
«Il senso che la Chiesa, e l'appartenenza ad essa, riveste per il credente in Cristo, per il suo essere uomo e la sua salvezza è tutt'altro che scontato: verrebbe anzi da dire che è sempre meno scontato. Quale sia il motivo per cui, in altri termini, la salvezza si realizzi - pur in modo incipiente - in forma ecclesiale e perché il credere del cristiano sia strutturalmente un con-credere rimane quasi sempre questione inevasa. [...] La visione ecclesiologica di de Lubac resta a tutt'oggi, tra gli studi occidentali, una delle poche all'altezza di una tale fondamentale questione. Ciò è evidente quando si leggano i testi a carattere ecclesiologico del teologo di Lione in raffronto con gli altri suoi studi, soprattutto quelli sul soprannaturale: cosa assolutamente legittima e forse doverosa dal momento che, come ha notato un autorevole commentatore come Balthasar, in Cattolicismo c'era già in nuce tutto quanto si sarebbe sviluppato nella monumentale opera di de Lubac. In un tale orizzonte appare infatti evidente come esista, per così dire, un "aspetto sociale del soprannaturale": tanto più visibile quanto più si passi da una sua considerazione in termini formali a una sua lettura che ne rifletta la concretezza cristologica. L'uomo è creato non solo in una generica immagine di Dio, ma porta impressa in sé l'immagine del Figlio fatto uomo, dell'Unigenito che si è fatto il "primogenito di molti fratelli" (Rm 8,29): per questo non esiste altra vocazione umana che non sia quella alla filiazione divina e, dunque, alla fraternità con gli altri uomini. Il senso per il quale la Chiesa sia la forma incipiente della salvezza è rinvenibile quando si consideri che non esiste uomo se non in Cristo e, dunque, vocato alla filiazione divina e alla fraternità inter-umana. Per l'uomo essere è partecipare dell'essere di Cristo e dunque, co-essere con gli altri uomini, suoi fratelli. Si tratta di dimensioni fondamentali e in certo senso previe a qualunque altra riflessione ecclesiologica, su cui l'opera delubachiana può ancora beneficamente indirizzare». (Dall'Introduzione di Roberto Repole alla Sezione terza dell'Opera Omnia)
«Il senso che la Chiesa, e l'appartenenza ad essa, riveste per il credente in Cristo, per il suo essere uomo e la sua salvezza è tutt'altro che scontato: verrebbe anzi da dire che è sempre meno scontato. Quale sia il motivo per cui, in altri termini, la salvezza si realizzi - pur in modo incipiente - in forma ecclesiale e perché il credere del cristiano sia strutturalmente un con-credere rimane quasi sempre questione inevasa. La visione ecclesiologica di de Lubac resta a tutt'oggi, tra gli studi occidentali, una delle poche all'altezza di una tale fondamentale questione. Ciò è evidente quando si leggano i testi a carattere ecclesiologico del teologo di Lione in raffronto con gli altri suoi studi, soprattutto quelli sul soprannaturale: cosa assolutamente legittima e forse doverosa dal momento che, come ha notato un autorevole commentatore come Balthasar, in 'Cattolicismo' c'era già in nuce tutto quanto si sarebbe sviluppato nella monumentale opera di de Lubac. In un tale orizzonte appare infatti evidente come esista, per così dire, un 'aspetto sociale del soprannaturale': tanto più visibile quanto più si passi da una sua considerazione in termini formali a una sua lettura che ne rifletta la concretezza cristologica. L'uomo è creato non solo in una generica immagine di Dio, ma porta impressa in sé l'immagine del Figlio fatto uomo, dell'Unigenito che si è fatto il 'primogenito di molti fratelli' (Rm 8,29): per questo non esiste altra vocazione umana che non sia quella alla filiazione divina e, dunque, alla fraternità con gli altri uomini. Il senso per il quale la Chiesa sia la forma incipiente della salvezza è rinvenibile quando si consideri che non esiste uomo se non in Cristo e, dunque, vocato alla filiazione divina e alla fraternità inter-umana. Per l'uomo essere è partecipare dell'essere di Cristo e dunque, co-essere con gli altri uomini, suoi fratelli. Si tratta di dimensioni fondamentali e in certo senso previe a qualunque altra riflessione ecclesiologica, su cui l'opera delubachiana può ancora beneficamente indirizzare.» (dall'introduzione di Roberto Repole)
La posizione filosofica di Ricoeur ormai non costituisce più una novità. Questo libro si sofferma sul suo contributo all'elaborazione di una filosofia dell'azione e quindi di un'etica radicata nella storia, saldamente fondata sullo statuto ontologico della persona umana. Tale aspetto del suo impegno speculativo è tanto più attuale ed importante in quanto ha preso forma in un momento in cui sembrava che la riflessione sull'azione e quindi sui valori dovesse diventare un capitolo non più della riflessione filosofica, ma della ricerca sociologica o psicologica. È appunto in quest'ordine di considerazioni che risiede l'interesse della presente opera. Nel suo aspetto più immediato può sembrare centrata esclusivamente sul confronto tra l'analisi linguistica e la fenomenologia. Tuttavia non si limita a definire i termini di questo confronto; delinea piuttosto un itinerario di ricerca che percorre i momenti speculativamente più rilevanti di una fenomenologia della volontà che, pur costituendo il presupposto dell'analisi linguistica, non ha tuttavia in se stessa la ragione ultima del proprio essere. Perciò perviene al riconoscimento dell'esigenza di una fondazione originaria, rispetto alla quale il discorso dell'azione, da descrittivo ed analitico, si trasforma in costitutivo e dialettico, cioè in discorso dell'azione sensata, in etica.
