
All’inizio degli anni Settanta nasce un movimento ribelle. Sono giovani contestatori dai capelli lunghi e dagli abiti irriverenti. Solo che alle piazze preferiscono le montagne e cercano in parete il loro altrove e un diverso rapporto con la vita e con la natura. Li chiamano i ragazzi del Nuovo Mattino e questa è lo loro storia, utopistica e tragica. Nei primi anni Settanta, tra Torino e il Gran Paradiso, le montagne cominciano a popolarsi di personaggi strani, lontani anni luce dalle figure tradizionali dell’alpinismo classico. Questi nuovi arrampicatori disprezzano il mito eroico dello scalatore duro e puro, il rito della vetta a ogni costo, della ‘lotta con l’Alpe’. Nel piccolo mondo dell’alpinismo è una frattura epocale che porta alla nascita di un vero e proprio un movimento ribelle, il Nuovo Mattino, che deriva dal 1968 i riferimenti culturali. Lo guida il torinese Gian Piero Motti, giovane colto e geniale, ottimo scalatore e autore di articoli forti. I contestatori cercano in parete il loro altrove, una verità complementare ma non conflittuale con l’esperienza urbana. Rifiutano i pantaloni alla zuava e li sostituiscono con jeans e maglietta. Aprono vie dai nomi simbolici: Itaca nel sole, Lungo cammino dei Comanches, La via della Rivoluzione. Ispirati dal mito dell’arrampicata californiana, trovano splendide pareti di gneiss a pochi minuti dalla strada della Valle dell’Orco e volando di fantasia le chiamano Caporal e Sergent, in risposta al leggendario Capitan della Yosemite Valley. Ma tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento gli eventi mettono brutalmente fine al rinascimento della scalata italiana. Era inevitabile? Perché è successo? Le storie di questo libro raccontano il passaggio dall’utopia del Nuovo Mattino alla materialità delle prestazioni sportive, dall’incertezza del sogno alle sirene del mercato. Disegnano la metafora della società italiana e di quello che siamo oggi. Nell’anniversario del 1968 spiegano la fine di un’epoca e ne abbozzano una nuova, più arrendevole e disincantata.
Noi siamo un solo pianeta, una sola umanità. Quali che siano gli ostacoli, e quale che sia la loro apparente enormità, la conoscenza reciproca e la fusione di orizzonti rimangono lavia maestra per arrivare alla convivenza pacifica e vantaggiosa per tutti, collaborativa e solidale. Non ci sono alternative praticabili. La ‘crisi migratoria’ ci rivela l’attuale stato del mondo, il destino che abbiamo in comune. Abbiamo eletto gli stranieri a causa di tutti i nostri mali. In realtà il nostro senso crescente di precarietà e paura dipende dalla incapacità di governare l’enorme forza dei processi di globalizzazione.
Le possenti mura di Costantinopoli hanno arginato per secoli le ondate di nemici che insidiavano l’Europa cristiana. Le armate dell’impero romano d’Oriente si erano trasformate nello scudo di Cristo: questa è la storia della loro lunga lotta, fino alla vittoria. L’impero romano d’Oriente visse suo malgrado per oltre mille anni in uno stato di guerra continua. La sua capitale Costantinopoli, la splendida ‘regina delle città’, non smise mai di attirare conquistatori avidi di preda dai quattro angoli del mondo: Goti, Unni, Slavi, Avari, Persiani, Arabi, Bulgari… L’impero, spesso sull’orlo della disfatta, riuscì sempre a trovare la forza necessaria per rialzarsi dopo le sconfitte. Aveva ereditato da Roma antica uno dei più potenti eserciti della storia: attraverso molti cambiamenti organizzativi, strategici e tattici, fu comunque in grado di mettere in campo armate capaci di respingere le continue invasioni. Il libro ripercorre i primi turbinosi secoli di questa storia, dalla disfatta di Adrianopoli del 378, che costrinse Teodosio I a riformare l’intero sistema difensivo imperiale, fino alle vittorie sugli Arabi e sui Bulgari, che nel IX secolo restituirono alla Nuova Roma uno spazio di dominio nei Balcani e in tutto il Mediterraneo orientale. Vengono analizzate sia la strategia dell’impero che le tattiche di combattimento, spesso all’avanguardia, delle sue armate, nonché la loro organizzazione, legata ad aspetti cruciali della vita sociale ed economica dello Stato. Al riparo dello scudo bizantino ebbe modo di prosperare e svilupparsi l’Europa latina: che però non riconobbe mai ai fratelli d’oriente il merito di aver difeso con il proprio sangue la pace di tutta la Cristianità.
