La venuta alla luce di un figlio appare subito agli occhi della madre e del padre come un lieto evento, per il quale esprimere gioia e gratitudine. In fretta però la vita del figlio propone loro anche molti compiti, e impegnativi. In prima battuta il nuovo nato accorda all'avventura della vita un credito spontaneo e incondizionato: esso 'costringe' i genitori stessi a una rinnovata speranza. In seconda battuta, la speranza del figlio appare possibile soltanto a condizione di una sua scelta, che è come una seconda nascita. La prima nascita, dalla carne e dal sangue, non ha bisogno di scelta. Ma la vita da essa inaugurata propone poi momenti di prova, e quindi la necessità di decidere. L'alternativa radicale è tra le due vie: credere alla promessa degli inizi oppure no, esigere le prove. Le condizioni per decidere sono predisposte fin da subito dai genitori stessi, prima ancora di rendersene conto. essi hanno scelto la vita per il figlio e appaiono ai suoi occhi come naturali testimoni della speranza. Ma della speranza essi devono poi rendere ragione, attraverso tutta la loro vita. La domanda del battesimo, che molti genitori oggi ancora rivolgono alla Chiesa, ha obiettivamente questo senso: chiedere un aiuto per iniziare il figlio alla verità del vangelo di Gesù. Queste pagine di Angelini intendono accompagnare i genitori nel loro difficile ma appassionante impegno di consegnare al figlio una speranza, quella che prende avvio sotto il segno del battesimo. Così la loro cura apparirà riflesso della cura che il padre dei cieli non farà mancare nel corso della vita.
La figura del cardinal Martini, a dieci anni dalla sua scomparsa, continua a stimolare il confronto con il suo pensiero e a ispirare i cuori di chi lo ha incontrato e ha seguito le sue proposte pastorali. Con quella sua straordinaria capacità di coniugare sapienza e profezia, di ascoltare la voce di Dio sia nella Scrittura sia nello svolgersi della storia, Martini ha reso la Bibbia la casa in cui imparare a pregare, nella convinzione che il linguaggio biblico potesse diventare la lingua materna del credente. E proprio questo accadeva nell'esperienza della Scuola della Parola, dove, nell'«adesso del tempo», la lectio divina condotta attraverso itinerari semplici ed efficaci apriva alla trasformazione personale, alla crescita dell'«uomo interiore» che lascia spazio all'azione dello Spirito. Questo libro ripercorre, con chiarezza e anche affetto, le scelte di metodo, le riflessioni, le idee innovative che hanno ispirato le iniziative di Martini, in particolare l'originale connubio tra Parola di Dio e spiritualità di Ignazio di Loyola. Permette così di cogliere il soffio sottile che anima la sua eredità, per poterla assumere responsabilmente nel momento attuale della Chiesa e nel cammino sinodale voluto da papa Francesco, con un atteggiamento teso non a ripetere e conservare quanto lui ha compiuto, come fosse un materiale inerte, ma a vivere creativamente in prima persona ciò che la sua testimonianza ci consegna. Prefazione di Pietro Bovati.
Dopo "Paideia", il monumentale saggio sulla formazione dell'uomo greco, divenuto uno dei cardini della riflessione culturale della nostra epoca, Werner Jaeger ricerca, nella conferenza del 1943 che qui riproponiamo, le radici dell'Umanesimo europeo. E le trova aprendo una via diversa rispetto alla convinzione consolidata secondo cui l'Umanesimo nasce da una rottura rispetto al Medioevo 'teologico' e a favore di un ritorno alla classicità centrato su una nuova concezione della natura umana. È vero, come ricorda qui lo stesso Jaeger, che gli umanisti rinascimentali ammiravano e desideravano far rivivere l'antica cultura della Grecia e di Roma e ritenevano il Medioevo un periodo barbaro che aveva interrotto il progresso della civiltà classica, ma il loro rifiuto era indirizzato principalmente alla forma degenerata della tradizione scolastica, con il risultato di offuscare la grande portata 'umanistica' di autori medievali - primo fra tutti san Tommaso, ma anche Dante - che seppero arricchire di universalità il pensiero di Aristotele e di Platone. Il cristianesimo, fondato sull'Incarnazione, trae da essa la ragione profonda della dignitas hominis, riprendendo il lascito greco della virtù come 'conversione' dal mondo dell'illusione sensibile al mondo dell'essere vero e unico che è il bene assoluto e desiderabile. Lungi dal rappresentare una rottura, il Medioevo emerge dunque come il compimento dell'anelito a quell'«Umanesimo integrale» che, pochi anni prima della conferenza di Jaeger, Maritain aveva così formulato: «L'uomo è chiamato a un destino migliore che a una vita puramente umana». Una lezione di grande respiro, questa di Jaeger, che giunge «come una freccia acuminata» (per usare le parole di Carlo Ossola nella Presentazione) a illuminare i 'secoli bui' e far risplendere ancora oggi la loro eredità.