Eloisa e Abelardo: una coppia indimenticabile vissuta nel secolo di Tristano e Isotta. La loro storia, che ha conosciuto travisamenti e misconoscimenti, è qui ricostruita con rigore attraverso la suggestiva lettura del loro epistolario, in grado di mostrare i due volti dell'umanità medievale: un confronto tra passione e filosofia, fede e ragione, vissuto in una «dialettica di coppia» la cui tensione e densità restano fuori del comune e perciò altamente emblematiche. Lo stile vivace di Régine Pernoud assume come sfondo il secolo XII, caratterizzato da un clima di febbrile ripresa degli studi e da ideali di riforma monastico-religiosa. E inoltre la stagione dell'amor cortese, degli scontri fra eresia e ortodossia, quando l'arte romanica ormai pienamente sviluppata cede il passo ai primi tentativi di «architettura ragionata». Il desiderio di assoluto si snebbia e si umanizza, fornendo le strutture per le grandi somme teologiche della Scolastica. L'amore fra Eloisa e Abelardo è dunque la storia di due amanti che la vita separa e spinge verso una prospettiva di rinuncia. Ma anche dalla privazione l'amore, in un alternarsi di luci e ombre, finisce per trionfare conducendo alla santità.
La religiosità, intesa come carattere costitutivo del soggetto che, nella prospettiva di Ries, è da sempre homo religiosus, si incarna storicamente in un sistema narrativo-concettuale e in un insieme di riti e pratiche a cui diamo il nome di religione. Il volume, studiando la religione in relazione ad altri ambiti dell’esperienza umana (l’istituzione, il potere, la magia, l’arte, la fede), prova a riflettere sulla tensione interna che la caratterizza: se da un lato la religione può essere pensata e vissuta come feconda casa del religioso, dall’altro essa incorre sempre nel rischio di trasformarsi in strumento di dominio o, al limite, di corruzione del religioso stesso.
Il Commento al Vangelo di Giovanni è senza dubbio l’opera maggiore della von Speyr. Senza pretese specialistiche, ma con la sapienza di chi è abituato a lasciarsi prendere dalla parola, ella espone il Vangelo parola per parola per sottomettervisi, non per dominarlo. “Quando Dio Padre, Figlio, Spirito Santo abita un cielo che Lui solo conosce, allora l’amore e l’ordine sono una cosa sola, non c’è possibilità di distinguerli perché l’amore è ordine e l’ordine amore. Ognuna delle tre persone della Trinità ama gli altri a partire da un ordinato amore divino”. Sulla terra l’ordine e l’amore sono rappresentati da Pietro e Giovanni, dall’istituzione e dal carisma; essi devono perciò essere uniti in analogia all’unità che hanno in Dio, perché la chiesa sia veramente cattolica, aperta a tutti.
A un tempo Anna Crespi ha coltivato quel senso della solitudine che permette la visione delle cose e dei propri simili. Nelle sue epifanie scorre davanti al lettore la «Commedia umana», una visione capace di durezza; la tragedia resta tragedia, lo scandalo resta scandalo, e al contempo una visione che coglie la vita, la bellezza, l’incomparabile. Il tutto non senza ironia. Pensieri, fotogrammi, haiku, su cose, scene, figure, che divengono Epifanie da condividere con chi si accosta a tanta pregnanza intima, che non dimentica mai il quotidiano e il contesto, anche mondiale. E poi tanta musica.
