L’ultimo arrivato
Nell’ultimo numero di Tracce avevamo approfondito un punto decisivo della Giornata d’inizio di CL, l’incontro che, all’avvio dell’“anno sociale”, contrassegna la proposta educativa del movimento e indica un percorso di lavoro. Era la descrizione del contesto in cui siamo immersi – un “nichilismo passivo” che avvolge la società e le nostre vite anestetizzando energie, gusto, desideri – e l’indicazione dell’unica cosa che può strapparci da quel nulla: dei testimoni. Fatti e persone che mostrano un modo diverso di vivere, comunicano una proposta di significato così affascinante da diventare autorità. Ovvero, padri. Perché generano e fanno crescere.
È un tema così cruciale che ora lo riprendiamo. Andando a fondo di questa «autorità» che non ha nulla a che vedere con il potere, come sottolineava don Giussani nell’intervento ripreso proprio in quelle pagine, ma «è sinonimo di paternità». Ed ha caratteristiche inconfondibili: «È il luogo dove la vita nuova è più limpida e chiara»; «si dimostra nell’esperienza di una maggiore libertà»; e, proprio per questo, è anche un «luogo di conforto, dove si vede che Cristo vince». Cioè dove si apre per chiunque la possibilità concreta che la fatica, il dolore, le circostanze non siano una gabbia: l’io può respirare e vivere lieto, sempre.
È quello che cerchiamo, tutti. Chi non vorrebbe scoprirsi nell’ esperienza più libero, e lieto? Chi non desidera che la sua vita sia utile, piena, capace di generare e di «aprire sentieri nuovi» anche in un mondo che sembra impermeabile alla fede e invece offre a noi cristiani «una grande occasione» (come dice Charles Taylor, uno dei maggiori filosofi viventi, nell’intervista che trovate più avanti)?
Ecco, il “Primo Piano” è un piccolo viaggio in questa paternità. Imperniato, come sempre, su storie e testimonianze, oltre che su riflessioni che aiutano ad approfondire: perché anche qui, l’unico criterio valido è l’esperienza. Quella «autorità paterna», proprio in quanto non è questione di ruoli (neanche di quelli canonici: genitori, insegnanti, sacerdoti, leader vari...), accade dove vuole, la si può vedere solo in atto. «Può essere autorità la donnetta che mette una moneta nel gazofilacio del tempio, più che neanche il capo dei farisei», ricordava don Giussani. Non si impone per meccanismi di potere: semplicemente, ci chiede di guardarci attorno, e riconoscerla.
In fondo, è quello che è accaduto ai pastori raffigurati nell’Adorazione di Caravaggio, proposta come Volantone di Natale da CL. Guardavano la persona meno potente del mondo, l’ultimo arrivato, letteralmente: un bambino appena nato in una greppia. Ma, nella loro semplicità di cuore, intuivano che quel Figlio, in realtà, rendeva visibile il Padre, il Mistero che li stava generando in quel momento. Che genera noi, ora. Buon Natale.
C’è una parola che affiora sempre più spesso, tra giornali e dibattiti tv. E se non arriva così com’è ai dialoghi tra amici o ai discorsi da bar, è solo perché non ci si accorge di quanto sia efficace nel descrivere qualcosa che viviamo tutti, nessuno escluso. È «nichilismo», ovvero la parola più vicina a «nulla», la più capace di raccontare l’esperienza vissuta di quel «nulla».
Non ha più il significato di una volta, o perlomeno non solo. Non dice di una ribellione violenta, della voglia di distruggere una realtà che non ci piace (pure se di rabbia in giro ce n’è tanta, sui social come in molte piazze del mondo…). Piuttosto, indica qualcosa di più sottile, che in fondo sta alla radice anche della violenza.