Ha un significato il colore? È il medesimo per tutti? Che relazione c'è tra i colori e la vita? Sono domande che possono apparire eccentriche, eppure non si può pensare una vita senza colori, una vita 'in bianco e nero' (anch'essi colori!). Come spiega Antonio Spadaro in queste pagine, il colore è uno dei canali attraverso i quali il mondo viene a noi, è un potente tramite di comunicazione, «giunge dall'esterno, da un oltre che offre il senso alle cose di qua, alla vita, agli oggetti. Il colore raggiunge l'artista che lo scopre, è l'intuizione di un mondo che deve ancora venire». Questo libro parla proprio di quattro artisti, protagonisti dell'arte statunitense del Novecento, e del loro percorso di ricerca attraverso il colore: Edward Hopper, Mark Rothko, Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat. Le loro opere sono come delle 'icone' che alludono a un 'oltre': icone dell'attesa, della luce, dell'altrove, del lato oscuro. Variazioni di una costante dell'esperienza umana: la vita è radicalmente colorata. Ha sfumature infinite, evidenti distinzioni e trame fitte di relazioni, fino a quello che la poetessa Mary Oliver ha definito lo splash of happiness: «Come potrebbe esserci un giorno nella tua intera vita che non abbia il suo schizzo di felicità?». E lo schizzo è sempre una macchia. Di colore.
Avvicinandosi alla Bibbia, molti si sentono impreparati alla sua corretta comprensione. Tuttavia, al di là degli studi specialistici di esegesi e analisi storica, testo per testo, libro per libro, è possibile per tutti avere delle chiavi di lettura della Bibbia nel suo insieme. E questa è la cosa più importante: non tanto 'scoprire' la Bibbia, quanto 'entrarvi', riconoscerla come lingua madre della fede. Aiutare il lettore in tale immersione è l'intento del lavoro di Beauchamp che qui riproponiamo, autentica 'gemma' del suo pensiero che non ha perso nulla della sua attualità a oltre quarant'anni dalla pubblicazione originaria. Entrare nella Bibbia vuol dire scoprire che ha un fuori e un dentro: che è parola di Dio e parola dell'uomo, che è libro molteplice e unico, che appartiene a un popolo eletto e a tutti gli uomini. Proprio queste dicotomie sono il sale della comprensione, perché i due poli lontani, unendosi, acquistano un nuovo e più vero significato, e il punto focale sta nella congiunzione 'e', piccolo e imprescindibile anello della catena che riempie di senso ciò che unisce. Mentre offre le coordinate per avvicinarsi in questo modo al testo biblico, Beauchamp non perde mai di vista il lettore, accompagnandolo nelle difficoltà di approccio e fornendogli anche una serie di suggestivi esempi della sua esegesi capace di restituire tutta la rilevanza umana della Scrittura: dal racconto dell'origine, con Adamo figura della fratellanza umana, all'elezione di Abramo, all'Esodo e a Davide, quando Israele deve confrontarsi con le nazioni, fino al compimento evangelico. Una storia complessa, un'avventura mai pacifica che costringe tutte le parole per dire Dio, comprese le nostre, a passare attraverso il fuoco. Perché è grazie all'incontro incandescente di Dio con l'uomo che le Scritture diventano 'sacre'. E il popolo di Dio con loro.
Catherine Ternynck sa bene che è difficile parlare dell'anima, destinata a essere figura di assenza in un mondo troppo pieno. Lo sa per i tanti anni passati ad ascoltare storie personali nel suo studio di psicanalista, e lo sa per aver dovuto affrontare l'esperienza della perdita improvvisa del marito. Proprio quel dolore l'ha messa in cammino, alla ricerca dei segni discreti di un passaggio, di un richiamo che induce a guardare cose e persone in maniera nuova, a vivere diversamente il mondo. Da quel percorso così intimo è nato questo libro: non un saggio di psicologia né un testo di educazione spirituale, piuttosto una sorta di 'poema in prosa', una meditazione finissima che rende il mondo permeabile al mistero. Intervallati da passaggi scritti in prima persona che illuminano la condivisione di una ferita e della sua cura, tanti piccoli racconti ispirati a incontri ed esperienze personali, narrazioni vivide e toccanti che non cedono mai al sentimentalismo... Tutti ci interpellano, ci consegnano le loro storie. Storie di anime che a volte rimangono sospese, ma in cui sempre veniamo condotti all'incontro con un soffio, un refolo, un accenno d'una presenza assente che diventa possibilità e promessa.
Nelle frenesia del vivere moderno rischiamo spesso di perdere quegli elementi che compongono gli atti fondamentali dell'umanità. Scoprendoci quasi "analfabeti" di quel mondo invisibile - eppure concreto - che compone la nostra spiritualità. Il cardinale poeta José Tolentino Mendonça ci offre in questo libro piste di spiritualità per il nostro tempo, sotto forma di un lessico essenziale e semplice, dalla "A" di Altri alla "V" di Vulnerabilità, sotto il comune denominatore della "materialità" dello Spirito. Dio, la fede, la speranza - realtà invisibili - vibrano nella concretezza del quotidiano, perfino nella sua apparente banalità. Il poeta portoghese - noto per il suo stile accattivante prende spunti e immagini da molti registri di linguaggio, in particolare da quello letterario e filosofico - ci parla qui con stile potentemente suggestivo e ispiratore, poetico appunto, utilizzando spesso la forza acuminata dell'aforisma. Perché la poesia, diceva un grande teologo come Hans Urs von Balthasar - citato nel libro -, riflette il sentire cristiano più di tutti i testi di teologia.
