Nella primavera del 1928 Georges Simenon (che ha appena compiuto venticinque anni e ne ha già abbastanza della vita mondana che conduce a Parigi) si compra una piccola barca, la Ginette (lunga quattro metri e larga poco più di uno e mezzo), e parte, in compagnia della moglie Tigy, della domestica (e ben presto amante) Boule e del cane Olaf (un danese sui sessanta chili), per un viaggio attraverso i fiumi e i canali della Francia che durerà ben sei mesi: durante i quali gli capiterà di dormire sotto una pioggia sferzante, o di sguazzare nel fango, o di cercare di arrivare davanti alle chiuse prima delle grandi chiatte tirate dai cavalli, o di manovrare tra rocce a pelo d'acqua... Tre anni dopo, il settimanale «Vu» gli commissionerà quello che diventerà il suo primo reportage: insieme a un giovane fotografo di origine ceca, Hans Oplatka, Simenon ripercorrerà, in macchina questa volta, la «vera Francia», e tornerà a casa con un bottino di duecento fotografie. Solo una decina illustreranno, su «Vu», il racconto dell'esaltante navigazione a bordo della Ginette, ma in questo volume il lettore ne troverà molte di più; e scoprirà che senza quell'«avventura tra due sponde» non esisterebbero romanzi come Il cavallante della «Providence», La balera da due soldi, La chiusa n. 1 - per non parlare di tutte le locande in riva a un fiume dove il commissario Maigret, nel corso di un'inchiesta, va talvolta a trascorrere un paio di giorni, occasionalmente in compagnia della sua signora, fingendo a malapena di essere lì per rilassarsi.
Che la Qabbalah sprigioni un fascino difficilmente spiegabile è fuori di dubbio: chiunque entri in contatto con essa si sente interpellato, come se quelle oscure dottrine non aspettassero altri per sciogliere gli antichi nodi dell'irradiazione divina. Un fascino cui non hanno potuto sottrarsi molti lettori cristiani - da Giovanni Pico della Mirandola ai platonici rinascimentali, da Knorr von Rosenroth a Isaac Newton, dagli alchimisti ai «fratelli muratori» -, che con i dogmi segreti della mistica ebraica hanno avvertito una profonda affinità. Massimo studioso della Qabbalah, Gershom Scholem non ha mancato di dire la sua su questa robusta corrente del pensiero europeo. Persuaso com'era che la Qabbalah fosse la quintessenza dell'ebraismo, Scholem ha tentato di denunciare la sua versione cristiana come illegittima, frutto di un malinteso o di una frode, giungendo tuttavia a riconoscere, alla fine della vita, che la passione per quegli insegnamenti esoterici era stata accesa in lui proprio dalla lettura di un cabbalista cristiano. E così, nei tre illuminanti saggi qui raccolti, non solo troveremo una storia di quel pensiero sotterraneo, ma potremo anche scorgere in filigrana una riluttante autobiografia.
Nel romanzo di Sarban "Il richiamo del corno", un ufficiale della Marina britannica sperimenta l'incubo di risvegliarsi in un mondo nazificato, dove i prigionieri-schiavi sono selvaggina per la caccia di un feroce sovrano: un'allarmante rappresentazione della storia come avrebbe potuto svolgersi - o ucronia, come l'ha definita nel 1876 Charles Renouvier. Che nasca dal rimpianto o dalla ribellione, da un credo filosofico-religioso o dall'attrazione per gli infiniti possibili, ogni opera ucronica è destinata a falcidiare certezze, a dinamitare la nostra visione del mondo, giacché insinua il dubbio che la storia sia un gigantesco trompel'oeil e che anche la più confortante realtà possa di colpo vacillare, spalancando abissi angosciosi. A questo sovversivo genere letterario, cui lo lega una tenace passione, Emmanuel Carrère ha dedicato una seducente riflessione che, oltre a ripercorrerne le tappe salienti, ne addita le sconcertanti implicazioni: i regimi totalitari non hanno del resto adottato la tecnica ucronica per imporre una storia controfattuale? Ma c'è di più: proprio quando sembra rivestire i panni del teorico sottile e distaccato, Carrère ci trascina nel laboratorio da cui sono nati "I baffi" e "L'Avversario", dove vite parallele e alternative sgretolano quella fragile costruzione che è la nostra identità. E ci svela che, dalle più innocenti rêverie retrospettive fino alle devianze che sogniamo o paventiamo, l'ucronia è sempre dentro di noi.
Nell'ottobre del 1945 Georges Simenon sbarca a New York, ansioso di lasciarsi alle spalle le turbolenze degli anni di guerra, le accuse di collaborazionismo e le minacce di epurazione. Con la moglie Tigy e il figlio Marc si stabilisce in Canada, nel Nouveau-Brunswick - ma è agli Stati Uniti che guarda. E, per conoscere meglio il paese dove comincerà una nuova vita, parte al volante di una Chevrolet per un viaggio di cinquemila chilometri, che dal Maine lo porterà sino a Sarasota, sul Golfo del Messico. Ad attirarlo, come sempre, non sono le città - anche se confesserà che a New York si sente perfettamente a suo agio -, ma la gente e «i piccoli particolari della quotidianità»: tutto ciò che può offrire ai suoi lettori «un'immagine più intima» degli Stati Uniti. Lui che aveva sempre captato, ovunque nel mondo, un disperato e insoddisfatto bisogno di dignità, finirà per essere conquistato dalla «forte tensione verso l'allegria e la gioia di vivere» che sprigionano le semplici ed essenziali case americane, dalla cordialità (o meglio: la familiarità) che regola i rapporti di lavoro, dalla fiducia in sé stessi che le scuole sanno inculcare negli studenti, dalla squisita cortesia degli abitanti del Sud - che nelle relazioni mettono «quel qualcosa di impercettibile e affascinante» che rende tanto preziosa l'esistenza - e scoprirà che proprio qui, nella sua nuova patria, vige «un tipo di vita che... tiene conto più di qualsiasi altro della dignità dell'uomo». Traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio. Con una Nota di Ena Marchi.
Nel 1871 Auguste Blanqui, «l'eterno cospiratore», sta scontando l'ennesima pena detentiva di una vita trascorsa per metà in carcere. Questa volta, per impedirgli qualsiasi contatto con la Comune che sta infiammando Parigi, lo hanno trasferito nel remoto Fort du Taureau, in Bretagna, dove è sottoposto a una reclusione tra le più dure, in totale isolamento. E tuttavia, pur in condizioni estreme, Blanqui riesce a scrivere e a far arrivare all'esterno, eludendo la censura, il testo di quello che sarà il suo primo libro, pubblicato l'anno successivo a Parigi. Ci si aspetterebbe, dall'ormai vecchio rivoluzionario, un pamphlet politico. E invece quello che Blanqui ha meticolosamente composto nella sua cella è un visionario trattato di «astronomia metafisica», uno scritto insieme scientifico, poetico e filosofico, che avanza un'ipotesi vertiginosa: «Ogni astro, qualunque esso sia, esiste dunque in numero infinito nel tempo e nello spazio, non soltanto sotto uno dei suoi aspetti, ma quale si trova in ognuno degli istanti della sua vita, dalla nascita sino alla morte. Tutti gli esseri distribuiti sulla sua superficie, grandi o piccoli, viventi o inanimati, condividono il privilegio di questa perennità». Ogni uomo, così, «possiede nello spazio un numero infinito di doppi che vivono una vita tale e quale la sua». Il lettore rimarrà sbalordito nel constatare, come già fecero Benjamin e Borges, che questo piccolo libro anticipava i concetti alla base dell'eterno ritorno di Nietzsche, ma in una dimensione, notava ancora Benjamin, di malinconia baudelairiana. Perché nel 'multiverso' di Blanqui - vicino a quello di certe attuali teorie cosmologiche - ogni prospettiva di «progresso» fatalmente si rivela illusoria. Con un saggio di Ottavio Fatica.
Il Teorema di Pitagora riassume in modo esemplare le proprietà uniche ed esclusive dell'angolo retto. Nella tradizione è legato al demone divino del filosofo di Samo, ma risale in realtà a tempi remoti ed è patrimonio comune di diverse culture. Ripresentandosi regolarmente in formalismi complessi, questo celeberrimo Teorema si è rivelato una delle acquisizioni stabili e irrinunciabili della matematica, che continua a servirsene anche nelle sue tecniche avanzate. Ma se da un lato esprime aspetti essenziali del pensiero antico, dall'altro offre un osservatorio privilegiato per scoprire come il calcolo moderno ha provveduto a rimuovere con ogni cura i motivi religiosi e filosofici che hanno segnato la sua origine. La conseguenza di questa rimozione è la rinuncia a una sfera più ampia dell'esattezza, e a quel mondo ideale che per Hermann Weyl ne costituiva l'intimo cuore. Un cuore che questo nuovo, acuminato libro di Paolo Zellini ci permette di avvertire nelle sue pulsazioni più segrete.
Nel maggio del 1940, Anna Maria Ortese incontra a Bologna Marta Maria Pezzoli, giovane studentessa universitaria che gli amici chiamano Mattia. Nasce fra loro un'intesa, un'intimità che, come precisa la Ortese, è tenerezza di sorelle: «Ti sono così grata di essermi vicina in questo tempo difficile - sola sorella». Una tenerezza tanto più intensa in quanto fondata sulla dissimmetria: Mattia è malinconica, sollecita, assidua, percettiva, Anna Maria mutevole, tempestosa, non di rado silente, caparbiamente intenta a coltivare la sofferenza, sua «vera patria», a trasformarla in conoscenza, a trasfonderla in un lavoro che pure reca con sé dubbio e tormento: «Non ho sete che di gioia, di luce, d'amore. E tutto questo non c'è, fra le carte. Scrivere, è uguale al canto raccolto e disperato del mare, nelle insenature segrete. È il rifugio triste, non è la vita. Vorrei essere dove voi tutti siete» - ma capace anche di trasmettere all'amica la sua irrequietezza visionaria, in lettere di fiammeggiante bellezza. A cura di Monica Farnetti. Con una Nota di Stefano Pezzoli.