La storia delle religioni mostra che homo sapiens è homo religiosus: radicato nella storia egli assume uno specifico modo d’esistenza e la sua vita è centrata sul sacro. Ed è proprio attraverso i riti di iniziazione che egli si introduce al sacro, vi entra. Il rito è un atto simbolico riferito all’uomo come singolo e come parte di una società. E’ inseparabile dal corpo e dal comportamento e le diverse civiltà, pur avendo nel corso della loro storia coniugato diversamente questi elementi, ne hanno pur sempre mostrato la funzione perenne di rivelatori di verità sull’esistenza. La ricerca che ha dato corpo a questo volume esamina dalla ritualità cinese all’iniziazione in Africa, da Eleusi all’Islam, dall’universo rituale ebraico a quello cristiano, mostrando come i riti di iniziazione costituiscano un elemento essenziale dell’esperienza religiosa.
La nascita di Cristo ha sconvolto la storia dell'umanità con l'idea che un Dio, nel pensiero delle grandi religioni trascendente e diverso, può diventare un uomo come gli altri. La teologia e l'arte, la liturgia e la pietà hanno dato ampio spazio al dogma cardine del cristianesimo. A un mondo che a tutte le latitudini celebra ormai il Natale come una festa di cui spesso dimentica, o addirittura ignora, il significato originario, si contrappone il plurisecolare discorso per immagini dell'arte cristiana. Il volume riflette sul tema spaziando tra la solenne iconografia degli Orienti cristiani e i capolavori dell'Occidente. La più antica immagine raffigurata risale al iv secolo e la più recente al 1975. Ogni opera è riprodotta a piena pagina, arricchita da un commento descrittivo, che valorizza il contesto storico, le risorse dell'esegesi e i commenti patristici, oltre alla storia dell'arte e della teologia. I due autori, un'equipe consolidata sui rispettivi temi e che collabora su svariati progetti, si sono impegnati per rendere la scoperta sulla natività di Cristo nell'arte un affascinante viaggio tra estetica e teologia.
Il ruolo della mistica nella storia: l'opera magistrale del grande filosofo e storico francese.
Quest’opera è considerata da molti il capolavoro di Michel de Certeau. Essa racconta l’irruzione nella storia della parola mistica come esperienza di marginalità, esclusione e rinuncia.
Un’esperienza che si svolge in luoghi in cui perdersi, attraverso parole o scene di enunciazione che sperimentano nuovi linguaggi: da Eckhart a Silesius, da Teresa d’Avila a Giovanni della Croce o Surin, tutto un corteo luminoso di donne, folli, illetterati, eremiti oscilla fatalmente tra obbedienza e rivolta, ortodossia ed eresia, sapere istituito e nuovi ordini del conoscere.
Critica letteraria e psicoanalisi, semiotica e filologia, analisi sociale e indagine politica, contribuiscono a disegnare un percorso che abbandona (ma non trascura) i confini della teologia e si lascia contaminare da strumenti critici apparentemente estranei o inadeguati.
Ed è proprio la sorvegliata e rigorosa contaminazione tra discipline a costituire il tratto caratteristico dell’opera dello storico, come pure il suo lascito fecondo: assumere l’«altrove» come griglia ermeneutica o il «desiderio» come impossibile che muove la storia, significa mettere in discussione ogni teoria o pragmatica della comunicazione e lasciare che a parlare sia un linguaggio perforato, interdetto, opaco, sempre bisognoso di traduzione ma anche sempre più ricco di qualunque sistema.
Se nelle parole dei mistici si occulta «il lutto che le separa da quanto mostrano» non sarà possibile smettere di percorrerne i tracciati, lasciandosi letteralmente «alterare» da quanto producono. La nostalgia di un’inafferrabile origine attraversa Fabula Mistica per contestare l’utopia della trasparenza e della pienezza di un sapere che occupa la scena con la pretesa di ricapitolare ogni suo movimento.
Ma altre scene, altri teatri, altre narrazioni si sono insinuate nei secoli XVI e XVII e, più o meno consapevolmente, hanno inaugurato il nostro tempo. Michel de Certeau – passante dei saperi – non intende captare alcun segreto, ma prova ad osservare tali scene con lo sguardo di chi cerca il loro punto di fuga, vale a dire l’impossibile «da cui ci sviano verso un assoluto».