La storia della sinistra italiana è anche una storia di famiglia. È il caso della famiglia Foa, dai nonni al padre Vittorio e alla madre Lisa, fino ai figli Anna, Renzo e Bettina. Una famiglia in cui la passione politica e l'impegno civile si sono intrecciati così fortemente con lo svolgimento della vita quotidiana da educare e governare anche le relazioni, i sentimenti. Si aprono vecchie scatole con dentro foto e carte di famiglia: un trasloco può far riemergere il passato di tante vite. È quello che è successo ad Anna Foa. Storie di bisnonni, prozii e cugini, fino a quelle dei genitori, Vittorio e Lisa, ricordi a lungo accantonati. Avvocati mazziniani e 'internazionalisti', 'suffragette' e rabbini lasciano il passo ai primi socialisti, agli antifascisti di Giustizia e Libertà, ai comunisti. Come sfogliando un vecchio album, vediamo rievocati il fascismo, il carcere, la Resistenza, la Shoah, il dopoguerra, il 1968, gli anni di piombo, l'impegno di Lisa in Lotta Continua, il suo anticonformismo, la lunga saggia vecchiaia di Vittorio. Come in ogni storia di famiglia, le case sono centrali: le stanze delle case di vacanza, quelle dei nonni disperse per la Penisola, quelle dei genitori frequentate da amici d'eccezione. E poi il racconto dei luoghi e le città: Torino, la Valle d'Aosta, Roma, ma anche la Spagna della guerra civile, il Vietnam, l'Africa, la Cina. Quella che si viene a comporre, pagina dopo pagina, è una storia 'intima' della sinistra italiana. I libri che si leggevano, le percezioni politiche, il modo in cui il mondo esterno veniva filtrato da quello familiare. È anche la storia della fine di un'illusione, quella del comunismo, della sua lenta fine. Una storia familiare e autobiografica aperta a tutte quelle remissioni della memoria e a quelle percezioni personali che la rendono dichiaratamente parziale e non definitiva. Un esperimento storiografico condotto "sul vivo" per riscoprire le passioni del Novecento.
Nessuno è più efficace di Mariana Mazzucato nel produrre gli strumenti che servono a vincere una battaglia di idee.
“The Guardian”
Crollo del Pil mondiale, blocco delle merci e degli scambi, infinite moltitudini precipitate in povertà e senza più un lavoro. Questo è l’effetto della pandemia di Covid-19 da un punto di vista economico. Possiamo uscirne in tempi rapidi? E come? Dobbiamo non solo sperare di tornare quanto prima alla ‘normalità’, ma riuscire a trasformare questa crisi in una opportunità per ripensare il nostro modello di sviluppo. Mariana Mazzucato, una degli economisti più autorevoli e influenti del nostro tempo, ci mostra come l’alternativa non solo è possibile ma quanto mai indispensabile.
La sfida cui i governi di tutto il mondo si trovano davanti è enorme: la necessità di attuare misure di sostegno al reddito dei cittadini e di aiuti alle aziende in difficoltà, il rafforzamento delle prestazioni sanitarie dirette agli utenti, un livello di collaborazione senza precedenti fra le nazioni, dalla corsa al vaccino alla gestione dei tamponi e del tracciamento dei contagi. Purtroppo, nell’ultimo mezzo secolo, il messaggio politico prevalente in molti paesi è stato che i governi non possono – e quindi in sostanza non devono – governare. Da tempo politici, dirigenti di imprese ed esperti si lasciano guidare da un’ideologia che si concentra ossessivamente su misure statiche di efficienza per giustificare i tagli alla spesa, le privatizzazioni e le esternalizzazioni. Ecco la ragione per cui i governi hanno ora a disposizione un numero di strumenti più limitato per rispondere alla crisi. Ed è proprio questa la lezione del Covid-19: la capacità di uno Stato di gestire una crisi di grande portata dipende da quanto ha investito nella capacità di governare, fare e gestire, cioè di dare forma a mercati che producano una crescita sostenibile e inclusiva, finalizzata all’interesse pubblico.
Un classico della cultura giuridica che ha fatto dire a Norberto Bobbio: «Finalmente esiste in Italia (dico in Italia, ma potrei dire sulla faccia della terra) una storia della filosofia del diritto, non angustamente scolastica, non puramente nozionistica e per di più completa». Il lettore vi troverà un panorama rapido, ma chiaramente delineato, della storia della filosofia del diritto occidentale; il ricercatore potrà farne il punto di partenza di una ricerca approfondita. Carla Faralli, allieva di Fassò, ha curato quest'edizione aggiornandola fino ai giorni nostri.