Tutti gli scritti di Kafka sono attraversati dalla presenza del Nemico. Ma il suo nome si dichiarò soltanto alla fine, nei tre lunghi racconti di animali - Ricerche di un cane, Josefine la cantante o il popolo dei topi, La tana - che hanno scandito gli ultimi mesi della sua vita, chiudendola come un sigillo. Non si trattava di un tribunale ubiquo e ferreo, come nel Processo, né di un'autorità avvolgente, che poteva attirare a sé e al tempo stesso condannare, come nel Castello. Ma di animali dispersi e brulicanti, sopra e sotto la superficie della terra. Erano diventati gli unici interlocutori di colui che narrava. Come se Kafka fosse voluto scendere in uno strato più largo di ciò che è, là dove gli uomini possono essere una presenza superflua. A quel luogo - separato dal mondo ma da sempre già presente - e al suo ideatore è dedicato questo libro, che è insieme la via più diretta e labirintica per raggiungerlo.
«Non lo so se l'idea che i buchi neri finiscano la loro lunga vita trasformandosi in buchi bianchi sia giusta. È il fenomeno che ho studiato in questi ultimi anni. Coinvolge la natura quantistica del tempo e dello spazio, la coesistenza di prospettive diverse, e la ragione della differenza fra passato e futuro. Esplorare questa idea è un'avventura ancora in corso. Ve la racconto come in un bollettino dal fronte. Cosa sono esattamente i buchi neri, che pullulano nell'universo. Cosa sono i buchi bianchi, i loro elusivi fratelli minori. E le domande che mi inseguono da sempre: come facciamo a capire quello che non abbiamo mai visto? Perché vogliamo sempre andare a vedere un po' più in là...?» (l'autore)
Oriente e Occidente. «Questo incontro», scrive Ernst Jünger in apertura del suo Nodo di Gordio, non soltanto occupa una posizione di primo piano fra gli avvenimenti mondiali, ma «rivendica di per sé un'importanza capitale. Fornisce il filo conduttore della Storia». Un incontro, tuttavia, che nella storia si è spesso trasformato in scontro: «Con tensione sempre rinnovata i popoli salgono sull'antico palcoscenico e recitano l'antico copione. Il nostro sguardo si fissa soprattutto sul fulgore delle armi che domina la scena ». Sono pagine apparse per la prima volta nel 1953, ma sembrano scritte oggi - mentre divampa più che mai la lotta planetaria tra l'Occidente globale liberaldemocratico e l'Oriente dello Stato totale. Ma per Jünger il nodo Oriente-Occidente è una polarità elementare, archetipica, simbolica, che contrassegna in modo costante l'umanità intera nella sua sostanza, e ogni singolo uomo nella sua anima. È l'opposizione tra mythos ed ethos, potere tellurico e luce, dispotismo e libertà, arbitrio e diritto. Una visione che non poteva trovare perfettamente concorde l'amico Carl Schmitt, che due anni dopo l'uscita del Nodo di Gordio replica con uno scritto in cui a quell'archetipica polarità sostituisce la contrapposizione fra terra e mare: da una parte il mondo continentale dell'Oriente (Russia e Asia, ovvero il nomos), dall'altra il mondo marittimo dell'Occidente (Inghilterra e America, ovvero la techne). Nel mezzo, l'Europa. E i due ritroveranno un'intesa nel prefigurarla quale «centro di gravità», capace di favorire, come Terza Forza, «l'unità del pianeta».
È lo stesso commissario Maigret, nelle sue Memorie, a raccontare (in una esilarante mise en abyme) come gli era capitato di far visitare i locali della Polizia giudiziaria a uno scrittorello dotato di «giovanile sfrontatezza», tale Georges Sim. Nella realtà fu Xavier Guichard, che ne era il direttore, a proporre, all'inizio degli anni Trenta, a un Simenon che di Maigret ne aveva già pubblicati una mezza dozzina, di trascorrere qualche giorno al Quai des Orfèvres: giusto per rendere più verosimili il suo personaggio e l'ambiente in cui si muoveva. Lui non se lo fece ripetere due volte e ne approfittò anche per scrivere una serie di articoli. Tuttavia, poiché (come il lettore ha già potuto constatare nei tre precedenti volumi dei reportage) non di rado il romanziere eclissa il giornalista, non solo Simenon annota spunti per i suoi futuri romanzi, ma si toglie lo sfizio di raccontare celebri inchieste, casi giudiziari clamorosi, aneddoti singolari. Dai quali emerge anche uno spaccato della Parigi dell'epoca, con la fauna dei suoi quartieri malfamati, gli immigrati delle periferie, i ricchi borghesi delle strade eleganti, i piccoli artigiani degli arrondissement più poveri: una Parigi che già allora cominciava a cambiare profondamente - e che oggi è quasi del tutto scomparsa. Così com'è scomparsa quella polizia di cui Simenon ci mostra all'opera gli ultimi esemplari, e della quale non nasconde di rimpiangere i metodi sbrigativi ma efficaci. Con una Nota di Ena Marchi.
Alla propria «autobiografia mentale» Croce ha dedicato, oltre al Contributo alla critica di me stesso, numerosi luoghi delle sue opere, della corrispondenza e, soprattutto, del diario che per oltre quarant'anni ha tenuto nell'austero intento di «invigilare» sé stesso. Ritagliando da queste fonti i passi più rivelatori, con una finezza pari alla sua competenza, Giuseppe Galasso ha costruito un'antologia capace di farci vivere dall'interno l'ininterrotto dialogo che Croce ha intrattenuto con sé stesso e di svelarci così le ragioni profonde di un'attività tanto prodigiosa. Un'attività che nasce da un'intima tendenza per la letteratura e per la storia e che, dopo avergli consentito di superare gli anni dolorosi e cupi successivi alla scomparsa dei genitori e della sorella nel terremoto del 1883, varca i confini dell'erudizione per poi aprirsi alla vita politica e sociale. Anche di questo ruolo centrale sulla scena pubblica cogliamo qui i risvolti più personali e segreti: dall'«amaro compiacimento» che gli deriva nel 1925 - dopo il rifiuto di sostituire Gentile come ministro dell'Istruzione - dal «sentirsi libero tra schiavi», al senso di liberazione «da un male che gravava sul centro dell'anima» suscitato dall'arresto di Mussolini, sino all'emblematica confessione del 1951: «La morte ... non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare». Prefazione di Piero Craveri.
Quando, dopo la morte di Cioran, furono ritrovati i trentaquattro taccuini che per quindici anni aveva riempito con le annotazioni più disparate, si rimase sbalorditi di fronte a quell'imponente giacimento, raccolto poi in un libro, Quaderni, che leggiamo oggi come uno dei vertici della sua opera. A quel libro possiamo ora affiancare - e sarà come integrare in un mosaico numerose tessere mancanti - questa raccolta di frammenti rinvenuti nella Bibliothèque Doucet di Parigi. Risalgono alla metà degli anni Quaranta, e sono le ultime pagine che Cioran scrisse in romeno, quando già da sette anni si trovava a «muffire gloriosamente nel Quartiere Latino». E anche qui, tra schegge sulfuree, sentenze fulminanti, spietate dissezioni del proprio intimo, ci aggireremo nelle stanze più segrete di un pensiero in perpetua ebollizione - capace come sempre di trafiggere, con un colpo secco e preciso, tutto ciò che lo circonda: «L'imbecille basa la sua esistenza solo su ciò che è. Non ha scoperto il possibile, la finestra sul Nulla».
1185. Sulla via del ritorno dal pellegrinaggio alla Mecca, Ibn Jubayr, letterato musulmano di Spagna, scampato al naufragio dopo un periglioso viaggio per mare, approda in Sicilia, dove soggiornerà per oltre tre mesi prima di potersi imbarcare di nuovo per raggiungere la sua terra, al-Andalus. La più grande isola del Mediterraneo, a lungo provincia di Bisanzio, poi per circa duecento anni sotto dominio musulmano, da più di un secolo è governata dai cristiani Normanni. Palermo è la capitale del loro regno. Una terra di cui diffidare. Eppure, ciò che Ibn Jubayr vede contrasta in tutto con le sue aspettative. Degli eunuchi sono i grandi del regno, il personale di palazzo parla fluentemente l'arabo, le donne cristiane, il giorno di Natale, vanno in chiesa parate a festa come donne musulmane, e molto altro - verrà a scoprire via via - si nasconde dietro le apparenze. Piene di meraviglia, ma anche di inquietudine, timori e silenziosi interrogativi, le pagine del Viaggio in Sicilia riescono a trasportarci nel mondo mentale di un viaggiatore musulmano del XII secolo che, catapultato suo malgrado in una realtà estranea e nemica - ma dalle sembianze così sorprendentemente familiari -, cerca di darle un senso.
