bellezza, che brulica di vita e non ha intenzione di arrendersi, nemmeno alla minaccia del vulcano che la sovrasta.
“Gli abitanti del Vesuvio sono abituati a tenere conto di una vita sotterranea ricca e piena di sorprese, indipendente dalla loro volontà, estranea all'universo concettuale umano, a sentirsi frantumi di lapilli, volute di fumo, impercettibili grumi di tempo nella vertigine millenaria in cui affonda l'esistenza del vulcano”.
Nel 79 d. C. Ercolano e Pompei furono distrutte dall'esplosione improvvisa e devastante del Vesuvio. Investiti dalla lava, pietrificati in un'eterna fuga fallita, i corpi di Pompei attraggono ogni anno migliaia di turisti. L'ultima eruzione del vulcano è stata nel 1944. Oggi il Vesuvio è inerte, e la sua calma apparente, replicata all'infinito sullo sfondo delle foto scattate da Posillipo. Ma se con l'obiettivo si ingrandisse al massimo quella montagna di fuoco, più che le rocce laviche e la cenere, sarebbero nitide le case, le strade, le macchine, le persone, ammassate in paesi più o meno piccoli, abbarbicati sui suoi fianchi. Alle pendici del Vesuvio si sviluppa, infatti, non una città, non una periferia, ma una conurbazione, un territorio con decine e decine di centri abitati che ha una densità di popolazione più alta di quella di Milano e Roma. Da sempre qui, immemori - o noncuranti - del pericolo, gli uomini hanno tenacemente coltivato, proliferato, costruito, distrutto, inquinato, pregato. Chi vive nei paesi vesuviani sembra davvero convinto che il vulcano non si risveglierà mai più. «Sarebbe fuorviante e frustrante cercare spiegazioni solo nell'ostinazione pervicace e incosciente», dice Maria Pace Ottieri che per capire quella terra è andata ad ascoltare le voci e le storie di chi ci vive. E allora c'è la famiglia Fortunio, che a Somma Vesuviana ha costruito un impero sul pesce dei lontani mari del Nord; c'è Tonino 'O Stocco, che costruisce e suona tammorre che accompagnano i canti e i balli popolari; c'è Lucio Zurlo, che insegna boxe nella sua palestra in un quartiere difficile di Torre Annunziata; ci sono le voci di Radio Siani con il loro impegno per la legalità; ci sono i morti ammazzati, dal lavoro, dal terremoto, dalla povertà, o da chi nessuno osa accusare. In un'instancabile “quête” tra passato e presente, tra i fasti antichi delle ville romane e i roghi tossici della Terra dei fuochi, tra ricordi leopardiani e interi quartieri abusivi, al ritmo delle traballanti corse della Circumvesuviana, Maria Pace Ottieri intraprende un viaggio alla scoperta delle tante esistenze che resistono in bilico sul cratere.
Nel gennaio del 2011, al primo incontro del seminario sull'Odissea tenuto da suo figlio Daniel, mescolato alle matricole diciottenni siede Jay Mendelsohn, matematico e ricercatore scientifico all'epoca ottantunenne. «Sarà un incubo», pensa Daniel a fine mattinata, quando appare chiaro che Jay non si atterrà al ruolo di silenzioso uditore che aveva immaginato per lui. Il vecchio Mendelsohn è cresciuto nel Bronx ed era ragazzo durante la guerra. Detesta la debolezza e il raggiro, valuta le cose in base alla fatica per ottenerle e la sua sola fede è nelle scienze esatte. Non può non aver da ridire sulla figura di Odisseo, il polytropos, l'uomo dalle molte svolte, ma anche dai molti trucchi, lacrime, aiuti divini, donne. «Non capisco perché dovremmo considerarlo un grande erooooe», ripete Jay per lo stupore divertito degli studenti. Eppure, settimana dopo settimana, affronta le tre ore di viaggio da Long Island al Bard College per apprendere dalla voce di suo figlio delle Vacche del Sole e di Penelope e del nostos. E va oltre: quando Daniel, quasi per gioco, gli propone una crociera nel Mediterraneo che ripercorra i luoghi dell'epopea, Jay acconsente. Per Daniel è un'esperienza pregna di rivelazioni: per mano a suo padre capisce appieno lo sgomento dell'Ade; nei ricordi coniugali del vecchio genitore ritrova la forza dell'homophrosyne, il «pensare allo stesso modo», e in quell'uomo inaspettatamente tanto aperto e socievole, in classe come a bordo, non riconosce forse un Odisseo dalle molte svolte?
Istanbul è una malinconia condivisa. Un gioco di specchi. Un labirinto di strade osservate dalla finestra in una sera d'inverno. Istanbul è un sogno dentro un sogno popolato di viaggiatori, poeti, mercanti, gatti, pittori, venditori ambulanti. Istanbul è Orhan Pamuk, che negli anni ne è diventato il cantore più amato e conosciuto. "Istanbul" è un libro, ora arricchito da più di duecento nuove fotografie, che Pamuk ha scritto per raccontare i luoghi in cui è nato e vissuto: un «autoritratto in forma di città» che possiede la bellezza irresistibile delle lettere d'amore.
Il nostro tempo sembra aver dissolto ogni confine, compresi quelli stabiliti dai tabù. Non esiste più un limite che non sia possibile valicare. La trasgressione è divenuta un obbligo che non implica alcun sentimento di violazione. La disinibizione diffusa ha preso il posto della reverenza passiva e sacrificale di fronte alle nostre vecchie credenze. Ma i tabù devono semplicemente essere smantellati dalla nuova ragione libertina che caratterizza il nostro tempo oppure conviene provare a ripensarli criticamente senza nutrire alcuna nostalgia per il passato? Ci sono parole chiave come preghiera, lavoro, desiderio, colpa, eutanasia, famiglia, che sono state in modi diversi associate ai tabù e che esigono oggi di essere riattraversate criticamente. Vi sono anche figure mitologiche, storiche o letterarie che sono divenute crocevia essenziali della nostra storia individuale e collettiva e che ci spingono a incontrare in modo nuovo lo spigolo duro del tabù: Ulisse, Antigone, Edipo, Medea, Amleto, Isacco, Don Giovanni, Caino. Dal riferimento a grandi autori dell'Occidente - da Platone a Hegel, da Dostoevskij a Sartre, da Freud a Lacan, da Marx a Calvino, da Molière a Beckett - così come nelle miserie della nostra vita quotidiana, Recalcati rintraccia la sparizione del tabù e l'apparizione delle sue nuove maschere.
Eugenio Borgna, nel corso della sua lunga carriera, ha incontrato molte vite: le ha incontrate in manicomio, in clinica, in ospedale, nel proprio studio. Ha ascoltato la loro voce fragile e si è fatto carico di paure, angosce e speranze. Ha cercato di porre un argine al dolore attraverso il dialogo, l'ascolto, l'immedesimazione con l'altro. In queste pagine ricorda alcuni racconti clinici e lo fa sia con la razionalità e la conoscenza del medico, sia anche con i sentimenti e il calore umano dell'uomo consapevole che la psichiatria, oltre ai farmaci, ha bisogno della comprensione, della vicinanza, del riconoscimento e anche della poesia se vuole guardare negli abissi insondabili dell'interiorità. Anna, Francesca, Maria Teresa, Elena, Margherita, Angela. Nomi di fantasia che proteggono sei pazienti, o meglio, sei donne (e con loro altre donne) che provengono da differenti situazioni sociali e familiari, da diverse consapevolezze e gradi di verbalizzazione del sé, ma che condividono un comune sconforto, un comune male di vivere. C'è Francesca che vive la sua depressione all'ombra del senso di colpa per il suicidio di una persona cara. C'è Maria Teresa che non riesce ad accettare la malattia incurabile dell'unica figlia. E Anna che non conosce altro mondo al di fuori di una psicosi che sfalda spazio e tempo davanti ai suoi occhi. E ci sono Margherita, Angela, e la sorella Valeria, prigioniere della dissociazione mentale. Borgna si avvicina alle loro storie, - che potrebbero essere le storie di ognuno di noi, o di qualcuno vicino a noi -, con delicatezza e partecipazione, stando attento a rispettarne le parole ma anche i silenzi e le esitazioni. E interpretando conversazioni terapeutiche, diari e lettere dà vita a ritratti intensi, tratteggiati con una scrittura emotiva, capace, come nessun'altra, di cogliere le più profonde incrinature della mente e del cuore umano.
Come si impara a scrivere? Esistono dei veri e propri esercizi per l'aspirante romanziere? Cosa determina l'originalità di un libro? È giusto assegnare ai premi letterari tanta importanza? Uno scrittore dove «trova» i personaggi da mettere in scena? La scuola prepara davvero alla vita o serve solo a rendere i ragazzi conformisti? Qual è l'importanza della forma fisica per un romanziere? E soprattutto: per chi si scrive? Con «Il mestiere dello scrittore» Murakami Haruki compie un gesto straordinario e inaspettato: fa entrare i suoi lettori nell'intimità del suo laboratorio creativo, li fa accomodare al tavolo di lavoro e dispiega davanti a loro i segreti della sua scrittura. Sono «chiacchiere di bottega», confidenze, suggerimenti, che presto però si aprono a qualcosa di piú: una riflessione sull'immaginazione, sul tempo e l'identità, sul conflitto creativo tra forma e libertà. In questo senso «Il mestiere dello scrittore» è anche un'autentica autobiografia letteraria di uno degli autori più schivi del pianeta. È un libro pieno di curiosità e rivelazioni sul mondo di Murakami: dal fatto che la sua prima e più importante editor è la moglie, che legge tutto quello che scrive e di cui lui ascolta tutti i consigli; a quando riscrisse «Dance Dance Dance» due volte: la prima a Roma, in una stanza d'albergo confinante con una coppia un po' troppo focosa, la seconda a Londra quando si accorse che il dischetto su cui aveva salvato il file del romanzo si era cancellato - mesi dopo però, per le bizze a cui i computer ci hanno abituato, la prima versione rispunta fuori e Murakami deve ammettere che la seconda, che senza l'inghippo informatico non avrebbe mai scritto, è molto migliore della prima. Murakami regala ai suoi lettori un libro pieno di confidenze, dettagli biografici, ammissioni di passi falsi, insomma: di umanità.
«Rialzati, alza la fronte, sta' in piedi, non restare una donna curvata» cosí dice idealmente Gesú alla donna malata in sinagoga, e cosí dice idealmente a ogni donna. In ogni tempo e in ogni luogo. Conoscere la storia della donna curva o di quella malata di emorragia uterina, della samaritana o dell'adultera, della donna straniera o dell'apostola degli apostoli, ci dice moltissimo di Gesú e di come il suo magistero incida sulla nostra vita. Il suo esempio, infatti, ci potrebbe di nuovo insegnare «a camminare insieme nella diversità riconciliata e la convivenza sarebbe piú bella e piú buona».
Al tempo di Gesú, la vita di una donna in Israele non era facile. Il mattino di ogni giorno l'ebreo osservante recitava, e recita tuttora, questo ringraziamento: «Benedetto il Signore che non mi ha crea-to né pagano, né donna, né schiavo». La letteratura sapienziale dichiara infatti che mentre la donna vergine è desiderata per le nozze, quella sposata è «vite feconda nell'intimo della propria dimora» e la sua piú alta vocazione è essere la padrona della casa. Previdente, accorta, economa, educatrice di una prole numerosa. Dunque la donna è una presenza nascosta, afona nella società, la sua vita è dedicata alla famiglia, e viene amata finché resta al «suo» posto: il posto stabilito dagli uomini. Anche se poi alcune donne avevano una loro importanza e dignità, è su un tale sfondo religioso e culturale che si staglia la figura di Gesú. Ma il Rabbi porta anche qui la novità rivoluzionaria del Vangelo. Attraverso i vangeli sinottici e il vangelo secondo Giovanni, Enzo Bianchi recupera e ci racconta le vicende emblematiche del rapporto di Gesú con le donne incrociate in vita. Incontriamo cosí fra le altre la donna malata di emorragia uterina che ha il coraggio di toccare il Messia sebbene «impura»; la donna straniera, greca e per di piú di origini siro-fenicie, quindi pagana; le sorelle Marta e Maria; la donna sorpresa in adulterio, e Maria di Magdala, l'apostola degli apostoli. Se uno dei modi piú fecondi per conoscere un uomo o una donna è indagarne le relazioni con gli altri, il modo con cui guarda le persone scegliendo di averne accanto alcune invece di altre, allora osservare le relazioni di Gesú con le donne che incontra, che sceglie e che lo scelgono, ci può dire moltissimo sul suo insegnamento ma anche sulla nostra vita quotidiana di uomini e di donne. E può dire molto anche alla società e alla chiesa di oggi. «Sarebbe infatti necessario, - afferma Bianchi -, che la Chiesa, le chiese, tornassero senza paura semplicemente a ispirarsi alle parole e al comportamento di Gesú verso le donne, assumendone i pensieri, i sentimenti, gli atteggiamenti umanissimi e, nello stesso tempo, decisivi anche per la forma della comunità cristiana e dei rapporti in essa esistenti tra uomini e donne».
