Dalla 'prigione del popolo' dove era stato rinchiuso dalle Brigate rosse nel 1978, Aldo Moro chiedeva di trattare per la sua liberazione, svelando che questa era una prassi abituale per i terroristi palestinesi arrestati in Italia. Da allora, per «lodo Moro» si intende l'accordo che consentiva ai palestinesi di utilizzare il territorio italiano come base per armi e guerriglieri in cambio della garanzia di preservare la penisola dagli attentati. Il «lodo» non fu certo solo riferibile alla figura di Moro: esso coinvolse i principali esponenti della DC e del PSI (da Rumor a Taviani, da Andreotti a Craxi), alcuni magistrati e persino la Presidenza della Repubblica. Ma il «lodo» quale sicurezza garantiva? Quella legata all'incolumità dei cittadini dagli attentati o quella dello Stato, assicurando approvvigionamenti energetici in tempo di shock petrolifero e stabilità sul fronte sud del Mediterraneo? La classe dirigente italiana si trovò a fare i conti con questo dilemma in una delle fasi più difficili della storia repubblicana. Lungi dall'essere una vicenda riservata ai servizi segreti, il «lodo» fu una politica dello Stato italiano. Ed è con questo fatto storico che il nostro Paese deve fare i conti.
Un ampio e insuperato quadro di storia sociale ed economica del mondo rurale medievale, dall'età carolingia al Trecento, che spazia dalla Francia all'Inghilterra, ai paesi dell'Impero. Georges Duby, il grande maestro della storiografia francese, sintetizzando testimonianze e documenti di carattere molto diverso, recupera tutti gli aspetti, i problemi e gli elementi costitutivi della civiltà, non più cittadina, che si affermò alla caduta dell'impero romano: dalle tecniche di coltivazione all'evoluzione dei grandi patrimoni fondiari signorili; dall'estensione progressiva delle aree coltivabili alla diffusione dell'economia di scambio; dalle rivolte contadine all'impatto di fenomeni catastrofici come le pestilenze e le carestie del XIV secolo.
«Unendo all'autorità della studiosa uno stile elegante e scorrevole Maria Serena Mazzi sa evocare con efficacia un lungo passato di servaggio femminile, e ci costringe a pensare che per molte donne il Medioevo non accenna a finire e la fuga continua» Benedetta Craveri Nel Medioevo le donne erano oggetto di discriminazione giuridica e sociale, senza indipendenza economica, sottoposte a tutela e custodia da parte degli uomini, costrette a conformarsi a rigide norme di comportamento. Non assecondare la volontà della famiglia, non ubbidire a padri, mariti o padroni, manifestare indipendenza di giudizio e di comportamento, rendeva la donna una ribelle. Maria Serena Mazzi racconta la storia di quelle donne, celebri o ignote, sante, regine, badesse, semplici monache, umili contadine, serve, schiave, eretiche, streghe, prostitute, che si sono ribellate, che hanno scelto di sottrarsi a destini segnati, resistendo, opponendosi, fuggendo. Donne decise a viaggiare, conoscere, insegnare, lavorare, combattere, predicare. O semplicemente a difendersi da un marito violento, da un padrone brutale. Da Margery Kempe a Giovanna d'Arco, da santa Brigida a Eleonora d'Aquitania, alle tante ignote o dimenticate donne in fuga verso la libertà.
Nel 1869 fu indetta a Napoli un'assemblea di liberi pensatori in concomitanza con il Concilio Vaticano I. A quell'Anticoncilio aderirono anche 185 donne che chiedevano il riconoscimento della dignità e dei diritti femminili. Tra coloro che contrapponevano l'esigenza di libertà e di emancipazione alle rigide posizioni ecclesiastiche, ebbero un ruolo da protagoniste le sorelle Giulia ed Enrichetta Caracciolo: l'una era Gran maestra di loggia massonica e combattente garibaldina, l'altra, monaca irrequieta desiderosa di affrancamento da una religiosità opprimente. Il volume racconta queste esperienze e come le spaccature createsi durante e dopo la chiusura del Vaticano i portarono alla nascita della Chiesa veterocattolica che ha aperto oggi alle donne importanti ruoli ministeriali. Con i contributi di Angela Russo, Cristina Simonelli e Nadia Verdile.