È la perdita di attrattiva della realtà, lo smarrimento del senso – e quindi del gusto, ché le due cose sono legate a filo doppio – del vivere. La mancanza di uno scopo in grado di attirarci, di mobilitare la nostra energia affettiva, di conquistarci fino in fondo. «Non esiste nessun ideale per il quale possiamo sacrificarci, perché di tutti conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo che cos’è la verità», scriveva André Malraux già nel secolo scorso. È una sintesi perfetta dell’oggi.
Eppure, se c’è un vantaggio nel malessere diffuso, è proprio questo: ormai è chiaro, lampante, che nessuna idea, appunto, è in grado di tirarcene fuori. Nessuna teoria. Solo l’esperienza, qualcosa che ci accade (come si diceva nel numero scorso). È soltanto lì che possiamo cercare vie d’uscita. E se guardiamo l’esperienza, ci rendiamo conto di due cose.
La prima è che anche il cuore più spento – persino il nichilista più accanito – conserva dentro di sé un punto irriducibile: desidera la felicità. È inevitabile, quasi nostro malgrado; abbiamo un bisogno – meglio: siamo un bisogno – di compimento, anche quando tutto sembra dire il contrario. E questa irriducibilità si manifesta in tanti modi, può venire fuori per le strade più impensabili, riaprendo la partita.
Ma sempre l’esperienza, se siamo leali, ci offre anche un secondo dato: questo cuore che non si arrende è pronto ad accendersi appena incontra qualcosa capace di ridestarlo. Non un’idea, ma una presenza, un fatto, un volto che vive e offre una proposta all’altezza del nostro bisogno. E per questo (si diceva nel testo della Giornata d’inizio anno di CL, allegato sempre all’ultimo Tracce) diventa un’autorità. Nel senso letterale del termine: «Fa crescere», fa rifiorire la nostra umanità. La riscatta dal vuoto.
In queste pagine, trovate esperienze che mostrano proprio questa dinamica. Ordinarie, come la vita; o drammatiche, come tante pieghe della vita. Ma sono racconti di persone rilanciate da un incontro autorevole, da una proposta di significato – e di gusto – inattesa. Insomma, dall’accadere di una imprevedibile paternità, altra parola imponente. Anzi, decisiva. Al punto che la riprenderemo, già dal prossimo numero…
Perché scrivere in copertina «vieni e vedi»? È un invito a chi magari si ritrova in mano questo giornale per la prima volta, e lo ha ricevuto da un collega, da un amico o da un volto incontrato per strada. Ma è anche il cuore del cristianesimo. Che, al di là di quanto possiamo pensarne, non è una collezione di idee, regole e valori: è anzitutto una vita. Fatti e persone. Qualcosa che accade e, quando lo intercettiamo, ci sorprende, per la sua bellezza. E incuriosisce, attira. Sollecita dei passi per scoprirne l’origine, per vedere da dove nasce questa novità così inattesa eppure corrispondente alla nostra umanità.
In quel «vieni e vedi» detto da Filippo allo scettico Natanaele – come nei tanti «seguimi» che costellano il Vangelo – c’è tutta la potenza dell’unica strada che può vincere lo scetticismo, oggi come duemila anni fa: l’esperienza. «Vedi tu stesso, giudica tu. Verifica tu se questa novità che ti ha incuriosito è interessante per la tua vita, se la rende più intensa e più vera. Se abbraccia tutta intera la tua domanda di significato e di felicità».
È da brividi, la strada che ha scelto Dio per farsi conoscere e amare. Da brividi perché è l’unica possibile a noi, l’unica veramente umana: passare attraverso la nostra esperienza. Sfidando anche l’ultima riduzione che possiamo fare davanti a una proposta così, perché la parola “esperienza” è tanto immediata quanto, spesso, travisata. Tutti siamo disposti a riconoscere che, come diceva don Giussani, «il cammino al vero è un’esperienza»: si cresce e si impara solo attraverso incontri, avvenimenti, cose che ci vengono dette o ci accadono. Quello che non passa da lì, ci sembra astratto. Eppure – ed è qui l’equivoco – “fare esperienza” è molto di più che “accumulare cose fatte”: richiede l’accorgersi di che natura abbiano quei fatti. E più sono imprevedibilmente straordinari, più occorre questo passo di consapevolezza perché non scivolino via sepolti da un semplice contraccolpo sentimentale («che bello!»). Un avvenimento affascinante, di per sé, non ci fa crescere (lo stesso Vangelo è pieno di gente che non viene scossa neanche dai miracoli). Accorgersi di che si tratta, di chi ce lo sta consegnando come occasione per noi, sì. Può cambiarci.