La degenerazione del dominio politico è correlata all'abuso sofistico della parola. Nelle parole la realtà diventa chiara. Si parla al fine di rendere riconoscibile qualcosa di reale nella comunicazione. Ma questa natura comunicativa della lingua è sempre più corrotta. Il fenomeno oggi delle fake-news è solo la punta dell'iceberg della divaricazione tra apparenza e verità, a tal punto che non importa più se un discorso è vero o meno. Quello che importa è che emozioni. In questo senso l'abuso della parola è il mezzo privilegiato dell'abuso del potere. Lo avevano teorizzato fin dall'antica Grecia i sofisti, filosofi che utilizzavano la retorica per ottenere il consenso politico persuadendo, anche al prezzo della verità. Tirannia, propaganda, mass media hanno come obbiettivo privilegiato la corruzione della parola e la sua degenerazione. Ci offrono realtà il cui carattere fittizio minaccia di diventare impenetrabile. E così pure, nel privato, l'abuso di potere sulle persone si esercita anzitutto tramite la corruzione della parola, che diventa arma subdola e insidiosa di dominio. In questo breve saggio il filosofo Josef Pieper mostra con determinazione e passione, e insieme con rigore intellettuale, la via d'uscita da questa situazione opprimente. Ci viene chiesto di vedere di nuovo le cose per come esse sono, di vivere e operare in forza della verità riscattata. Prefazione di Roberto Mancini.
L'individuo deve ricrearsi la fede con un atto di decisione; perché la fuga, non più la fede, esiste oggi come mondo oggettivo. La fuga davanti a Dio è un pamphlet scritto nel 1934, in piena epoca nazista. In un clima storico in cui si assiste all'affermarsi dell'industrialismo e del dominio tecnologico della macchina, del culto futuristico della velocità, al disfarsi dei legami sociali, alle mattanze dei totalitarismi e delle guerre mondiali, Picard descrive la fuga dell'umanità dalla divinità, dal fondamento dell'essere, dal paradigma stesso dell'esistenza. La sua diagnosi è netta: «Nel mondo della fuga l'uomo non esiste come singolo essere delimitato, ma come coacervo di sensazioni, volontà e azioni continuamente mutevoli». La critica di Picard risuona oggi lungimirante e visionaria. La sua analisi della mobilità inesausta, dell'accelerazione della vita e del continuo cambiamento dei rapporti tra gli esseri umani individua problematiche sollevate da filosofi come Morin, Baudrillard, Virilio, Debord. La sua descrizione del dissolvimento dell'oggettività e dell'avvento di una realtà virtuale e fantasmagorica costituita da grumi di materiali informativi fluttuanti in un continuum di immagini, ci ricorda la società liquida di Bauman e il dominio planetario della rete. La lezione di Picard oggi assume un valore particolare in riferimento al cuore stesso delle sue riflessioni: ricentrare l'essere umano intorno ad alcuni nuclei essenziali e imprescindibili, per riconoscere il mondo come donazione, ma anche per riaffermare le ragioni neglette di un principio di umanità da opporre alle forze omologanti che oggi sembrano imporsi su scala planetaria. Come scrive Hermann Hesse nel testo che lo accompagna: «Molte sono le ragioni che rendono importante questo libro... È un'opera spaventosa e confortante allo stesso tempo, ma lasciamo che il libro parli da sé.
Uno dei maggiori filosofi italiani riflette sul desiderio, tema molto in voga nella recente saggistica italiana. Questo fondamentale tratto antropologico viene letto paradossalmente nella sua valenza positiva, come segno di una mancanza radicale dell'essere umano. È lo spazio dove si manifesta l'alterità a cui è costitutivamente aperto l'uomo, la cui identità dipende dall'altro da sé (come nel bisogno del cibo, ma anche e soprattutto nella relazione). Questa mancanza non può mai essere saturata, come vorrebbe l'inganno della società dei consumi, che infatti si ingegna a contornare le merci di un'aura di desiderabilità estetica sempre nuova. Questa mancanza è piuttosto la radice di un'identità sempre aperta e in movimento, dove l'altro non rappresenta una minaccia, ma la sorprendente possibilità della libertà di realizzare se stessa attraverso l'esperienza. Il saggio termina con un'efficace è inusuale riflessione sul rapporto tra desiderio umano e Dio. Dio non è il compimento del desiderio, a modo di un tappabuchi: sarebbe come una proiezione dell'uomo. Dio è invece la fonte del desiderio, che dilata lo spirito umano nell'incessante è felice rapporto con l'oltre della realtà.
Sono molte le donne che compaiono negli Atti degli Apostoli e nelle lettere di san Paolo: amiche, sorelle e testimoni che collaborano alla missione della Chiesa nascente. Alcune sono citate solo col nome, di altre invece, sia pure nella brevità di una frase o di un inciso, si tratteggia qualche caratteristica o qualità saliente. e nei confronti di tutte traspare un atteggiamento di stima, a volte anche la riconoscenza per il lavoro svolto o l'attestazione di un'amicizia nata dalla condivisione di fatiche e sofferenze. Il che sembra contraddire le interpretazioni di san Paolo come misogino che chiede alle donne sottomissione e silenzio (interpretazioni poggiate per lo più sulle lettere 'pastorali', appartenenti a una situazione ecclesiale posteriore). In realtà, come emerge dai ritratti delineati qui da un gruppo di teologhe di paesi e culture diverse e dal contributo finale di romano Penna, una delle massime autorità in letteratura paolina, le 'donne di Paolo' sono donne indipendenti, di buona posizione sociale ed economica, che hanno contribuito fattivamente all'espansione missionaria; donne forti che «hanno combattuto per il Vangelo»; mogli che nella coppia condividono pari dignità col marito; ragazze che hanno il dono della profezia o sono possedute dallo spirito; vedove che si mettono al servizio dei credenti; diaconesse che in prima persona insegnano, predicano e fondano Chiese domestiche. Apostole e missionarie, quindi, la cui vocazione non è né il silenzio né l'invisibilità, ma che diffondono ovunque il profumo del Vangelo con trasparenza e coerenza di vita. una lezione antica per i nostri tempi.
