Bastarono poche stagioni di frenesia creativa, prima della morte a venticinque anni, per fare di John Keats il poeta romantico per eccellenza: un giovane in continuo fermento e in costante trasformazione, immerso nel labirinto del proprio tirocinio poetico, con una mente assetata di grandezza e bellezza, logorata da un inafferrabile languore esistenziale e sempre pronta all'intuizione folgorante. Ma chi era il vero John Keats? Per scoprire la fisionomia che si celava dietro la maschera dei versi, indispensabile è il suo esuberante epistolario, crogiolo di prosa e versi estemporanei, idee filosofiche e teorie poetiche, in cui Keats riversa sogni, speranze, delusioni, paure, frustrazioni, amori e gelosie, con irreprimibile spontaneità. Dal tono scanzonato del diario di viaggio nel Nord dell'Inghilterra e in Scozia alle note ardenti e tormentose della corrispondenza con Fanny Brawne, dalle lunghe missive affettuose al fratello George e alla cognata oltreoceano a quelle briose e colloquiali indirizzate a gli amici più cari e a poeti come Hunt e Shelley: sempre affiora e si espande una personalità complessa e insofferente, spesso geniale - e votata all'infinito: «Ciò che penso dell'amore ritengo infatti sia valido per tutte le nostre passioni: nella loro forma più sublime, sono tutte creatrici di bellezza assoluta». Questo volume offre la più ampia scelta delle lettere di John Keats (Londra, 1795-Roma, 1821) mai pubblicata in Italia, ed è corredato da accurate, illuminanti note di commento.
«Sono finiti i caffè letterari, il colloquio stesso» confida Sciascia a Domenico Porzio. «Eppure colloquiare significava non soltanto chiacchiera, ma esperienza, urbanità». Ed è come se questo libro, che registra incontri avvenuti lungo il 1988 e il 1989 e interrotti dalla morte dello scrittore, i due amici l'avessero disegnato proprio per scongiurare la fine del libero colloquiare, la dilagante riduzione a intervista della conversazione. Provocato dalla inesauribile curiosità di Porzio, stimolato da un dialogo mutevole, schietto, indisciplinato, Sciascia parla con un'asciuttezza in cui il fervore è schermato dal riserbo e dalla precisione, offrendoci inattesi squarci sulla sua infanzia, quando il 2 novembre i bambini ricevevano i regali dei morti; sulla biblioteca della zia maestra e sul teatro di Racalmuto, responsabili della sua divorante passione per i libri e il cinema; sui drammi che l'hanno segnato, come il suicidio del fratello, cui è seguita quella che con ammirevole pudore definisce «una sequela di guai»; sull'impiego al Consorzio agrario, che gli ha assicurato «il primo impatto con la giustizia». Ma, insieme, vengono alla luce anche tutti i suoi amori: oltre ai libri, Parigi, il Settecento, Stendhal, Savinio, su cui ha pesato l'italica «avversione all'intelligenza», Borges, Pirandello, «incontrato nella natura, nei luoghi». E i segreti della sua officina, come la mescolanza dei generi suggeritagli da Malraux, che vedeva in Santuario di Faulkner «la tragedia greca ... calata nel romanzo poliziesco» - incluso il più spiazzante ed efficace: «Per me scrivere è una cosa allegra».
A duecento anni dalla sua nascita, Baudelaire è il caso molto raro di uno scrittore che ha mantenuto intatta la sua forza di penetrazione intellettuale e la capacità di scardinare ogni forma di pensiero sclerotico. Dopo La Folie Baudelaire, che era un vasto libro non solo su Baudelaire ma su tutta la Parigi intorno a lui, Roberto Calasso ha voluto concentrarsi su ciò che costituisce la singolarità irriducibile dello scrittore - innanzitutto il taglio della sua intelligenza e quel gusto che ha dato un'impronta definitiva a ciò che si è poi chiamato il moderno.