Molti fatti drammatici della storia recente - guerre, catastrofi naturali, rivoluzioni- sono stati documentati da inchieste, fotografie, libri. In passato il racconto sembrava avere una straordinaria efficacia ai fini del cambiamento: si scendeva in piazza, si raccoglieva denaro, si interpellavano con forza i decisori politici. Dal conflitto in Vietnam alla carestia in Etiopia, avevamo avuto la prova che rompere la scorza di silenzio intorno alla realtà era un'arma importante in mano ai media e ai cittadini. Poi qualcosa è cambiato. Alla testimonianza sembra oggi seguire solo afasia e silenzio. Domenico Quirico ripercorre, sul filo della sua memoria personale, alcuni dei capitoli più drammatici degli ultimi quarant'anni - dalla carestia in Somalia alla guerra in Siria, all'epidemia di Ebola, fino all'esodo incessante di migranti dall'Africa - alternando ricordi di esperienze vissute in prima persona alla riflessione sul senso e sull'utilità della sua professione. Un libro prezioso perché oggi, forse più che nel passato, l'odio cieco ha dimostrato di far operare delle scelte più di quanto possono fare i fatti che i nostri stessi occhi possono vedere.
Nadia Urbinati esplora il cuore del meccanismo democratico: la scossa conflittuale tra i ‘pochi’ e i ‘molti’, le élites e il popolo.
Il XXI secolo è punteggiato da una serie ininterrotta di manifestazioni popolari che hanno portato in piazza un diffuso scontento: le primavere arabe, Occupy Wall Street, gli indignados, i Vaffa Days, i gilet gialli, le manifestazioni sul clima, le rivolte in Cile, a Hong Kong, in Libano. Quello a cui assistiamo è un conflitto nuovo rispetto a quello rappresentato e organizzato da partiti e sindacati: è contrapposizione tra pochi e molti, tra chi detiene il potere e chi sente di non contare nulla. La frattura sociale profonda che questi antagonismi evidenziano mette in crisi l’idea stessa di democrazia e la espone al rischio di pulsioni autoritarie. Ma questo non è un esito scontato: come scriveva Machiavelli, il conflitto tra pochi e molti può essere anche un lievito di libertà, se il nuovo ordine che ne può risultare riequilibra il potere nella società.
Siamo abituati ad associare le emissioni di CO2 solo alla produzione energetica e ai trasporti. Ma vi siete mai chiesti quanto esse dipendano da cosa scegliamo di mangiare? La risposta è una sola: moltissimo, perché le abitudini di consumo, i processi di produzione e il riscaldamento globale ormai sono legati a doppio filo. Il direttore dell’associazione ambientalista Terra! e autore di importanti inchieste sulle filiere agro-alimentari ci racconta perché saper scegliere cosa mangiamo ci salverà dalla crisi climatica.
Se il clima cambia, cambia l’agricoltura. Se cambia l’agricoltura, cambia anche il cibo che mangiamo. È sotto i nostri occhi: la crisi climatica ha già sconvolto i cicli colturali, stanno diminuendo le api mettendo a rischio l’impollinazione, le ondate di maltempo distruggono interi raccolti, gli agricoltori abbandonano la terra perché il cibo che producono vale sempre meno. E non è tutto. L’aumento degli allevamenti industriali si traduce in milioni di ettari di deforestazione all’anno e sfruttamento delle terre arabili per la produzione di mangimi. Il consumo smisurato di acqua e fertilizzanti così come la quantità di alimenti sprecati si aggiungono alle ragioni gravi che attentano alla salute del nostro pianeta. È arrivato il momento di essere tutti consapevoli che l’agricoltura e gli altri usi della terra sono responsabili del 23% delle emissioni climalteranti totali, una cifra che arriva al 37% se si includono i processi di trattamento dei prodotti alimentari. E, fatto non meno importante, sull’altare del nostro fabbisogno si sta sacrificando l’equilibrio tra il consumo di risorse naturali a livello globale con la capacità del pianeta di rigenerarle. Comprendere tutto questo significa da una parte assumere abitudini di consumo rispettose del clima, delle stagioni e della biodiversità; dall’altra chiedere alla politica e alle istituzioni di rendere l’agricoltura non una nemica, ma un’alleata del pianeta.