Nove storie vere – tra hacking di Stato, spionaggio, ricercatori a caccia di software malevoli, gruppi parastatali o schiettamente criminali, persone comuni e inconsapevoli coinvolte – che ci raccontano come la Rete si stia trasformando in un vero e proprio campo di battaglia.
La fotografia densa di un presente inquietante e contraddittorio che potrebbe trasformarsi a breve in un futuro distopico.
Dai retroscena sulla prima ‘arma digitale’ usata da hacker al soldo dei governi per sabotare un impianto industriale ai ricercatori di cyber-sicurezza finiti al centro di intrighi internazionali degni di James Bond; dai virus informatici usati per le estorsioni di massa fino al mercato sotterraneo dei dati personali degli utenti. Guerre di Rete racconta come Internet stia diventando sempre di più un luogo nel quale governi, agenzie, broker di attacchi informatici e cyber-criminali ora si contrappongono, ora si rimescolano in uno sfuggente gioco delle parti. A farne le spese sono soprattutto gli utenti normali – anche quelli che dicono «non ho nulla da nascondere» –, carne da cannone di un crescente scenario di (in)sicurezza informatica dove ai primi virus artigianali si sono sostituite articolate filiere cyber-criminali in continua ricerca di modelli di business e vittime da spolpare.In questo contesto emergono costantemente nuove domande. La crittografia è davvero un problema per l’antiterrorismo? Quali sono le frontiere della sorveglianza statale? Esiste davvero una contrapposizione tra privacy e sicurezza?
Carola Frediani scava in alcune delle storie più significative di questo mondo nascosto, intervistando ricercatori, attivisti, hacker, cyber-criminali, incontrandoli nei loro raduni fisici e nelle loro chat.
Dal Trattato di Versailles al Piano Marshall, la gestione del debito ha rappresentato da sempre uno dei motori fondamentali della politica europea. Sergio Romano, osservatore d’eccezione, ce ne mostra tutta la complessità nell’ultimo secolo e mezzo, evidenziando le interdipendenze tra i Paesi, l’importanza della fiducia reciproca per avviare la ripresa e che cosa abbiamo da imparare dalla nostra storia recente per costruire un futuro migliore. Col Trattato di Versailles, al termine della Grande guerra, la Germania è condannata a pagare in trent’anni 132 miliardi di marchi d’oro. Le conseguenze della miopia dei vincitori emergono presto: una Germania frustrata e indignata diventa il vivaio ideale per la nascita del nazismo. Dopo la Seconda guerra mondiale tutto cambia: il Piano Marshall finanzia la ricostruzione europea e, più tardi, nella conferenza di Londra del ’53, i Paesi creditori decidono di cancellare metà del debito tedesco. Ma non esistono solo i debiti di guerra, ci sono anche quelli contratti in tempo di pace. L’Europa degli anni più recenti ha affrontato la questione senza riuscire a dimostrare unità. Il caso del debito greco esplode nel 2009, seguito da una crisi di rapporti greco-tedeschi: la Grecia accusa la Germania di non aver onorato i debiti contratti con la guerra, mentre i tedeschi accusano la Grecia di aver truccato i conti. L’Unione vacilla sotto il peso della crisi. Oggi, per capire le polarizzazioni e i contrasti sulle politiche dell’austerità è fondamentale isolare gli snodi storici che hanno definito i rapporti tra creditori e debitori in Europa. È quello che fa Sergio Romano attraverso gli ultimi centocinquant’anni, sottolineando come la fiducia reciproca tra i popoli abbia svolto una funzione fondamentale per superare i momenti di difficoltà e avviare la ripresa.