Rembrandt aveva appena 22 anni quando dipinse, su un piccolo pannello di legno di una quarantina di centimetri di lato, l'incontro di Gesù con i due discepoli a Emmaus. Era il 1628 e da allora egli tornerà più volte a illustrare quella scena, in disegni, incisioni e altri dipinti: una vera ossessione, in parte condivisa dai più grandi artisti dell'età rinascimentale e barocca (da Caravaggio a Rubens, Tiziano, Tintoretto, Veronese...). Proprio quel piccolo dipinto giovanile, oggi al Museo Jacquemart-André di Parigi, smuove la curiosità di Max Milner verso la sfida lanciata all'immaginario pittorico dal brano evangelico. Come può un'immagine 'fissa' dar conto di un'atmosfera che è allo stesso tempo familiare (una cena condivisa) e folgorante (la rivelazione del Cristo risorto)? Come tenere insieme la luce malinconica del «giorno che volge al declino» e l'accecante sparizione divina? Come fissare quel fremito di instabilità che riflette le reazioni dei discepoli nel passare dall'incredulità alla fede? E non si tratta solo di una sfida 'tecnica', di virtuosismo nel tradurre un racconto verbale in racconto visuale. L'incontro di Emmaus interroga i pittori circa la rappresentazione di un mistero che svela una vicinanza laddove si pensava un'assenza, e fa capire che bisogna rinunciare a ciò che si crede di vedere per accedere a una verità che salva. Milner ci mostra qui le diverse scelte dei grandi artisti, giocate nei cambi di luce e di postura, perfino nei dettagli più minuti (la sedia rovesciata, il tovagliolo che cade, il coltello in equilibrio...). Per tornare, infine, alla geniale soluzione del giovane Rembrandt, con l'impatto mozzafiato del controluce, che rende il Cristo a un tempo potente e labile, definito ed enigmatico. Presenza e, insieme, promessa: il che è, precisamente, la sfida dell'arte.
È una vera rivoluzione quella che Gesù opera nella società ebraica del suo tempo nei riguardi delle donne. Il suo atteggiamento e il modo in cui tesse la rete relazionale con loro sono così nuovi da provocare scandalo e incomprensione tra i suoi contemporanei. All'epoca le donne giudee erano tenute in grande considerazione in quanto madri di famiglia, ma il loro spazio vitale era ridotto al focolare. Non avevano accesso all'ambito pubblico, da sempre esclusiva degli uomini. Gesù, invece, accetta le donne nel suo gruppo di discepoli, le inserisce nella sua sequela rendendole protagoniste a tutti gli effetti della sua missione. Nei Vangeli queste figure femminili toccate dall'incontro con Gesù emergono con grande nitidezza. Alla loro storia, all'intensità della loro fede e all'intelligenza del loro cuore sono dedicati i testi contenuti in questo volume, firmati da studiose di diversa provenienza geografica e confessione religiosa. Ecco allora, prima fra tutte, Maria, la madre di Gesù, protagonista dell'opera divina di ricreazione dell'umanità, e poi Elisabetta, che con la sua benedizione provoca un'esplosione di gioia e di Spirito in Maria stessa; l'anziana profetessa Anna, che riconosce Gesù come dono di salvezza; l'emorroissa e la sua fede che lascia sbalorditi; la sirofenicia, assennata e decisa pur nella disperazione; la peccatrice anonima che diventa esempio da imitare; la samaritana al pozzo, con cui Gesù stabilisce un rapporto vitale e liberatorio. E infine, le discepole di Gesù: le sorelle Marta e Maria, e Maria di Magdala, prima testimone del risorto, apostola tra gli apostoli. Una galleria di ritratti a tutto tondo, vivaci e autentici, per scoprire più da vicino la relazione di Gesù con le donne del suo tempo, il suo atteggiamento positivo, che supera gli stereotipi culturali dell'epoca senza mai limitare l'identità della donna al suo aspetto fisico o sessuale e assegna ai gesti consapevoli e accoglienti delle mani femminili la capacità di far lievitare, insieme al pane, il Regno di Dio in terra.
Tutti sanno cosa vuol dire avere sete. È un'esperienza comune a ogni essere vivente, eppure possiede molteplici sfaccettature. Rimanda a significati di concretezza fisiologica come di tensione simbolica. Dice di bisogni e di desideri. Di vuoto e di slancio verso il pieno. Di tristezza e di morte come di ricerca attiva della freschezza di una sorgente. Avere sete e dissetarsi: di questo parla José Tolentino Mendonça nelle sue riflessioni che hanno guidato gli esercizi spirituali nel tempo di Quaresima per papa Francesco e la Curia romana, e che ora sono qui raccolte. C'è la sete vera, quella delle periferie del mondo, la sete di cui si muore, e c'è la sete che è dolore dell'anima, vulnerabilità estrema di una vita che non trova via d'uscita. C'è la sete che è malattia dell'essere sempre insoddisfatti, prigionieri della mercificazione del desiderio, ma c'è anche la sete che fa muovere, che diventa spinta per un nuovo viaggio esistenziale. È soprattutto questo, l'opportunità di crescita umana e spirituale offerta dalla sete, che a Tolentino preme sottolineare, ricercandone le tracce nelle Scritture come nella letteratura e nella poesia. Dalla samaritana che nel dialogo con Gesù scopre che non è dell'acqua del pozzo che ha sete, al desiderio di vedere il volto di Dio come sete viscerale di tutto il creato; dalla sete del Crocifisso che è sete degli uomini, alla beatitudine della sete che amplifica il nostro desiderio, la nostra ricerca di Dio. Fino alla scoperta del dono che la sete ci fa, l'acqua viva dello Spirito, e alla consolazione senza pari che proviamo nell'abbraccio dell'ultima frase di Gesù contenuta nelle Scritture, nel Libro dell'Apocalisse: «Chi ha sete, venga».
Carlo Ossola, in questo prezioso e raffinatissimo libro, ci racconta il suo viaggio alla ricerca di quelle tracce che fanno dell'Europa un patrimonio di civiltà condiviso, di ciò che può essere identificato come valore che sostiene la nostra civiltà. Un viaggio dapprima reale, che tocca luoghi europei anche piccoli e meno noti – da Reggio Calabria ai prati irlandesi di Glendalough, da Odessa alla pietra bianca portoghese di Belém – dove un paesaggio, un manufatto artistico, un personaggio, un libro riaccendono il sapore di una pluralità viva e condivisa nella quale ci riconosciamo e che nutre il nostro immaginario. E poi un viaggio del pensiero, complementare, nei miti che dai Greci in poi ci hanno fornito una matrice di identità: Ulisse e Enea, Eros e Psiche, l’unità di tempo e luogo di Aristotele, il filo insospettabile che lega san Benedetto e Lenin. Un viaggio che va oltre la profonda crisi di coscienza e di cultura che investe il vecchio continente, dove tutto sembra ridursi al calcolo economico e alle procedure burocratiche. Una lettura per ‘ritrovare’ l’Europa e riportare alla luce ciò che accomuna i suoi popoli e ci rende europei.
Il biblista Bruno Maggioni propone in questo libro semplici e sapidi ritratti dei più noti profeti dell'Antico Testamento: da Amos, voce della giustizia sociale, a Osea, teologo dell'amore di Dio, a Geremia, uomo dalla preghiera interrogante, fino a Ezechiele, profeta dell'esilio, e Isaia, con la sua luminosa e poetica esperienza della fede. Ognuno con la sua spiccata caratteristica, ma tutti accomunati dalla medesima urgenza, quella di interpretare e annunciare la volontà di Dio in un momento preciso della storia di Israele. Il profeta sa leggere i segni dei tempi e il suo messaggio risulta di sorprendente forza e attualità, ma spesso, e forse proprio per questo, suscita irritazione. I profeti infatti sconvolgono gli schemi consolidati su cui poggiano le religioni e le società: i rapporti di forza che producono ingiustizia e povertà, l'amore per gli idoli, l'arrogante fiducia in se stessi, il culto separato dalla vita e dal cuore. Si capisce perché, allora come oggi, tutti i profeti siano rimasti incompresi e isolati, quasi sempre messi a tacere o uccisi. E tuttavia, attraverso la loro testimonianza critica e perseverante, Dio ha tenuto fermo il suo spazio originale dentro la vita di un popolo dalla dura cervice, aprendosi sempre un varco verso il futuro.
La domanda che Dio rivolge ad Adamo all'inizio della Bibbia - "Dove sei?" - risuona oggi nella sua intatta attualità. Le vere e proprie mutazioni antropologiche in atto segnano un panorama inedito nella vicenda umana: si pensi alle nuove frontiere della genetica e delle neuroscienze, all'intelligenza artificiale, al transumanesimo dei cyborg; ma ancora all'infosfera, ai social network, fino allo sfumare della differenza sessuale nella teoria del gender. Questa transizione pone interrogativi sull'uomo davvero radicali, a cui il sapere, anche della religione, fa fatica a rispondere. Il card. Ravasi in questo libro descrive il nuovo paesaggio dell'umano, evitando gli opposti del rimpianto di un mondo che non esiste più o dell'acritica accettazione di quanto accade. Rinnova piuttosto in queste pagine l'atteggiamento di una ricerca sapiente, che attinge la sua forza e vitalità a quel "grande codice" della visione umana occidentale che è stata la Bibbia. In quest'epoca di profondi cambiamenti sociali e culturali, per inoltrarci nel futuro ignoto è indispensabile tenere insieme presente e passato, classicità e modernità, arti e scienze, filosofia e tecnologia. "Lo stesso cristianesimo, mantenendosi fedele alla sua identità e al tesoro di verità ricevuto da Gesù Cristo, sempre si ripensa e si riesprime nel dialogo con le nuove situazioni storiche, lasciando così sbocciare la sua perenne novità."
In questi ultimi anni l'interesse per lo studio delle donne della Bibbia (le matriarche, le profetesse, le donne sagge, le regine, le eroine, le schiave, le mogli, le figlie, le prostitute?) e della funzione che esse svolgono all'interno del racconto biblico è cresciuto moltissimo. Su questo sfondo si colloca con originalità il libro curato da Nuria Calduch Benages, un libro interamente al femminile: dieci ritratti di donne scritti da dieci esperte della Scrittura biblica, di diverse provenienze e confessioni religiose. L'approccio è di grande e inedita ricchezza. Grazie alla peculiare sensibilità femminile delle autrici è possibile riscoprire i volti di Sara ,Agar, Tamar, Miriam, Debora, Anna, Betsabea, Ruth, Esther e Giuditta; volti segnati dalla gioia e dal dolore, dal riso e dal pianto, dalla lode e dal lamento, dalla forza e dall'astuzia. Scelte da Dio per compiere una missione, queste dieci donne hanno creduto alla loro vocazione e hanno lottato anche a costo della vita in favore del loro popolo. Si ha qui un vero e proprio esercizio di 'archeologia' dei testi biblici, che riporta alla luce figure sepolte dal silenzio pesante a cui la tradizione di fatto le ha relegate. L'invito è a seguirne le tracce, a conoscerne i nomi togliendole dal loro anonimato, ad ascoltarne le storie con attenzione, per poter così restituire loro una voce. Attraverso questo tipo di lettura la Bibbia viene liberata dalla interpretazione androcentrica a cui siamo abituati, per poter così raggiungere ed esprimere la totalità dell'esistenza umana.
Che cosa hanno in comune Hannah Arendt e Springsteen? Pasolini e le librerie d'occasione di Bogotà? I graffiti di Pompei e la farfalla Monarca a rischio di estinzione? Stanno tutti, da protagonisti e portatori di senso, in questo piccolo libro che in realtà è una vera e propria miniera di spunti per vivere con gusto la normalità di ogni giorno: la grazia dell'istante accolto per quello che è, l'esperienza della casa, il possesso e l'uso delle cose, l'arte di perdere tempo giocando, la capacità di condividere il silenzio, il sapore dell'infanzia, la sapienza dei percorsi tortuosi, la libertà di abitare il presente e incontrare le sue voci, il sale della vita nelle piccole gioie. Ancora una volta José Tolentino Mendonça, il teologo poeta portoghese, non ci delude e ci aiuta ad aprirci alle domande esistenziali, quelle che spesso non riusciamo neppure a formulare con le parole; a lasciarle agire dentro di noi come un dono che ci è dato e non come l'ombra di un debito verso noi stessi. Come ?chiamate in attesa', appunto: le più preziose, quelle che aprono un varco per congiungere l'istante di adesso a ciò che è da sempre, per unire la semplice parte che vediamo alla totalità che non riusciamo a vedere.
Da quando nel 1540, quasi cinque secoli fa, Paolo III istituì ufficialmente la Compagnia di Gesù, gesuiti e papato sono legati da una relazione speciale che ha attraversato la storia della Chiesa e della modernità. Da subito, con il loro 'quarto voto', i gesuiti dichiarano obbedienza incondizionata verso il pontefice, ponendosi come strumento al servizio dei disegni di Roma dapprima nella strategia missionaria e poi anche nella formazione delle classi dirigenti e nei rapporti con le grandi istituzioni politiche europee. Ma questo rapporto esclusivo e intenso non è stato sempre fluido e in armonia: ha conosciuto, anzi, momenti di grande difficoltà e incomprensione, come nel XVIII secolo, quando la Compagnia fu soppressa da papa Clemente XIV o in tempi più recenti, dopo il Vaticano II, per le acute tensioni con Paolo VI prima e Giovanni Paolo II poi. Con il suo stile consueto, di grande rigore storico abbinato a una capacità di narrare in modo sapido e avvincente le vicende umane dei protagonisti, John O'Malley dipinge in questo libro un colorato affresco nel quale il rapporto singolare, tumultuoso e variegato, tra gesuiti e papato si muove sul palcoscenico ben più ampio delle vicende storiche e politiche, tra svolte clamorose e colpi di scena, tragedie e risalite, polvere e onori, fino ad arrivare all'evento più inatteso: il primo papa gesuita della storia, Francesco.
África Sendino è un medico. Un giorno Sendino si ammala. Scopre di avere un tumore incurabile e il suo cammino verso la morte ha una brusca impennata. Ma questa esperienza, per Pablo e per chi le sta accanto, diventa un'esperienza affascinante, esemplare. Perché Sendino affronta la malattia con un'eleganza che evoca una vita interiore straordinaria. E Sendino scrive, annota su un diario pensieri e minute su sé e la sua vita mangiata dal cancro. Vuole farne un libro. Ma quando si accorge che non l'avrebbe mai visto, quel libro, chiede a Pablo di prendersene carico. Pablo fa di più. Ci mette se stesso. E in queste pagine racconta Sendino, quella parte della sua vita passata accanto a lei, e la vera eredità che Sendino ci lascia.