"Il modo migliore per arrivare a Istanbul sarebbe attraversando lentamente il Mar di Marmara fino a veder apparire une incomparable silhouette de ville...". Questo libro è il racconto, potremmo forse dire il romanzo di Istanbul. Protagonista è una città eterna, prodigiosa, una città incarnata nelle sue stesse rovine. A comporne la trama sono le storie degli uomini e delle donne che l'hanno fondata, vissuta, abbandonata: storie piccole e insieme grandissime; a tenerle insieme sono le parole di un autore capace, come raramente accade, di fondere in un unico sguardo sapere e meraviglia. Per secoli Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul, è stata una meta ricercata, talvolta fraintesa, altre volte amata, sempre guardata con stupore già dalla prima apparizione del suo straordinario profilo contro il cielo d'Oriente. Quel crescente di luna, che non a caso figura sulla bandiera della Repubblica turca, è - e insieme non è - la stessa luna che possiamo vedere in un qualunque cielo notturno europeo. Come il particolare profumo della città, i suoni, i richiami dei marinai, le luci riflesse sono - e non sono - le stesse di un porto del nostro continente. A renderli diversi è quella sensazione indefinita, quel contorno avvolgente, che una volta si chiamava "esotismo" e che ancora sopravvive. Senza sottrarsi al fascino di quell'esotismo, Augias ne solleva con garbo il velo per scoprire la sostanza più autentica della città, quella che il turista non sempre può o sa cogliere.
Un viaggio per tappe della mente e del cuore nell'Italia del boom economico, del sogno, della decadenza. Di pieni fattisi d'improvviso vuoti. Di momenti di caduta e stordimento, ma anche di grande condivisione e cambiamento.
«Nel corso di questo lungo viaggio erratico tra le pieghe di un Paese sospeso, ho incontrato un'infinità di tracce di metamorfosi istantanea. Di futuri fattisi istantaneamente anteriori. Di promesse appena immaginate e già mancate. Di progetti iniziati e non terminati. E i segni di mappe che non valgono piú. Ma non riesco a considerarli simboli di un paradiso perduto».
Un viaggio in Italia, da Torino a Lampedusa, sulle tracce di città e territori conosciuti, amati, e poi, a volte, perduti. Di luoghi dell'esperienza e della memoria che mutano nel tempo e nelle stagioni fino a «non riconoscerli piú», ma di cui non puoi, comunque, fare a meno. Di paesaggi familiari che giorno dopo giorno stupiscono, disorientano, promettono nuove frontiere. Cosí Torino, prima tappa del viaggio, è un luogo in cui può succedere di perdersi. Ci si può perdere non tanto nel centro, fissato dai recenti restauri in cartolina da consumare con i piedi e con lo sguardo piú che da abitare, ma già nella prima periferia dove i negozi chiudono e le vetrine cambiano volto: la gastronomia diventa un hard discount e la piccola gioielleria di quartiere inalbera la pacchiana bandiera del «compro oro». E ci si può perdere nella seconda periferia dove la scomparsa della grande fabbrica e la trasformazione della vecchia metropoli di produzione ha «sciolto» il paesaggio mutandone anima e corpo. Ma oggi Torino è anche Arduino: una «piattaforma hardware low cost programmabile» che sa innaffiare i fiori alle ore stabilite, guidare un drone in spazi chiusi, gestire un appartamento con il comando vocale. Una risorsa eccezionale open source messa a disposizione di tutti. Un simbolo del futuro. Il viaggio continua, attraversando la nostra penisola, percorrendo autostrade deserte o mescolandosi alla folla, incrociando le storie dei suoi abitanti e ascoltandone ricordi e sogni, accompagnati dal suono del vento negli ulivi o fra gli scogli di una piccola isola lontana. Cosí si scopre il paese abbandonato di Consonno, nel cuore della Brianza, certo il piú bizzarro ghost village italiano, una sorta di «Disneyland lombarda» o il quadrante orientale, il Nordest del grande balzo in avanti e del duro rinculo, o il distretto di Prato, alle porte di Lucca e Firenze, testimone di antichi saperi artigiani sfidati dall'Oriente. E le antiche cattedrali nel deserto del Sud: l'Ilva di Taranto, le industrie chimiche di Saline Joniche, il porto di Gioia Tauro, un bacino lunghissimo a forma di fagiolo protetto da enormi colonne di cemento, e una brughiera spoglia che ha sostituito piú di ottocentomila alberi: aranci, limoni, ulivi secolari. Fino a Lampedusa luogo di arrivo e di sbarco continuo di altre realtà. Porta di entrata e di uscita. Isola che nel suo perimetro breve contiene tutte le fini e tutte le speranze.
"Alice per la maggior parte del tempo portava vestiti dell'ospedale. Si svegliava quando glielo dicevano, si lavava e si vestiva quando glielo dicevano, mangiava quando glielo dicevano. Viveva con chiunque le dicevano che dovesse vivere. Alice si sentiva in prigione, come se l'avessero messa dentro per vecchiaia". La caducità umana può essere un argomento infido. Si può innegabilmente provare una sorta di disagio ad affrontare temi che la riguardano. Ma se fossimo vittime proprio del nostro rifiuto di accettare l'inesorabilità del ciclo vitale? E se ci fossero invece approcci migliori, proprio lì, davanti ai nostri occhi, che chiedono solo di essere riconosciuti? Sicuramente la qualità di vita di anziani e malati potrebbe migliorare. Atul Gawande presenta e discute le principali difficoltà incontrate nell'Occidente industriale dai servizi assistenziali per gli anziani, e propone alternative. Nel suo classico stile equilibrato, lucido e coinvolgente, mostra come, per provare a migliorare la qualità della vita di persone molto anziane a malate, occorra prima di tutto interrogarsi su che cosa ciascuno di noi intende per qualità della vita così da accorgersi che ciò che rende la vita degna di essere vissuta non coincide soltanto con sicurezza e salute. Molte altre sono le sfide da affrontare quando il medico vuole fare meglio, e vuole far andare meglio le cose, quando ha cioè cura di ascoltare il paziente...
Nelle prime pagine del libro Helen Macdonald riceve una telefonata: il padre, celebre fotoreporter, è morto all'improvviso d'infarto. Priva di legami e di un lavoro stabile (è ricercatrice associata part-time all'università di Cambridge), Helen si accorge bruscamente di non avere nulla che possa distrarla dal lutto e sprofonda in una violenta depressione. Passano i mesi: instaura una relazione sentimentale e poi la sabota, legge testi sul lutto, si isola, si trascina. Poi, d'improvviso, un sogno ricorrente sui falchi fa scattare in lei una sorta di epifania: per uscire dal gorgo che la soffoca addestrerà un falco, ma non un falco qualsiasi, piuttosto un astore, uno dei piú grossi e feroci rapaci che esistano, un animale del sottobosco, sanguinario e predatore. Cosí entra in scena Mabel, "un rettile. Un angelo caduto. Un grifone uscito dalle pagine miniate di un bestiario". Helen si ritira dalla comunità per dedicarsi esclusivamente all'addestramento dell'animale, in un isolamento ossessivo. Il racconto dell'addestramento, dell'osservazione del comportamento della giovane Mabel, della paura, della fascinazione e della strana tenerezza che prova per l'animale, s'intreccia con la rilettura del libro "The Goshawk" di T. S. White e quindi con la rievocazione della biografia di questo scrittore, autore tra le altre cose di un libro su Artú poi ripreso dalla Disney in La spada nella roccia...
Il cibo è tutto ciò che si mangia e che serve per nutrire e per mantenere in vita un essere vivente: uomini, animali, piante. Il cibo è dono: della madre che ci nutre nell'utero e ci offre il seno, della nutrice che ci svezza. Poi, crescendo, l'uomo impara a procurarselo e a cucinarlo da solo. Ma il cibo è anche molto di piú: è il gesto sociale per eccellenza, il gesto della comunità nel suo ritrovarsi, nel fare memoria e fare festa. La tavola è il luogo, a volte silenzioso, a volte rumoroso, di comunicazione, scambio, comunione. Gioia. Ecco cos'è il cibo: nutrimento per la convivialità. Mangiare è molto piú che nutrirsi, cosí come bere è molto piú che dissetarsi, e l'arte del vivere, la sapienza del vivere, può essere simboleggiata dall'arte del mangiare e del bere. E se mangiare è un'azione al contempo naturale e culturale, l'azione del nutrirsi viene ad assumere un valore simbolico e un carattere sacro. Mangiare ritma il tempo, la giornata, la settimana. Di piú, mangiare celebra il tempo: la nascita, l'entrata nell'età adulta, l'epifania delle storie d'amore, la morte. Tra le tante rivoluzioni fatte da Gesú, ci dice Enzo Bianchi, c'è anche quella di aver rivoluzionato il modo di concepire il cibo. Anche a tavola Gesú ci ha insegnato a vivere in questo mondo e ci ha raccontato storie e parabole che parlano di cibo e tavola. Nella Bibbia la pienezza della vita è spesso espressa con il racconto di un banchetto, ricco o povero, comunque sempre condiviso. Gesú amava la tavola come luogo di incontro con gli uomini e con le donne, amava la tavola come occasione di lode, benedizione e ringraziamento a Dio. E soprattutto amava la tavola come promessa di vita e di pace per tutti. C'è un insegnamento di Gesú a tavola che dobbiamo conoscere per scoprire, o riscoprire, la sapienza e la gioia del vivere e del convivere. E per diventare piú umani.
Tutto si è svolto in un pugno d'ore, diciotto o venti al massimo. Dall'imbrunire di un giorno, al primo pomeriggio del successivo. In modo convulso. Per lo più nottetempo o alle prime luci dell'alba. Il processo che ha cambiato il destino dell'uomo è stato celebrato sicuramente in fretta, ma in base a quali accuse? Secondo quale rito? Chi aveva ordinato l'arresto e perché? E soprattutto, chi aveva il potere di convalidare il provvedimento emettendo la sentenza finale? Ad essere indagate sono le ultime febbrili ore di Gesù di Nazareth, il giovane profeta giustiziato su un patibolo romano a Gerusalemme in un anno convenzionalmente datato 33 della nostra èra. Vicende viste, forse per la prima volta, anche dalla prospettiva degli occupanti romani. È questo un libro dove si entra e si esce dalla storia, dove si raccolgono e indagano i documenti, dove si commentano le fonti e le si fa parlare, e dove anche uomini e cose prendono vita. Fra queste pagine si ode il rumore della pialla del falegname, lo stridio delle ruote dei carri, il belato degli agnelli; si vedono il bianco della farina e il grigio del fumo dei camini e si percepiscono le presenze misteriose di maghi, indovini, assassini. Saggismo e gesto narrativo s'incontrano: c'è la precisione storica e c'è la vita, la passione per il mondo e il talento di raccontarlo. Molti sono i protagonisti della storia e appaiono più tormentati, sfaccettati, umani, di quanto siamo soliti considerarli...
Tra arrivi e partenze, amicizie lunghe una vita e disincontri quotidiani, orizzonte superiore e orizzonte inferiore, ricordi tenaci e attimi mancati, Stefano Bartezzaghi ci conduce in un insolito viaggio sentimentale nella sua città. E la sua lingua-cornucopia scava nell'ovvio e nel mediocre del quotidiano e dell'oggetto comune per produrre riverberi insoliti, lampi di ricordi, nuovi angoli di osservazione, storie frivole e serie di persone note o del tutto sconosciute che insieme a Milano ci raccontano anche un'altra possibile città. Magari la nostra.