Nel giugno del 1967, poco dopo la lettera aperta di Sol?enicyn sulla censura nell'Urss, si tiene in Cecoslovacchia il IV Congresso dell'Unione degli scrittori. Un congresso diverso da tutti i precedenti - memorabile. Ad aprire i lavori, con un discorso di un'audacia limpida e pacata, è Milan Kundera, allora già autore di successo. Se si guarda al destino della giovane nazione ceca, e più in generale delle «piccole nazioni», appare evidente - dichiara Kundera - che la sopravvivenza di un popolo dipende dalla forza dei suoi valori culturali. Il che esige il rifiuto di qualsiasi interferenza da parte dei «vandali», gli ideologi del regime. La rottura fra scrittori e potere è consumata, e la Primavera di Praga confermerà sino a che punto la rinascita delle arti, della letteratura, del cinema avesse accelerato il disfacimento della struttura politica. A questo discorso, che segna un'epoca, si ricollega un intervento del 1983, destinato a «rimodellare la mappa mentale dell'Europa» prima del 1989. Con una veemenza che il nitore argomentativo non riesce a occultare, Kundera accusa l'Occidente di avere assistito inerte alla sparizione del suo estremo lembo, essenziale crogiolo culturale. Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, che all'Europa appartengono a tutti gli effetti, e che fra il 1956 e il 1970 hanno dato vita a grandiose rivolte, sorrette dal «connubio di cultura e vita, creazione e popolo», non sono infatti agli occhi dell'Occidente che una parte del blocco sovietico. Una «visione centroeuropea del mondo», quella qui proposta, che oggi appare ancora più preziosa e illuminante. Premesse di Jacques Rupnik e Pierre Nora.
Come l'Apocalisse ricorda più volte, un agnello fu ucciso «prima della costituzione del mondo». Quell'agnello sarebbe stato una presenza ricorrente nella Bibbia e il suo sangue sarebbe servito a riscattare temporaneamente gli Ebrei, come accadde con la fuga dall'Egitto, per riapparire un giorno davanti agli occhi di Giovanni Battista nella figura di Gesù - e questa volta il suo sangue avrebbe riscattato tutti per sempre. «Dall'animale muto per il terrore si giungeva al Logos, alla Parola vivente. Era questa la storia sacra». Ma chi era quell'essere candido e ferito che Iahvè aveva posto all'inizio di tutto? Per mano di chi era stato ucciso e perché alla fine del Nuovo Testamento, proprio nell'Apocalisse, faceva ritorno? Non bastava che Gesù, con la sua morte, avesse riscattato l'umanità intera? Nessuno ha saputo rispondere. Ma i suoi occhi - quegli occhi distanti e impenetrabili che van Eyck una volta osò raffigurare nel Polittico di Gand - sembrano guardarci ancora attraverso le pagine di questo libro, che con voce pacata e definitiva ci obbliga a ripensare una delle figure più misteriose e sconcertanti della Bibbia e del cristianesimo.
L'enigma del tempo che ci plasma, di un presente «fugace particella del passato», della memoria custodita dalla «vasta Biblioteca», dei nostri gesti ligi alle regole di un gioco oscuro diretto da un dio indecifrabile sono motivi familiari a chi ama Borges. Mai come in Storia della notte, tuttavia, hanno trovato un'espressione più vivida, diretta e, soprattutto, intima, tanto che l'infinita, imperscrutabile catena delle cause e degli effetti può ora tendere verso un luminoso punto di fuga, incarnato dalla donna amata: «La Torre di Babele e la superbia. / La luna contemplata dai Caldei. / Le sabbie innumerevoli del Gange. / Chuang Tzu e la farfalla che lo sogna. / ... / Sono servite tutte queste cose / perché le nostre mani si incontrassero». Ma c'è di più: oltre che l'oscurità della morte e della cecità, la «notte» del titolo evoca la capacità dell'uomo di forgiare parole e miti («Lungo il corso delle generazioni / gli uomini eressero la notte. / ... / La resero madre delle tranquille Parche / che tessono il destino»), sicché questa raccolta poetica del 1977, inframmezzata da brevi prose, andrà letta anche come un emozionante (e autobiografico) riepilogo dell'ininterrotto sforzo di «significar per verba» - di dare senso alla vita attraverso le parole.
«Qualsiasi teoria cerchi di spiegare l'esistenza delle menti e della coscienza ignorando il sistema nervoso è destinata al fallimento ... D'altra parte, qualsiasi teoria si appoggi esclusivamente sul sistema nervoso ... è destinata a fallire anch'essa». Riprendendo e rielaborando le acquisizioni della sua ricerca sperimentale, Antonio Damasio condensa qui, in un'incalzante esposizione, ogni aspetto dell'«intelligenza biologica» che caratterizza gli organismi viventi. In particolare, analizzando i passaggi evolutivi attraverso i quali si sono via via differenziate le varie forme di quell'intelligenza, delinea in modo inedito la differenza tra «concetti insidiosi» come mente e coscienza, ridimensiona l'incidenza filogenetica del linguaggio - ancora egemone in tante teorie - nell'emergere del processo cosciente, e chiarisce come l'obiettivo di costruire «macchine capaci di sentire» debba seguire la strada di una robotica e di un'intelligenza artificiale capaci di sostituire strutture rigide con altre sempre più flessibili e regolabili. Ma soprattutto, nel rimarcare i «traguardi esclusivi» raggiunti dalla nostra specie, Damasio ci ricorda come i «fondamentali dispositivi» di cui ci siamo serviti non siano che trasformazioni e aggiornamenti di meccanismi già utilizzati da altre forme di vita, in una lunga storia di successi individuali e sociali.
«Sono finiti i caffè letterari, il colloquio stesso» confida Sciascia a Domenico Porzio. «Eppure colloquiare significava non soltanto chiacchiera, ma esperienza, urbanità». Ed è come se questo libro, che registra incontri avvenuti lungo il 1988 e il 1989 e interrotti dalla morte dello scrittore, i due amici l'avessero disegnato proprio per scongiurare la fine del libero colloquiare, la dilagante riduzione a intervista della conversazione. Provocato dalla inesauribile curiosità di Porzio, stimolato da un dialogo mutevole, schietto, indisciplinato, Sciascia parla con un'asciuttezza in cui il fervore è schermato dal riserbo e dalla precisione, offrendoci inattesi squarci sulla sua infanzia, quando il 2 novembre i bambini ricevevano i regali dei morti; sulla biblioteca della zia maestra e sul teatro di Racalmuto, responsabili della sua divorante passione per i libri e il cinema; sui drammi che l'hanno segnato, come il suicidio del fratello, cui è seguita quella che con ammirevole pudore definisce «una sequela di guai»; sull'impiego al Consorzio agrario, che gli ha assicurato «il primo impatto con la giustizia». Ma, insieme, vengono alla luce anche tutti i suoi amori: oltre ai libri, Parigi, il Settecento, Stendhal, Savinio, su cui ha pesato l'italica «avversione all'intelligenza», Borges, Pirandello, «incontrato nella natura, nei luoghi». E i segreti della sua officina, come la mescolanza dei generi suggeritagli da Malraux, che vedeva in Santuario di Faulkner «la tragedia greca ... calata nel romanzo poliziesco» - incluso il più spiazzante ed efficace: «Per me scrivere è una cosa allegra».
Il mondo della pittura di icone, che Florenskij - soggiogante figura di mistico, filosofo, matematico e teologo, quale poteva apparire soltanto in quella prodiga fioritura di genialità che si ebbe in Russia nei primi anni del secolo scorso - ci svela in queste pagine, rimarrebbe per sempre incomprensibile se lo si avvicinasse con i consueti strumenti della critica d'arte. Esente dalla prospettiva, incompatibile con la concezione della pittura dominante in Occidente dal Rinascimento in poi, l'icona presuppone una metafisica delle immagini e della luce. Ed è a questa metafisica che Florenskij ci introduce, scendendo poi in analisi storiche acutissime, che svariano dalla pittura fiamminga alle tecniche della preparazione dei colori, dalle forme dei panneggi al significato dell'oro e al nesso fra le icone e la liturgia della Chiesa orientale. Accompagnati da questa guida incomparabile, possiamo così finalmente varcare le «porte regali» dell'iconostasi, «confine tra mondo visibile e mondo invisibile», luogo dove si manifesta una pittura sublime, in cui le cose sono «come prodotte dalla luce».
Per generale consenso, Vertigo [La donna che visse due volte] è il più inestricabile tra i film di Hitchcock - e per alcuni il più bello (o uno dei due o tre supremi). Questo libro si propone di dire perché. E perché Vertigo abbia un film gemello: Rear Window [La finestra sul cortile], che invece è usualmente considerato molto più semplice e immediato, mentre si potrebbe rivelare altrettanto vertiginoso. Ma parlare di questi due film è come parlare del cinema in sé, quindi anche di Max Ophuls, di Rita Hayworth, dell'epifania della «diva» e di un romanzo di Kafka che è innervato dal cinema da capo a fondo: Il disperso [America].
Gli dèi non sono frutto di invenzioni, elucubrazioni o rappresentazioni, ma possono soltanto essere sperimentati». Tale era la prospettiva di Walter F. Otto, ribadita in questo libro, che si può considerare il suo lascito: muovendo da una critica serrata alle «posizioni teoriche che continuano a ostacolare la genuina comprensione della religione greca», e lasciando poi risuonare direttamente «la voce del più spirituale e creativo di tutti i popoli ... che ben riusciamo a percepire, purché ci mettiamo in ascolto di quel che hanno da dirci i suoi maggiori testimoni da Omero in poi », Otto ci mostra come i miti siano in realtà autentiche «rivelazioni ontologiche», in quanto nati non già da sogni dell'anima, ma «dalla lucida contemplazione dell'occhio spirituale spalancato sull'essere delle cose». E ci spiega perché gli dèi greci continueranno sempre a parlarci: «Apollo, Dioniso, Afrodite, Ermes e tutti gli altri restano per noi manifestazioni sempre luminose ed estremamente significative. E per quanto possa risultarci difficile credere seriamente in loro, il loro sguardo sublime non cessa di venirci incontro appena ci solleviamo da tutto ciò che è meramente fattuale nelle altezze dove dimorano le forme».