«Io non credo nell'amore, è una malattia che passa com'è venuta ... prendetemi oggi, non contate di avermi domani» scrive Virgina Verasis di Castiglione a uno dei suoi innumerevoli amanti, palesando la sua esigenza più radicata e insopprimibile: non avere padroni. Un'esigenza che emerge prepotentemente dal racconto che della sua vita ci propone l'autrice di Amanti e regine. Tutti noi - grazie agli scritti di testimoni e biografi, a film e sceneggiati televisivi, nonché ai moltissimi ritratti fotografici che in anni recenti sono stati pubblicati ed esposti - crediamo di sapere chi sia stata la contessa di Castiglione: una «seduttrice seriale» di incomparabile bellezza che, dopo aver conquistato (secondo le istruzioni ricevute dal conte di Cavour) Napoleone III e abbagliato la corte del Secondo Impero, si chiuse in una casa senza specchi nascondendo ai propri occhi e a quelli del mondo la sua inarrestabile decadenza. Ma colei che Robert de Montesquiou consacrò per sempre come «la divine comtesse» è stata molto di più, e Benedetta Craveri, la quale ha rintracciato negli archivi italiani e francesi un'ingente mole di lettere totalmente inedite, ce lo fa scoprire lasciando che sia Virginia a parlarci di sé: dei suoi amori, delle sue ambizioni, delle sue paure, delle sue ossessioni. Vengono così alla luce aspetti sorprendenti di una donna che seppe usare il suo fascino, ma anche la sua intelligenza politica, la sua audacia, la sua volontà di dominio, la sua straordinaria abilità di commediante, e anche una buona dose di cinismo, per raggiungere un traguardo all'epoca inimmaginabile: disporre liberamente della propria esistenza. Una ribellione alle regole imposte dalla morale del secolo borghese che, scrive Craveri, "ha mantenuto intatta la sua forza incendiaria e che ancora oggi disturba, sconcerta, scandalizza».
Di fronte alla varietà dei temi discussi in questi saggi ci si potrà chiedere se esista un filo che li leghi. Il titolo del libro ne offre uno. «La lettera uccide, lo spirito dà vita» disse Paolo di Tarso, contrapponendo alla legge giudaica in cui era nato la nuova fede - il cristianesimo - di cui fu il fondatore. «Uccide», «dà vita» sono metafore, che non vanno prese alla lettera. Ad esse si può rispondere con un'altra metafora: la lettera uccide chi la ignora. Dall'analisi ravvicinata di casi specifici emerge una versione della microstoria, qui presentata in una prospettiva inedita. Al centro di questi casi ci sono personaggi famosi (Machiavelli, Michelangelo, Montaigne) o semisconosciuti (Jean-Pierre Purry, La C.***); un testo o un'immagine; un tema (la rivelazione) o una lettera dell'alfabeto. E un elemento ricorrente: la riflessione sul metodo, sugli intrecci tra «caso» e «caso» - tra studi di caso ed elementi casuali, spesso prodotti deliberatamente. «Il libro di cui hai bisogno si trova accanto a quello che cerchi»: chi legge potrà scoprire i risultati, spesso imprevedibili, di questa affermazione di Aby Warburg.
Emersa dalla tradizione orale dei Sumeri nel terzo millennio a.C., e tramandata per migliaia di anni da molti popoli del Vicino Oriente su tavolette d'argilla scritte in caratteri cuneiformi, l'epopea di Gilgamesh si pone alle origini stesse della letteratura mondiale. Re di Uruk, Gilgamesh è infatti il primo eroe a partire in cerca di avventure, a uccidere mostri, sfidare gli dèi, viaggiare ai confini della terra deciso a conquistarsi con le sue gesta un nome imperituro. Ma quando la morte gli strappa Enkidu, il compagno per eccellenza, Gilgamesh, atterrito e ormai solo, affronta l'impresa che travalica ogni altra: la ricerca del segreto della vita eterna - un segreto che solo Utnapishtim, l'unico sopravvissuto al Diluvio Universale, può insegnargli. Farà infine ritorno a Uruk a mani vuote, ma ricco di una nuova consapevolezza: la morte è il destino ineluttabile che gli dèi hanno assegnato all'uomo, e nel godimento di questa vita effimera risiede la sua sola saggezza.
Ai nostri occhi può sembrare strano che i trionfi dell'Impero romano venissero allora attribuiti soprattutto a sette oggetti gelosamente custoditi nei penetrali dei templi dell'Urbe, e che dalla loro presenza si facesse dipendere la durevolezza e l'invincibilità di quel mondo. Eppure, già in epoca regia e, guardando a Costantinopoli, ancora dopo la caduta dell'Urbe, i Romani credevano fermamente che quegli oggetti - doni prodigiosi, testimoni della benevola volontà soprannaturale, reliquie magiche e arcane - fossero i veri fautori dell'ordine e dell'eternità dell'imperium, le sue autentiche e sicure fondamenta. Di quei talismani, e della loro tutela occulta e simbolica, racconta questo libro di Mino Gabriele, che ripercorre storie e leggende, discerne il vero dal falso, riesce a cogliere i significati manifesti e quelli nascosti attraverso l'esame critico delle fonti letterarie e dei riscontri archeologici, ricostruendo così un irripetibile, straordinario patrimonio di miti. E per il lettore, anche grazie alle immagini che arricchiscono il volume, sarà un viaggio appassionante nel mondo sacro degli antichi, dove il credibile e l'incredibile convivevano in sorprendente e ordinaria comunione.
«Meno male che mia madre mi aveva detto che sarebbe stata una giornata tranquilla! » dice al giovane Miron l'amico Staszek. È il 1° agosto 1944, e per le strade affollate di Varsavia, da cinque anni sotto l'occupazione dell'esercito tedesco, la gente è in subbuglio: si parla di soldati nazisti ammazzati, di «carri armati grossi come case», e le detonazioni dei pezzi d'artiglieria echeggiano ben presto più forti e vicine di quelle che già da qualche giorno provengono dal fronte, dove avanzano i sovietici. È l'inizio di una delle vicende più atroci e controverse della Seconda guerra mondiale, che ancora oggi è come una ferita aperta nella coscienza e nella memoria della Polonia. Organizzata dal movimento di resistenza nazionalista, l'insurrezione di Varsavia, nata con finalità antitedesche ma anche con un significato apertamente antisovietico, si rivelerà un catastrofico errore politico e militare: 25.000 insorti e 200.000 civili rimarranno uccisi, la città sarà letteralmente rasa al suolo, e molti dei reduci, bollati dalla propaganda stalinista come «luridi giullari della reazione», scompariranno nei gulag. Solo a distanza di oltre vent'anni Miron Bialoszewski riuscirà a scrivere di quella tragedia, che prima non è stato in grado di raccontare se non «chiacchierando». E, anche sulla pagina, il racconto è un "parlato" concitato, frantumato ed erratico, in un libero flusso di ricordi: l'unica forma capace di testimoniare una verità lontana da quella delle opposte propagande. E capace, nel percussivo alternarsi di immagini e suoni, odori e sapori, di costringere il lettore a un'immedesimazione assoluta.
«Nessun pensatore dell'Ottocento ha avuto un'influenza così diretta, meditata e profonda sull'umanità quanto quella esercitata da Karl Marx ». L'incipit di questo libro ha la cadenza perentoria del dato acquisito, eppure registra un paradosso: Marx non possedeva né «le qualità che fanno un grande capo» (come Herzen), né la «meravigliosa eloquenza » di Bakunin, né un qualsivoglia tratto che suscitasse l'«intensa, quasi religiosa venerazione dei discepoli» (come Kossuth o Mazzini). Muovendo da questo enigma, Berlin ripercorre magistralmente gli eventi "esterni" della biografia di Marx e gli aspetti salienti della sua formazione intellettuale (la mediazione tra l'empirismo scientifico dei francesi e lo storicismo metafisico dei tedeschi; il peso decisivo della «critica della religione»; la passione divorante per la letteratura). E ci fa via via scoprire come Marx, «pensatore dogmatico e pedante», interessato più alle teorie che agli uomini, sia tuttavia riuscito a cogliere lucidamente gli effetti dell'economia e dell'ideologia sulla società, inquadrandoli in una serie di prognosi di impressionante esattezza, a partire da quella sull'influenza decisiva dei mutamenti tecnologici e del capitale finanziario. Quello di Berlin è dunque un Marx opportunamente depurato da ogni presunta ortodossia - aderente al suo celebre autoritratto: «Solo una cosa posso dire, e cioè che non sono, in nessun modo, marxista!».
Il mondo della pittura di icone, che Florenskij - soggiogante figura di mistico, filosofo, matematico e teologo, quale poteva apparire soltanto in quella prodiga fioritura di genialità che si ebbe in Russia nei primi anni del secolo scorso - ci svela in queste pagine, rimarrebbe per sempre incomprensibile se lo si avvicinasse con i consueti strumenti della critica d'arte. Esente dalla prospettiva, incompatibile con la concezione della pittura dominante in Occidente dal Rinascimento in poi, l'icona presuppone una metafisica delle immagini e della luce. Ed è a questa metafisica che Florenskij ci introduce, scendendo poi in analisi storiche acutissime, che svariano dalla pittura fiamminga alle tecniche della preparazione dei colori, dalle forme dei panneggi al significato dell'oro e al nesso fra le icone e la liturgia della Chiesa orientale. Accompagnati da questa guida incomparabile, possiamo così finalmente varcare le «porte regali» dell'iconostasi, «confine tra mondo visibile e mondo invisibile», luogo dove si manifesta una pittura sublime, in cui le cose sono «come prodotte dalla luce».