Ci sono confini dell'esistenza e del pensiero che l'uomo tocca e inizia a conoscere, prima di scegliere la via da percorrere. Si può decidere di attraversarli - per passare oltre - o di accettarli - per sentirli propri. Nella sua vita, Umberto Veronesi ha attraversato tanti di questi confini. Li ha indagati nella sua lunga esperienza di medico, li ha studiati come scienziato ma, soprattutto, li ha scandagliati con curiosità di uomo. Molte sono le lotte di pensiero nate da questa esperienza, numerosi i temi toccati: il tramonto della fede, l'inutilità del dolore, la libertà e il diritto di autodeterminazione - dal testamento biologico all'eutanasia - e di procreazione - con la fecondazione assistita, la pillola RU e gli anticoncezionali -, la liberalizzazione delle droghe, la ricerca di una giustizia senza vendetta - dall'impegno contro la pena di morte alla riflessione sull'ergastolo -, l'amore universale, i diritti degli animali - il vegetarianesimo e il consumo sostenibile -, lo sradicamento di ogni genere di superstizione. E molte, moltissime sono le storie e le persone che sono questi temi. Volti, ricordi e incontri decisivi, che Veronesi rievoca in queste pagine per tracciare la mappa dell'impegno di un uomo. L'impegno di un laico (o meglio, di un agnostico) che proprio perché tale non può smettere di interrogarsi e di cercare una risposta. O forse, una cura.
Ogni quadro, ogni opera vista in una chiesa o esposta in una galleria, lascia qualcosa a chi la guarda. E ogni incontro fortuito può tramutarsi in un vero e proprio innamoramento, in una folgorazione, addirittura in una rivelazione. L'inizio di un'avventura. Create per fede o per soldi, per mestiere o per amore, le opere d'arte che Melania Mazzucco non è mai riuscita a dimenticare abbracciano cinque continenti, dall'antichità ai giorni nostri. Create come amuleti, preghiere o bestemmie, da uomini e donne, cacciatori e stregoni, assassini e santi, illetterati e intellettuali, nessun museo reale riuscirebbe mai a contenerle. Un museo immaginario, invece, potrebbe dimostrarsi all'altezza dell'impresa. Tra i dipinti più amati, Mazzucco ne ha selezionati cinquantadue - "solo opere di artisti coi quali vale la pena trascorrere del tempo" - e, dopo una rigorosa selezione, ha deciso di raccontarli su "Repubblica" nell'arco di un anno, in una rubrica settimanale. Questo volume raccoglie le storie e le immagini di quelle opere che diventano presenza, specchio di un pensiero, indelebile emozione, scintilla di significato del mondo.
Alphonsine Plessis nasce in Normandia nel 1824. La madre, Marie Plessis, è una donna di umili origini ma dal portamento e l'educazione aristocratici. Il padre, Marin, è un ambulante squattrinato e violento. Quando la madre muore, Alphonsine e la sorella maggiore Delphine vengono separate e accolte in casa di parenti impietositi. A soli dodici anni, Alphonsine impara a procurarsi il cibo da sola, spesso mendicando, e qualche volta vendendosi a contadini e negozianti. Il padre si approfitta della situazione "prestando" la figlia a un losco settantenne che la ricompensa per gli innominati servigi, fin quando la ragazza non fugge a Parigi. Nella capitale Alphonsine abbandona lo status di contadinotta per diventare una grisette, ovvero un'operaia di facili costumi. All'inizio Alphonsine ha un mestiere rispettabile in una stireria industriale; ma presto la sua avvenenza le guadagna molti ammiratori, uno dei quali le offre un appartamento tutto per lei. Ed è cosi che Alphonsine si trasforma in lorette. La lorette è una grisette che non si concede più per puro piacere o in cambio di una bella serata, ma per calcolo. Conti, duchi, uomini potenti e del bel mondo sono ora gli amanti e i protettori di Alphonsine, diventata ormai Marie Duplessis. Introdotta nei circoli intellettuali ed edonisti più esclusivi di Parigi, Marie incanta le migliori menti del secolo, da Gauthier a Dumas padre, dal celebre dandy Nestor Roqueplan al potentissimo Louis Veron, ad Alexandre Dumas figlio a Franz Liszt.
"La vera rabbia, la rabbia come stile di vita, mi rimase estranea fino a un pomeriggio di aprile del 1982". Jonathan Franzen aveva ventidue anni, si trovava in Germania con una borsa di studio ed era diretto a Berlino, dove avrebbe seguito un corso su Karl Kraus. Leggere i saggi dello scrittore viennese, per il giovane Franzen, fu come scoprire un'altra lingua straniera celata all'interno del tedesco. Tra il 1899 e il 1936, attraverso la rivista "Die Fackel", Karl Kraus si era imposto nel mondo culturale germanofono come il Grande Odiatore, censore della banalità e della manipolazione, fustigatore del giornalismo dozzinale. Ammirato da Benjamin e Kafka, oscuro e criptico, Kraus era nondimeno un profeta lungimirante, e in questo libro Franzen mette in evidenza tutta l'attualità del suo pensiero. Il principale obiettivo polemico di Kraus era la macchina infernale dei giornali, "il disonesto abbinamento degli ideali illuministi con l'incessante e ingegnosa ricerca di profitto e potere". In modo simile, nota Franzen, nel consumismo tecnologico di oggi, in internet e nei social media, trionfa una retorica umanistica fatta di "creatività", "libertà", "connessione", "democrazia" che crea dipendenza e asseconda i peggiori istinti delle persone (molto di più di quanto non abbiano mai fatto i giornali). Rivisitando la propria passione giovanile, Franzen ne prende in una certa misura le distanze....
Le case hanno spesso due radici, quelle più scure, salde, terragne delle cantine e quelle aeree, chiare, ricche di ragnatele e di passato dei solai. Entrambe sono patrimonio imprescindibile degli uomini e li ancorano alla vita. Colmi di queste due anime (una più terrena e l'altra più celeste) sono anche gli scritti dell'autrice e le sue riflessioni. Natura e anima scorrono infatti perfettamente insieme nelle parole di Adriana Zarri e possiedono ciascuna un proprio luogo e una propria voce. Anche semplicemente per questo motivo i suoi scritti non smettono mai di parlare a tutti, credenti e non credenti, giovani e meno giovani, a chi ama l'impegno e la lotta e a chi preferisce invece la contemplazione e il silenzio. In questi inediti ricordi di vita, recuperati da articoli, carte personali e pagine autobiografiche, ritroviamo i toni e i protagonisti di "Un eremo non è un guscio di lumaca". I luoghi del mondo e dell'anima: il solaio, il giardino, l'orto, il vecchio mulino dell'infanzia, la cappella. Gli animali: gli immancabili gatti, i cavalli, ma anche i topi, la tigre e il lupo. I fiori: i tulipani, i bucaneve insieme agli ortaggi e alle verdure. Pagina dopo pagina si disegna la scoperta di una scelta di vita, di contemplazione ed eremitaggio, che mai comunque abdica alla lotta e all'impegno. Adriana Zarri era infatti capace di riflessioni teologiche pregnanti e profonde come di massime veloci e ironiche.
Per quanto possa sembrare strano, Paul Auster e J. M. Coetzee non si erano mai conosciuti di persona. Quando nel 2008 finalmente si incontrano, tra i due nasce un'amicizia tanto improvvisa quanto profonda. Decidono così di rimanere in contatto nonostante la grande distanza fisica che li divide: Auster vive a Brooklyn e Coetzee in Australia. Ma lo faranno in modo assolutamente peculiare, almeno per il mondo d'oggi fatto di e-mail e social network: si scriveranno delle lettere. Opponendo al "tempo zero" della comunicazione digitale la lentezza ponderata della scrittura su carta, con i suoi ostacoli e le sue idiosincrasie (una lettera si può perdere, una mail no; una lettera si può interrompere e coprire più giorni, una mail di solito la si spedisce immediatamente; una lettera costa la fatica della mano che stringe la penna, dell'occhio che decifra la calligrafia...), Auster e Coetzee dischiudono uno spazio di riflessione e approfondimento sempre più raro. In questo carteggio, che ha l'ariosa disponibilità al caso e all'incontro dei migliori romanzi di Auster e la radicalità di pensiero dei libri di Coetzee, i due scrittori affrontano qualsiasi argomento si offra loro: la comune passione per lo sport, la natura del genio, la difficile arte di tenere in piedi un matrimonio, la crisi finanziaria e la situazione in Medio Oriente, quanto l'uso dei cellulari abbia influenzato la narrativa, l'avvento degli e-book... Ma è un altro l'argomento privilegiato dei loro scambi, l'amicizia.
Ci sono occasioni in cui non serve essere un addetto ai lavori per comprendere a fondo un'opera d'arte. Specie se quello a cui si mira non è tanto l'analisi di una tecnica o l'esegesi di un significato, quanto piuttosto la ricostruzione di una grammatica del pensiero. Di Jonathan Littell conoscevamo finora il registro narrativo (il monumentale "Le Benevole"), saggistico ("Il secco e l'umido") e quello del reportage, giocato anch'esso sul filo della narrazione in continuo dialogo però con una realtà spesso atroce e complessa (i taccuini ceceni e siriani). "Trittico" ci propone un nuovo volto dello scrittore, che non contraddice i precedenti ma anzi li integra grazie a un serrato confronto, emozionale e stilistico, con le immagini. E non con immagini qualsiasi, ma con quelle della pittura di Francis Bacon, un artista che ha affrontato, con una tecnica inconfondibile e unica, molti dei fantasmi della modernità, dall'angoscia all'incomunicabilità, e soprattutto il grande tema del corpo. Bacon è anzitutto un pittore di figure deformate che sono in realtà specchio dei fantasmi interiori. Armato di un amore intenso per la sua opera, di un'intelligenza acuta e supportato da uno studio approfondito, Littell articola la riflessione sulla vita e sulle opere di Bacon attraverso tre diversi punti di vista, regalandoci così il suo personalissimo "Trittico".
Manlio lavora in fabbrica fin da ragazzo; Livia studia per diventare insegnante. Quando si incontrano e si innamorano decidono di condividere tutto. Anche la mattina del 28 maggio 1974, in piazza della Loggia, sono insieme. Per puro caso, però, quando la bomba scoppia, Manlio sopravvive. Livia no. Da quel giorno, per Manlio Milani, inizia una seconda vita tra aule di tribunali, aspettando una giustizia che non è mai arrivata, collezionando frammenti di una verità sempre incompleta. Benedetta Tobagi - il cui padre è stato ucciso esattamente sei anni dopo la strage di Brescia - decide di sedersi accanto a Manlio, per provare, udienza dopo udienza, a raccontare la sua vita e quella di chi, come lui, ha vissuto quella stagione di lotte politiche e di risate, di discussioni estenuanti e di scioperi, di serate fra amici, di bombe e sotterranei tentativi di golpe, di paura e speranze. E quando trentasei anni dopo ascolta con Manlio l'ennesima sentenza di assoluzione, capisce cosa vuol dire provare rabbia e impotenza verso chi ha nascosto e manipolato la verità. Benedetta Tobagi compie un viaggio nei misteri recenti della storia italiana, rivisitando il capitolo rimosso della violenza neofascista, pronta, ancora una volta, a cercare di capire cosa furono quegli anni e a fare in modo che una strage non si riduca semplicemente a un luogo e una cifra: il numero dei morti.
Murakami Haruki ha gestito un jazz club per molti anni prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura: ecco, leggendo "Ritratti in jazz" si ha l'impressione di essersi appena seduti a uno dei tavoli del locale a bere qualcosa mentre un vecchio amico, Murakami stesso, ti racconta quello che stai ascoltando. Il tono è confidenziale, caldo, privo di specialismi, eppure pieno di informazioni, curiosità, aneddoti, di cose che si scoprono. Quello, però, che più colpisce è la passione sincera e bruciante che ogni "ritratto" trasmette: Murakami riesce veramente a farti "sentire" il brano o il disco in questione. Ritratti in jazz regala al lettore un Murakami allo stesso tempo inedito e riconoscibile. Riconoscibile perché il jazz, ancora più della corsa, è una passione che forma l'ossatura stessa della sua opera creativa. I suoi romanzi sono pieni di jazz, allusioni a dischi e musicisti: in un'ipotetica ricetta della poetica murakaminiana l'ingrediente "jazz" è fondamentale e i suoi lettori lo sanno bene. Inedito perché mai come in questo libro si ha l'impressione di sentire la voce autentica e senza mediazioni narrative di Murakami, come se il lettore entrasse nel suo mondo più quotidiano e genuino. Il libro è composto da cinquantacinque schede che, a partire dal ritratto di un musicista dipinto dall'artista Wada Makoto, commentano un disco storico. Ogni scheda, nelle mani di Murakami, diventa un piccolo racconto, un frammento di memoria autobiografica o il fulmineo ritratto di un artista, di un'epoca.