Una storia che ha fatto il giro del mondo, eppure mai narrata dal principio alla fine. Tre giovani ebrei nella Polonia degli anni Trenta - Jerzy Kluger, Kurt Rosenberg, Ewa, dal cognome rimasto sconosciuto - e Lolek, vezzeggiativo di Karol Wojtyla, cattolico, destinato a diventare sacerdote, poi vescovo e infine papa della Chiesa cattolica. Dapprima, un intreccio semplice: lo studio, la scuola, le confidenze e i progetti per il futuro, i professori, gli amori, le simpatie e le antipatie di quattro ragazzi normali. Un'amicizia come tante, che scorre serena e felice. Poi la drammatica ondata dell'antisemitismo, l'occupazione nazista, i pogrom di Stalin, la guerra e le deportazioni nei gulag e nei campi di sterminio che cambieranno la loro vita per sempre. I quattro amici si perdono di vista per quasi trent'anni, cercandosi a lungo e poi ritrovandosi per caso a Roma e, infine, a Gerusalemme. La penna raffinata del vaticanista Gian Franco Svidercoschi, già autore del bestseller Una vita con Karol (Rizzoli), ricostruisce nei suoi passaggi più cruciali e commoventi una vicenda straordinaria che, nel suo microcosmo, diventa emblematica di uno dei momenti storici più tragici del secolo scorso rivelandosi di stupefacente attualità: in un Terzo Millennio ancora attraversato da una «guerra mondiale a pezzi».
Nel 1992, trent'anni fa, cominciava il crollo della prima Repubblica e il passaggio alla seconda, segnato dalla scomparsa di un'intera classe politica che dal 1945 in poi aveva governato la democrazia repubblicana; un passaggio cruciale che nell'opinione pubblica italiana resta legato alle inchieste sulla corruzione del pool Mani Pulite. Questo libro, per la prima volta, affronta invece l'insieme dei fattori politici, economici, sociali e internazionali che dagli anni Ottanta in poi hanno concorso alla caduta del sistema, un evento senza precedenti tra i paesi dell'Europa occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. Malgrado la rottura profonda intervenuta nel 1992-1994, gli stessi problemi lasciati irrisolti, aggravati dal progredire della globalizzazione, hanno continuato a condizionare anche la seconda Repubblica: debito pubblico, crisi della rappresentanza, incapacità di fare riforme, crescita dei populismi e di una comunicazione politica che oggi come ieri sembra dettare l'agenda ai nuovi partiti, riportano al passato e mettono ancora una volta a rischio la stabilità politica e istituzionale del paese. Attraverso una scrittura agile e un linguaggio sintetico, Simona Colarizi ricostruisce una fase cruciale della storia d'Italia che ha lasciato una così difficile eredità nel presente.
La storia dell'umanità è scandita da movimenti continui di genti e popoli, sospinti da una pluralità di motivazioni e circostanze, e con esiti che vanno dal pieno successo al totale disastro. L'autore racconta quindici vicende di migrazione che riguardano il mondo occidentale, Europa e America. Le storie si succedono secondo il diverso grado di libertà individuale che ha determinato la migrazione: dalla sua assoluta mancanza, propria degli spostamenti forzati - come nell'Unione Sovietica della Seconda guerra mondiale - al caso opposto degli spostamenti liberi, dovuti a decisioni individuali o familiari, come avvenne per la grande migrazione che fra Otto e Novecento portò milioni di persone oltre l'Atlantico verso le Americhe. Muoversi e cambiare dimora, terra, patria è una prerogativa umana, che le circostanze storiche non possono sopprimere.
Tra il 1776 e il 1804 il tempo della rivoluzione unì le due sponde dell'Atlantico. La nascita degli Stati Uniti fu d'esempio alla Francia per la svolta del 1789. La rivolta degli schiavi neri a Santo Domingo nel 1791 portò nel 1794 all'abolizione della schiavitù nelle colonie francesi. Di lì a breve l'ascesa di Bonaparte segnò la ripresa del ruolo dell'uomo d'armi rivoluzionario. Le similitudini tra i due lati dell'Atlantico neppure si interruppero con la presa del potere, il 18 Brumaio, del generale còrso: a Santo Domingo, Toussaint Louverture, un ex schiavo divenuto governatore della colonia, parve imitarlo. La reintroduzione della schiavitù nelle colonie francesi, voluta da Bonaparte nel 1802, portò però all'insurrezione finale dei neri di Santo Domingo, che nel 1804 fondarono la repubblica nera di Haiti. Il libro, che ripercorre le vicende qui riassunte, evidenzia il legame tra le due grandi rivoluzioni di fine XVIII secolo che le storiografie nazionali e l'influenza del portato politico-ideologico hanno a lungo nascosto. Queste pagine insistono invece su una storia comune tra Europa e America, prima che, nel XIX secolo, le loro strade si dividessero.
