
"Conservare una lettera è come cercare di preservare un bacio" diceva John Cheever per esortare parenti e amici a gettare quelle che lui scriveva. E proprio perché convinto che i destinatari gli avrebbero dato ascolto, il Cechov dell'America suburbana ha confidato per lettera pensieri e timori, eventi importanti e cose di tutti i giorni, e lo ha fatto con un candore, una freschezza, un senso dell'umorismo, una verità che non si riscontrano neppure nei diari. Recuperata e riunita dal figlio dello scrittore, la corrispondenza di Cheever può essere considerata a tutti gli effetti un'autobiografia involontaria, e per questo più sincera e incantevole di una normale autobiografia.
L'insieme di questa storia di iniquità e violenza del potere, di dolore e di vergogna delle vittime, conferisce all'umana amministrazione della giustizia, smarrito ogni senso religioso, ogni riferimento ideale alla giustizia superiore di "chi solo sa", un che di orribilmente fragile e precario. L'indignazione, nel Manzoni, non è solo morale, ma comprende una sua partecipazione commossa di fronte alla sorte toccata agli umili, di molti altri dei quali si occupa, assorbiti dalla "favola", impigliati in quella rete di delazioni e invenzioni. Ha scritto Carlo Bo: "L'operetta è un miracolo di logica del male, di qui il doppio piacere della lettura: in effetti il lettore è chiamato a seguire il giuoco tortuoso, seppure trasparente, delle varie soluzioni e dei tanti passaggi e, nello stesso tempo, a prender atto della logica invincibile della corruzione che porta l'ingiustizia gabellata per opera di giustizia". Prefazione di Maurizio Cucchi.
"Non è facile amare Franti, è più facile espellerlo dalla scuola, il maestro di Enrico Bottini lo fa. Niente di straordinario. La scuola è così, perde continuamente ragazzi. È il suo modo di affacciarsi sull'abisso della disuguaglianza e ritrarsi. Ci stiamo ritraendo anche noi, di nuovo, dopo una stagione in cui abbiamo fatto a Franti molte promesse: un mondo che potesse contenerlo, una scuola che lo inglobasse dandogli un'istruzione di qualità elevata, una comunità che mettesse a frutto la sua infrazione per vedersi e criticarsi. All'intelligenza diffusa e insoddisfatta che noi stessi abbiamo allevato, spesso malamente, reagiamo come in Cuore: quando essa non si lascia abbracciare, la allontaniamo impauriti e disorientati. Con la differenza che De Amicis, dopo lo sforzo di combinare una macchina narrativa che avesse una qualche coerenza di fronte alla disuguaglianza e allo sfruttamento, scavalcò i Bottini e si fece socialista a suo modo, onestamente, nel 1891. Noi invece, che ormai non sappiamo offrire altro ai diseredati del pianeta se non l'ingerenza del manesco Garrone o una solidarietà elemosinante e piena di tatto, sembriamo tornare ai Bottini. L'infrazione Franti ci appare ingovernabile, come ai Padri e ai Figli di Cuore." (dall'Introduzione di Domenico Starnone)
Un uomo che per vivere ha bisogno di riflettersi nella percezione altrui un giorno si trova d'improvviso di fronte un sosia, come fosse il suo riflesso nello specchio, e non si capisce se sia un'allucinazione schizofrenica o una realtà inquietante. Prefazione di Olga Belkina.
"La tragedia greca ha saputo articolare, a più riprese e con implicazioni differenti, il linguaggio della sofferenza e la rappresentazione di corpi umani stretti dalla morsa del dolore, feriti e piagati fino agli estremi limiti della sopportazione. Meno consueta è la rappresentazione diretta di un corpo divino che, nell'impossibilità di agire, occupa lo spazio con l'ostensione di una pena indicibile e inaggirabile. Il criminale è Prometeo, riconosciuto colpevole da Zeus, considerato un nemico dagli altri dei che si raccolgono intorno al trono olimpico del figlio di Crono. La partita si gioca crudamente tra pari, tra soggetti che appartengono ad una stessa dimensione. La società divina, nella persona del suo re, espelle e condanna un suo membro che ha rotto gli equilibri, che ha infranto un ordine e un patto di governo. Prometeo ha commesso un torto dispensando onori e privilegi che erano un possesso celeste. Ha rubato il fuoco per darlo agli uomini. Ma la crisi che tale iniziativa innesca non si misura a partire dai soggetti mortali che vengono beneficati: gli uomini restano, essenzialmente, fuori campo e fuori scena. Il dramma si muove in una sfera superiore: il teatro degli dei è un teatro di signori che disputano, fra loro, per il potere e la supremazia, che regolano i loro conti con la ferocia dei gesti e delle maledizioni, che rispondono alla violenza con la violenza per assicurarsi il regno." (dall'introduzione)
"Storia di una capinera" è il primo romanzo di Verga. Pubblicato nel 1871 e scritto due anni prima, tramite una forma epistolare dominata alla perfezione ci tuffa nel cuore pulsante di un'anima prigioniera. Maria, una ragazza costretta dal padre a chiudersi in convento in assenza di qualsiasi vocazione, trova il modo durante una fugace vacanza in campagna di intrattenere con l'amica Marianna una corrispondenza che diviene per lei l'unico modo di dar sfogo ai suoi molti turbamenti. Respirando finalmente un'aria non compressa all'interno delle mura del convento, Maria scopre l'esistenza di un mondo più ampio, più inebriante, più vivo. E, soprattutto, scopre l'esistenza e l'essenza dell'amore, un sentimento che, costretto a nuotare controcorrente, la sconvolgerà per sempre. Prefazione di Federico De Roberto.