Un uomo del Medioevo, immerso nel suo tempo. Questo il Dante che ci racconta un grande storico in pagine di vivida bellezza. Dante è l’uomo su cui, per la fama che lo accompagnava già in vita, sappiamo forse più cose che su qualunque altro uomo di quell’epoca, e che ci ha lasciato la sua testimonianza personale su cosa significava, allora, essere un giovane uomo innamorato o cosa si provava quando si saliva a cavallo per andare in battaglia. Alessandro Barbero segue Dante nella sua adolescenza di figlio d’un usuraio che sogna di appartenere al mondo dei nobili e dei letterati; nei corridoi oscuri della politica, dove gli ideali si infrangono davanti alla realtà meschina degli odi di partito e della corruzione dilagante; nei vagabondaggi dell’esiliato che scopre l’incredibile varietà dell’Italia del Trecento, fra metropoli commerciali e corti cavalleresche. Il libro affronta anche le lacune e i silenzi che rendono incerta la ricostruzione di interi periodi della vita di Dante, presentando gli argomenti pro e contro le diverse ipotesi e permettendo a chi legge di farsi una propria idea, come quando il lettore di un romanzo giallo è invitato a gareggiare con il detective e arrivare per proprio conto a una conclusione.
«Secondo una celebre e fortunata espressione omerica, le parole sono alate: non tanto come gli uccelli, ma piuttosto come le frecce, che tagliano l’aria veloci per andare dritte al bersaglio e far breccia nel cuore di chi le ascolta. Da sempre i Greci sanno che la parola serve a convincere, a mostrare che cosa è vero e che cosa è giusto. Ma sanno anche che essa ha in sé una forza magica: può trasformarsi in incantesimo, capace di dominare e di trascinare l’animo di chi ascolta; di ammaliare come la musica e di curare come una medicina; ma, soprattutto, di ingannare e di illudere.»
Per gli antichi le Sirene erano mostri orripilanti, per metà uccelli e per metà donne. Eppure, esse avevano qualcosa che le rendeva irresistibili: la voce, suadente e ammaliatrice. Insieme ad altre figure mitologiche a loro affini come Circe, Calipso ed Elena, le Sirene sono in questo libro le protagoniste della prima tappa di un cammino che, partendo da Omero e a Omero ritornando, si concentra sull’Atene del V secolo, la città della democrazia e della parola. Ripercorrendo storie poco note e celebri passi di prosa e di poesia, Laura Pepe indaga le incredibili potenzialità di peithó, persuasione, la parola che insieme seduce e convince. Sovrano potentissimo, la parola è capace di compiere le imprese più divine: sa convincere del vero e del giusto, ma può anche illudere e ingannare. Scopriremo la sua forza in queste pagine, guardando ai protagonisti della politica che arringano il popolo riunito in assemblea, agli accusatori e agli accusati che si industriano a convincere i giudici del tribunale e, infine, a quei maestri di persuasione che furono i sofisti. E ancora una volta saremo grati alla Grecia antica, che – tra storia, mito, poemi e filosofia – ha dato forma al nostro modo di pensare e di confrontarci con il mondo.
La didattica a distanza è accusata di impoverire il rapporto docente-studente, di dequalificare il corpo insegnante, di mercificare la conoscenza. Tutte queste accuse sono il cavallo di battaglia di molti docenti; tuttavia non sono pochi quelli che, praticando la nobile arte del fare di necessità virtù, hanno scoperto nel distance learning potenzialità insospettate dai più (ma ampiamente previste dagli studiosi). Questo è dunque un libro di parte, un libro che sta dalla parte di quanti hanno scelto di capire meglio le possibilità della didattica in rete. Liberandosi del pregiudizio che oppone distanza a presenza (concetti, questi, moderatamente conciliabili tra loro) si possono valutare le esperienze positive degli ultimi anni e, soprattutto, di questi ultimi mesi.
«Da una crisi come questa non si esce uguali, come prima. Si esce o migliori o peggiori.»
Francesco
Il racconto di un momento epocale per la Chiesa nell’analisi di uno dei vaticanisti più autorevoli e stimati.
Il 27 marzo dell’anno 2020 Jorge Mario Bergoglio si affaccia solitario sul sagrato abbandonato della basilica di San Pietro. Il vecchio pontefice avanza zoppicando. I capelli schiacciati sotto lo zucchetto. Una macchia bianca, irreale sotto il cielo nerastro. Da quasi tre settimane la Chiesa sembra aver cessato di esistere. Templi praticamente chiusi, fedeli spariti. Non si celebrano messe, non si festeggiano battesimi, niente matrimoni, niente funerali. L’ultima benedizione ai moribondi è affidata dai vescovi agli infermieri. Spiccano i camici, non le stole. Mai nella storia la Chiesa aveva disertato il dolore degli uomini. Con il suo gesto straordinario Francesco riempie questa assenza. E pensa soprattutto al dopo. Chiede una società inclusiva, un’economia al servizio di tutti, una politica che dia voce ai più vulnerabili. Cattolici e laici hanno capito da che parte sta Jorge Mario Bergoglio. E colgono il pungolo della sua ironia quando dice: «Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla».