"La prima cosa è un cambiamento del punto di vista. Non più un mezzogiorno chiuso a contemplare se stesso e i suoi difetti : al contrario, una regione cruciale per gli sviluppi storici di un'area assai più vasta, si cui si colloca ben al centro. Mezzogiorno cuore d'Europa e del Mediterraneo".
La democrazia - il potere, il governo, la sovranità suprema del popolo - ha sempre costituito, dalla Grecia antica in poi, un problema: circa il modo di intenderla, le sue possibilità di attuazione, i suoi lati positivi o negativi, il suo essere soprattutto un mito o anche una realtà. Dal Settecento in avanti non sono mai venute meno le aspre divisioni che hanno contrapposto i fautori della democrazia diretta ai sostenitori della democrazia rappresentativa. In queste pagine, uno dei maggiori storici della politica ci consegna un'opera con un duplice intento: da un lato ricostruire la storia del pensiero dei grandi filosofi politici classici - dall'età di Pericle a quella contemporanea - sul tema della democrazia e sui suoi dilemmi, dall'altro offrire una serie di riflessioni sui limiti e persino gli stravolgimenti che la sovranità popolare in quanto mito, potente ideologia, progetto astratto, ha conosciuto e non poteva non conoscere nelle sue molteplici attuazioni. A corollario di questo doppio livello di lettura, Salvadori mette a fuoco il processo di grave deterioramento che la democrazia liberale - proclamata trionfante dopo il crollo politico e morale del comunismo totalitario che aveva preteso di incarnare la "vera" democrazia - ha subito a partire dall'offensiva vittoriosa del neoliberismo iniziata alla fine degli anni settanta del secolo scorso, la quale ha spostato in maniera crescente il centro del potere decisionale dai singoli Stati alle grandi oligarchie finanziarie e industriali sovranazionali.
"Quali possibilità c'erano che Julia e Philippe, le cui storie rivelano singolarità incommensurabili, si incontrassero a Parigi nel 1966? Che si amassero prima, durante e dopo il Maggio '68? Che restassero sposati dal 1967? Poche possibilità: il calcolo delle probabilità avrebbe bisogno di una serie astronomica di cifre dopo lo zero...". Eppure, tutto ciò è successo. Due "stranieri" nel corpo e nell'anima hanno deciso di restare saldamente in un luogo che essi stessi hanno scelto di disegnare come il loro matrimonio dal momento in cui ciascuno ha sentito che il "vivere con l'altro" gli era inevitabile. Prende avvio da qui un dialogo serrato sull'amore, che assume la forma di un vero e proprio lessico della vita matrimoniale. Julia Kristeva, psicanalista e scrittrice, e Philippe Sollers, scrittore e filosofo, due personalità di spicco della cultura del nostro tempo, si interrogano sull'arte di costruire un matrimonio che duri e che resista agli urti della società globalizzata, ma anche sulle ragioni per cui hanno scelto di armonizzare le loro diversità all'apparenza inconciliabili in un "luogo vivente come un organismo, le cui parti perdono un po' di se stesse in nome della libertà dell'altro".
Un libro scritto nel web per un giornalismo che è sempre più web. Costruito per mesi sul sito giornalisminellarete.donzelli.it con la collaborazione di decine di operatori dell'informazione e giovani studenti di comunicazione, il nuovo libro di Michele Mezza acrobaticamente si cimenta in uno spericolato surfing fra le tempestose onde del mare giornalismo. Sarà Facebook l'edicola del mondo? Google automatizzerà le notizie? Il libro, integrando l'approccio radicale dell'autore con l'esperienza di un testimonial del sistema giornalistico italiano come Giulio Anselmi, già grande direttore di giornali e attualmente presidente dell'Ansa, propone elementi per orientarsi nel labirinto digitale azzardando risposte di fondo e proponendo approcci analitici per il nuovo che verrà. L'innovazione viene raccontata con il linguaggio dell'innovazione: filmati, link, testimonianze, visibili sulla carta con i QR code. Il ragionamento procede mostrando le esperienze concrete di grandi giornali, come la ristrutturazione del "Washington Post" o la digitalizzazione del "Guardian", e confrontandole con le strategie di alcuni dei più prestigiosi testimoni della professione e le dinamiche di realtà emergenti, come i nuovi portali di giornalismo investigativo, o i siti news gestiti da software.
«Un pullulìo di ex, dentro il quadro strategico di una frettolosa riconversione materiale e mentale: come Cesare Battisti, “social-patriota” di sinistra; Leonida Bissolati, social-patriota di destra; Agostino Gemelli, da positivista figlio di mangiapreti a bulimico consacratore dell’esercito al Sacro Cuore di Gesù; Benito Mussolini, da neutralista arrabbiato a spregiudicato araldo dell’Intervento; e infine l’idea stessa della guerra, da quella passiva e coercitiva di Cadorna a quella duttile e persuasiva di Diaz. D’altronde, in quegli anni si consuma in Italia un passaggio storico d’ordine generale: dalla società dei notabili alla società di massa».
Tra il giugno 1914 e il maggio 1915 l’Italia operò un clamoroso ribaltamento delle sue alleanze internazionali, che condusse alla decisione di dichiarare guerra all’Austria e alla Germania. Si trattò di una riconversione non solo militare, ma anche politica, culturale e ideale, fatta di abdicazioni, di trasfigurazioni, di palinodie e di abiure d’ogni sorta. La trasfigurazione dall’Italia triplicista alleata di Francesco Giuseppe a quella irredentista protesa alla liberazione di Trento e Trieste comportò la conversione dell’immagine della Germania da modello ad antimodello; l’eclissi dell’internazionalismo socialista e il conseguente passaggio al nazionalismo di settori importanti dell’opinione di sinistra, repubblicana, mazziniana; la trasformazione dei cattolici da intransigenti nemici dello Stato a clerico-patrioti; il completo riassetto degli equilibri interni alla classe dirigente liberale. In quella concitata transizione, si consumava il passaggio storico dalla società dei notabili alla società di massa. Così, i dieci mesi di maturazione dell’entrata in guerra trascorsero all’insegna di un clamoroso dualismo. Da un lato, avanzava sulla scena un nuovo, tumultuoso coacervo di minoranze, un labirinto di comitati mobilitati per la guerra che, mettendo in mora il Parlamento, si affermava come politicamente egemone, sempre più minaccioso nei confronti di chi alla guerra si dichiarava contrario. Dall’altro lato, continuava a esistere, quantitativamente forse maggioritaria, un’Italia composta di pura e semplice lontananza ed estraneità alla politica, un blocco d’ordine che contribuiva a rafforzare i poteri di un modesto governo di centro-destra, non certo pensato per così grandi compiti. Le risorse principali cui attingere per schierare le truppe in questa situazione appartenevano in larga misura al campo della disciplina e dell’ubbidienza. Anche per questa via più modesta – e a bassa temperatura – si supponeva che i tricolori potessero scaldare le menti e i cuori. Una volta ottenuto l’effetto desiderato e forzato il passaggio dalla pace alla guerra, queste risorse minimali si sarebbero rivelate essenziali al fine di ottenere che le masse militari rimanessero il più possibile ancorate alla «religione della patria» e al «senso del dovere» di coloro a cui spetta di comandare. E così, dopo il 24 maggio, il coinvolgimento dei cittadini attivi e politicizzati viene messo decisamente alla porta, lasciando il posto alle logiche della coercizione e dell’ubbidienza – sostenute e incoraggiate da una schiera di sacerdoti prontamente inviati al fronte –, unici strumenti con cui tenere a freno forme di obiezione e contrasto rispetto a una morte «assurda» che solo in una nuova «fede» patriottica può trovare la sua giustificazione. Ma in vista di Caporetto e dopo, nell’ultimo anno di guerra, le retoriche dell’ubbidienza e della passività rassegnata non basteranno più, e si torna questa volta per tutti a fare appello alle risorse del civismo e della politica, ridando protagonismo all’immaginario, alla parola e alle idee.
Autore
Mario Isnenghi
Mario Isnenghi, uno dei più autorevoli storici italiani, è professore emerito dell’Università di Venezia e presidente dell’Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea. Studioso dei conflitti fra le memorie nella storia dell’Italia ottonovecentesca, ha pubblicato fra l’altro: Il mito della Grande guerra (il Mulino, 2014); L’Italia in piazza (il Mulino, 2004); I luoghi della memoria (Laterza, 2013).
Il cibo, la sua produzione e il suo consumo, la percezione che se ne ha e l'utilizzo politico che se ne fa, è una grande sfida, forse la più grande del nostro mondo globalizzato. La globalizzazione ha definitivamente trasformato i sistemi agricoli e alimentari, cambiando profondamente lo scenario mondiale: mutano i protagonisti dei flussi commerciali, si trasformano le strategie che guidano le politiche degli Stati, si evolvono gli orientamenti e le scelte dei consumatori. È da questo passaggio denso di opportunità e di rischi che si deve partire per comprendere le grandi sfide che la contemporaneità pone ai sistemi alimentari. Questo libro affronta con uno sguardo di sintesi le questioni di scenario poste al centro dell'Expo, e percorre con lungimiranza ed equilibrio i nodi strategici dell'appuntamento milanese. Nei prossimi decenni, saremo di più e consumeremo enormemente di più, il che coinvolgerà inevitabilmente tutti. Bisognerà rispondere a una domanda crescente di cibo con soluzioni più sostenibili rispetto al passato, mentre la doppia incognita dell'adattamento dei processi produttivi ai cambiamenti climatici e della loro mitigazione porrà vincoli inediti ai sistemi produttivi. Prefazione di Matteo Renzi.