"Gli uomini sono animali, e come tutti gli animali anche noi quando ci spostiamo lasciamo impronte: segni di passaggio impressi nella neve, nella sabbia, nel fango, nell'erba, nella rugiada, nella terra, nel muschio. È facile tuttavia dimenticare questa nostra predisposizione naturale, dal momento che oggi i nostri viaggi si svolgono per lo più sull'asfalto e sul cemento, sostanze su cui è difficile imprimere una traccia. Molte regioni hanno ancora le loro antiche vie, che collegano luogo a luogo, che salgono ai valichi o aggirano i monti, che portano alla chiesa o alla cappella, al fiume o al mare". Robert Macfarlane è l'ultimo, celebrato poeta della natura, erede di una tradizione che da Chaucer fino a Chatwin e Sebald è capace di trasformare una strada in una storia, un sentiero su un altopiano in un viaggio nella memoria. Riallacciando l'ancestrale legame tra narratore e camminatore, Macfarlane compie il gesto più semplice, eppure oggi anche il più radicale: quello di uscire dalla sua casa di Cambridge e iniziare a camminare, a camminare e osservare, a osservare e raccontare. Battendo i sentieri dimenticati di Inghilterra e Scozia, l'antico "Camino" di Santiago, le strade della Palestina costellate di checkpoint e muri di contenimento, gli esoterici tracciati tibetani, Macfarlane riesce, come un autentico sciamano, a far parlare paesaggi resi muti dall'abitudine, a dare voce ai fantasmi che li abitano, a leggere i racconti con cui gli uomini hanno abitato il mondo.
Una balenottera, ha il cervello più grosso del mondo, un cuore che batte dieci volte in un minuto e una fisiologia meravigliosamente adattata alla vita marina, tanto che non ha bisogno di bere acqua dolce. Le balene sono state miniere di materie prime, in grado di soddisfare quasi tutti i nostri bisogni: le loro interiora si sono trasformate in corde di racchette, corsetti per signore, tasti di pianoforte; l'olio di balena si trovava nella margarina, nel linoleum e nel sapone, e prima dell'avvento dell'elettricità, ha illuminato per anni le notti dell'uomo. I cetacei erano simboli di ricchezza e potere: la corona britannica era consacrata con l'olio di balena, e un dente di balena istoriato con il sigillo presidenziale accompagnò Kennedy nel suo ultimo viaggio. La moglie l'aveva acquistato come regalo, ma il presidente non fece in tempo a vederlo e la sera prima del funerale Jacqueline lo mise nella bara del marito. Un gesto d'affetto e dal forte valore simbolico, che rimandava ai re medievali sepolti con i simboli del potere, come talismani che riflettevano il valore di chi li aveva posseduti. Partendo di volta in volta da un aneddoto, una storia, un ricordo personale, una pagina di libro epico o sacro, un esperimento scientifico o una esplorazione geografica, Hoare ricostruisce con maestria mondi interi, scoperte meravigliose nello spazio e nel tempo (e soprattutto in mare).
È questo un libro sulla differenza femminile. Simone, Rachel, Hannah sono tre donne, diversamente grandi, che con il loro sguardo hanno illuminato le tenebre del Novecento e hanno saputo leggere il mondo. Tutte e tre hanno vissuto gli stessi anni di guerre, totalitarismi e barbarie. Hanno affrontato le tempeste e i momenti più bui senza mai sottrarsi alla riflessione, all'impegno e alla ribellione. Simone e Rachel si sono sfiorate, Rachel e Hannah appena incontrate, eppure un forte quanto esile filo rosso ha intessuto la trama dei loro destini. Tutte e tre si sono confrontate con i grandi temi della violenza e del potere, ognuna secondo la propria indole e mettendo in campo la propria biografia. Simone, Rachel, Hannah hanno scritto e trattato i propri testi come se fossero sogni, scritture della mente e del cuore, personalissime elaborazioni dell'atto di vivere che tratteggiano una strada verso l'esistenza. E sono arrivate a toccare la materia pulsante della vita. Simone Weil, la più "strana" del gruppo, né brutta né bella, insolente e tenera, ardita e timida insieme. Fin da bambina si esercita al sacrificio, al digiuno e rifiuta i privilegi della sua classe. Non prende più lo zucchero quando sa che scarseggia per la povera gente, non porta le calze d'inverno, perché non tutti ce l'hanno. E intransigente e radicale, a costo di apparire ridicola. Ha una sincera aspirazione di giustizia. Ha bisogno di verità, un bisogno fanatico. Muore il 24 agosto del 1943, a soli trentaquattro anni...
La vicenda raccontata è una storia realmente accaduta. Siamo nel 1937, è da poco passato Natale, il Natale russo che secondo l'antico calendario giuliano cade 18 giorni dopo quello occidentale. È mattina, fa molto freddo, quando nella zona orientale della vecchia Pechino, vicino a un'imponente e spettrale torre di guardia, la Torre delle Volpi, viene ritrovato il cadavere di una giovane donna. Ai suoi piedi montano la guardia due huang gou, due cani gialli. In quel periodo era abbastanza frequente trovare cadaveri per le strade della città: morti per fame o freddo, per suicidio o per droga o in seguito a risse violente negli hutong della città. Ma questo omicidio appare subito diverso. Diverso perché la morta è una donna occidentale, una bianca, e "pelle bianca" come afferma Han, l'ambiguo colonnello della polizia locale incaricato delle indagini, "significa domande. Domande da parte di uomini potenti, uomini che non mollano finché non ottengono risposte" e risposte che a loro convengono, naturalmente. Ed è diverso, anche perché il volto del cadavere è orrendamente sfigurato, i vestiti da studentessa stracciati e dal petto aperto sono stati prelevati alcuni organi, tra cui il cuore. L'orologio costoso al polso della ragazza ha smesso di funzionare poco dopo la mezzanotte. La morta è Pamela Werner, figlia di un ex diplomatico inglese, professore, archeologo, linguista, uno studioso molto noto in città e nel Quartiere delle legazioni...
Londra, 1857. Davanti al neonato Tribunale per i divorzi civili compaiono i legali di Henry Robinson, facoltoso e gretto ingegnere di Edimburgo, che sostiene di essere stato tradito dalla moglie Isabella con un altro uomo, il dottor Edward Lane. La vicenda è una storia vera. L'unica prova che viene consegnata al giudice è un diario in cui compaiono gli struggimenti di Isabella per un medico molto più giovane di lei, stimato precursore dell'idroterapia, il cui stabilimento termale veniva frequentato fra gli altri da Charles Darwin. Cosi, anche se la lettura di alcuni brani non chiarisce cosa sia successo veramente, solo un miracolo potrebbe far desistere un tribunale presieduto da tre giudici anziani e conservatori dal condannare la donna. Una donna che per di più dimostra di avere, secondo gli studi frenologici del tempo, l'organo della Amatività eccessivamente sviluppato e quello della Venerazione di dimensioni assai ridotte. Una donna che descrive nel suo diario comportamenti considerati così licenziosi da far allontanare il pubblico femminile dall'aula del tribunale quando vengono letti stralci del suo diario. Il verdetto sembra scontato, ma ecco il colpo di scena: i legali del dottor Lane escogitano una linea difensiva. Isabella è affetta da un "disturbo uterino", un'agitazione patologica che allude alla sua accentuata sensualità (ninfomania, erotomania) e il diario in questione non è che una "prova di romanzo"...
Si raccoglie qui tutto ciò che per Del Giudice fa mania. Intendendo per mania una parola doppia, una parola male-bene: nel mondo greco mania indica infatti non soltanto il demone che sconvolge la mente, ma anche una particolare forma di concentrazione, una forma estrema del conoscere e del coincidere con il proprio destino. È mania la mezzanotte, ventiquattresima ora del giorno, istante ultimo e anche primo, valico del giorno passato e incipit del nuovo, ora ventiquattro e ora zero; è mania il proprio lavoro, scrivere e narrare, in cui secondo Del Giudice sarebbe meglio possedere un doppio passo, essere ambidestri, con una mano tracciare delle mappe, costruire dei progetti e con l'altra operare perché questi progetti vengano invalidati dalla narrazione, perché ciò che vale nel racconto è proprio tutto quanto eccede e vanifica il progetto. Sono mania la luce, le macchine, le città, lo spazio, le fortezze reali e quelle immaginarie, le carte geografiche, il cinema e la fotografia. I protagonisti dei libri più famosi di Daniele Del Giudice. Si ritrovano in queste pagine le riflessioni sul tempo e quelle sul volo ("Come quando l'aereo si stacca da terra, una sospensione nebulosa e via, la scrittura spinge su, dentro i carrelli"). Si parla, con estrema e acuta intelligenza, del leggere, degli autori e dei libri più amati, del tradurre, delle storie e dei personaggi, del trovarsi davanti al foglio bianco e del "levare ad ogni frase la terra sotto i piedi".
«Ecco che dopo il dolce autunno, è arrivato l'inverno. Tu sai Signore che io amo pregarti seguendo i ritmi stagionali perché la preghiera non è una petizione astratta o un parlare con te che prescinda dalla vita, dalle emozioni, dai colori che vedono i nostri occhi, dagli odori che vengono dal suolo. La nostra preghiera è immersa nella vita e non se ne può scostare».
Adriana Zarri, Quasi una preghiera
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Un calendario dall'eremo. Un almanacco pieno di odori, di alveari ricchi di miele, di rane che tonfano nelle acque dei torrenti, di feste per la vendemmia e di celebrazioni liturgiche.
Quasi preghiere da ricordare la sera, da meditare al mattino, da tenere accanto per vivere ogni giorno la vita. Pagine tenaci dove ripararsi dalle ansie quotidiane e far sentire forte e chiara la propria voce e il proprio impegno.
La preghiera è spesso intesa come un recitar formule e un domandar cose. Per Adriana Zarri, invece, le formule sono soltanto il vestito che ci mettiamo addosso ma la sostanza resta sotto. La preghiera è piuttosto un parlare portando con sé tutte le nostre interrogazioni, osservazioni, lamenti. Con dolci abbandoni e fantasiose svagatezze più ancora che con calcolate richieste.
In queste pagine c'è un interlocutore costante, un «tu». Questo tu e il Signore, naturalmente, e nello stesso tempo è un uomo vicino agli altri uomini e alle loro vite. Perchè queste non sono preghiere, ma quasi preghiere, sono un diversamente pregare. Sono conversazioni, canti, riflessioni, indignazioni e meditazioni sul mondo e sulla natura. «Perchè io amo pregare seguendo il ritmo stagionale», dice Adriana Zarri, e proprio le stagioni sono le quattro grandi articolazioni di questo libro.
C'è l'inverno con cui inizia e si chiude l'anno: i giorni sono freddi e corti, eppure l'inverno e utile e la neve è bella: «Sotto la neve pane», dice il proverbio. Già a febbraio il filo d'erba inizia a premere tenacemente sotto la cresta della terra per vedere il sole.
C'è la primavera, il momento dell'anno in cui il terreno che pareva morto rivive, il cielo cambia di colore e si celebra la Resurrezione che, come accade nella natura, è un riaprirsi alla vita.
C'è l'estate, stagione panica, in cui è bello distendersi per terra e sentire il suolo crepitare sotto i nostri corpi.
C'è l'autunno che un po'è morte e gli alberi sono spogli, ma è anche il periodo in cui si spilla il vino nuovo e si celebrano i santi. Non i santi «deboli e dolciastri», ma piuttosto quelli che tengono gli strumenti dei mestieri in mano e sono proprio come noi: «Gente che si accorge del sole che nasce e che tramonta, che vede quando viene l'inverno e ripone gli abiti estivi nell'armadio».
Quasi una preghiera è una sorta di calendario dall'eremo che, con estrema naturalezza, mette insieme le occasioni liturgiche e quelle quotidiane, perchè nel mondo di silenzio e contemplazione di Adriana Zarri il ritmo della natura e dell'anima scorre insieme. Così come Un eremo non è un guscio di lumaca, anche questo è un libro che parla a tutti: credenti e non credenti, a chi ama starsene in silenzio e a chi invece vuole far sentire alta e forte la propria voce.