Cristo scommette tutto su questo. Non si appella a regole, non impone nulla: si sottopone al vaglio della nostra esperienza. Alla semplice lealtà con cui, se siamo colpiti da persone che vivono in maniera stranamente affascinante, assecondiamo la domanda che ci vediamo affiorare dentro: «Di che si tratta? Chi sono questi?». È la stessa domanda – «Chi è costui?» – che trovate nell’allegato. È il testo della Giornata d’Inizio Anno di CL, la proposta di un cammino da fare insieme che poggia proprio su questo: l’esperienza. Ecco, l’augurio è che si spalanchi sempre più questa curiosità. In chi per la prima volta legge racconti come quelli delle prossime pagine, dalla vita dei giovani di GS alle testimonianze arrivate da tanti angoli di mondo.
E in chi su questa strada cammina da tempo, ma continua ad avere bisogno di fatti che accadono ora per non darla per scontata. Per non smettere di crescere.
A volte è facile darlo per scontato. Soprattutto se ci si va da un po’ di tempo, se è diventato un appuntamento fisso immergersi per qualche giorno d’agosto nella bellezza intensa e caotica del Meeting di Rimini.
E dato che la kermesse ha appena compiuto quarant’anni, restando fedele a se stessa nella sua formula efficacissima fatta di dialoghi, mostre, spettacoli e di un popolo vivo, si rischia di abituarsi, di non rendersi più conto della sua eccezionalità.
Invece il Meeting è davvero fuori dall’ordinario. Per quello che succede, ovvero per come continua a incontrare tutti e a far parlare tra loro mondi che altrove fanno fatica persino a guardarsi, cosa sempre più urgente in una società lacerata (qui «l’incontro è tra persone diverse che raccontano la propria esperienza di vita, e più diverse sono, più è sincero l’interesse che suscitano», ha scritto acutamente Antonio Polito, vicedirettore del Corriere, su 7). E per come succede, aspetto che colpisce nel profondo chi arriva “da fuori”: i volontari, la gratuità, le migliaia di presenze, i giovani... «Non ho mai visto un cristianesimo così», ha detto uno degli ospiti durante una cena. Cogliendo, di colpo, la radice, il punto sorgivo che da sempre – mentre tutto, intorno, cambia fisionomia o sparisce – continua ad alimentare questa bellezza, con un’imponenza tale che è impossibile ricondurla alle capacità di chi ci lavora.
Nello “speciale” che abbiamo regalato ai nostri abbonati a Rimini, Julián Carrón, guida di CL, ricordava come nel Meeting emerga con chiarezza la preoccupazione di fondo di don Giussani: «La generazione del soggetto, di un adulto appassionato alla vita. Tutto il resto è conseguenza». E per questo se si vuole capire davvero un avvenimento così fuori dall’ordinario, e la sua sorprendente «presenza carica di proposta» per tutti, bisogna arrivare fin lì, alla fede: «Solo l’avvenimento cristiano, vissuto come sorgente di un ideale, è in grado di creare amicizia, cioè uno spazio dove incontrare “una persona con un messaggio dentro”». All’origine di questa bellezza c’è Cristo. E il Meeting è un’occasione per incontrarlo, con qualsiasi background si arrivi.