In un'aula giudiziaria, una donna vestita di nero accusa il capomafia che ha fatto ammazzare suo marito e poi anche suo figlio: «Loro sono venuti meno alla legge dell'onore,» dichiara «e perciò anch'io mi sento sciolta». Pur di vendicarli ha accettato di «dispiacere ai morti» - di infrangere le regole cui si erano sottomessi. Quella donna è Serafina Battaglia, testimone di giustizia nella Palermo dei primi anni Sessanta, devastata dai regolamenti di conti mafiosi. Ma il testo che ne evoca la «vindice inflessibilità» non è un racconto: è uno dei tre memorabili soggetti che Sciascia, realizzando un'antica vocazione - diventare regista o sceneggiatore -, ha scritto per il cinema, e che sono sinora rimasti inediti. Nata alla fine degli anni Venti nel «piccolo, delizioso teatro» di Racalmuto trasformato in cinematografo, e in seguito febbrilmente alimentata, la sua passione per il cinema è del resto sempre stata travolgente: «per me» ha confessato «... il cinema era allora tutto. Tutto». E ha suscitato, fra il 1958 e il 1989, acute riflessioni affidate ai rari scritti pure qui radunati: sull'erotismo nel cinema, sulla nascita dello star system, sul periglioso rapporto tra opere letterarie e riduzioni cinematografiche. Nonché splendidi ritratti: come quelli di Ivan Mosjoukine, dal volto «affilato, spiritato, di nevrotica malinconia», di Erich von Stroheim, «l'ufficiale austriaco che ha dietro di sé il crollo di un impero», o ancora di Gary Cooper, «eroe della grande e libera America» - vertiginosamente somigliante al sergente americano che nell'estate 1943 avanzava al centro della strada «fulminata di sole» di un paese della Sicilia.
È un'Europa che sonnecchia sotto la neve, ma «scossa da bruschi e terrificanti sussulti», quella dei primi mesi del 1933. Un'Europa malata, tanto che il medico, mentre la ausculta e le fa dire «33», ha un'aria preoccupata. Non è un medico, Simenon, non ha rimedi da prescrivere, ma ha il fiuto, la curiosità e la cocciutaggine del reporter di razza. E non esita ad attraversarla, questa Europa, dal Belgio a Istanbul, spingendosi fino a Batum e concentrando la sua attenzione soprattutto sui «popoli che hanno fame»: quelli dell'ex impero zarista. Risoluto a ignorare le «cartoline illustrate», Simenon ci offre, sul continente negli anni tra le due guerre, una testimonianza preziosa, fatta di immagini, episodi, annotazioni, dialoghi, scenari (alcuni dei quali torneranno, trasfigurati, nella sua narrativa). E non meno preziose sono le fotografie che scatta in viaggio, e che accompagnano il volume: perché ancora una volta, nelle stradine ghiacciate di Vilnius come nelle desolate campagne della Polonia, nella Berlino che assiste all'incendio del Reichstag come nel sordido dormitorio dei poveri di Varsavia, nello studio di Trockij sull'isola di Prinkipo come nel miserabile mercato di Odessa (e perfino negli alberghi di lusso delle grandi capitali europee, popolati di sagaci portieri, stravaganti banchieri, ricche dame annoiate e nevrasteniche, truffatori e avventuriere di alto bordo), quello che interessa a Simenon è stanare l'«uomo nudo», e mostrarcelo, come farà poi nei suoi romanzi, con compassione infinita e senza mai emettere giudizi. Con una Nota di Matteo Codignola.
A Helgoland, spoglia isola nel Mare del Nord, luogo adatto alle idee estreme, nel giugno 1925 il ventitreenne Werner Heisenberg ha avviato quella che, secondo non pochi, è stata la più radicale rivoluzione scientifica di ogni tempo: la fisica quantistica. A distanza di quasi un secolo da quei giorni, la teoria dei quanti si è rivelata sempre più gremita di idee sconcertanti e inquietanti (fantasmatiche onde di probabilità, oggetti lontani che sembrano magicamente connessi fra loro, ecc.), ma al tempo stesso capace di innumerevoli conferme sperimentali, che hanno portato a ogni sorta di applicazioni tecnologiche. Si può dire che oggi la nostra comprensione del mondo si regga su tale teoria, tuttora profondamente misteriosa. In questo libro non solo si ricostruisce l'avventurosa e controversa crescita della teoria dei quanti, rendendo evidenti, anche per chi la ignora, i suoi passaggi cruciali, ma la si inserisce in una nuova visione, dove a un mondo fatto di sostanze si sostituisce un mondo fatto di relazioni, che si rispondono fra loro in un inesauribile gioco di specchi. Visione che induce a esplorare, in una prospettiva stupefacente, questioni fondamentali ancora irrisolte, dalla costituzione della natura a quella di noi stessi, che della natura siamo parte.
Secondo una leggenda, un dio dell'Indostan chiese a un altro dio di cedergli una delle sue 14.516 mogli. «Prenditi quella che trovi libera» fu la benevola risposta. Ma in tutti i 14.516 palazzi la moglie giaceva col suo signore, che «si era sdoppiato 14.516 volte» affinché ciascuna credesse di essere la favorita. La fonte di questo «racconto breve e straordinario», un libro apparso a Goa nel 1887, è in realtà illusoria. E grazie a Bioy Casares sappiamo come sono andate le cose: «Domani compro il libro dove l'ho letta» gli aveva detto Borges riferendosi alla leggenda. E Bioy: «No, raccontiamola noi e attribuiamola a un autore qualsiasi» - nella fattispecie, un gesuita portoghese. Così, con estro sfrenato e giocoso, hanno lavorato i due appassionati antologisti: ritagliando brani da una sbalorditiva molteplicità di opere (dal taoista Trattato del Vuoto Perfetto a Max Jacob), ricorrendo ad amene falsificazioni, inventando spudorati lemmi bibliografici e apocrifi: come le Memorie di un bibliotecario di Francisco Acevedo, alias Borges, o la magnifica Storia dei due re e dei due labirinti, sempre di Borges malgrado la depistante attribuzione. Senza peritarsi di manipolare le fonti: in un'iscrizione che evoca la verginità di Iside, un semplice «(finora)» aggiunge al referto di Plutarco una maliziosa connotazione: «nessun mortale (finora) ha sollevato il mio velo». Ma l'obiettivo è uno solo: mostrare come un'antologia di vertiginosa varietà possa racchiudere «l'essenziale di ciò che è narrazione» - vale a dire uno dei grandi piaceri che la letteratura può offrire.
Tra il 1917 e il 1919 Max Weber tenne due conferenze dal titolo Die geistige Arbeit als Beruf, che potremmo tradurre «Il lavoro dello spirito come professione». Formulazione quanto mai pregnante, perché rappresentava l'idea regolativa, il progetto e la speranza che avevano animato il mondo della grande cultura borghese tra Kant e Goethe, tra Romanticismo e Schiller, tra Fichte e Hegel, e avrebbero costituito il filo conduttore dello stesso pensiero rivoluzionario successivo, da Feuerbach a Marx. Il «lavoro dello spirito» è il lavoro creativo, autonomo, il lavoro umano considerato in tutta la sua attuosa potenza, e volgersi alla sua affermazione significa liberazione di ogni attività dalla condizione di lavoro comandato, dipendente, e cioè alienato. Ma il suo dissolversi nella forma capitalistica di produzione, nell'universale macchinismo, che fagocita quella Scienza che pure è l'autentico motore dello sviluppo, finisce col delegittimare la stessa autorità politica, che nella «promessa di liberazione» trova il proprio fondamento. La «gabbia di acciaio» è destinata dunque a imprigionare anche quel «lavoro dello spirito» che è la prassi politica? Lo spirito del capitalismo finirà col destrutturare completamente lo spazio del Politico, riducendolo alla forma del contratto? O tra Scienza e Politica sono ancora pensabili e possibili relazioni che ci affranchino dal nostro «debito» nei confronti del procedere senza mete né fini del sistema tecnicoeconomico? Sono le attuali domande che, un secolo fa, nessuno ha posto con la drammatica chiarezza di Max Weber - e con le quali, oggi, Massimo Cacciari si confronta.
Chi prova a dare un ordine ai propri libri deve al tempo stesso riconoscere e modificare una buona parte del suo paesaggio mentale. Impresa delicata, piena di sorprese e di scoperte, priva di soluzione. Molti l'hanno sperimentata, dal dotto seicentesco Gabriel Naudé ad Aby Warburg. Qui se ne raccontano vari episodi, mescolati a frammenti di una autobiografia involontaria. A cui fanno seguito un profilo del breve momento in cui certe riviste, fra 1920 e 1940, operavano come impollinatrici della letteratura e una cronaca dell'emblematica nascita della recensione, quando Madame de Sablé si trovò nella improba situazione di dar conto pubblicamente delle Massime del suo caro e suscettibile amico La Rochefoucauld. Finché il tema del dare ordine riappare alla fine, questa volta applicato alle librerie di oggi, per le quali è una questione vitale, che si pone ogni giorno.