Ideato per la ricorrenza del 150° anniversario dell'unione di Roma all'Italia, il volume si propone di ripensare ciò che la breccia di Porta Pia significò e comportò nel contesto storico, politico e culturale della capitale, dell'Italia e dell'Europa dal 1870 allo scoppio della Prima guerra mondiale. Alla luce dei più recenti orientamenti storiografici, un'équipe d'illustri studiosi, italiani e stranieri, propone dunque ricerche inedite sull'organizzazione politico-amministrativa della nuova realtà urbana, concentrandosi in particolare sui rapporti con la Chiesa, sulle dinamiche tra i diversi corpi sociali, sulle strategie e sui processi di affermazione dei ceti dirigenti, nonché sulle rispettive forme d'integrazione nella realtà di quella che per secoli era stata la città del papa.
Una donna, una scelta: quella di salvare centinaia di ebrei a rischio della propria vita. Una storia di umanità e di fede contro la banalità del male nell'Italia divisa in due dopo l'8 settembre 1943. La guerra, le difficoltà, le spie fasciste, i delatori avrebbero potuto farle paura. Non fu così. Anzi, con coraggio e con la forza della fede aiutò profughi, antifascisti e perseguitati politici perché andava fatto. Per questo aderì al gruppo clandestino Frama, collaborò con il finanziere Gavino Tolis e passò informazioni segrete oltre confine. Corrispondenza e ordini riservati destinati alle brigate partigiane operanti nel comasco. Per molti diventò l'angelo di Ponte Chiasso. Arrestata e deportata sopportò terribili sofferenze. Superò l'orrore del campo di concentramento e ritornò in Italia. Un racconto che fa riscoprire una figura poco conosciuta insignita con la Medaglia d'Oro al Merito Civile dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il volume ripercorre i temi, i riferimenti politici e ideali, le iniziative culturali ed editoriali e infine il declino della cultura "antitotalitaria" in Italia nei trent'anni successivi al secondo conflitto mondiale. Cultura "antitotalitaria", non meramente "antifascista", perché il variegato arcipelago politico-culturale qui analizzato coniuga un radicato antifascismo - testimoniato da una ventennale opposizione al regime - con un altrettanto radicato anticomunismo. Allo stesso modo dei liberali pensavano i cattolici della generazione degasperiana, i socialisti democratici e riformisti e gli intellettuali appartenenti alla tradizione repubblicana, nella convinzione che l'esperienza fascista fosse morta per sempre e che il vero problema delle democrazie del dopoguerra fosse la lotta contro il mondo comunista, non solo là dove ormai era già "sistema", ma anche nelle sue propaggini occidentali. Il libro cerca anche di analizzare le cause che portarono negli anni Sessanta al declino di questa costellazione culturale e quelle che hanno impedito un suo sostanziale recupero dopo il 1990, quando la storia del Novecento sembrava averle dato ragione.
Come ben sapevano i predicatori medievali, delle due grandi leve del comportamento umano - la paura del castigo e la speranza del premio - la più efficace era la prima. Di qui, allora, lo sviluppo di immagini dell'Inferno che fra Tre e Quattrocento sono sempre più complesse e crude, così da turbare gli animi e smuovere le coscienze. Ma in che direzione? E a quale scopo? La domanda è assai meno scontata di quanto non possa apparire. Dal momento, infatti, che gli exempla negativi avevano senso solo in funzione di quelli positivi, il grande teatro dei reprobi si prestava anche ad una lettura al contrario, in cui le figure dei peccatori, lungi dal costituire solo un terribile ammonimento, indirizzavano il fedele verso atteggiamenti speculari e opposti a quelli puniti. La critica si faceva insomma proposta, complici le scelte iconografiche di artisti e committenti (comunità, privati, confraternite, ordini religiosi, ecc.), che attraverso il tema dell'Inferno potevano esprimere i propri ideali di convivenza civile.