"Il Museo dell'innocenza" narrava l'ossessione amorosa di Kemal per la giovane Füsun. Ma è un amore destinato all'infelicità, così Kemal, per placare il suo desiderio verso la ragazza che non può avere, inizia a raccogliere ogni oggetto che gliela ricordi: a cominciare ovviamente dall'orecchino che lei perse la prima volta che fecero l'amore insieme, "il momento più felice della mia vita". Proprio per riconquistare quell'attimo perduto nel tempo, Kemal accumula oggetto dopo oggetto con una compulsività che agli occhi del mondo non può che apparire follia. Giunto al termine della vita, Kemal chiederà all'amico scrittore Orhan Pamuk di costruire un museo che raccolga queste memorie: il Museo dell'innocenza. E lo scrittore l'ha fatto, progettando e inaugurando a Istanbul - nel vecchio palazzo dove "abitava" Füsun - il museo di cui questo libro è il catalogo. "L'innocenza degli oggetti" è un testo completamente illustrato che restituisce tutta la magia di quel luogo, uno spazio incantato dove i confini tra realtà e immaginazione sono labili come in un romanzo di Pamuk.
Nel Pacifico meridionale, a ottocento chilometri dalla costa del Cile, c'è un'isola vulcanica dalle inaccessibili pareti verticali, lunga undici chilometri e larga poco più di sei, popolata da milioni di uccelli marini e da nessun essere umano. Si chiama Masafuera, "più lontana". Spinto da quell'inquietudine che solo certi viaggi riescono a placare, Jonathan Franzen, qualche mese dopo l'uscita di "Libertà", decide di raggiungere Masafuera e trascorrervi alcuni giorni. Insieme a lui soltanto una tenda, un GPS presto inutile, una copia di Robinson Crusoe e le ceneri di un amico morto suicida. Nella solitudine, non priva di avventurose e quasi mortali complicazioni, Franzen farà i conti con ciò che lega l'isolamento e il romanzo (il genere che insegna "come stare soli"), la modernità tecnologica con la sua valanga di stimoli superflui e la noia quale passaggio indispensabile per trovare se stessi. Ma farà anche i conti con il lutto, la perdita e la necessità, dolorosa, di parlare con i propri fantasmi. Sia che raccontino di animali in pericolo e della minaccia che l'umanità rappresenta per la loro sopravvivenza, di come cellulari, Internet e social network trasformino i rapporti interpersonali, di amici o di maestri, le ventuno riflessioni che compongono "Più lontano ancora", non importa se in forma di saggio, ricordo autobiografico o reportage, affrontano tutte lo stesso problema di fondo: come rimanere umani.
La sera del 9 luglio 1864, Thomas Briggs, benestante bancario della City, grigia figura della grigia Londra vittoriana, prende il solito treno per tornare a casa. A malapena si accorge di salire sulla carrozza 69: di certo ignora di star entrando, a suo modo, nella storia. Pochi minuti e alcune stazioni dopo, due pendolari trovano lo scompartimento vuoto e i sedili sporchi di sangue. Più in là due signore si lamentano col capotreno di essersi macchiate i vestiti per alcune gocce di una sostanza rossa entrata dal finestrino. Immediatamente le autorità ferroviarie capiscono che un orribile delitto si è appena consumato all'interno della carrozza 69. L'opinione pubblica è sconvolta. Per la prima volta in Inghilterra il treno diventa il palcoscenico di un omicidio: da rassicurante simbolo del progresso, il nuovo mezzo di trasporto svela la sua natura minacciosa, annunciandosi come un luogo pericoloso dove la violenza che attraversa la società può manifestarsi indisturbata. Spinta dalle pressioni della popolazione, del governo e dell'industria ferroviaria, Scotland Yard sguinzaglia i suoi uomini migliori. Inizia cosi una caccia all'uomo che non si limita alle strade di Londra ma proseguirà in un vero e proprio inseguimento transoceanico fino a concludersi in una New York scossa dalla Guerra civile. Sembra un romanzo giallo, antesignano di tanti "omicidi ferroviari". Invece Kate Colquhoun riporta alla luce una storia vera e incredibile che di quei romanzi è stata l'ispiratrice.
Ti uccide prima ancora di toccarti. Il suo ruggito è come un terremoto che sembra provenire da ogni direzione, un suono forgiato dall'evoluzione per stroncare il sistema nervoso delle vittime. Ma quando vuole può essere silenziosa come la neve che cade: un proverbio della taiga dice che "quando tu riesci a vederla, lei ti ha già visto cento volte". È la tigre siberiana, il predatore più intelligente e letale del pianeta. Dopo l'uomo. Quella mattina Jurij Trush, un veterano dell'esercito sovietico ora a capo dell'Ispettorato Tigre, ricevette una chiamata allarmante: un uomo, più volte sospettato di bracconaggio, Vladimir Markov, era stato assalito nei dintorni di Sobolonje, piccola comunità di tagliaboschi nel cuore della foresta. Siamo nell'estremo oriente siberiano, non lontani dal confine cinese: il Primorje è una prova generale di inferno nascosta sotto la superficie di uno dei territori più belli del globo. Ed è anche l'ultimo santuario della tigre dell'Amur. Quando Trush giunse sul luogo dell'aggressione scoprì che, malgrado gli oltre trenta gradi sotto zero, la neve si era sciolta completamente: al centro del cerchio scuro di sangue erano posate una mano mozza e una testa senza volto. Inizia cosi il racconto di un'incredibile e spaventosa caccia alla tigre, dei giorni passati nella foresta e nella tundra siberiane sotto la perenne minaccia della belva, delle gesta dell'animale che arriverà ad assediare l'intero villaggio, e dell'uomo destinato ad affrontarla.
"Cos'è che ami, quando sei innamorata? I suoi vestiti, i suoi libri, il suo spazzolino da denti. Tutti i beni di consumo, che prima erano estranei, vengono magicamente riabilitati come aspetti della persona. Dopo che Evgenij Onegin scompare nel settimo capitolo, Tat'jana comincia ad andare in visita nella sua tenuta abbandonata. Guarda i segni che ha lasciato sul biliardo, la sua biblioteca, il suo frustino, "tutto le pare inestimabile". "Chi era dunque lui?" domanda riflettendo sui suoi libri, esaminando i segni lasciati sui margini dall'unghia del suo pollice". Il nostro rapporto con la letteratura non è forse sottomesso alla stessa costellazione sentimentale? Non è, anche questa, un'allegoria della lettura? Come Tat'jana cerchiamo tra le pagine di un libro le tracce di un personaggio e del suo autore, tentiamo di ricostruire, a partire da un'assenza, un'essenza. Esponendoci al rischio inevitabile, incalcolabile - del disastro, del fallimento. Allora "I posseduti", come il romanzo e come la critica letteraria (generi a cui allo stesso tempo appartiene e che trascende), è il racconto di una storia d'amore. Come il protagonista della "Montagna magica" di Thomas Mann, che arriva in un sanatorio svizzero per una visita di tre settimane al cugino e vi rimane per sette anni a causa, si può dire, dell'amore, così Elif Batuman a tutto pensava tranne che a dedicarsi alla vita accademica: eppure resterà a Stanford sette anni per un dottorato sulla forma del romanzo russo.
Un piccolo appartamento buio, pieno di documenti, oggetti di scena, fotografie. Una donna anziana che vi si nasconde, come in un bunker o in una prigione: protetta e allo stesso tempo imprigionata dalle mura dei suoi ricordi. Quella donna, ormai devastata nel corpo e nella mente, è Wiera Gran. Sembra impossibile a guardarla adesso, ma è la stessa persona che, giovane e bellissima, l'osserva dalle fotografie che tappezzano le pareti della casa. Era una cantante. Varsavia, 1941. Anche durante l'occupazione, gli ebrei del ghetto tentano di tenere in piedi una parvenza di vita, qualcosa che renda meno insopportabile la realtà della segregazione, le quotidiane violenze, lo spettro incombente dello sterminio. Alcuni caffè sono rimasti aperti e tra questi lo Sztuka è il più elegante, il più ricco, quello dove si riunisce sia l'intellighenzia del ghetto sia i personaggi più ambigui: quelli che avevano ancora soldi da sperperare, denaro fatto chissà come, forse collaborando con i tedeschi. Allo Sztuka suona Wladyslaw Szpilman, il "pianista" protagonista del film di Polanski: ma all'epoca Szpilman era un semplice accompagnatore, una spalla. La vera stella, l'artista che faceva riempire il locale, era lei, Wiera Gran. Entrambi, a differenza delle loro famiglie, dei loro parenti e amici, sopravvivranno alla guerra e alla Shoa. Eppure il destino che li attende è molto diverso: la memoria di Wiera verrà letteralmente rimossa dalla storia e lei accusata di essere stata una collaborazionista.
La fine è nota. L'impatto del Titanic con l'iceberg è però soltanto il punto geometrico in cui convergono innumerevoli traiettorie, forze, vite: non tutte altrettanto celebrate, anzi alcune decisamente poco note, quando non misteriose. Capitani di industria ed ereditiere, disperati in fuga dai loro paesi e piccoli bottegai in cerca di fortuna; ladri, truffatori e anche un rapitore di bambini; artisti e scrittori insieme a contadini analfabeti che non avevano mai visto il mare; amori e tradimenti, relazioni fugaci o passioni travolgenti: sono le particelle elementari di cui è composta la Storia, atomi che quando vengono guardati da vicino hanno la sconfinata vastità della vita. E ci sono le grandi forze collettive che plasmano il mondo. Ad esempio le migrazioni che, proprio grazie ai transatlantici, iniziavano a divenire veramente globali. O le altrettanto globali speculazioni finanziarie: lo stesso Titanic in un certo senso, era il prodotto di una bolla speculativa. Il Titanic - la storia di chi l'ha progettato e di chi vi ha viaggiato - conserva lo stesso fascino di certi romanzi storici o enciclopedie: l'ambizione di contenere al proprio interno un'intera civiltà. Un mondo lontano un secolo eppure sorprendentemente simile al nostro. È anche per questo che l'affondamento del Titanic non smette di ossessionarci e di raccontarci la sua storia di ambizione e arroganza, di lusso e ingiustizia, di viltà e coraggio
Poco dopo aver completato Il Museo dell'innocenza, che aveva richiesto dieci anni per la costruzione e quattro per la scrittura, Orhan Pamuk viene invitato dall'università di Harvard a tenere le prestigiose Norton Lectures, ciclo di lezioni d'argomento letterario, artistico e poetico inaugurate nel 1926 da Gilbert Murray.
«Il Museo dell'innocenza sembrava un ritorno al mondo immaginario e personale del mio primo libro, Il signor Cevdet e i suoi figli. (...) Ma com'è noto, il posto a cui torniamo non è mai lo stesso da cui siamo partiti»: ripercorrendo la propria esperienza di scrittore e lettore - da sempre intrecciata e vicina alla teoria - il premio Nobel turco sceglie di dedicare le conferenze di Harvard ad una domanda apparentemente molto semplice: cosa ci succede quando leggiamo un romanzo?
Per ogni narrazione, Pamuk immagina un lettore «ingenuo» - così persuaso dalla finzione della storia da percepirla come reale - e un lettore «sentimentale» - consapevole di essere immerso in una costruzione della fantasia, come un sognatore che sa di star sognando. La forza del romanzo, il suo misterioso potere di affascinare, per Pamuk risiede nella possibilità che questi due lettori coincidano: l'ingenuo e il sentimentale non sono due persone diverse, sono due momenti necessari che il lettore attraversa quando si perde in un libro.
Romanzieri ingenui e sentimentali raggruppa le lezioni «in un insieme organico - scrive Pamuk - capace di riunire tutte le cose più importanti che so e ho imparato sul romanzo»: un viaggio personale e affascinante alla scoperta del potere dell'invenzione.