«Nel mio lavoro, quando qua e là si formano i primi segni di una storia, o quando in lontananza vedo spuntare da dietro una collina di prosa l'accenno a una storia, gli sparo addosso». Così dichiarava Thomas Bernhard nel 1970, un anno prima di dare alle stampe questo trittico, dove l'alta montagna che «regna sovrana come natura assoluta» e le valli del Tirolo popolate da «pazzi che a migliaia vanno in giro con la loro pazzia» prestano cupi bagliori a una scrittura che, se a tratti si permette un'inconsueta indulgenza nei confronti dell'intreccio, subito la contraddice o la trascende. Dall'insanabile incomprensione che oppone Midland, villeggiante inglese, agli abitanti di Stilfs, immersi in un «inferno di solitudine» e certi non già di vivere «nel luogo più ideale» ma di scontare una «immane punizione», all'irresistibile, lacerante dialogo tra un avvocato di Innsbruck, Enderer, e un cliente che ha il torto di portare un mantello di Loden identico a quello di uno zio morto suicida, sino all'ascensione sul massiccio dell'odiato Ortles di due fratelli, un acrobata e uno scienziato, che hanno trasformato solitudine e paura nella ricerca della perfezione assoluta - «perfezionarsi della disperazione» -, il lettore troverà in queste pagine un esempio della migliore prosa di Bernhard - un condensato di sinistra comicità.
A un primo sguardo, molte delle più significative icone russe del XIV e XV secolo sembrano viziate da assurde incongruenze, violazioni inspiegabili del canone prospettico e della conseguente ‘unità’ della rappresentazione: edifici di cui vengono raffigurati insieme la facciata e i muri laterali; libri (i Vangeli) di cui si scorgono tre o addirittura tutte e quattro le coste; volti con «superfici del naso e di altre parti» che non dovrebbero vedersi; e, a sintesi di tutto, un policentrismo che fa coesistere «piani dorsali e frontali». Eppure, simili icone ‘difettose’ – fondate proprio sull’eresia di prospettive «rovesciate» – risultano infinitamente più creative ed espressive rispetto ad altre più corrette, ma inerti. Come mostra Pavel Florenskij in questa perorazione fiammeggiante – con un excursus storico che si estende dalle scenografie del teatro tragico greco ai vertici della pittura rinascimentale e oltre –, quelle violazioni, lungi dal dipendere da una « grossolana imperizia nel disegno», sono «estremamente premeditate e consapevoli». Di più: riassumono una ribellione, cognitiva prima che estetica, alla stessa egemonia della rappresentazione prospettica e alla sua presunzione di detenere «l’autentica parola del mondo». Ne deriva una sorta di invettiva, in cui il regesto delle carenze della prospettiva lineare e della visione del mondo che la presuppone si traduce, a contrario, in quello dei caratteri richiesti dall’«arte pura»: la sola che ci permetta di accedere – come le dorate «porte regali» dell’iconostasi – all’«essenza delle cose» e alla «verità dell’essere».
Walpola Rahula, il primo monaco buddhista a divenire titolare di una cattedra universitaria in Occidente, ha offerto con questo libro un'introduzione al buddhismo che, a sessant'anni dalla sua pubblicazione, conserva intatte la sua freschezza e attualità e rimane imprescindibile per chiunque voglia accostarsi a questa tradizione millenaria. Con un linguaggio semplice e accessibile e un'esposizione chiara e diretta, corroborata da un costante rinvio alle parole del Buddha, Rahula tocca tutti i luoghi classici della dottrina e dell'etica buddhista, dalle Quattro nobili verità all'Ottuplice sentiero, dalla nozione del non-sé alle diverse forme di meditazione. Rahula si propone inoltre di adattare, senza tradirlo, l'insegnamento del Buddha alle esigenze della vita moderna e laica, evidenziandone l'utilità e l'eminente pragmatismo e rispondendo ai quesiti che chiunque si interessi di buddhismo è destinato a porsi: il Sentiero di mezzo è una religione o una filosofia? Che cosa significa «vivere nel momento presente»? Che cos'è il nirvana, e chi lo consegue se non esiste un «io»? E ancora: il buddhismo è un ideale irraggiungibile o, al contrario, è praticabile anche nel mondo di oggi? Prefazione di Paul Demiéville.
Una donna cerca risposta agli interrogativi che la morte della sorella ha lasciato insoluti: perché, senza un motivo apparente, aveva cominciato a detestarla? Perché, pur essendo in tutto più dotata, si sentiva inferiore a lei? Perché sembrava tenere la vita a distanza, "come se scansasse del cibo dall'odore nauseante"? E nel secondo pannello di questo dittico di racconti un'altra donna, per sfuggire a un'esistenza che la intossica, a poco a poco si trasforma in una pianta: la sua inquietudine si placa, il suo corpo sofferente fiorisce e dà frutti - prima di appassire, forse per sempre. Ci sembra di conoscerle, queste figure femminili che richiamano i motivi e l'aura della Vegetariana, ma non cessano di stupirci per la loro straniata singolarità. Creature dolenti, sedotte dal richiamo dell'autoannientamento come unica forma di difesa dalla violenza insita nel nutrirsi, nel sentire, nel vivere. "Presto, lo so, perderò anche la capacità di pensare, ma sto bene. È da tanto tempo ormai che sognavo questo, di poter vivere solo di vento, sole e acqua". Col suo tocco elusivo, la prosa scabra di Han Kang sfiora ancora una volta l'orrore senza spiegarlo e ci lascia, attoniti, a contemplare la disturbante malìa del rifiuto di sé.
Otto, il protagonista di questo racconto che segnò l'esordio letterario di Márai, è un formidabile, agghiacciante esempio di abiezione spontanea, naturale e ragionevole: uccidere animali in un mattatoio o soldati nemici in guerra non fa una grande differenza per lui, anzi corrisponde a una sorta di vocazione. Che si manifesterà in seguito in una forma brutale. Anticipando la Figura di Moosbrugger, il memorabile criminale dell'Uomo senza qualità di Musil, Márai ha saputo concentrare in un personaggio l'incontenibile sommovimento psichico che condusse alla prima guerra mondiale e devastò gli anni successivi. Ma racconta tutto questo con la pacatezza, lo scrupolo e la concisione di un cronista - come qualcosa che appartiene a una nuova, terrificante normalità.
«Se oggi mi chiedo quale fu il vero movente che mi ha portato in autunno dal Canton Ticino a Norimberga - un viaggio durato due mesi mi coglie l'imbarazzo» scrive Hermann Hesse all'inizio di questo libro di memorie. Nel 1925 aveva deciso infatti di lasciare il suo eremo in Svizzera e di accogliere l'invito a tenere una serie di pubbliche letture in Germania: proprio lui che riconosceva di essere un uomo restio ai viaggi e alle frequentazioni umane», lui che trovava la prospettiva di esibirsi in pubblico «talvolta spaventosa. Non era d'altro canto un momento qualsiasi» «... la vita mi costava un'insolita, eccessiva fatica, e ogni idea di cambiamento, trasformazione, fuga non poteva che essermi gradita». Una fuga, però, da indugiante, meditabondo flâneur, fatta di soste prolungate e deviazioni e incontri con vecchi amici, che lo conduce da Locarno a Zurigo, da Baden alla natia Svevia, da Ulma ad Augusta e a Norimberga, per terminare infine a Monaco, con la visita a Thomas Mann. Un viaggio, «in sé insignificante e fortuito», che diventa una discesa nel passato e nella propria coscienza, e si traduce in un'intensa confessione intima, dove Hesse ci parla dei suoi amori letterari - primo fra tutti Hôlderlin, fatale scoperta infantile - e dell'avversione per il mondo moderno; dell'insofferenza per «la fabbrica culturale» nessuno è più vanitoso, nessuno più assetato di plauso e consenso dell'intellettuale e del penoso fardello della fama - e, quale antidoto alla disperazione, dell'umorismo, «ponte sospeso sopra il baratro fra realtà e ideale».
Nel presentare «ai cittadini e agli amici» la mostra-spettacolo su quel «mistero della Storia» che fu il 1789 e sulle sue «propaggini materiali ed occulte», Guido Ceronetti, insieme agli attori del Teatro dei Sensibili, decise di porre in epigrafe alla sua scelta di testi una frase di Céline: «Tutto quel che è interessante avviene nell'ombra, decisamente. Nulla si sa dell'autentica storia degli uomini». Quelli che seguono non potranno essere quindi che «pensieri in libertà», erratici e spesso contraddittori. Eppure, se (come in certi giochi enigmistici) si uniscono i puntini di questo percorso, si scopre un disegno nascosto, che spalanca altri percorsi, indica altre vie, e invita a fermarsi e a riflettere su ciascuna di queste pagine. Da Hölderlin («Furono cinque estati in cui fu grande,/ Corruscando, la vita...») a Blake («Tigre, tigre, oh bagliore/ Nella notte...»), da Massignon (che vede la Regina martire salire al patibolo «con gesti virili, di Walchiria, di amazzone») al Tao-tê-ching («Il mondo, vaso spirituale, non si lascia plasmare»), passando per Bataille, Bloy, Leopardi, Calasso e molti altri, ritroviamo qui gli «spiriti affini» che hanno costantemente accompagnato il cammino del «filosofo ignoto». E alla fine scopriremo, nella magnifica prosa del Ceronetti traduttore e interprete, l'annuncio dell'«èra messianica» in tredici profezie estratte dalle Centurie di Nostradamus.