È per non perdere questa occasione che vi offriamo una piccola antologia delle cose accadute a Rimini. Fatti, episodi, incontri – la vita, che al Meeting ha il sapore inconfondibile di un’intensità lieta. E le parole dette sul palco, i contenuti di alcuni incontri. Hanno uno spessore e una ricchezza tali che vale la pena di riprenderli. Lo facciamo pubblicandone dei brani, oltre al testo integrale dell’intervento principale. È una scelta, chiaro. Risente dei limiti di spazi e di tempi e, per sua natura, è arbitraria. Deve lasciare fuori cose altrettanto significative (potete riprenderle dal web, su www.clonline.org o dal sito del Meeting) e fili che contiamo di recuperare più avanti (si pensi ai bellissimi dialoghi su diritti e doveri o sull’intelligenza artificiale). Ma è un modo per non smarrire spunti che, paradossalmente, rischiano di perdersi proprio per la ricchezza di tutto ciò che li circondava a Rimini. E per stupirsi, di nuovo, di quella origine.
È la stessa ricchezza che trovate nel resto del giornale: dalle lettere, alle testimonianze dai Balcani, al focus sull’Amazzonia, protagonista del prossimo Sinodo. Storie diverse, ma con una sola sorgente: quell’«avvenimento cristiano» che, vissuto, genera uomini. E amicizia.
Tracce n.6, Giugno 2019
Un altro modo di conoscere
01.06.2019
Difficile trovare una domanda più urgente di questa, più intrecciata a filo doppio alla trama delle nostre giornate e dei nostri rapporti, a ciò che ci accade e che facciamo, ora dopo ora, e reclama – urla – il bisogno di lasciare tracce, di non finire nel nulla da cui tante volte le circostanze sembrano avvolte. Che cosa regge l’urto del tempo? Cosa permette che la vita, la nostra vita, non scorra invano, ma segni un cammino capace di costruire, noi stessi e il mondo che ci sta attorno?
In fondo, è la domanda di tutti. Qualsiasi idea abbiamo, qualsiasi posizione o visione del mondo abbiamo deciso di abbracciare – posto che se ne sia scelta una. È la realtà stessa a farla venire a galla, quando e come non ce lo aspettiamo.
È per questo che la trovate, oltre che sulla nostra copertina, sul libretto che alleghiamo a Tracce: è il resoconto degli Esercizi spirituali della Fraternità di CL. Lezioni e assemblea imperniati proprio su questa necessità: mettere la fede – l’avvenimento di Cristo così come accade nelle nostre vite – alla prova della realtà, per verificare se tiene, se aiuta a diventare uomini.
Quello che trovate nel libretto è un percorso reale, possibile a tutti. 
Non si appoggia su teorie: nessuna idea può rispondere a quella domanda. Piuttosto, indica una vita diversa, una modalità di stare al mondo che genera un altro modo di conoscere e di guardare la realtà. E la scava nei suoi fattori costitutivi fino a riconoscerne l’origine, il punto sorgivo: Cristo.
Se la fede non arrivasse fin lì, a rispondere a quella domanda, non servirebbe a nulla. Ma se non mostrasse questa sua capacità dall’interno della nostra esperienza, se fosse solo la ripetizione di una dottrina pur vera, sarebbe ancora più inutile, perché astratta. Non smuoverebbe nessuno.
La nostra offerta a chi ci legge è impegnativa: è la proposta di un lavoro. Richiede tempo per approfondire, vagliare, verificare. Non è un caso che lo stesso libretto sarà oggetto della proposta educativa di CL per i prossimi mesi.
Ed è per accompagnare l’inizio di questo lavoro che, stavolta, abbiamo scelto di dedicare agli Esercizi il “Primo piano”. Sono storie e testimonianze, che documentano cosa succede quando si inizia a prendere sul serio quella domanda e a fare per sé quella verifica. Semplicemente, cambia la vita. In tutte le sue declinazioni: il lavoro, l’università, la malattia, la politica… E dovunque: dall’Europa scossa dalla tornata elettorale all’Amazzonia, al Sud Sudan. 
Ai tanti luoghi dove la storia, scorrendo, in fondo fa riemergere sempre e soltanto un’urgenza: che esista qualcosa che duri nel tempo, per sempre.
Tracce n.5, Maggio 2019
Una vita che allarga la vita
03.05.2019
Seeking a Path Forward, «cercare una strada per andare avanti». Era il titolo del tour americano di presentazioni della biografia di don Giussani, avvenuto un mese fa. Ma a guardare bene, è pure il problema che abbiamo tutti, in qualsiasi condizione e in qualsiasi parte del mondo viviamo: trovare una strada per andare avanti, fare un cammino. Ovvero, imbattersi in qualcosa che ci permetta di guardare alla nostra vita non come a un insieme di circostanze più o meno casuali, di problemi da affrontare in sequenza, slegati l’uno dall’altro, ma come un percorso disegnato per farci crescere, diventare più uomini. E trovare qualcuno che in questo percorso ci accompagni, non ci lasci soli nell’affrontarlo. Soprattutto quando le curve e gli snodi si fanno più duri, e Dio solo sa in quanti e quali modi il cammino della vita può diventare impervio.
Ecco, quello che raccontiamo nelle prossime pagine ha esattamente questa fisionomia. È un’esperienza di vita e di fede che si offre come «compagnia affidabile a chi cerca una strada», come leggerete nel diario del viaggio scritto da Alberto Savorana, autore di quella stessa biografia e testimone, nella raffica di eventi vissuti in prima persona in giro per gli States, di decine di incontri con persone che, scoprendo un certo modo di vivere il cristianesimo – il carisma di don Giussani –, dicono di aver trovato proprio questo: un aiuto alla loro vita, una «compagnia quotidiana» nel lavoro, nel rapporto con i figli, gli amici, i problemi… Una novità inattesa, in un contesto in cui troppo spesso il cristianesimo, prima che essere una vita, è ridotto a una posizione culturale, un insieme di valori e posizioni etiche – pur giuste – da difendere con sempre più difficoltà. Tanto più ora che la Chiesa è messa alla prova da una crisi senza precedenti, scossa come è dal dramma della pedofilia.
Ma lo stesso è accaduto, con altre modalità, anche in America Latina. Dove le circostanze sono diverse e le fatiche pure (basti pensare alle sofferenze drammatiche del Venezuela, o alle tante sacche di crisi politica ed economica), ma il problema, in fondo, rimane lo stesso per tutti: vivere una vita piena, veramente umana. Pure lì, una serie di incontri e di fatti avvenuti più o meno nelle stesse settimane (l’occasione era l’assemblea dei responsabili locali di CL con Julián Carrón) testimoniano la stessa vivacità, la medesima pertinenza di un certo modo di vivere la fede alle esigenze e ai bisogni di chiunque, dovunque. Tanto che, sfogliando le pagine di questo numero, ne troverete tracce pure altrove, dalle lettere all’intervista che riprende il tema dell’Europa, al dialogo con il regista Giacomo Campiotti.
Il cristianesimo, ha sempre mostrato don Giussani, è un avvenimento, è una vita che “allarga” la vita. Bene: la gente, quella vita, continua – per grazia – ad incontrarla. E a trovarci dentro una strada per sé. È un dono che riceviamo, non è certo merito nostro. Ma che gratitudine poterlo condividere con tutti, nel mondo di oggi.
All’inizio era un ideale. Poi, una specie di miracolo. Ora sembra soltanto un problema. L’Unione Europea, quell’impensabile puzzle di lingue e culture che si è incastrato un pezzo dopo l’altro regalando attese e speranze a 500 milioni di persone, agli occhi di tanti è diventato qualcosa di sempre più lontano, astratto, addirittura ostile. Tanto più alla vigilia di un voto confuso come quello del 23-26 maggio.