Sarah si è trasferita ad Amber House, l'antica tenuta di famiglia in cui riecheggiano ricordi spettrali del passato. Un passato in cui qualcosa è andato storto, le cui stonature risuonano con forza nel presente: i coloni non hanno conquistato l'indipendenza nel 1776, l'America è diventata una società razzista e arretrata, i nazisti hanno vinto la guerra e conquistato gran parte del mondo. Tormentata dalle visioni di un passato alternativo, Sarah cerca di ambientarsi nella nuova casa: aiuta i genitori nell'allestimento di un'importante mostra, flirta con l'affascinante Richard Hathaway e fa nuovamente amicizia con Jackson, compagno di giochi della sua infanzia. Ma quando gli eventi intorno a lei arriveranno a minacciare chi le sta a cuore, dovrà chiedere aiuto alle persone più vicine per una scelta che metterà di nuovo in gioco la sua vita e il corso del tempo. Età di lettura: da 13 anni.
Un'offesa è come un ceffone in pieno viso, uno schiaffo per l'anima. Colpisce direttamente la nostra autostima. Ci sentiamo insultati, sottovalutati e incompresi. A volte ci rinchiudiamo in noi stessi con la sensazione di essere vittime di ingiustizie o fraintendimenti, a volte ci scateniamo in discussioni accese e inconcludenti. Normalmente, infatti, le emozioni come l'umiliazione, il rancore, l'indignazione, la collera distruttiva e la disperazione provocano solo un inasprimento del conflitto, la rottura del rapporto e uno stato di solitudine e discordia, ma non servono mai a trovare una soluzione. La nota psicoterapeuta tedesca Bärbel Wardetzki dimostra che non siamo impotenti di fronte a situazioni di questo genere, perché dipende in gran parte da noi cosa consideriamo un'offesa e in che misura ci sentiamo feriti. Più siamo consapevoli di cosa ci offende, di quali nuove ferite riaprono le vecchie e di quali possibilità abbiamo per difenderci, e meno soffriremo a causa delle critiche. Come cadiamo nelle trappole dell'offesa, e come possiamo uscirne? Che cosa ci spinge a sminuire il prossimo? Affrontando il problema dal punto di vista dell'offeso, ma anche di chi offende, troveremo le risposte essenziali per far fronte ai perversi meccanismi che si innescano.
Che cos'è per l'essere umano il tempo? Qual è il significato che assume nelle nostre vite? Quanto è rilevante nella definizione delle identità e delle esperienze di ciascuno? Il tempo sta in rapporto con la finitudine, caratteristica della mortalità, e insieme con l'infinito, ma anche con le emozioni, quali il dolore e la gioia. La vita non sarebbe tale se non fosse cadenzata dal passare delle ore, delle stagioni, delle età e di quel tempo più personale che non può venire misurato con esattezza, ma che contribuisce a definire l'esperienza della vita stessa. Il soggetto non sarebbe insomma tale in assenza di una traiettoria temporale. Il tempo non casualmente rappresenta un tema ricorrente in letteratura e in filosofia, e ha una grande importanza pure nella psicopatologia e nella cura. Nel suo trascorrere condiziona la vita quotidiana, così come colora le esperienze mistiche che lo trascendono. È elemento costitutivo dell'identità e permea la coscienza e l'esistenza di ciascuno. Nel sondare le profondità dell'animo non si possono dunque trascurare il tempo e l'esperienza diversa che ognuno ne fa. Può trattarsi di volta in volta di un tempo sospeso, come nel sogno, o frammentato, come nella memoria lacerata di chi soffre di malattie quali l'Alzheimer; può essere il tempo della noia, per chi si sente paralizzato nel presente, o quello della nostalgia di chi volge lo sguardo al passato, o ancora dell'attesa di chi guarda avanti, al futuro.
La sera del 5 dicembre 1943, il giovane pianista Arturo Benedetti Michelangeli suona al Teatro La Fenice di Venezia. In quelle stesse ore, polizia, carabinieri e volontari del ricostituito Partito fascista - i carnefici italiani - compiono in città una delle maggiori retate di ebrei nella penisola dopo quella condotta dai tedeschi a Roma il 16 ottobre. Sulla base del censimento della popolazione di "razza ebraica" condotto a partire dal 1938, oltre centocinquanta tra uomini, donne, vecchi e bambini vengono stanati dalle loro case e tradotti alle locali carceri. Nei giorni successivi i loro beni vengono sequestrati, gli appartamenti sigillati o destinati ad altri italiani. I prigionieri saranno poi trasferiti a Fossoli di Carpi, il principale campo di transito degli ebrei nella Repubblica sociale, gestito da forze italiane. Qui saranno detenuti in condizioni precarie e, quindi, caricati su vagoni piombati - dopo la consegna in mani tedesche - su cui verranno condotti alla morte nel campo di sterminio di Auschwitz. Questi eventi si ripeterono in modo analogo, tra l'autunno del 1943 e la primavera del 1945, nelle principali città e in una miriade di piccoli paesi del centro-nord della penisola italiana. Perché si tende ancora a rimuovere il ricordo di queste vicende, mentre prevale quello dei "salvatori" e dei "giusti"? Perché raramente si ricorda che almeno metà degli arresti di ebrei fu condotta da italiani, senza ordini o diretta partecipazione dei tedeschi?