Intellettuale e politico di spicco nel secondo Novecento, Manlio Rossi-Doria è stato senza dubbio l'ultimo grande meridionalista italiano. Ma quel che a quasi trent'anni dalla sua scomparsa non è mai ancora emerso appieno è il ruolo centrale occupato dall'Europa nel suo pensiero e nella sua azione politica. Nel ventennio tra gli anni quaranta e gli anni sessanta, Rossi-Doria fu infatti costantemente impegnato nella costruzione e affermazione dell'idea dell'integrazione europea; da senatore per il Psi, favorevole alla costruzione di un partito progressista europeo, diventa poi un attivissimo osservatore dei problemi della politica agricola comune e delle relazioni internazionali (come nel caso della repressione in Cecoslovacchia nel 1968), e dunque un riformatore convinto della necessità che l'Italia sfrutti attivamente il "vincolo" europeo, per portare avanti la modernizzazione democratica e civile del paese e del suo Mezzogiorno. Queste pagine svelano l'intenso carteggio da lui intrattenuto, tra il 1945 e la metà degli anni ottanta, con esponenti del mondo della cultura, della politica meridionalistica, del movimento federalista e delle istituzioni europee (Altiero Spinelli, Antonio Giolitti e altri). Introduzione di Umberto Gentiloni Silveri.
Per un intero secolo, da quando, nel 1898-1900, Giosuè Carducci ne patrocinò la prima edizione a stampa, lo "Zibaldone di pensieri" di Giacomo Leopardi è assurto a simbolo del "frammento" per eccellenza. Quello che è da tutti considerato un capolavoro assoluto di prosa letteraria, è stato presentato da una lunga tradizione come un'opera volutamente asistematica, un flusso di pensieri senza ordine. A distanza di più di un secolo da quella prima edizione carducciana, il meticoloso e acuto lavoro critico-filologico di Fabiana Cacciapuoti ha portato alla luce l'idea di una grande opera per "trattati", di cui l'enorme mole di appunti raccolti nei quaderni null'altro rappresenta che l'immane lavoro preparatorio; un testo dotato di precise chiavi di lettura, organizzabile - se non compiutamente organizzato - a partire da ben definiti fuochi tematici. Una traccia di un simile progetto è contenuta nella lettera con cui Leopardi rispondeva, il 13 settembre 1826, al suo editore milanese Antonio Fortunato Stella, che gli aveva chiesto di comporre un dizionario filosofico alla maniera di Voltaire. Con un Preludio di Antonio Prete.
L'11 maggio 1831 il giovane aristocratico francese Alexis de Tocqueville sbarcò a New York, e da lì iniziò un viaggio per gli Stati Uniti terminato il 20 febbraio 1832. Il risultato delle sue osservazioni e riflessioni fu "La democrazia in America", la cui prima parte venne pubblicata nel 1835 e la seconda nel 1840. Il testo, scritto in una prosa superba, fece scalpore in Europa - ad essa l'autore aveva diretto il messaggio che, nel nuovo mondo, la democrazia aveva trovato un'attuazione straordinaria, rivelando una forza "irresistibile" destinata a raggiungere inevitabilmente anche le sponde europee. Tocqueville segnalò nelle sue pagine l'inizio di una nuova storia. Sennonché, al di là di questo vigoroso messaggio, si poneva e si pone tuttora la questione se negli Stati Uniti la democrazia si presentasse effettivamente con i tratti da lui descritti. Il saggio ripercorre l'analisi di Tocqueville concludendo che esse presentano per aspetti cruciali limiti assai significativi, in quanto delineano un'immagine dell'America che appare poco corrispondente, se non persino deviante rispetto a ciò che la società americana era nella sua realtà concreta. Di qui l'interrogativo: Tocqueville ha davvero capito l'America?
Possiamo fare a meno della Germania? Possiamo scrollarci di dosso l'Europa? Ma che cos'è, oggi, la Germania? È lo stesso paese che ha rappresentato, da Bismarck in poi, il più grande problema dell'Europa moderna, o non è intervenuto un cambiamento epocale che l'ha trasfigurata? In principio c'è una data, il 9 novembre 1989: la caduta del Muro di Berlino. Quel giorno, nella città simbolo della guerra fredda, è finito il Novecento, il "secolo più violento della storia dell'umanità": si è dissolto l'ordine geopolitico stabilito dalla seconda guerra mondiale e nel cuore del Vecchio continente è tornata, protagonista assoluta, la Germania. A oltre vent'anni dalla caduta del Muro, infatti, il modello tedesco si sta rivelando il più efficiente dal punto di vista economico il più deciso nella difesa del sistema di welfare europeo. Anche l'Europa è uscita radicalmente trasformata da quell'evento: la generosa speranza dei padri europeisti era nata come risposta all'epoca "di sangue e di ferro" della guerra civile europea, avendo come presupposto implicito la persistenza di una Germania divisa. Ma l'unificazione tedesca ha cambiato tutto. Cosa ne sappiamo noi, oggi, di questa nuova Germania, del gigante d'Europa che suscita nei suoi partner scarsa simpatia e crescente apprensione? Non sarebbe meglio, prima di temerla, cercare di capirla?