Chi legge Tracce abitualmente, lo ha presente. Non solo perché quel testo era allegato al giornale, ma anche perché negli ultimi tempi ha segnato il cammino del movimento di CL in maniera molto netta. Era una straordinaria lezione di don Giussani tenuta a un gruppo di giovani del Centro Péguy, riuniti a Varigotti nel 1968. Parole distanti nel tempo – esattamente mezzo secolo –, ma attuali come poche, perché capaci di tracciare una strada per affrontare la confusione di oggi.
Bene, in quella lezione – che nel frattempo è stata ascoltata e letta in mezzo mondo e in tante lingue, ovunque è presente Comunione e Liberazione – c’è un passo che ha colpito tutti, indistintamente. Perché condensa in due parole una diversità sottile, ma decisiva: «Non può più essere né la storia, né la dottrina, né la tradizione, né il discorso a muovere l’uomo di oggi. Tradizione e filosofia cristiana, tradizione e discorso cristiano, hanno creato e creano ancora la cristianità, non il cristianesimo». Il cristianesimo, insiste don Giussani, «è ben altro»: è «un annuncio», qualcosa di «vivente» e «presente».
Difficile trovare una forma più sinteticamente efficace per marcare l’irriducibilità della fede a qualsiasi fattore culturale, valore etico o impeto naturalmente umano, per quanto buoni e veri. La fede è un’altra cosa. Ma come si può scoprire questa diversità, oggi? Come nasce, come viene a galla nella nostra esperienza?
Tracce, stavolta, parla proprio di questo. Anzi, cerca di farlo vedere, sorprendendolo là dove questa differenza strana, questa presenza, affiora. Che sia tra le pieghe della società occidentale (nel Primo Piano abbiamo testimonianze imponenti) o nelle “periferie” dell’Africa nera, tra gli studenti di un liceo di Miami o nel lavoro di uno degli architetti più famosi del mondo. Lo facciamo in giorni che non sono uguali al resto del tempo, perché stiamo andando verso il Natale. Ovvero il punto sorgivo, il momento in cui questa diversità si è affacciata nella storia per la prima volta, nella modalità più semplice: un bambino. Nessuna traduzione culturale, nessun sistema di pensiero o di valori. Il «solco socio-storico» della cristianità, come lo chiama don Giussani, era ancora tutto – letteralmente – da inventare, nei duemila 
e rotti anni che ci hanno portato qui. Eppure lì il cristianesimo c’è già tutto.

Perché con quel Bambino entra nel mondo qualcosa di inaudito, «una Presenza con una proposta carica di significato» mai vista né sentita prima. Il cuore di tutto, in fondo, è lì. Lo si vede bene nell’immagine che CL ha scelto per il suo Volantone di Natale, in quel Mago così colpito dall’annuncio da prostrarsi davanti al Bimbo; da piegare se stesso, la sua storia, la sua regalità umana di fronte alla presenza più inerme che possiamo immaginarci. Doveva veramente essere un «povero di spirito», quell’uomo. Ma l’augurio più vero che possiamo farci per Natale è di esserlo anche noi, ora. Per riconoscere quella Presenza.
Quando leggerete questo Tracce, il Sinodo sui giovani sarà già in corso. È un’occasione storica, perché si discute di un argomento decisivo, per la Chiesa e per il mondo. I giovani non sono soltanto “il futuro”: sono il presente. E la difficoltà a scegliere, a trovare una strada perché la promessa della vita si compia (il Sinodo è su “la fede e il discernimento vocazionale”), non riguarda solo loro. Siamo tutti in cerca di bussole, tutti ingarbugliati da una confusione in cui è difficile orientarsi, camminare, crescere. Ed è una confusione che rende tutti più fragili, impauriti. Di quella paura che tante volte finisce per raddoppiarsi persino nei luoghi deputati ad educare, perché l’insicurezza che si trasmette ai figli o agli alunni è quella che ci portiamo dentro. La scuola, l’università, ma anche l’oratorio, la realtà ecclesiale a cui si appartiene... la stessa Chiesa, possono diventare – spesso, diventano – bolle in cui isolarsi attendendo che “passi la tempesta”, anziché luoghi che rendono il nostro “io” più saldo. Ci sono libri, anche molto letti e di cui si discute parecchio, che in qualche modo teorizzano proprio questo isolamento dei cristiani. Ma tanti atteggiamenti vissuti lo rendono carne senza quasi che ce ne accorgiamo.