Rachel Bespaloff non incontrò mai Simone Weil. Eppure le affinità e le coincidenze biografiche sono tali che si è parlato, a giusto titolo, di «vite parallele»: filosofe entrambe, entrambe ebree di lingua francese, entrambe costrette, nel 1942, a cercare rifugio negli Stati Uniti. E, circostanza ancora più impressionante, nello stesso periodo in cui Simone Weil si concentrava sullo studio dell'"Iliade" - ne sarebbe nato un saggio fondamentale - Rachel Bespaloff dedicava all'"Iliade" pagine altrettanto fondamentali, fra le più dense e ispirate che siano mai state scritte. Anche per lei, come per la Weil, nell'"Iliade" la «forza» appare come «la suprema realtà e insieme la suprema illusione dell'esistenza». Nel poema non ci sono dunque né giusti né malvagi, ma solo «guerrieri in lotta che trionfano o soccombono ... Condannare o assolvere la forza equivarrebbe quindi a condannare o assolvere la vita stessa». E nell'"Iliade", come nella Bibbia, «la vita è essenzialmente ciò che non si lascia valutare, misurare, condannare o giustificare dal vivente». Traduzione di Simona Mambrini. Con una Nota di Jean Wahl.
«Il mio amico Serge ha comprato un quadro» annuncia Marc, da solo in scena, ad apertura di sipario. «È una tela di circa un metro e sessanta per un metro e venti, dipinta di bianco. Il fondo è bianco, e strizzando gli occhi si possono intravedere delle sottili filettature diagonali, bianche». Subito dopo Marc viene a sapere dallo stesso Serge che il quadro bianco a righe bianche è stato pagato duecentomila franchi: cosa che Marc giudica grottesca, poiché secondo lui è «una merda». Un terzo amico, Yvan - che ha già abbastanza guai con i preparativi del suo matrimonio -, non prende posizione, venendo accusato dagli altri due di pusillanimità e doppiezza. Così, la serata che i tre decidono di trascorrere insieme si trasforma in un regolamento di conti, in un gioco al massacro: il quadro bianco a righe bianche diventa il rivelatore da cui affiorano a poco a poco nevrosi, risentimenti e rivalità, mentre le parole si fanno sempre più velenose, sempre più acuminate, fino a ridurre in macerie la fragile impalcatura di un rapporto fondato sull'egoismo, la vanità e l'ipocrisia. Yasmina Reza, di cui conosciamo la penna affilata e lo sguardo chirurgico, tocca in questa commedia nera vette di comica crudeltà, si diverte e ci fa divertire - perché ridiamo molto, anche se sempre più a denti stretti, a mano a mano che da sotto la maschera buffa del théâtre de boulevard vediamo spuntare la malinconia.
L'amore per Orazio e il desiderio di tradurlo accompagnano Guido Ceronetti sin da quando, diciottenne, si cimentava in versioni oggi «ripudiatissime». L'Orazio interruptus viene poi ripreso al principio degli anni Ottanta col progetto, mai realizzato, di una piccola edizione concepita come prima tappa di un «viaggio ascetico verso il puro non-essere, lo spogliarsi d'ogni illusione e farsi 'jivanmukta' in compagnia di Orazio». Per Ceronetti, infatti, Orazio è lontano mille miglia dal poeta sondato e scrutato dalla filologia classica: il suo stile non è fredda accademia augustea, semmai «contrazione della vita, mediante l'impegno della parola», il che esige «tutto il fuoco della passione rivolto ad un fine che la contraria» - fuoco contratto, dunque. E a lui ancor meglio che a Kavafis si attaglia quel che diceva la Yourcenar: «Siamo così abituati a vedere nella saggezza un residuo delle passioni spente, che fatichiamo a riconoscere in lei la forma più dura, più condensata dell'Ardore, la particella aurea nata dal fuoco, e non la cenere». Dopo più di trent'anni il viaggio attraverso il «deserto fiorito» di Orazio ha preso la forma di ventotto traduzioni, che bastano a metterci di fronte a qualcosa di totalmente imprevisto: malgrado la sua fama ininterrotta, del più classico dei classici ci era sinora sfuggita l'anima segreta.
«Immaginate un uomo la cui moglie, suicidatasi alcune ore prima gettandosi dalla finestra, sia stesa davanti a lui su un tavolo» scrive Dostoevskij nel presentare ai lettori questo racconto perfetto, che di quell'uomo restituisce, con stenografica precisione, il soliloquio delirante e sconnesso, tutto esitazioni, ripetizioni, contraddizioni, pause, balbettii, ripensamenti. Di lui sentiamo i gemiti, e perfino l'eco dei passi che tornano in continuazione al cadavere steso sul tavolo. L'uomo, quarantuno anni, ex capitano cacciato da un illustre reggimento con l'accusa di viltà e ora titolare di un banco dei pegni, non è un giusto, ma nemmeno un inveterato criminale. È semmai parente stretto dell'Uomo del sottosuolo, con cui ha in comune la rabbia dell'individuo rifiutato dalla società, l'istinto dell'animale braccato. Sragionando ad alta voce, cerca di capire e ricostruire le cause della catastrofe. Ha amato la Mite, ma torturandola con le parole e ancor più con il silenzio, con il perverso «sistema» ideato per vendicarsi di un'antica offesa e ritrovare la dignità perduta. E ora continua a chiedersi: «Perché questa donna è morta?». Genio guastatore, maestro nel far saltare i ponti dei legami causali, Dostoevskij gli nega - e lo nega ai lettori - il sollievo di una spiegazione univoca, definitiva. E il monologo si sgretola in un dialogo con immaginari interlocutori: giudici? avvocati d'ufficio? fantasmi?
Non è amabilmente consolatore, il mondo di Landolfi, né amichevole, né tantomeno compiacente. Estraneo, piuttosto, luminosamente torbido e degradato. E, come in questa raccolta di racconti del 1975 – l'ultima sua –, più che mai urtante, percorso com'è da un eros luttuoso e sogghignante, da orride agnizioni, da avvilenti confessioni, da personaggi oltraggiati dalla vita, feriti dall'«invalicabile stridore» che li separa dagli altri, torturati da un'animale e irrimediabile tristezza. Sicché ogni racconto cela una sorpresa che ha su di noi lo stesso effetto di «un'unghia che stride contro un vetro, o d'una carezza contropelo» (I. Calvino): ci fa rabbrividire, e subito vorremmo scacciarla. Invano: incapsulata in una lingua tanto inconsueta quanto secca, lucida ed esatta, ogni immagine torna a riaffacciarsi, come una piccola testa malevola. Il fatto è che per Landolfi, uccisa ogni speranza, dobbiamo accontentarci «di gioie ambigue, torte e per giunta fuggevoli». Non c'è altra via di scampo, se non, estremo rimedio, un «genosuicidio» capace di liberarci da una «abominosa storia».
Perché la scienza non ha potuto prescindere dagli algoritmi, e da quanto tempo il calcolo è entrato prepotentemente in ogni settore della nostra vita? Che cosa può e che cosa non può essere automatizzato? La matematica possiede sempre e comunque le qualità che le sono generalmente attribuite, come l'utilità, l'armonia o l'efficacia in ogni sua applicazione? Questo libro offre una risposta penetrante e articolata a domande che appaiono oggi ineludibili. Zellini le affronta con un rigore e con una misura che fanno emergere con evidenza tutto l'interesse scientifico del pensiero algoritmico, come pure il carattere virtualmente apocalittico di ciò che appare ormai un dominio incontrastato del calcolo digitale. Se non si vogliono ignorare i princìpi di libertà e di responsabilità, non si può rimanere estranei o indifferenti alla diffusione di una scienza che si ispira a un criterio fondamentale di effettività e di efficienza meccanica, ultimo fondamento e pietra angolare del calcolo, ma anche causa di inevitabili pregiudizi e travisamenti.
"Visto che di tempo ne hai anche troppo," scrive all'inizio di febbraio 1940 Simone Weil all'amatissimo fratello maggiore, detenuto nel carcere civile di Le Havre per renitenza alla leva (André riteneva suo dovere "fare il matematico e non la guerra") "un'altra buona occupazione potrebbe essere metterti a riflettere sul modo di far intravedere a profani come me in che cosa consistano esattamente l'interesse e la portata dei tuoi lavori"; e una decina di giorni dopo insiste: "Cosa ti costerebbe tentare? Ne sarei entusiasta". André, che a caldo le aveva risposto: "Tanto varrebbe spiegare una sinfonia a dei sordi", di fronte alle questioni che lei continua a sottoporgli alla sua maniera fervida e acutissima finisce per cedere. Comincia così uno scambio che è un concentrato di passione intellettuale e affetto - e li induce anche a scontrarsi su punti capitali, come la scoperta degli incommensurabili e il carattere della scienza greca. E i due fratelli sono ugualmente capaci di parlare di Pitagora e dell'Odissea, di cardinali abili nelle strategie di corte e dell'importanza del sanscrito, di Dedekind e di Gauss. Questo volume comprende otto lettere di Simone Weil (tra le quali una minuta, due abbozzi e un testo mai spedito) e quattro del fratello André, tutte scritte tra febbraio e aprile 1940.