I motivi sono tanti. Molti reali, legati ai limiti e agli errori di una realtà che ha perso per strada una buona fetta dell’ispirazione originaria (a cominciare dalla solidarietà reciproca). Ma altri dipendono soprattutto da noi, dalla nostra miopia. Guardi l’Europa e non vedi più che è uno spazio di libertà e pace come non si era mai visto nella storia, non solo dell’Occidente. Il valore attribuito alle persone, l’accoglienza, gli scambi tra culture, l’Erasmus, le frontiere aperte, un mercato comune… Tutto dato per ovvio, per scontato. Mentre non lo è. Non lo è mai stato. Anzi.
La vicenda dell’Unione è una di quelle in cui si capisce meglio che cosa sia la caduta di evidenze che, a torto, davamo per acquisite e condivise per sempre. E in cui si vede con più chiarezza un fenomeno che ci riguarda tutti: se ti allontani dalla fonte che ha dato vita a certi valori di fondo – la persona, il lavoro, la libertà, la stessa democrazia –, da ciò che li ha generati e resi storici, vissuti, quei valori, prima o poi, decadono. Staccati dall’origine, non reggono all’usura del tempo. Da qui la domanda: che cosa c’è all’origine di quei tratti fondamentali dell’Europa? Da dove arrivano, come prendono vita – e come possono riprenderla? E la fede c’entra qualcosa con questo, o no? Attenzione: non si tratta di tornare a dibattere sulle “radici cristiane”, discussione infinita e ormai un po’ sterile. Rifiutarle da parte delle istituzioni europee è stato un errore storico e un peccato di arroganza, non c’è dubbio. Ma è un errore anche fermarsi lì. Il problema non è il rapporto con il passato: è l’ora. Quelle radici sono ancora vive, oggi? E come, dove?
Non è una domanda a cui può rispondere un dibattito. Si può solo andare a vedere, cercare storie, fatti che mostrino quella vita. È la strada che imbocchiamo con questo numero, sulla scia del “Primo Piano” di marzo, dedicato alla politica: indicare, assieme alla riflessione, delle testimonianze. Segni vivi di una presenza cristiana che ha contribuito a creare l’Europa, a farla nascere secoli fa dalle macerie dell’Impero devastato dai barbari e a farla risorgere, in forma nuova, dagli orrori dell’ultima Guerra mondiale. E che offre il suo contributo oggi, per aiutare a tirarla fuori dalla crisi e restituirle il volto che ha avuto negli ultimi sessant’anni: quello di uno spazio di libertà per tutti. Un luogo «dove ognuno può essere immune dalla coercizione, fare il proprio cammino umano e condividerlo con chi trova sulla propria strada», come diceva tempo fa Julián Carrón, guida di CL, in un intervento confluito, poi, nel suo La bellezza disarmata. Erano parole del 2014, vigilia delle ultime elezioni europee. Sono ancora più urgenti ora.
Più passa il tempo, più l’evidenza diventa netta: la crisi che stiamo vivendo da tempo, questo famigerato “cambiamento d’epoca” di cui ogni giorno scopriamo nuovi tratti, ha anche un volto incattivito. La confusione e lo spaesamento sfociano sempre più spesso in rancore, rabbia, tensioni. È come se ci fosse un indurimento diffuso di muscoli e cuore davanti a una minaccia che si avverte concreta, ma al tempo stesso vaga, non identificabile in un punto preciso. E allora si risponde chiudendosi all’altro, chiunque sia: tirando su muri, approfondendo confini e divisioni. Tutte parole che stanno segnando questa stagione politica. Dovunque.
Perché il fenomeno è globale: tocca l’Italia che perde colpi e l’Europa che perde i pezzi sotto il tiro dei neosovranismi, gli Usa di Trump e il Sudamerica… E il tratto comune, quello che sta al fondo di questo avvitamento su se stessi, alla fine è semplice: la paura. Paura di perdere ciò che si ha – o di non poter raggiungere ciò che si immagina. Paura nel vedere crollare certezze e consuetudini. Paura di scoprirsi, in fondo, irrilevanti, travolti da fenomeni troppo più grandi di noi: l’immigrazione, la globalizzazione... «Questa crisi non è innanzitutto politica o economica, ma antropologica, perché riguarda i fondamenti della vita personale e sociale», ha osservato qualche tempo fa Julián Carrón in un’intervista al Corriere della Sera.