Che cosa fa uscire dalla bolla? Cosa serve per generare un soggetto adulto?
E che differenza c’è tra luoghi generativi, appunto, e ripari? È per questo che nel Primo Piano torniamo su un tema decisivo: l’educazione. È il contributo che vogliamo dare non solo al Sinodo, ma all’oggi. Tanto più in un momento in cui l’idea stessa di un rapporto educativo, per tanti motivi, è guardata addirittura con sospetto.
Lo facciamo approfondendo il contesto generale, che paradossalmente finisce per soffocare proprio il punto focale su cui si può fare leva per educare, ovvero la libertà. E mostrando luoghi dove accade altro, testimoni che si sobbarcano la sfida educativa puntando proprio su quel punto apparentemente così fragile, eppure decisivo.
Luoghi e testimoni. Li trovate anche nella seconda parte del giornale, dove raccontiamo realtà come il Centro educativo “João Paulo II” di Salvador de Bahia, Brasile, che accoglie ogni giorno cinquecento bambini e ragazzi delle favelas. O una personalità come Paolo VI, che diventerà santo proprio in questi giorni, per aver speso la vita intera – e il suo Pontificato – nel tentativo di trovare nuove strade per comunicare la fede a un mondo che dava Cristo già per «ignoto, dimenticato, assente» dai grandi scenari della storia. Oppure, ancora, un osservatore acuto della società odierna come Eugenio Borgna, capace di indicare l’aspetto più profondo della nostra fragilità: la possibilità che sia una risorsa, un punto di forza. Qualcosa di cui non avere paura.
Tracce n.8, Settembre 2018
L'urto della storia
Editoriale 05.09.2018
Bastavano quelle due parole, per aprire uno squarcio sulla storia: «Vogliamo tutto». Era uno slogan dei sessantottini, è diventato il titolo della mostra che il Meeting di Rimini ha dedicato a quel momento. Ma è anche un grido che esprime l’urgenza di compimento – di verità, di giustizia, di felicità – di ogni uomo, sempre. È un grido all’altezza del desiderio infinito che siamo.
Quel grido pare impossibile, di questi tempi. Siamo così soli, fiaccati, preoccupati da ciò che vediamo e viviamo, che una domanda di questa portata è diventata fuori luogo. Al massimo, si aspira ad evitare guai. A trovare modi per proteggersi dagli urti della storia, creando contesti il più possibile safe, “protetti”, per usare un’espressione abusata nelle società anglosassoni, dove è diventato normale accumulare regole e divieti per impedire che durante una riunione di lavoro o una lezione universitaria qualcuno possa sentirsi «attaccato» da un’opinione diversa o «scosso» dalla violenza di una pagina di storia. Giochiamo in difesa, insomma. Altro che desiderio...
Eppure quello stesso grido, durante l’estate, è risuonato di nuovo, e di continuo. Ne trovate tanti esempi nelle prossime pagine. Nelle lettere. O nel racconto del Meeting, pieno di fatti piccoli e grandi che, tra gli altri, hanno fatto dire a uno degli ospiti «permettetemi di stare con voi, perché qui per la prima volta Dio per me è diventato possibile». O in quello dei ragazzi chiamati a Roma, dal Papa, per un pellegrinaggio di metà agosto diventato l’occasione di scoprire una pienezza impensabile, tra il caldo feroce e il caos della Capitale. C’erano tutti i presupposti per tornare a casa delusi, e invece è accaduto altro.
Ma allora, che cosa è accaduto? Chi può ridestare l’io così? Cosa rende l’impossibile possibile, al punto da vederlo succedere e quindi poterlo domandare, come dicevano i sessantottini in un altro slogan bellissimo nella sua apparente ingenuità?