I personaggi della Bibbia si affannano e lavorano, s'innamorano e combattono, mentono e tradiscono, uccidono e vengono uccisi, desiderano e sognano, mangiano e si emozionano: sono, dunque, come gli uomini e le donne di ogni tempo e di ogni luogo, di ieri e di oggi, chiamati a fare i conti con la fragilità dell'essere umani. Questa è la chiave di lettura con cui Brunetto Salvarani ci presenta alcune figure del libro sacro agli ebrei e ai cristiani. Nelle sue pagine incontreremo la paradossale riluttanza del profeta Giona, le fatiche di Noè, l'ansia febbrile del patriarca Giacobbe, la solitudine ferita di Giobbe, lo sguardo perso nel vuoto di Qohelet/Salomone, le delusioni a ripetizione di Gesù e i tormenti dei primi cristiani. In un percorso che mescola l'antica sapienza della Bibbia e la nostra odierna condizione esistenziale, guarderemo alla Sacra Scrittura come un lungo, lento e faticoso esercizio a riconciliare l'umanità con la propria debolezza, la propria finitezza, le proprie cicatrici. Senza scansarle. Senza trovare rifugio in universi consolatori, in comodi ma improbabili Dio-tappabuchi, cercando di accettare i nostri limiti.
Perché in Italia è così difficile essere onesti? Un pamphlet graffiante contro un sistema giudiziario farraginoso, le infinite rigidità burocratiche e amministrative, lo scriteriato ricorso ai condoni, la mancanza di sanzioni efficaci e dissuasive per chi trasgredisce le regole.
Una donna antica che anticipa il futuro.
«Sono Giulia Agrippina Augusta e ho raggiunto il quarantesimo anno di età. Ho imparato molto da mia madre, ma disgrazie innumerevoli mi hanno indotto ad agire con meno testardaggine, imitando la diplomazia in cui mio padre eccelleva. L’arte più importante è quella che insegna a vivere. Si ottiene una vita di potere solo imparando a usare gli uomini come mezzi. Il fuoco che nel cuore arde, fatto di pulsioni e debolezze, va nascosto nel ghiaccio. Una passione genuflessa al rigore delle regole di corte mi ha recato ormai un dominio indiscusso, nonostante le resistenze di chi a me tutto deve: mio figlio Nerone.»
«Fisicamente, Roma non è diventata né una grande capitale come Parigi o Londra, né una megalopoli come Rio de Janeiro o il Cairo. È una via di mezzo tra le due cose e ha i difetti così della megalopoli come della capitale senza averne i pregi... L’Italia non si è espressa a Roma; vi si è invece trovata repressa.» Alberto Moravia
Nel 1975 alcuni tra i maggiori scrittori italiani – romani e non – raccontarono i difetti della capitale in un libro di straordinaria efficacia, intitolato Contro Roma.Abbiamo pensato di riproporre alcuni di quei testi e chiedere ancora una volta a degli scrittori di guardare e raccontare Roma.Ne emerge un ritratto illuminante della città, di ieri e di oggi, composto di realtà e di stereotipi.
Chi sono i banditi? Criminali comuni, assassini, ladri, disperati. E ancora: nobili decaduti, artigiani, contadini, giovani ribelli che non accettano il giogo attorno al collo, sia quando viene da un aristocratico del luogo sia quando arriva da un invasore straniero. La loro presenza causa incertezza nelle strade, difficoltà nelle comunicazioni, violenza diffusa. E tuttavia, quando c'è aria di mutamenti di regime essi rappresentano un'opportunità per i potenti che li utilizzano contro i propri nemici. Il libro offre un ampio affresco della reazione ai fenomeni di banditismo dagli albori dell'età moderna fino alla repressione messa in atto nei primi decenni dell'Italia Unita. Emerge un quadro complesso che vede al centro questioni sociali legate alla terra. La lotta del regno sabaudo contro il brigantaggio propriamente detto è quindi solo l'ultimo capitolo di una secolare storia di sanguinose repressioni, in cui i poteri statali che si sono via via avvicendati non sono stati in grado di trovare altra risposta che non fosse il sangue. Certo, è soprattutto in uno stato che si definisce liberale che colpisce la delega assoluta concessa ai militari che governano con leggi eccezionali, stati d'assedio e tribunali militari. Ma Enzo Ciconte ci ricorda che quanto è accaduto nel Mezzogiorno non può essere attribuito alla responsabilità dei soli piemontesi: le truppe venute dal Nord sono state aiutate con le armi da tanti meridionali espressione di una borghesia in ascesa.