Può sembrare strano dire che il grande nodo con cui deve fare i conti la politica, oggi, sia proprio questa incertezza esistenziale, ancora prima delle discussioni sull’economia, l’Europa o i migranti. Ma se è vero che la radice della crisi è così profonda, chiedersi da dove si possa ripartire per costruire una casa comune più solida, alla fine, coincide con una domanda radicale: cosa può sconfiggere questa paura? Non è una questione da sociologi. Finché non la si affronta, non si entra nel merito vero dei problemi. Se non la si tiene presente, dandola per scontata per passare in fretta al “dopo”, a come risolvere “le questioni concrete”, si è condannati a restare in superficie, e, quindi, ultimamente sterili: tappata una falla, se ne aprirà una più grande poco più in là. Se, invece, ci si rende conto che l’orizzonte è questo, anche il modo di affrontare le “questioni concrete”, molto concretamente, cambia.
E qui entra in gioco l’altra questione che ci sta a cuore: cosa abbiamo da offrire noi cattolici, su questo? La fede ha qualcosa da dire davanti a questa incertezza? Può generare persone che non ne restino soffocate, che scoprano il gusto e la passione di lavorare – là dove sono, il ruolo importa poco – per costruire insieme? Testimoni di una sovrabbondanza che rimette in moto anche l’interesse al bene comune, di una «modalità di vincere la paura adeguata alle sfide odierne», come dice Carrón in quella intervista? Ecco: Tracce, stavolta, parla di questo. Nel “Primo Piano”, dove raccontiamo storie volutamente a portata di tutti. Ma anche altrove – nelle lettere, nella vicenda di un’azienda particolare, nel reportage dal Venezuela… Perché c’è gente che costruisce. Per tutti.
Ma ci crediamo veramente che l’altro sia «un bene per me»? Meglio, ce ne rendiamo conto nella nostra esperienza quotidiana? Perché quando lo diciamo di nuovo, ripetendo una frase che i nostri lettori hanno visto comparire spesso su questo giornale, non lo facciamo per articolare teorie sociologiche, né tantomeno per richiamare a uno sforzo morale, un malinteso «vogliamoci bene». È per aiutarci a guardare la nostra esperienza. A giudicare se è vero o no che senza il confronto con l’altro io non potrei mai crescere, prendere coscienza di quello che sono e mettere alla prova ciò che penso. Insomma, senza di te io non sarei me stesso. È così, o no?
E attenzione: non si parla solo dei “lontani”. L’altro è chiunque. Anche quando è vicino, sintonizzato sulle mie idee o magari fa parte da anni della mia storia personale – un amico, un figlio, marito o moglie –, resta irriducibilmente altro da me. Ha la stessa connotazione di fondo di chi incrocio per la prima volta: non è fatto a mia immagine e somiglianza, come vorrei che fosse o come ho in mente io. Mi è dato.
Per questo è essenziale riprendere il filo del dialogo. Lo è di sicuro in un mondo dove alzare steccati tra uomini e popoli è diventata una scorciatoia comune per fuggire da tante paure. Ma lo è ancora di più se guardiamo alla nostra quotidianità, alle nostre vite. E il modo migliore per capire, come sempre, è guardare. Andare a vedere dove nasce, come può fiorire questo strano «rapporto con l’altro, chiunque o comunque sia», indispensabile «perché la mia esistenza si sviluppi, perché quello che io sono sia dinamismo e vita», come diceva don Giussani. Andare e vedere, perché essendo un rapporto reale, e non un’idea –esperienza, non teoria –, il dialogo accade dove meno te lo aspetti.
