Oliver è un piccolo gatto che si fa grandi domande, alle quali il babbo risponde con saggezza. Col babbo, la mamma e il vecchio Lolo vive su una collina, accanto alla fabbrica del pesce. È una vita spensierata, finché il biondo, al termine della giornata di lavoro, li nutre tutti con gli scarti di pesce. Un giorno, però, la fabbrica, inspiegabilmente, chiude, e i mici restano senza cibo. Oliver è arrabbiato e si chiede come sia possibile soffrire la fame quando in mare ci sono tanti pesci! Ma grazie a due nuovi amici, uno dal lungo becco e uno dal lungo naso, arriverà inaspettata una... pioggia di pesci. Età di lettura: da 6 anni.
Duong è un ragazzino orientale che vive in Italia. Carlotta la sua amica tartaruga. Gigante. Insieme compiono un viaggio quasi impossibile, attraverso l'oceano Atlantico e poi a zonzo per il Sudamerica, dalle Ande alle spiagge del Pacifico. A complicare la loro fuga, un poliziotto un po' folle, ECB, un tipo aggressivo, autoritario, maleducato, ma soprattutto un tipo che detesta i bambini e gli animali. La salvezza è un luogo dentro di noi, che spesso è incredibilmente lontano da raggiungere. Età di lettura: da 10 anni.
I versi di Roberta Dapunt, che alternano parole e silenzi in modo così semplice e così sapiente, sono sempre un dialogo col sacro, un sacro che si manifesta nei misteri del quotidiano. E il primo mistero di cui si tratta in questo libro è la demenza, il malato di Alzheimer, una forma di Altro inconoscibile, sospeso in un luogo apparentemente metafisico, ma nello stesso tempo persona, corpo, snodo di concentrazioni affettive. Ecco dunque il continuo dialogo con Uma, che in ladino significa madre ma che l'autrice usa come nome universale, una chiamata, una sorta di tu che sintetizza esperienze diverse, sue e di tanti. E questo incontro, questo accudimento diventa percorso di conoscenza di qualcosa che non si può conoscere. Un percorso difficile e doloroso che non manca di "beatitudini", una forma di misticismo riflesso dove il vero mistico è il malato, che si può soltanto interrogare senza avere risposte, che si può soltanto accostare con amorosa ritualità.
Dirsi o sentirsi di un luogo e insieme dell'Italia non è un'operazione semplice e definitiva. E diventa sempre più complicato nel momento in cui Nord e Sud, quasi come destra e sinistra, perdono gli antichi significati e vanno collocati in un mondo più vasto, globale. Una riflessione, quella sul Sud, che incontra sempre la potenza degli stereotipi, il senso di noi che è stato costruito nei secoli grazie anche a sguardi ostili e miopi. Forse liberarsi dalla "maledizione" di un'identità angusta, spesso inventata (come quella che oppone Nord a Sud) può spingere a trasformare il conflitto in benedizione, il risentimento in riconoscenza, l'autoassoluzione in consapevolezza dei propri errori.
Fernande e André sono una giovane coppia in fuga dai nazisti, che insieme ad alcuni amici ebrei trascorre il periodo della guerra in un beato ma angoscioso isolamento durante il quale il tempo sembra sospeso. La promessa che si fanno è quella di poter tornare un giorno alla casa del sogno: una villa a picco sul mare nel sud della Francia, sotto un enorme faro bianco. E se molti loro amici e conoscenti sono destinati agli atroci viaggi nei treni piombati, alla diaspora degli affetti e alla perdita dell'identità - prima ancora che della vita -, loro due invece ce la faranno. Dopo la guerra Fernande vive intensamente, fra Parigi e la casa del sogno. Ma il matrimonio con André diventa un rapporto di confidenza e intimità simili a quelle che si riservano agli amici. Nel frattempo Fernande incontra il Poeta, che la eleggerà a musa ispiratrice della sua arte, regalandole una trasgressione venata di dolcezza. Il passato però resta sempre li. Non è neanche un'eco, piuttosto una presenza costante, incancellabile, terribilmente dolorosa. Qualcosa che "non passa, non passa, non passa per nessuno di noi". Perché ciò che è accaduto è inestirpabile: tutti i personaggi in qualche modo lo incarnano, lo rivivono anche se non ne parlano mai. "La lenta nevicata dei giorni" - che deve il titolo a un verso di Primo Levi - è un romanzo capace di ricomporre lo specchio infranto che è la memoria di chi sopravvive.
Sin dagli esordi Paolo Poli ha guardato il mondo con lo scarto fantasmagorico di chi sa che per restituire lo spirito delle cose, per disinnescare censure e conformismo, c'è bisogno di ridere e di far ridere. Rileggendo mezzo secolo di interviste (cartacee, radiofoniche e televisive - molte disperse, quasi introvabili), Luca Scarlini ha costruito un sillabario poetico e brillante: una sarabanda di racconti spericolati e divagazioni fulminanti, un "Alfabeto Poli" da decrittare seguendo il filo dell'ironia. La folgore del ricordo a tratti prende la forma esatta di un aforisma, altre volte invece si dispiega in pagine intense, analitiche e narrative, lasciando spazio alla riflessione e alla sensibilità di un artista cosi grande da non essersi preso mai troppo sul serio. Sullo sfondo di un'Italia colta nei suoi aspetti meno prevedibili, sfila una galleria di personaggi indimenticabili, da Longhi a Parise, da Franca Valeri a Pasolini. Il genio radente di Paolo Poli procede spigliato, non senza qualche lampo di malinconia, sino a fondare in qualche modo un'etica della leggerezza. Non c'è niente di più sincero, in fondo, di un libro scritto vivendo.