«Mentre io, prima che Karrer impazzisse, camminavo con Oehler solo di mercoledì, ora, dopo che Karrer è impazzito, cammino con Oehler anche di lunedì... ho salvato Oehler dall'orrore... perché non c'è nulla di più orribile del dover camminare da soli di lunedì»: bastano poche frasi, ad apertura di pagina, a immergerci nel flusso ipnotico della scrittura di Thomas Bernhard. Ma perché, e quando, Karrer è impazzito? Forse, dice Oehler (che come molti personaggi di Bernhard è contagiato da una «micidiale tendenza al soliloquio» e al «meditare sino allo sfinimento su cose insolubili»), c'entra il suicidio dell'amico Hollensteiner - il chimico annientato dalla «bassezza» dello Stato austriaco, che «nulla odia più profondamente di chi è fuori dall'ordinario». O forse l'aver esercitato sino in fondo «l'arte di esistere contro i fatti» - di esistere, cioè, «contro ciò che è insopportabile e contro ciò che è orribile». Al momento in cui Karrer ha varcato «il confine della pazzia definitiva», Oehler ha assistito personalmente: ed è, quella che racconta con precisi, ossessivi, grotteschi dettagli, una sequenza di irresistibile e insieme tragica comicità che fa pensare a certe pagine di Kafka.
Si parla molto di amore nelle poesie di Wislawa Szymborska: ma se ne parla con una così impavida sicurezza di tocco e tonalità così sorprendenti che anche un tema sin troppo frequentato ci appare miracolosamente nuovo. «Sentite come ridono – è un insulto» scrive di due amanti felici. «È difficile immaginare dove si finirebbe / se il loro esempio fosse imitabile» – e ad ogni modo «Il tatto e la ragione impongono di tacerne / come d'uno scandalo nelle alte sfere della Vita». Anche parlando d'amore la voce della Szymborska sa dunque essere irresistibilmente ironica: non a caso Adam Zagajewski diceva di lei che «sembrava appena uscita da uno dei salotti parigini del Settecento». Ma sa anche essere, dietro lo schermo della colloquiale naturalezza e dell'ingannevole semplicità, grave e trafiggente, come quando affida a un panorama divenuto ormai intollerabile il compito di proclamare l'assenza («Non mi fa soffrire / che gli isolotti di ontani sull'acqua / abbiano di nuovo con che stormire») o all'amore a prima vista quello, ancor più temerario, di smascherare il caso-destino che ci governa: «Vorrei chiedere loro / se non ricordano – / una volta un faccia a faccia / in qualche porta girevole? / uno “scusi” nella ressa? / un “ha sbagliato numero” nella cornetta? / – ma conosco la risposta. / No, non ricordano».
Questo piccolo libro è forse il lavoro più personale, e anche più segreto, di Tullio Pericoli. E lo è al punto che, a tredici anni dalla sua prima edizione, Pericoli ha deciso di ridisegnarlo, avvicinandolo in modo ancora più preciso all'idea da cui era nato. Allora, infatti, "La casa ideale" era stato presentato come un piccolo film tutto di carta su Robert Louis Stevenson, e sulla sua fantasia dello spazio in cui sarebbe possibile una vita perfetta. Bene, quel piccolo film oggi Pericoli lo ripresenta nella veste in cui si è reso a poco a poco conto di averlo sempre pensato: in un bianco e nero assoluto, cioè, dove le immagini si possono anche leggere, e le parole - a loro volta presentate come fotogrammi - si possono anche guardare. Da un punto qualsiasi fra quelle due pellicole parallele è ricominciato il sogno di Pericoli e Stevenson: e da un altro punto ancora può ricominciare, adesso, quello del lettore.
«Non l'aspetto, non mi pare di averlo mai aspettato» dichiara Ceronetti, senza nascondersi tuttavia che il tema fluttua da sempre nel suo «mondo mentale», anzi è «centrale e sigillato come l'ombelico». Tant'è che soltanto lui poteva darci questo piccolo libro prezioso, in cui, armato solo delle sue domande appassionate e della sua immensa erudizione, egli parte alla ricerca di presenze e testimonianze messianiche nei testi degli autori che da sempre frequenta e ama: da Eraclito a Isaia, da Buber a Dostoevskij, da Rimbaud a Beckett, da Cechov a Kafka. E in tal modo ci indica una via, e ci spalanca orizzonti: perché, ci dice, «pensare messianicamente, sia pure con una forzatura malinconica, trattiene la mente dal precipitare nell'incretinimento generale», e perché nessuno quanto lui sa che, per quanto ignari, si vive tutti nell'attesa del Messia.
Come le "Sette brevi lezioni di fisica", che ha raggiunto un pubblico immenso in ogni parte del mondo, questo libro tratta di qualcosa della fisica che parla a chiunque e lo coinvolge, semplicemente perché è un mistero di cui ciascuno ha esperienza in ogni istante: il tempo. E un mistero non solo per ogni profano, ma anche per i fisici, che hanno visto il tempo trasformarsi in modo radicale, da Newton a Einstein, alla meccanica quantistica, infine alle teorie sulla gravità a loop, di cui Rovelli stesso è uno dei principali teorici. Nelle equazioni di Newton era sempre presente, ma oggi nelle equazioni fondamentali della fisica il tempo sparisce. Passato e futuro non si oppongono più come a lungo si è pensato. E a dileguarsi per la fisica è proprio ciò che chiunque crede sia l'unico elemento sicuro: il presente. Sono tre esempi degli incontri straordinari su cui si concentra questo libro, che è uno sguardo su ciò che la fisica è stata e insieme ci introduce nell'officina dove oggi la fisica si sta facendo.
«Sono un mercenario, e sono fiero di esserlo». A parlare è il colonnello FD 256323: questo il numero che gli hanno assegnato quando si è arruolato al servizio dell'«amministrazione», venti o trent'anni prima – non ricorda bene, e del resto chi lo conta più il tempo? Allora la terza guerra mondiale con le sue devastazioni nucleari aveva decimato l'umanità...
Immaginate che un uomo dalla ferrea logica, dopo aver pianificato il delitto perfetto - quello «sognato da ogni delinquente che rispetti se stesso» -, portandolo a compimento si smarrisca nei labirinti della speculazione e finisca per affidarsi al cieco caso. Immaginate poi che in un'altra galassia un professore si proponga di spiegare ai suoi allievi che cos'è la morte, astruso concetto elaborato in un remoto pianeta - «macchiolina pallida» intravista al telescopio -, e che cos'è la vita: ovvero il medesimo concetto rovesciato, giacché noi, qui sulla Terra, chiamiamo vita «ciò che non è morte». Immaginate infine che, mentre designa gli esseri umani da destinare alla morte, un dio noncurante e terribile risponda candidamente all'arcangelo Gabriele che lo interroga sul come e il perché: «Magari a caso», e «Non lo so». Se ci riuscite, allora cadrete fatalmente nella trappola infernale che Landolfi ha teso a tutti noi: costringerci a osservare il mondo (e la nostra sorte e la nostra inane, cavillosa, ricerca della verità) come da una navicella spaziale aliena. E avrete la conferma di ciò che Manganelli scriveva nel 1975: Landolfi sembra nato «all'interno di un universo autonomo, e malamente abitabile, un universo che è insieme grandioso, losco, torbido e stupefacente. Vi accadono miracoli, ma intrisi di una potenza sordida, segni appaiono, non meno minacciosi che enigmatici».
«Chi potrà mai dirci da dove è arrivata fino a noi la divina armonia che chiamiamo "poesia di Mandel'stam"?» si chiedeva Anna Achmatova. Se lo chiederà anche il lettore di queste Ottave, un ciclo di liriche prodigiose nate in gran parte nel novembre 1933, e dunque quasi contemporaneamente al celebre epigramma contro Stalin, «il montanaro del Cremlino», dove parlavano la rabbia e l'orrore del suddito. Solo così, dopo aver pagato il tributo a un presente in cui il potere non si limita ad asservire, ma pretende anche di spiare nelle menti degli schiavi, Mandel's?tam è libero di inoltrarsi nel non-tempo e non-spazio della lirica pura. In un'epoca che promette e celebra il «radioso futuro», le Ottave di Mandel'stam («poesie sulla conoscenza» le definiva) portano il lettore indietro, sempre più indietro, in un universo incorporeo, rarefatto, dove la creazione si sta ancora compiendo - e coincide con la nascita della parola poetica.
G.K, Chesterton era incapace di introdurre anche solo una traccia di moderazione in ciò che faceva - si trattasse di alimentarsi, naturalmente, ma anche di attività per lui ancora più naturali, come leggere, scrivere o parlare. E così quando decise di raccontare attraverso una serie di ritratti - da Bentham a Carlyle, da Dickens a Hardy - l'età vittoriana;, di cui lui stesso era una specie di ultimo, umorale testimone, scrisse questo libro unico e prezioso: una grande satira, che è anche un infinito atto d'amore. Una pagina dopo l'altra, l'intelligenza irrequieta e inclassificabile di Chesterton («Il compito dei progressisti è commettere errori; quello dei conservatori è di impedire che vengano emendati») riporta in vita uno dei grandi momenti della letteratura come l'abbiamo conosciuta, e come continuiamo ad amarla: lasciando spesso graffi, se non piccole ustioni, sulla nostra coscienza di vittoriani postumi, benché in larga parte inconsapevoli.
Sussiste nell'Islam una corrente esoterica - il Sufismo - in cui si manifesta quella philosophia perennis che contraddistingue tutte le grandi civiltà orientali, e che mostra un'intima sintonia anche con il patrimonio spirituale del Medioevo cristiano. Questo libro esplora sinteticamente i cardini di quel pensiero, e mette in luce, attraverso un'ampia scelta di testi e ricorrenti paralleli con altre culture, la fondamentale affinità di dottrine metafisiche assai distanti tra loro, ma che riguardo a verità universali si esprimono in termini affini.
Molto più della guerra, delle bombe che riducono Budapest in macerie, molto più dei rischi che lui stesso corre in quanto ebreo, a occupare i pensieri di Józsi Beregi è il campionato di calcio. E poi trovare il modo di procurarsi quello che più gli manca: un po'di carne da mettere sotto i denti. Ma non dovrà sforzarsi troppo, giacché a offrirgli, con entusiastica e spontanea generosità, tutto ciò di cui ha bisogno saranno le donne, nessuna delle quali sembra poter resistere al suo fascino. Se "Epepe" si presentava da subito come un incubo, "Tempi felici" appare sin dalle prime battute come un divertissement - quasi uno schnitzleriano girotondo. Solo in una commedia, infatti, farsi crescere un paio di baffi può sottrarre un giovane ebreo alle terribili Croci frecciate nell'Ungheria dell'inverno del 1945; e solo in una commedia il giovanotto in questione può vivere le sei drammatiche settimane dell'assedio dei Sovietici, in una città squassata dai bombardamenti e ridotta allo stremo, come una parentesi beata, deliziosamente propizia agli amori clandestini, riuscendo a farsi proteggere, nutrire e coccolare da prostitute e borghesi, da giovani e da vecchie - e perfino da una miliziana fascista. Con una nota di Marion Van Renterghem.
I numeri sono un'invenzione della mente o una scoperta con cui la mente accerta l'esistenza di qualcosa che è nel mondo? Domanda a cui da secoli i matematici hanno cercato di rispondere e che si può anche formulare così: che specie di realtà va attribuita ai numeri? Con la sua magistrale perspicuità, Zellini affronta questi temi, che non riguardano solo i matematici ma ogni essere pensante. Collegata alla prima, si incontrerà un'altra domanda capitale: come può avvenire che qualcosa, pur crescendo in dimensione (e nulla cresce come i numeri), rimanga uguale? Domanda affine a quella sull'identità delle cose soggette a metamorfosi. Ed equiparabile a quelle che si pongono i fisici sulla costituzione della materia.
Che ci racconti del "truco", grazie al quale i giocatori, dimesso l'io abituale, diventano "criollos" che "vogliono spaventare la vita a grida"; o di coltelli che cercano i sentieri della morte e del Chileno, signore dell'insolenza, che si dissangua a terra; o dell'origine del tango, la cui patria sono gli angoli delle case rosate dei sobborghi, la protervia domenicale del guappo e il chiasso delle popolane sui portoni; o di una notte serena capace di rivelare miracolosamente il "senso reticente o assente dell'inconcepibile parola eternità"; o della felicità, che "non è meno sfuggente nei libri che nella vita"; o del metodo insospettabile e segreto con il quale Cervantes suscita nel lettore "una reazione di compassione e perfino di collera di fronte alle infinite iniquità che affliggono l'eroe"; o, infine, delle differenze fra lo spagnolo degli spagnoli e quello della conversazione argentina, il Borges di questo libro giovanile, ripudiato e ora finalmente ritrovato, è già, inconfondibilmente, il grande Borges. E solo apparente è l'"aria enciclopedica e guerrigliera", giacché tre direzioni cardinali lo governano: "La prima è un sospetto, il linguaggio; la seconda è un mistero e una speranza, l'eternità; la terza è questo godimento, Buenos Aires".
Narra la leggenda che la premiata ditta del noir francese formata da Pierre Boileau e Thomas Narcejeac abbia scritto "La donna che visse due volte" con uno scopo ben preciso: quello di piacere ad Alfred Hitchcock. Una scommessa azzardata, indubbiamente (anche se i due non ignoravano che il regista avrebbe già voluto adattare per lo schermo I diabolici, che gli era stato soffiato da Henri-Georges Clouzot). Come tutti sanno, la scommessa fu vinta, e la storia della enigmatica Madeleine, che sembra tornare "dal regno dei morti", diventò quello che la critica ha definito il capolavoro filosofico di Alfred Hitchcock - e uno dei film più amati dai cinéphiles di tutto il mondo. Quando, molti anni dopo, François Truffaut gli chiederà che cosa esattamente gli interessasse nella storia di questa ossessione amorosa che ha la tracotanza di sconfiggere la morte, Hitchcock gli risponderà: "la volontà del protagonista di ricreare un'immagine sessuale impossibile; per dirlo in modo semplice, quest'uomo vuole andare a letto con una morta - è pura necrofilia". Attenzione però: se è vero che ci si accinge alla lettura del libro avendo davanti agli occhi la sagoma allampanata di James Stewart e il corpo di Kim Novak, a mano a mano che ci si inoltra nelle pagine del romanzo le immagini del film si dissolvono e si impone, invece, la dimensione onirica, angosciosa, conturbante di Boileau e Narcejac, che sanno invischiare il lettore negli stessi incubi ai quali i loro personaggi non riescono a sfuggire fino all'ultima pagina.
Nel 1967 Manganelli dirige la serie italiana di una collana Einaudi. A preoccuparlo è la veste grafica, che con il suo opaco grigio rende i volumetti simili ad "antichi, nobili epitaffi": "E si veda il bell'egualitarismo del procedimento, che pareggia miopi, presbiti, ipermetropi, daltonici ed astigmatici in una comune, edificante inettitudine a leggervi alcunché" commenta. Basterà questo passaggio di una comunicazione "di servizio" per far capire che tipo di consulente editoriale sia stato Manganelli: eccentrico e brillante, sempre pronto a sfoderare uno humour di volta in volta giocoso, paradossale, corrosivo. Ma non ci si inganni: Manganelli è stato un editor (e traduttore) tutt'altro che sedizioso: disciplinatissimo, piuttosto, duttile e minuzioso. Un editor capace di progettare collane e costruire libri, suggerire titoli, periziare traduzioni con estroso rigore: "... qualche volta la traduttrice tende a dar più colore di quanto non competa a questa gelida carne..." scrive di una Ivy Compton-Burnett che gli era stata sottoposta. Ma capace soprattutto di stendere pareri di lettura e risvolti dove astratto furore dello stile, schietta idiosincrasia e verve beffarda celano una micidiale precisione di giudizio: "La sua pagina sa di virtuosa varichina, i suoi periodi vanno in giro con le calze ciondoloni..." (qui la vittima è Doris Lessing). Una precisione, tuttavia, che nel rifiuto sempre si premura di spogliarsi di ogni drasticità: "Il mio parere è negativo, ma senza ira".
"Balzac sembra un oste, Joyce il contabile di un'impresa di pompe funebri, Eliot il direttore di una clinica psichiatrica, e Heinrich Mann un farmacista che abbia appena deciso di avvelenare i suoi concittadini senza eccezione": sono le considerazioni suggerite alla Szymborska dalla lettura di un Piccolo dizionario degli scrittori di tutto il mondo. O meglio: dall'apparato iconografico, giacché è su quello che si è concentrata tutta la sua attenzione. Difficile immaginare un recensore più idiosincratico, inaffidabile, parziale. E più irresistibile. Le sue, d'altro canto, non sono neppure recensioni: piuttosto, letture "non obbligatorie", rapporti di un'impagabile lettrice amatoriale. Che ad ogni libro che le capiti fra le mani - libri che altri disdegnerebbero, del genere Il Guinness dei primati del cinema - sa guardare da un'angolatura che ci spiazza e ci conquista. Chi se non la Szymborska ammetterebbe, con disarmante franchezza, di aver colto, nei Sette stati della materia, solo qualche frase, e saprebbe poi trasformare la sconfitta in una geniale riflessione sullo snobismo di chi coltiva "l'antica aspirazione a sapere tutto, sia pure a grandi linee"?
Chi nasce oggi in una grande città - o anche in campagna - non ha molte occasioni per vedere animali, se non gli antichi testimoni della vita domestica: cani e gatti. Ma gli animali continuano a visitarci, per lo meno nei sogni. E ci ricordano un'altra vita - ormai remota e lunghissima - in cui gli uomini erano stati una specie mescolata a molte altre. Anche in cielo, le costellazioni dello Zodiaco - il cui nome stesso significa luogo degli animali - disegnano la mappa di una zoologia che non cessa di manifestarsi. Più di ogni altro fra coloro che hanno preso le mosse da Jung, James Hillman ha saputo interrogarsi su queste "presenze" e inchinarsi davanti al loro potere, come mostra questo libro, che è una guida per chi voglia riconoscere che cosa sono gli animali in noi.
Più volte nei suoi interventi pubblici Anna Maria Ortese ha denunciato i delitti dell'uomo «contro la Terra», la sua «cultura d'arroganza», la sua attitudine di padrone e torturatore «di ogni anima della Vita». E lo ha fatto pur nella consapevolezza che il suo grido d'allarme sarebbe stato accolto con impaziente condiscendenza da chi sembra ignorare che ciò che rende l'uomo degno di sopravvivere è la sua «struttura morale: intendendo per morale ogni invisibile suo rapporto, ma buon rapporto, con la vita universale». Quel che ignoravamo è che tali interventi, che additavano nello sfruttamento e nel massacro degli animali, nella natura offesa e distrutta il nostro più grande peccato, non erano isolate e volenterose prese di posizione, bensì la punta emergente di un iceberg. Un iceberg rappresentato da decine e decine di scritti inediti, nei quali la Ortese è andata con toccante tenacia depositando quel che le dettava la sua «coscienza profonda», vale a dire la memoria, riservata a pochi e supremamente impopolare, «delle “prime cose” preesistenti l'universo» – in altre parole, la visione che la abitava. Scritti di cui qui si offre una calibrata selezione e che nel loro insieme si configurano come un vero e proprio trattato sull'unica religione cui la Ortese sia stata caparbiamente fedele: la religione della fraternità con la natura.