Il 26 dicembre, nella storica Biblioteca di Alessandria d’Egitto – cuore millenario della cultura islamica –, è accaduto un fatto di questo tipo. È stata presentata la traduzione araba de La bellezza disarmata, il libro di Julián Carrón, guida di CL. Un evento passato un po’ sottotraccia, complici le vacanze di Natale. Ma è utile riprenderlo. Non solo per l’evento in sé (che pure, intendiamoci, è imponente: che il libro di un sacerdote cattolico imperniato sulla proposta cristiana trovi una porta spalancata nel mondo musulmano non è così scontato), ma per il metodo che indica: il dialogo. Un incontro fra persone – un’amicizia – che permette di allargare la ragione e aprire spazi di libertà e arricchimento reciproco dove sembra impossibile.
La scommessa è che quello che è successo lì, come le altre storie raccontate in questo Tracce (dalle parole di Pierre Claverie, vescovo martire in Algeria, al gesto di papa Francesco, che non a caso in queste settimane visita due Paesi di frontiera come gli Emirati Arabi e il Marocco), ci aiuti a fare i conti con la realtà intorno a noi. Che ci faccia intravedere una strada possibile là dove siamo, nei rapporti con tutti gli altri che popolano la nostra vita. Perché ne abbiamo bisogno, più che mai.
Se c’è una cosa che non possiamo permetterci, nella situazione di malessere diffuso in cui siamo immersi, è non accorgerci dei fatti che vanno in direzione opposta. Ce li abbiamo lì davanti agli occhi, a volte persino enormi (come si può definire una raccolta di cibo per i poveri che in una giornata sola mobilita 150mila volontari e 5 milioni di donatori in tutta Italia?), eppure rischiamo di non vederne la portata. Che non sta tanto nei numeri, ma nel metodo. Se seguiamo il filo di quei fatti, se ci fermiamo a guardarli bene fino al loro punto sorgivo, avvenimenti così escono dall’estemporaneità di una “bella iniziativa”: indicano una strada. Sicuramente contromano rispetto al mainstream di diffidenza e rancore imperanti, ma reale, e aperta a tutti. Ed è la cosa più urgente, oggi.
Per questo è decisivo tornarci su, e guardare bene. La Colletta, come altri gesti che popolano la quotidianità, anche se il più delle volte restano nascosti. Perché a scavarci dentro si trova qualcosa di più della solidarietà e del volontariato. Si scopre la fonte che origina tanti rivoli di bene, piccoli e grandi, fino a sfociare – a volte – in opere che sfidano il tempo (nel “Primo Piano”, a un certo punto, parliamo del Cottolengo, ma potremmo farne decine, di esempi). Si chiama carità. Ovvero, il cuore del modo di vivere – e di condividere – che Cristo ha portato nel mondo. Facendosi Lui stesso «dono di sé, commosso» a noi uomini, come ricordava don Giussani. E rendendo possibile e desiderabile per noi uomini imitarlo.
È la carità l’impronta più forte del cristianesimo nella storia, la differenza vera. Capace di attraversare le contingenze, le epoche, i momenti bui, e di costruire, di generare un’umanità diversa. Di attrarre chi da una fede ridotta a dottrina e morale non si aspettava più nulla (si vedano l’intervista al politico basco Joséba Arregi e, nei “Percorsi”, quella al filosofo laico Salvatore Natoli). E il tutto a una sola condizione: non smarrire l’origine.
Non è un caso che prima della Colletta di fine novembre, e della Giornata mondiale dei poveri voluta da papa Francesco, don Julián Carrón avesse invitato gli aderenti al movimento di CL a partecipare a questi, e ad altri gesti, come un’occasione anzitutto di verifica della fede. Ovvero, una possibilità per approfondire il proprio legame con Cristo e, insieme, di capire meglio che cosa questo legame può offrire al mondo ferito di oggi: se una semplice “pacca sulla spalla”, qualche sprazzo di bene e di bontà qui e lì, o qualcosa di più solido, forse addirittura decisivo. Ecco, questo numero di Tracce è un piccolo viaggio in questa verifica. Un viaggio che parte da tanti fatti e testimonianze personali per arrivare fino alla società e alla politica. Perché la carità le cambia. E costruisce.