Due ragazzi benestanti, colti, imbevuti di letture - soprattutto lui - di nobili cavalieri e amori cortesi. Ma quando un giorno questi due giovani, destinati a ereditare gli onori del loro stato sociale, volsero lo sguardo sulle cose degli uomini, videro un mondo che tradiva il messaggio del Vangelo e lo rifiutarono. Decisero, in momenti diversi, di spogliarsi delle loro ricchezze e, nudi, di abbracciare una nuova vita per gli ultimi. Quelle di Chiara e Francesco furono due esistenze che si intrecciarono strettamente pur percorrendo, ciascuno dei due santi, cammini differenti. Lo scopriamo direttamente dalle loro voci, dai loro scritti, a cui Chiara Frugoni dedica in questo libro uno spazio del tutto nuovo. Facendo parlare direttamente i protagonisti, la Frugoni fa del lettore un compagno di strada di Chiara e Francesco, permettendogli di accostarsi al loro generoso progetto e alle resistenze, ai tradimenti, ai compromessi con cui i due dovettero fare i conti per rendere reale la loro utopia. Del resto è una storia, quella di Chiara e Francesco, che col passare dei secoli nulla ha perso della sua travolgente novità. Al contrario, è come se il tempo trascorso non smettesse di sottolinearne la radicale modernità: il rapporto con i poveri, e quindi col denaro e il potere; il ruolo non subalterno della donna; la funzione dei laici nell'istituzione religiosa; l'importanza del lavoro manuale in servizio del prossimo e come garanzia di libertà; la relazione con fedi diverse.
Esistono ancora luoghi veramente selvaggi? Luoghi sconfinati, isolati, elementari, splendidi e feroci, che seguono leggi e ritmi propri, incuranti della presenza umana? E se mai sopravvivono, dove cercarli? Dopo aver fantasticato fin da bambino sui luoghi selvaggi della letteratura, Robert Macfarlane - appassionato alpinista, critico letterario e professore a Cambridge - intraprende una serie di viaggi alla ricerca della natura selvaggia ancora presente in Scozia, in Inghilterra e in Irlanda. E quella che traccia è una mappa della selvaticità che luogo dopo luogo - dalle isole Skelligs alla vetta del Ben Hope, dalla mitica Rannoch Moor alla spiaggia di Orford Ness - si trasforma sotto i suoi stessi occhi in un vero e proprio romanzo di formazione, segnato da incontri e addii, da scoperte e sorprese. Seguendo le orme dei padri del deserto, dell'epica nordica, dei grandi "narratori" dell'incanto della natura (Thoreau, Muir, Coleridge, ma anche Calvino, W. H Murray e l'amico Roger Deakin), degli scienziati affascinati dal mistero delle diversità e delle analogie, Macfarlane si avventura in prima persona fuori dagli angusti confini del noto e del domestico e traccia un nuovo itinerario, personale e profondo, in territori di pietra, di legno e di acqua, che scopriamo con lui straordinariamente vivi, sconosciuti e raggiungibili.
Perché un viaggio sia ad alto tasso di "quozzità" deve essere percorso lentamente, con l'animo di chi è disponibile all'incontro. Il cacciatore di quoz deve essere pronto a rispondere all'invito dell'insolito, al richiamo del sentiero meno battuto, della deviazione curiosa, della digressione vagolante. Un devoto del "giro lungo", insomma, poco incline alla linea retta autostradale ma amante delle "strade blu". Non serve una guida, tanto meno una guida turistica. Quello che serve è un compagno di viaggio. Il viaggiatore che si inoltra tra le pagine di questo libro ha il privilegio di avere, come complice, niente meno che lui, il grande Mago di Quoz, la massima autorità mondiale sui quoz, il quozzologo per eccellenza: William Least Heat-Moon. Ma cos'è, si chiederà l'esasperato lettore, un quoz ? Per ora gli basti sapere che i quoz sono tutte quelle particelle di insolito, di imprevedibile, di incongruo e di prezioso che incontriamo nel cammino della nostra esistenza. I quoz sono oggetti, paesaggi, eventi, ma sono soprattutto persone, incontri lungo via, che si trasformano in ricordo, in ciò che resta una volta tornati a casa. Il granello di sabbia intorno cui si forma la perla della memoria, e quindi del racconto. Venticinque anni dopo "Strade blu", Least Heat-Moon torna a raccontare l'America meno battuta, e più sorprendente, attraverso sei viaggi, o, meglio, sei vagabondaggi nel cuore del paese
«Rifiutando gli artifici romanzeschi, Binet si attiene ai fatti accertati e ci propone un'avventura mozzafiato: quella di una scrittura vista come azione di giustizia, come un'operazione di commando, che mira a ritrovare le tracce degli eroi. O meglio: a salvare loro la pelle».
Le Monde des Livres
La storia che viene qui raccontata è una storia nota. Apparentemente nota: l'attentato a Heydrich del 27 maggio 1942.
In realtà, la sensazione è quella di leggerla per la prima volta, in tutta la sua trascinante forza narrativa e nella sua drammatica verità documentaria.
Il primo protagonista della storia è Reynard Heydrich, il braccio destro di Himmler, l'ideatore, nel gennaio del 1942, della Soluzione finale, lo sterminio sistematico degli ebrei. Heydrich è il gerarca più spietato del Terzo Reich, il macellaio di Praga, la bestia bionda. L'uomo dall'infanzia problematica, segnata da due traumi: da una parte la voce stridula e l'aspetto effeminato che gli valsero l'appellativo di capra, e dall'altra il mistero di una presenza ebraica all'interno della propria famiglia. Ben presto il giovane Heydrich comincia a trasformarsi nell'incarnazione dell'uomo ariano, ammirato da Hitler per la ferocia e per l'efficacia delle sue azioni. In una rapida ascesa politica Heydrich arriva al vertice del Protettorato di Boemia e Moravia, dove si dedica allo sterminio degli ebrei e di tutti gli oppositori al regime. Ma da Londra, la città in cui il governo ceco è stato esiliato, parte contro di lui l'offensiva della Resistenza che culminerà nell'Operazione Antropoide, cuore del libro.
I protagonisti indiscussi diventano allora due: i paracadutisti Jozef Gabcìk e Jan Kubis?, uno slovacco e l'altro ceco, ai quali viene affidato l'incarico dell'esecuzione.
In un racconto trascinante, di grande forza visiva, si segue la vita dei due uomini dal reclutamento, all'addestramento, al viaggio a bordo di un Halifax, alla meticolosa preparazione dell'agguato di via Holesovice, quando faranno la loro comparsa altri personaggi, di cui uno sarà il traditore.
HHhH riesce nella magica alchimia di mescolare, con sicurezza e coraggio, la suspense e il tormento della scrittura senza mai allontanarsi dalla verità storica e dalla memoria.
Inghilterra, 1910. Bessie Mundy ha trentatre anni, vive sola e sembra non avere più alcuna prospettiva di sposarsi.
Fa la dama di compagnia ed è economicamente indipendente dalla famiglia, che resta assai sorpresa quando, di punto in bianco, Bessie annuncia di voler sposare un uomo appena conosciuto. Il matrimonio avviene in tutta fretta e lo sposo sollecita la donna a farsi consegnare la quota che le spetta dell'eredità paterna. Con una parte del denaro la coppia affitta una casa all'80 di High Street, a Herne Bay, e vi fa installare una moderna vasca da bagno. Dopo pochi giorni Bessie viene trovata annegata in quella vasca nuova di zecca. Vicino al cadavere non c'è nessuna traccia di lotta e il medico conclude che la donna è rimasta vittima di un attacco epilettico. Il marito organizza un funerale al risparmio, seppellisce Bessie in una fossa comune e quindi scompare.
Un anno dopo, più o meno la stessa sorte tocca a una infermiera nubile di nome Alice Burnham. Il copione si ripete: una donna non più giovane, non particolarmente bella, non particolarmente ricca, decide improvvisamente di sposarsi, chiede alla famiglia di liquidarle tutti i suoi averi, si reca con il neosposo in una stazione balneare inglese, affitta una stanza con una vasca da bagno e muore annegata. L'anno successivo è la volta di Margaret Lofty.
Cinque anni dopo l'ispettore Arthur Neil sospetta la possibilità di un collegamento tra i due ultimi casi e, indagando, riesce a individuare un presunto colpevole, un uomo che, sotto diverse identità, ha sposato prima Alice e poi Margaret.
Nel giro di pochi giorni gli viene attribuita anche la morte di Bessie.
In una Londra minacciata dalle bombe degli Zeppelin, il processo riesce a guadagnarsi le prime pagine dei giornali e a catturare per giorni l'attenzione dell'opinione pubblica anche per merito di un personaggio che fa il suo primo ingresso nei tribunali dell'epoca: il patologo forense. Con i casi delle spose annegate nella vasca da bagno, il patologo diventa per la prima volta figura centrale per valutare l'innocenza o la colpevolezza di un imputato e ruba la scena al Principe del foro.
Bernard Spilsbury è un patologo di grande esperienza e di numerosi pregi: è alto oltre il metro e ottanta, è molto elegante, ha lineamenti raffinati, una parlantina sciolta e un mento volitivo. E soprattutto conosce il suo mestiere. Spilsbury è dedito in maniera quasi ossessiva alla professione e sacrifica ogni momento della sua giornata al difficile compito di sezionare e analizzare i cadaveri. Usando seghe, martelli, esperimenti scientifici e una vasta conoscenza dei veleni, diventa un beniamino dei giornali dell'epoca meritandosi presto il titolo di: «padre della medicina legale moderna», «perfetto prototipo del detective della narrativa moderna». E viene applaudito come il vero «Sherlock Holmes».
«Qualcuno dice che mi sono "ritirata" in un eremo; e io puntualmente reagisco. Un eremo non è un guscio di lumaca, e io non mi ci sono rinchiusa; ho solo scelto di vivere la fraternità in solitudine. E lo preciso puntigliosamente per rispondere all'obiezione che concepisce questa solitudine come un tagliarsi fuori dal contesto comunitario. E invece no. L'isolamento è un tagliarsi fuori ma la solitudine è un vivere dentro».
È questo un libro da leggere in silenzio.
Con la schiena ben dritta e gli occhi che guardano avanti mentre esplorano il mondo nei suoi dettagli: fiori, piante, frutta, animali. Così tutto ciò che vedi ti parla di sé e insieme di altro, degli altri, di quello che è fuori, diverso e straordinariamente unico.
Se ti abbandoni a queste pagine, se le esplori e le ascolti, scopri che le stagioni della natura sono quelle dell'uomo e della vita, di un'età che si compie e si arricchisce ad ogni passo e sguardo. Scopri che una scelta di silenzio contemplativo è un modo per parlare forte e meglio a tutti. Che la solitudine può essere un luogo fecondo di incontro, una condivisione e un dialogo duraturo. Che una gatta (pardon, una micia), può anche scaldarti il cuore e che per difendere e proteggere ciò in cui credi vale ancora la pena di affrontare battaglie e sacrifici.
Adriana Zarri, teologa, scrittrice, eremita, donna libera, prima di morire a novantuno anni compiuti, ha condotto tante battaglie e ha appoggiato, anche in aperto contrasto con le posizioni della chiesa cattolica, le iniziative a favore del divorzio e dell'aborto e le discussioni sul celibato del clero. Con la sua voce sottile, eppure vibrante e sicura, ci guida in un mondo antico e nuovo che è poi il nostro.
Diverso e nuovo è il modo in cui lei va incontro al mondo. E diverso e nuovo è il modo di dirlo, usando con consapevolezza, e assaporandola, la potenza della parola: una parola meditata a lungo e coccolata, a volte stridente e scomoda, a tratti polemica, ma sempre affascinante e coraggiosa nella sua poetica esattezza.
Nelle pagine di Erba della mia erba, pubblicate per la prima volta nel 1981 e qui riproposte, così come negli Altri resoconti di vita, narrazioni nuove e inedite, la propria esperienza di silenzio e di un vivere appartato è raccontata (senza essere mai testimoniata) nel suo farsi concreto, nello scorrere quotidiano e inconsueto di gioie, incontri, speranze e paure. Il proprio eremo, che sia l'amata cascina isolata del Molinasso oppure Cà Sàssino con il suo giardino pieno di rose, è sempre un luogo della vita e dell'anima dove racconto e realtà convivono e si contaminano, dove lo studio e la riflessione sono impastati di vita. E dove l'ospitalità, l'amicizia, la meditazione, la natura, la libertà e il dialogo non possono che essere momenti indispensabili alla vita e alla sua complessa bellezza.
A tredici anni il desiderio di esplorare e conoscere il mondo ti fa spalancare gli occhi, stupiti e avidi, sulla realtà che ti circonda: ma cosa succede quando il tuo unico, insuperabile orizzonte è quello dell'Olocausto, dell'umiliazione quotidiana e sistematica? Come si diventa uomini quando nulla intorno a te è degno di un uomo?