"Non si tratta di opporre il pane allo spirito ma neppure lo spirito al pane; bisogna piuttosto riconoscere e vivere il pane come segno dello spirito e lo spirito come urgenza della condivisione del pane. L'uomo è l'aperto, talmente aperto da riuscire ad arrivare fino alla bocca dell'altro. Da questo punto di vista la carità è forse la forma antropologicamente più aperta di apertura, forse essa è il solo luogo all'interno del quale lo stesso pane, nella mano che lo porta alla bocca dell'altro, si trova trasformato in spirito. Forse l'uomo è un essere spirituale proprio perché sa rispondere al bisogno materiale dell'altro uomo. Forse la spiritualità di quell'essere spirituale che è l'uomo rivela il suo ultimo volto proprio nel pane spezzato e condiviso con l'altro. Forse la carità è l'umanità stessa dell'umano". Un filosofo che sa mirabilmente legare parola ed esperienza umana ci aiuta a evitare le 'trappole' dell'evidenza per condurci alle verità essenziali.
La Chiesa di oggi sembra in cerca di un varco per il futuro. Mossa dal potente impulso riformatore di papa Francesco, diventa sempre più consapevole della necessità di un cambiamento al proprio interno per essere all'altezza di quanto richiestole dal vangelo di Gesù. Ma quali priorità deve assumere? Quali nodi deve sciogliere? Che forma dare all'istituzione ecclesiastica perché non finisca con l'oscurare il volto del Dio di Gesù, ma riprenda quell'arte di tenere accesa la luce della fiamma evangelica che sa attirare moltitudini? Sono le domande a cui la riflessione di Giuliano Zanchi offre una risposta lucida e persuasiva. Molto va ripensato delle figure che popolano la Chiesa: quella del laico, ancora in posizione subordinata rispetto al clero; quella della donna, marginale nei processi decisionali; quella del prete stesso, il cui profilo è diventato precario e incerto. Ma perché il vangelo possa parlare alla storia è necessaria anzitutto l'esistenza di una comunità. La testimonianza credente può darsi nel mondo solo grazie a una comunità di uomini e di donne che danno alla loro vita la forma del vangelo, solo attraverso il loro laborioso esercizio di quotidiana fraternità che si fa largo nei gesti di costruzione della città, della storia, della convivenza umana. Questa è la posta in gioco della presenza dei cristiani nel mondo. A questo essi servono.
Il posto delle donne nella Chiesa: non è una questione nuova, e neanche semplice. Perché non si tratta solamente di aprire alle donne posti di potere e di prestigio finora negati, ma di andare dritti al cuore del cristianesimo stesso, a quel "maschio e femmina li creò" che ci restituisce l'immagine completa di Dio, a quell'audacia originaria dei Vangeli che raccontano i rapporti rivoluzionari di Gesù con le donne della Galilea patriarcale. Occorre insomma che il cristianesimo torni alla dirompente novità delle sue fondamenta e in un certo senso restituisca il dono ricevuto secoli fa. Solo in questa prospettiva, ricongiungendosi alle proprie radici, si può arrivare a una nuova concezione del ruolo femminile: interrogandosi, rileggendo con occhi nuovi la Bibbia, riscoprendo con rinnovata attenzione le vite e gli scritti delle donne che sono state protagoniste della storia millenaria della Chiesa. È questa la disposizione che anima gli autori degli interventi qui raccolti: donne e uomini che, accogliendo l'invito di Papa Francesco a impegnarsi in una "profonda teologia della donna", dialogano fra loro mettendo in luce prospettive, criticità, esempi e proposte di vita. La loro interazione, la loro disponibilità verso le specificità di ognuno e le somiglianze reciproche, diventa essa stessa modello della corretta ricerca di quella che Lucetta Scaraffia, curatrice del libro, chiama "complementarità diseguale", un dinamico alternarsi di ruoli all'interno della collaborazione...
Un olandese formatosi a Venezia, che ha come modello e amico un cancelliere inglese, diviene il legatus dell'imperatore spagnolo, e decide di morire a Basilea, cercando invano un luogo di pace religiosa: anche solo questo minimo richiamo biografico evidenzia la singolare personalità di Erasmo da Rotterdam (1466/69-1536) e illustra la ricchezza del suo percorso umano e culturale all'insegna di un autentico spirito europeo. Ci introduce alla sua lezione il critico letterario Carlo Ossola, ricostruendo i caratteri storici che configurano "il vero Rinascimento", quello che "non si lascia irretire dalle contese religiose", che fu capace di "togliere all'eredità classica i paludamenti aulici e alla tradizione patristica i tratti apologetici", per andare all'essenziale della condizione umana. Sodale di Thomas More, e nutrendo poi Rabelais e Montaigne, e non meno Spinoza, Leibniz, Condorcet, Voltaire, e divenendo infine, nel Novecento, l'emblema e il conforto di una piccola schiera di uomini colti, da Zweig a Huizinga a Bataillon, che hanno resistito alle barbarie dei totalitarismi, l'umanista Erasmo, ironico e sapienziale, paradossale e libero, può rivelarsi, come conclude Ossola, un "prezioso faro per il viaggio e le tempeste che l'umanità incontra e suscita nel secolo ferito che si è aperto", in questo 'notturno' d'Europa.