A partire dalla sua fondazione, nel 1794, fino a oggi, Odessa ha lottato per sopravvivere tra i due opposti poli del successo e dell'autodistruzione. Come molte altre vivaci città portuali e come molti tessuti urbani multiculturali, essa ha sempre liberato i suoi demoni più vitali, quegli spiritelli che incarnano le muse palpitanti della società metropolitana e i creatori instancabili dell'arte e della letteratura. Spesso, tuttavia, ha lasciato emergere anche i lati più oscuri, quelli che stanno in agguato nei vicoli e bisbigliano parole di odio religioso, invidia di classe e vendetta etnica. Quando tutto andava per il meglio, Odessa era in grado di formare artisti e intellettuali il cui talento seppe illuminare il mondo. Quando invece tutto crollava, il nome della città divenne sinonimo di fanatismo, antisemitismo e bieco nazionalismo. Questo libro segue l'arco della storia di Odessa sin dagli albori della sua esplosione urbanistica, passando dalle tragedie che hanno costellato il XX secolo, fino a quella che si può considerare la sua consacrazione al regno del mito e della leggenda. Intende tracciare la storia attraverso cui generazioni di odessiti, nativi o trapiantati, hanno costruito una città con un assetto unico nel suo genere, un luogo chiamato a diventare il porto più ambito della Russia e la fonte di ispirazione di scrittori come Aleksandr Puskin e Isaak Babel'. La storia della città si intreccia con quella di alcune vite individuali emblematiche...
Tre leggendari pionieri ottocenteschi rivivono fra le pagine dell'originale e struggente mescolanza di fatti e finzione che è "Livelli di vita": Fred Burnaby, colonnello della cavalleria della Guardia Reale inglese e viaggiatore per terre esotiche e inesplorate, la "divina" Sarah Bernhardt, la più grande attrice di tutti i tempi a detta di alcuni, e Félix Tournachon, il caricaturista, vignettista, aeronauta e celebre fotografo ritrattista noto come Nadar. Ad accomunarli, un'incomprimibile passione per il volo, l'impulso sacrilego a issarsi a bordo di una cesta di vimini appesa a un pallone e, affidandosi a un precario equilibrio di pesi e correnti, sganciarsi dal regno che ci è deputato per conquistare lo spazio degli dèi. Una buona metafora per ogni storia d'amore. Quella immaginata fra Burnaby e Sarah Bernhardt, ad esempio - l'aria, l'assenza di vincoli, l'eccentricità, lei; la concretezza, l'avventura, la disciplina, lui. O quella, cinquantennale, fra Nadar e l'afasica moglie Ernestine. Oppure la storia d'amore, durata trent'anni e poi proseguita, fra Julián Barnes e la moglie Pat Kavanagh. Storie in cui "metti insieme due cose che insieme non sono mai state e il mondo cambia", esempi di una "devozione uxoria" che travalica ogni barriera. Volare è esaltante e semidivino, volare è pericoloso. Un calcolo sbagliato, un vento contrario, un disegno avverso, o la casuale assenza di esso, e si può precipitare.
Grazie a Gianni Rodari la letteratura per l'infanzia è stata sottratta al limbo di una produzione minore e restituita, nella sua affascinante complessità, alla storia della letteratura e a quella della pedagogia; il percorso dello scrittore di Omegna non si configura, però, come accomodante itinerario nei luoghi letterari dell'ironia, del paradosso e ancor meno si caratterizza come sentiero tutto interno all'attivismo pedagogico italiano, ma assume via via i segni della contemporaneità, dell'inquietudine, della tensione morale, della coraggiosa protesta civile. L'umorismo dell'assurdo, il gioco della dissacrazione dei luoghi comuni, gli stravolgimenti del linguaggio altro non sono che l'invito reiterato a liberarci dagli schemi, dai pregiudizi, dal conformismo per guardare più lontano; in un momento storico in cui i punti di riferimento morali e civili sembrano smarriti i libri di Rodari ci indicano, anche al di là della felice invenzione e del piacere della lettura, le strade della tolleranza, le vie dell'amicizia sulle quali converrà incamminarci se vogliamo ancora scommettere sul futuro delle nuove generazioni. Edizione speciale per i 40 anni arrichita da contributi inediti
Gli "Altri scritti" raccolgono una serie di testi scritti di pugno da Lacan. Essi fanno seguito agli Scritti che furono pubblicati in Francia nel 1966 e decretarono la vera e propria entrata in scena di questo straordinario pensatore della "Cosa psicoanalitica". I testi qui raccolti da Jacques-Alain Miller continuano l'irradiazione di questo insegnamento. Negli Scritti l'accento era posto sul "come" funziona l'inconscio tramite il suo operatore, ossia il significante. Ed era sintetizzato nell'aforisma "l'inconscio è strutturato come un linguaggio". Negli "Altri scritti" l'accento si sposta sul nucleo che è il cuore pulsante dell'inconscio: il godimento. Si potrebbe sintetizzare questo nuovo punto di prospettiva in un aforisma mai pronunciato da Lacan: "l'inconscio è un apparato di godimento". Godimento che, se è tale per l'inconscio, spesso non lo è per la persona che lo patisce nel sintomo. La quale tuttavia può ritrovarlo nelle diverse sfaccettature che fanno la gioia e la risorsa di quello che Lacan chiama il "parlessere".