«Sono nato nel 1929 e nel 1933 i nazisti prendono il potere: l'unico mio ricordo è la persecuzione». Thomas Geve ha tredici anni quando, nel 1943, viene deportato ad Auschwitz. Solo perché ha l'aria di essere un po' più grande della sua età, Thomas viene assegnato ai lavori forzati: nella logica folle e rovesciata del campo è una fortuna perché «i bambini al di sotto dei quindici anni vengono mandati direttamente alle camere a gas». Nonostante le quotidiane violenze, un lavoro che è solo tortura, la scientifica e continua offesa alla dignità umana, Thomas sopravvive: l'11 aprile 1945 le truppe alleate irrompono nel campo e liberano i prigionieri. Allora fa qualcosa di unico nella storia delle testimonianze dei sopravvissuti. Per conservare la memoria dell'inferno e raccontare ai genitori ciò che ha visto (non sapendo ancora che la madre, internata come lui, non è sopravvissuta), sceglie di fare quello che ogni bambino ha sempre fatto: inizia a disegnare. Si procura delle matite colorate, un bene prezioso e inarrivabile durante i giorni della prigionia, e trasforma il retro dei moduli e dei formulari delle SS nei 79 disegni che compongono questa raccolta (e solo più tardi, anni dopo, aggiungerà qualche, essenziale, parola di commento).
Ogni cosa, ogni episodio, ogni traccia, per quanto flebile, di vita, ogni manifestazione, per quanto spaventosa, dell'orrore, viene registrata dai disegni di Thomas. Con il tratto semplice e stilizzato della sua età ma con l'attenzione per il dettaglio del futuro ingegnere, Geve dà vita a un documento di una bellezza straziante nel suo tentativo di sfidare l'abisso con lo sguardo, e le matite, di un bambino.
«Un paese è ciò che noi siamo nel momento in cui lo visitiamo».
Il Marocco bisogna intuirlo, immaginarlo, fare attenzione ai particolari, è un enigma da sedurre con garbo: per affrontarlo non serve una guida da scorrere distrattamente ma un libro che ci accolga con la stessa ospitalità dei suoi abitanti.
E dato che la vita privata di un paese passa anche per l'immaginario e per le storie che ha ispirato, questo libro dovrebbe essere come un romanzo che ne contiene altri mille - alcuni fedeli alla sua anima, altri splendidamente infedeli.
Sembrerebbe un libro impossibile, eppure è esattamente quello che ha scritto Tahar Ben Jelloun: l'autore di Creatura di sabbia accompagna il lettore verso l'anima più autentica del Marocco, in un itinerario le cui tappe sono le città e i deserti, i ricordi personali e la storia ufficiale, le leggende della sua terra e le tracce lasciate dagli stranieri che l'hanno attraversata.
Si parte da Tangeri («una città abituata all'abbandono, che produce eroi stanchi») - anzi dal suo famoso Café de Paris da dove osservare i tanti viaggiatori, da Ginsberg a Burroughs, da Bowles a Barthes, che come pellegrini vi sono giunti in cerca di piaceri promiscui, di oblio o di un nuovo inizio - per poi proseguire verso Casablanca, Fes, Marrakech, fino ai sentieri meno battuti della Chaouia o a uno sperduto accampamento ai piedi dell'Atlante.
Lo sguardo partecipe e affettuoso di Ben Jelloun non ignora nemmeno le ineguaglianze che ancora feriscono il Marocco, dalla corruzione a tutte quelle cattive abitudini che «si fanno certezze agli occhi di una popolazione che le accetta rassegnata». Perché se è vero «che ci sono paesi che ci incantano e altri che ci maltrattano o che sono una pena per gli occhi e ci danno l'emicrania», è anche vero che molto dipende dalla nostra disposizione ad accogliere quello che ci viene presentato: «L'anima non si dà, non si concede, non svela niente della sua intimità. È in noi o non è».
«La Cecenia è come il 1937, il 1938, - mi dichiara nel suo piccolo ufficio moscovita un dirigente di Memorial -. Si sta portando a termine un grande piano edilizio, si assegnano alloggi, ci sono parchi dove giocano i bambini, spettacoli, concerti, tutto sembra normale e... di notte la gente scompare».
Una mattina di settembre, poco dopo aver concluso la prima stesura di questo libro, Jonathan Littell riceve una mail: Natal'ja Estemirova, una delle principali attiviste per i diritti umani a Groznyi, è stata sequestrata.
La Estemirova è nota in tutto il mondo per le sue inchieste sui casi di sparizioni, torture ed esecuzioni extragiudiziarie che ogni giorno contribuiscono a mantenere la Cecenia in un clima di costante terrore. La sua visibilità, così si credeva, l'avrebbe tenuta al sicuro: la stessa cosa si diceva anche della sua amica Anna Politkovskaja. La sera di quello stesso giorno il cadavere di Natal'ja viene rinvenuto in un bosco alla frontiera con l'Inguscezia, crivellato di colpi.
La notizia getta una nuova luce sulle due settimane trascorse nel Caucaso da Littell, costringendolo di fatto a riscrivere il reportage del suo soggiorno alla corte del presidente Ramzan Kadyrov nell'anno terzo del suo governo.
Littell è già stato in Cecenia, durante le due guerre, in missione per alcune organizzazioni umanitarie e ha sempre mantenuto stretti contatti con il paese: ricorda bene, pertanto, i giorni in cui la vita di un ceceno non valeva un copeco. Così, se all'inizio pensava di porre l'accento sul ritorno, difficile ma percepibile, alla normalità, l'assassinio della Estemirova lo mette di fronte all'illusorietà di tale pacificazione.
La «cecenizzazione», cioè la decisione presa da Vladimir Putin nel 2002 di insediare nel paese un forte potere filorusso, composto principalmente da ex separatisti, nell'indagine di Littell si svela essere il nome presentabile di un sistema che ha fatto della corruzione più sfrenata, dell'islamizzazione a oltranza, della cooptazione forzata dei ribelli, della tortura e dell'omicidio, gli strumenti quotidiani per il controllo del territorio.
In questo libro si parla di vita. Di amore, volontà, gioia, amicizia, dolore. Di scienza e fede, di corpo, piacere e cibo. E in particolare si parla tanto, profondamente, di madri e figli.
Sono molte le voci che si intrecciano in queste pagine, voci che provengono dal lontano passato del secondo conflitto mondiale, dagli anni difficili e pieni di speranza del dopoguerra, e dall'oggi: un tempo più vicino, più veloce e, per molti versi, migliore.
Un uomo decide di raccontare la propria storia. Le battaglie etiche e scientifiche che lo hanno visto protagonista. I momenti di affetto e di gioia vissuti con dolcezza e rispetto e quelli di amarezza e di dolore affrontati con coraggio e tenacia. E lo fa attraverso le storie delle molte donne che ha incontrato lungo tutta la sua vita, con le quali ha condiviso sentimenti, amicizie e lavoro.
Donne che di volta in volta si sono impegnate in una battaglia: contro la guerra, i pregiudizi, la malattia, la paura. Contro la moralità, i dogmi religiosi, la disinformazione, l'ipocrisia. O semplicemente contro la consuetudine e il senso comune: né buoni né cattivi, semplicemente granitici.
Donne che hanno deciso, ognuna a proprio modo e con la propria voce o afonia, di combattere e di non cadere. E soprattutto di non rinunciare, difendendo con un sorriso, sopra i denti stretti, se stesse, i propri affetti e ciò in cui credono.
Sono storie d'amore e libertà. Storie intense, spesso semplici e lievi nella loro immediatezza, a volte dure e tenaci. Con una costante che, pur nella diversità degli anni e delle realtà, le accomuna tutte: la volontà di prendere in mano la propria vita, di guardare sempre avanti, buttando via il meno possibile.
Cosí proprio il fatto che a raccontare sia un uomo (non un uomo qualsiasi, ma un medico, un ricercatore, un uomo di pensiero e pratica) permette di penetrare senza ipocrisie o sbavature retoriche un universo tanto connotato e a raccontare, senza imbarazzi e forzature, un mondo intimamente femminile.
Ogni viaggiatore fugge segretamente dall'angoscia di essere colui che attraversa il mondo senza conoscere nessun luogo. Ogni viaggiatore lo sa. I luoghi sono profondi. Se non ne conosci le storie, le parole e le cose, le storie annidate dentro le cose e le parole, stai solo calpestando un suolo.
La Riviera che trovi in queste pagine è un viaggio più nel tempo che nello spazio. Dalle sue profondità arrivano fino a te che leggi Portofino, dall'epoca di Landless John a quella di Rita Hayworth, e Bordighera, Rapallo, dai giorni di Ezra Pound a quelli di Marcello Mastroianni, e la Genova dei Doria e dei marinai senza nome, Camogli, i caruggi e Portovenere, i leudi, che possono arrivare fino a Buenos Aires, i gozzi che scintillano - gialli, celesti, bianchi, verdemare - al sole, le case, le finestre e i capitani, che abbandonavano la paura appena levate le ancore e che sapevano uscire da ogni mare. E la buridda di pesce, il vermentino, il macramé, il camallo e il bacàn, parole e cose che nel tempo non hanno esitato ad attraversare l'oceano per suonare differenti eppure uguali anche agli antipodi.
Accanto a cose, luoghi e parole ti trovi dentro alla storia del Saraceno, che viveva con i figli e i soldati in una torre a picco sul mare, a quella della bellissima polena naufraga al largo delle Azzorre, o a quella del Cristo miracoloso di Varazze. Ciò che ti porta su questa via lungo l'acqua, luogo circoscritto e a un tempo universale, non è mai nostalgia, non è in alcun modo un dolore del ritorno, ma al contrario la ricerca di un senso essenziale dell'esistere che l'autore insegue nelle storie del mondo sul filo di una scrittura avventurosa ed esatta. Sette milioni di anni fa, racconta Giorgio Ficara, migrando dall'Africa sul fondo di un Mediterraneo ancora senz'acqua, sono arrivati sul monte di Portofino i convolvoli rosa che ora ci sembrano così nostri. Come dire, se sei di queste parti, trovi te stesso solo se ti riconosci fatto di lontananze.
Istanbul, Damasco, Teheran, Delhi, La Mecca, Medina. Ma anche Venezia e Londra.
Un giovane e brillante reporter, figlio di un uomo politico pakistano e di una giornalista indiana, viaggia nelle terre dell'Islam dalla Turchia fino alla casa del padre a Lahore. Quello che cerca, nelle terre che attraversa e negli uomini che incontra, è un'identità che gli è estranea ma che, nello stesso tempo, scorre nelle sue vene. Un'identità che non può che ruotare intorno all'assenza del padre, e che ben presto da questione privata si rivela intrisa di complessi fattori storici e religiosi.
«Sottile e intenso. Un giovane scrittore da non perdere di vista».
V. S. Naipaul
"Straniero alla mia storia. Viaggio di un figlio nelle terre dell'Islam", è il racconto di un doppio viaggio, quello che l'autore, l'indopakistano Aatish Taseer, intraprende attraverso diversi paesi del Vicino Oriente fino al Pakistan, per conoscere e capire l'Islam; e quello interiore per arrivare a conoscere il padre, un importante uomo politico del quale serba due oggetti - la copia di un suo libro e una vecchia cornice d'argento con una fotografia che lo ritrae piccolissimo in braccio a lui - e il ricordo di un incontro traumatico quattro anni prima.
Il doppio viaggio di Taseer prende le mosse da Beeston, un sobborgo di Leeds, dove si reca come inviato di «Time Magazine». Siamo nel luglio 2005, e pochi giorni prima un gruppo di pakistani britannici, per la maggior parte di Beeston, ha fatto esplodere autobus e treni a Londra. Oltre ai poliziotti, nelle strade di quel quieto sobborgo inglese si aggirano giornalisti di tutto il mondo. I residenti, «in maggioranza punjabi, musulmani e sikh, sia pakistani che indiani, ricreavano la mescolanza precedente alla Partizione, un'India indivisa che non esisteva più». Questa immagine suggestiva, che allude sia al passato storico del subcontinente sia alla sua storia, ha per lui qualcosa di famigliare, ma mentre le vecchie generazioni hanno un umorismo e un'apertura mentale che sembrano arrivate dai bazar di Lahore, i figli o nipoti, suoi coetanei, con le lunghe vesti arabe e la barba tagliata secondo il canone islamico, gli appaiono irriconoscibili. Figure viste al cinema, repliche inquietanti di quel Farid che in Mio figlio il fanatico condannava con violenza la tolleranza del padre e la sua «oscena» passione per il jazz. Il profondo divario generazionale tra i musulmani britannici alimenta in Taseer un'inedita curiosità per se stesso, un desiderio di capire, di indagare una storia e una cultura religiosa che non conosce e non gli appartiene, e tuttavia costituisce un legame con il padre.