Anche il silenzio ha una sua biografia, quella scritta nella vita di chi si dedica alla meditazione. Come Pablo d'Ors, che in queste pagine ci racconta la sua avventura negli spazi della quiete silenziosa. Decidersi per questo viaggio significa abbandonare lo stato in cui sono immersi i nostri giorni, quell'atmosfera tossica di affanno, ricerca di emozioni, intorpidimento e, soprattutto, paura della vita. "Viviamo, sì, ma molto spesso siamo morti". Fermarsi e rimanere in silenzio, coltivando l'attenzione a sé e alla vita che accade: questa pratica fa incontrare deserti interiori, miraggi, spaesamenti; conosce la fatica, il tedio, la distrazione. Ma perseverare genera misteriosamente, in tempi e modi non prevedibili, frutti insperati: non solo una pace profonda e il contatto con l'io autentico, ma soprattutto un'intensa partecipazione alla vita così come ci viene incontro. Diversamente dai nostri sogni, la realtà non delude mai. "Non c'è nulla da inventare, basta ricevere quello che la vita ha inventato per noi". L'incontro fiducioso e perseverante con il maestro interiore ci insegna che vivere in modo diverso è possibile, che ogni vera ricerca ci porta nel luogo dove già ci troviamo, per apprezzarlo con occhi nuovi. Rinascere a questa gioia è semplice e alla portata di tutti.
L'elezione a papa di Jorge Mario Bergoglio ha innescato un forte processo di rinnovamento che sta segnando profondamente la vita della Chiesa. Tra le grandi novità c'è anche il suo essere gesuita, il primo papa gesuita della storia: un'eventualità parsa per secoli quasi impensabile, che ha suscitato un'ondata di curiosità nei confronti della Compagnia di Gesù. Chi poteva soddisfare questo diffuso interesse meglio di un grande storico della Chiesa appartenente proprio all'ordine dei gesuiti, quale John O'Malley? Impresa non facile: quella della Compagnia di Gesù è infatti una storia ricca e complessa, abbraccia secoli, culture e continenti diversi ed è stata oggetto di giudizi molto contrastanti. Perché i gesuiti divennero quasi da subito anche poeti, astronomi, architetti, antropologi, imprenditori teatrali e molto altro, in un coinvolgimento nella cultura laica che non aveva precedenti per un ordine religioso e che finì per essere interpretato in modo dualistico: i gesuiti o erano santi o erano demoni. La ricostruzione di O'Malley ci restituisce un ritratto a tutto tondo dell'ordine, tra soppressioni e rifondazioni, fama e martirio, in un vivace racconto che parte da Ignazio per arrivare a papa Francesco, volutamente sintetico e concreto, narrato con lo stile che è ormai la cifra di O'Malley: riferimento rigoroso alle fonti storiche e attenzione al dettaglio umano.
"Perché state a guardare il cielo?": la domanda provocatoria che gli angeli rivolgono ai discepoli dopo l'ascensione di Gesù potrebbe essere posta ancora oggi. Sono infatti moltissimi quelli che pensano di dover trovare Dio nei 'cieli' della preghiera o della liturgia. Ma il cristianesimo non è anzitutto la religione del tempio o del culto. Andare in chiesa è certo importante, ma non basta. Il Dio di Gesù si fa piuttosto trovare nella concretezza delle relazioni umane, in modo speciale nella dedizione a coloro che soffrono. Il biblista Bruno Maggioni, così attento alla lettura esistenziale della Bibbia, ci ricorda questa caratteristica specifica del cristianesimo con un percorso che attraversa l'Antico e il Nuovo Testamento, dalla polemica dei profeti contro il culto ipocrita fino alla inaudita predicazione di Gesù sul sabato e l'uomo, e che ci restituisce il culto biblico e cristiano nella sua verità di spazio privilegiato dell'incontro fra l'uomo e Dio. Un incontro al cui centro sta la Parola che narra e istruisce e che impegna l'uomo in un'assunzione di responsabilità nei confronti della vita e degli altri.
Cristianesimo come religione dell’amore. L’identificazione è immediata, ma spesso rischia di trasmettere un’immagine edulcorata della fede cristiana, che invece ha a che fare, in modo speciale, anche con la violenza e il male. Il priore di Bose affronta a viso aperto questo tema leggendo i ‘salmi imprecatori’, testi biblici di solito poco frequentati proprio perché ricchi di immagini di violenza che disturbano la nostra sensibilità e ci mettono a disagio. Una violenza che viene portata davanti a Dio come grido di dolore, invocazione di una liberazione, ma anche invettiva. Perfino nella preghiera, il grido delle vittime innocenti di fronte al male dilagante e impunito arriva a mettere in questione la stessa bontà di Dio, la sua vicinanza, la sua capacità di giustizia. L’esperienza del male appartiene ineludibilmente alla vita. La Bibbia lo sa bene, e ne parla senza filtri o eufemismi, senza paura di dar voce a tutto l’uomo. E di dargli un senso e una speranza.
Enzo Bianchi è fondatore e priore della Comunità monastica di Bose. Uomo di fede e di cultura, attento al dialogo ecumenico, è firma di alcuni importanti giornali italiani e autore di numerose opere di successo, tra cui, negli ultimi anni: Il pane di ieri (2008, premio Pavese), Ogni cosa alla sua stagione (2010), Ama il prossimo tuo (2011, con M. Cacciari).