La sua ricerca, mettendo nero su bianco, riflettendo per la prima volta sul peso delle proprie affermazioni, lo porta da Venezia, attraverso le terre spettrali dell'antico impero ottomano fino a Istanbul, poi a Damasco, alla Mecca, a una Teheran attualissima nel suo livore e vitalità, e infine in Pakistan sulle soglie della casa paterna. Un antico viaggio islamico, quasi un pellegrinaggio, e un ritorno al paese del padre, per vederlo meditare sulla storia crudele del paese e ritrovarsi con lui la sera in cui fu uccisa Benazir Bhutto.
«La memoria dell'esule». Così Luciana Stegagno Picchio definiva i cinque volumi dei Cadernos de Lanzarote in un suo saggio sullo scrittore portoghese. Nel 1993, infatti, il futuro Premio Nobel per la Letteratura, in seguito alle polemiche suscitate in patria dal suo Vangelo secondo Gesù Cristo, si era trasferito alle Canarie, nell'isola di Lanzarote.
E per cinque anni - 1993-1997 - scrive una sorta di diario «pubblico» in cui racconta di sé, del suo amore per la moglie Pilar, di libri degli altri, di persone che incontra, di viaggi - l'Italia, la Cina, la Spagna, naturalmente il Portogallo -, dei suoi adorati cani, di scrittura e di scrittori, di politica, filosofia, religione, di illuminazioni, di sensazioni...
Un diario sincero che è anche un viaggio tra i suoi libri - scritti e da scrivere - e delle casualità che li hanno ispirati. Come pure un viaggio dentro se stesso, perché «tutto è autobiografia», perché la vita che raccontiamo sta «in tutto ciò che facciamo», e non solo nelle parole, ma anche nei gesti.
Un giorno qualsiasi lo scrittore e naturalista inglese Richard Mabey si ferma, e tutto si ferma intorno a lui. Niente ha più senso, niente ha più colore. Smette di lavorare, si chiude in casa, non vuol più vedere nessuno. Ripete come una litania spezzata: «Sono stanco». Ma soprattutto si accorge di aver perso il legame per lui più importante, fonte di gioia e ispirazione: quello con il mondo naturale. Iniziano i momenti in cui proprio «non va». Momenti immobili e bui. Mabey è caduto in una depressione profonda.
«Come un giovane pennuto che si invola dal nido, o come un uomo che fugge dalla fame o dalle tribolazioni devo migrare», dice. Lascia l'amata casa della sua infanzia tra le dolci colline delle Chilterns e si trasferisce in una fattoria isolata nelle pianure del Norfolk. Parte con poche cose, senza pentole o suppellettili, ma con un bagaglio messo insieme sulla base di criteri strettamente emotivi. Eppure, grazie all'aiuto del nuovo paesaggio che lo circonda, nel giro di qualche mese Mabey risale lentamente la china. E con allegra meraviglia ci regala la sua ricetta.
Questo libro è il racconto di una rinascita, ovvero la storia di un misterioso rito di passaggio. Mabey è infatti un uomo che deve imparare ex novo a vedere la natura per tornare infine ad abbracciare il mondo, capire se stesso e accettare gli altri.
Attorno a lui le stagioni si alternano, le rondini partono e ritornano, le gru intrecciano nuove danze gioiose, e piano piano un paesaggio sconosciuto e ostile si fa sempre più accogliente. Quando ritrova la forza di scrivere si accorge che, descrivendo la natura mutevole dei boschi che circondano la sua nuova casa, si sta invero riappropriando del proprio sé. Con genuino stupore si scopre nuovamente pronto ad aprirsi all'amicizia, agli affetti, all'amore.
La cura naturale di Mabey non è un passivo abbandonarsi al mondo, ma una riflessione profonda sul senso del nostro esserci, sul valore relativo, e pertanto assoluto, di ogni creatura, sulla saggezza della terra, sul ruolo della fantasia e dell'empatia con la natura, gli animali, i fiori, il vento. Scritto nella scintillante prosa che ha reso celebre l'autore, strutturato come un racconto e preciso come un saggio, Natura come cura è un libro che ci lascia con un messaggio di grande speranza, individuale e collettiva.
Ushuaia, ultimo confine del mondo. Il 27 settembre 1871, nel tardo pomeriggio, un uomo e una donna di circa vent'anni escono sul ponte della nave e si fermano immobili, uno accanto all'altra, a scrutare l'orizzonte. Quella che guardano è la loro nuova terra e futura dimora. Intanto, sotto coperta, dorme pacificamente la figlioletta di nove mesi. Da tempo hanno lasciato l'Inghilterra e tra ondate gigantesche e stridore di pennoni, sono approdati in una regione desolata e selvaggia in cui vivono tribù senza legge, senza regole e senza dio. La Terra del Fuoco è ancora tutta dei fuegini. Appartiene alle loro usanze e credenze, alla loro intelligenza e ingenuità. Con il compito di portare il cristianesimo, Thomas e Mary Bridges vivono insieme alle popolazioni indigene, fianco a fianco. Con loro creano accampamenti e fattorie, costruiscono case in legno e lamiera smontabili pezzo a pezzo, tracciano le prime strade e allevano animali. Lì nascono e crescono i figli, tra cui Lucas autore di questo libro scritto nel 1947 che racconta la storia dei Bridges.
Dalla fine dell'Ottocento alla metà del secolo successivo, la vita della famiglia Bridges incrocia e accompagna la trasformazione e il viaggio della Terra del Fuoco, una terra mutevole e affascinante, tanto reale da sembrare finta. Uno scenario naturalmente perfetto per qualsiasi libro di avventura. Primavera dopo primavera, l'insediamento dei Bridges è attraversato dai personaggi più diversi: intere famiglie di indigeni, scaltri uomini di medicina, avventurieri privi di scrupoli, cercatori d'oro, scienziati, botanici. Ex galeotti, diventati gauchos, capaci di rovesciare a terra una mucca di qualche quintale senza alcuno sforzo, marinai zoppi o guerci ma che in realtà ci vedono benissimo. Tutti uomini in cerca di fortuna o in fuga da qualcosa. Personaggi ricchi di storie, fortemente romanzeschi nella loro spericolata e concretissima realtà.
Nessuno di questi uomini sfugge alla curiosa abilità di narratore del giovane Lucas. E nulla resta nella sua penna. Gli episodi sono centinaia, e l'autore passa dall'uno all'altro sospinto da una memoria prodigiosa e da una passione profonda per luoghi, tempi e persone che non ci sono più ma che in queste pagine riprendono vita sotto ai nostri occhi. Quasi palpabili.
Non è un caso che proprio la lettura di Ultimo confine del mondo abbia ispirato il viaggio di Bruce Chatwin e la scrittura del suo celebre In Patagonia. Questo è infatti un libro che aderisce con forza alla pelle del lettore e spinge - irresistibilmente - a ripercorrerne le tracce e i sentieri.
«Hanno ucciso papà. Ma queste cose succedono nei film, non può essere vero. I compagni dell'asilo non mi credono. Allora insisto: "Hanno ammazzato papà, gli hanno sparato, bum! bum!, con la pistola" e mimo con le dita la forma dell'arma. Una P38».
Walter Tobagi è stato ucciso a Milano il 28 maggio 1980. Gli hanno sparato sotto casa alcuni membri di una semisconosciuta formazione terroristica di sinistra, la «Brigata XXVIII marzo». Tobagi era un giornalista del «Corriere della Sera», era uno storico e il presidente del sindacato dei giornalisti lombardi.
Quando è morto aveva trentatre anni, il figlio Luca sette, Benedetta tre.
Si può dire che Benedetta non ha conosciuto il padre, di lui conserva solo alcuni fotogrammi di ricordo, qualche sguardo ritrovato e una grande incolmabile mancanza. Una volta cresciuta, ha deciso di andare alla scoperta di questo padre immensamente amato, e ne ha raccolto ogni traccia.
Per ricostruirne la figura pubblica e privata, Benedetta ha scavato fra le carte professionali come fra quelle intime. Ha riletto i suoi libri, gli articoli di giornale, le pagine di diario, gli appunti in cui il Tobagi storico riflette sulla situazione politica e le lettere sentimentali dove, giovane studente, cerca di affascinare una ragazza misteriosa.
Ha ascoltato i ricordi di chi lo ha conosciuto: i famigliari, gli amici, i politici, i colleghi del «Corriere», la gente che lo ha incontrato solo di passaggio e i molti personaggi, a volte ambigui o restii, che hanno incrociato la sua storia.
Ha letto e studiato gli atti processuali, con rabbia, amarezza e tanta voglia di capire un periodo complesso come gli anni Settanta; ancor più difficile da comprendere per chi in quegli anni nasceva. E lo ha analizzato con rigore, cercando il distacco dello storico.
Ne nasce un libro tenero e terribile, in cui si muovono figure e personaggi, buoni e cattivi, potenti e innocenti; in cui riecheggiano voci forti e silenzi senza fondo, gioie famigliari perdute e ferite mai rimarginate. E dove si intrecciano analisi storiche lucide e dettagliate e, per questo, spesso desolanti.
Il racconto possiede una forza narrativa che fa parlare i vuoti, una voce solida e vibrante che scandaglia i confini tra zone di luce e zone d'ombra, alla ricerca di una verità che sembra sempre sfuggire dalle mani.
Di Sabrina Harman tutti dicevano che non avrebbe fatto mai male a una mosca. Nella sua unità in Iraq era considerata una che odiava assistere ad atti di violenza, o commetterli. Eppure Sabrina Harman e molti altri suoi commilitoni, fra cui Charles Graner, Lynndie England e Ivan Frederick, sono le stesse persone che ridono beffarde puntando il dito davanti a una piramide umana di prigionieri incappucciati, che sollevano festose il pollice accanto al cadavere di un uomo morto per le torture, che indifferenti stringono una cinghia intorno al collo di un detenuto nudo a terra. Questo libro è la storia di quelle fotografie, di quegli uomini e di quelle donne. Ma è soprattutto la storia agghiacciante di ciò che non si vede, di come quel luogo è diventato il cuore di tenebra del nostro presente, un luogo in cui i prigionieri - il 75 per cento dei quali è risultato poi innocente - venivano quotidianamente picchiati, denudati, umiliati, torturati, privati di dignità e diritti; a volte uccisi. È il racconto di come tutto ciò è diventato normalmente possibile e di come le istituzioni, ricorrendo a ipocriti eufemismi e a fumosi termini tecnici, hanno consapevolmente perseguito questo obiettivo. Ogni giorno ci dicono che siamo in guerra, che certi compromessi sono inevitabili, che fanno parte delle "regole del gioco". Per questo le fotografie di Abu Ghraib ci riguardano tutti: non possiamo ignorare l'orrore, non possiamo far finta che sia un male necessario.
"Questo testo è stato scritto nel 2002, mentre facevo ricerche per un altro libro, poi pubblicato. È nato dall'incontro fra le tesi di uno studioso tedesco brillante e fuori dagli schemi, Klaus Theweleit, e l'opera di un fascista belga, Léon Degrelle, in cui il gioco delle immagini e della lingua fa emergere la struttura stessa del pensiero del suo autore. Poiché il testo è scritto in francese, ho potuto tentare un'analisi più approfondita di alcune intuizioni; effettuare una verifica sperimentale di una particolare teoria del fascismo, proposta appunto da Theweleit. Una teoria che, come si potrà vedere, contiene la sua parte di verità, così come altre linee di pensiero che del resto ho avuto modo di esplorare, ampie vie maestre, semplici sgrossature, vicoli ciechi o rapide incursioni nell'oscurità, che quella teoria incrocia senza mai ricalcarle. L'argomento è infatti tale che, per quanto rigorosamente si cerchi di delimitarlo, sfugge sempre per qualche suo aspetto; sempre le sue profondità, messe a nudo, nasconderanno altre profondità insospettate, e talvolta ripiegate su se stesse, a formare un'unica superficie liscia, piatta, banale, ma sempre pronti a cedere di nuovo sotto i piedi di chi vi si avventura". (Jonathan Little)