Bisogna che ce ne rendiamo conto. Perché quello che è successo fa vedere una volta di più l’unica cosa che ci serve per vivere: un avvenimento. Una presenza talmente eccezionale da risvegliare il nostro io, rattrappito dalla paura e dallo scetticismo, fino a ridestare quella domanda radicale: «Vogliamo tutto».
È l’umanità che vediamo risorgere in noi a farci riconoscere il volto di quella presenza, a farci dire: «Sei Tu, Cristo». Il divino che «salva ogni fattore dell’umano», come diceva don Giussani. Sei Tu, perché noi non ne saremmo capaci.
Ed è questo volto che possiamo cercare dovunque siamo, in qualsiasi momento delle normali occupazioni a cui torniamo a fine estate, «con la tenacia di un cammino», come chiedeva lo stesso don Giussani: «Bisogna bene che termini un periodo e ne incominci un altro: il definitivo, il maturo, quello che può tenere l’urto del tempo, anzi, l’urto di tutta la storia, perché quell’annuncio che incominciò a colpire (…) Giovanni e Andrea, duemila anni fa, quell’annuncio, quella persona è tale e quale il fenomeno che ci ha attirati qui». E ci fa domandare tutto.
Tracce n.7, Luglio-Agosto 2018
Minuto per minuto
02.07.2018
Che cosa ci rende felici? Cosa riesce a riempire il cuore dell’uomo veramente, fino in fondo? Può sembrare una domanda banale, addirittura insignificante quando la proiettiamo su uno scenario affollato di temi a prima vista molto più grandi: la politica, l’economia… 
La storia. Eppure, è una domanda decisiva. L’unica che conti davvero, che valga la pena di farsi e di fare senza tregua. Perché la nostra vita si decide su questo, giorno per giorno, minuto per minuto.
C’è un versetto del Vangelo di Matteo che don Giussani citava spesso, già dai primi giorni di vita del movimento: «Che importa se ti prendi tutto quello che vuoi e poi smarrisci te stesso? Che cosa può dare l’uomo in cambio di se stesso?». È uno spartiacque, un criterio così netto che sappiamo bene cosa succede nelle – rare – volte in cui lo prendiamo sul serio. Ma c’è un’altra sua frase, detta a un gruppo di responsabili di CL nei primi anni Novanta, che ha una portata simile, e che, giudicando la storia, separa l’essenziale dal superfluo: «Il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”». Ovvero, anche qui: che cosa permette al cuore di essere lieto, ai polmoni di respirare, all’uomo di rialzarsi e camminare mentre attraversa le fatiche della vita? Perché alla fine l’urgenza che abbiamo è questa: non formulare analisi più acute e teorie che risolvano il dramma della storia, ma vivere.
Il prossimo Meeting di Rimini, in fondo, parlerà di questo. Delle «forze che muovono la storia» e di ciò che ci riempie il cuore. Se smarriamo questo nesso, se nell’impeto di cercare soluzioni ai grandi problemi che ci circondano – la tragedia dei migranti, lo sfaldamento dell’Europa, il dolore innocente, le mille ingiustizie – lasciamo da parte quella domanda su di noi, apparentemente così insignificante, non faremo molta strada. Con ogni probabilità siamo destinati ad aggiungere errori ad errori. Ce lo dice proprio la storia, anche recente (non è un caso che il titolo del Meeting di quest’anno sia una frase detta subito dopo il Sessantotto…). Ma se andiamo alla ricerca di Chi riempie davvero il cuore, se cerchiamo fatti, testimoni, circostanze che mostrano questa pienezza – fanno vedere che è reale, accade e quindi è possibile –, la prospettiva diventa di colpo diversa.
Ecco, le pagine che leggerete seguono il filo di questa ricerca. Dai temi del Meeting al racconto delle famiglie che attendono il Papa a Dublino (terra dove la fede sembra sconfitta dalla storia, eppure intorno a chi la vive nasce una realtà diversa); dalla testimonianza di uno scienziato particolare, come il capo della Specola Vaticana, al palco de I miserabili. Testimoni e fatti, germogli di una società diversa. Perché la storia si muove quando cambia l’uomo. Quando cambio io. Buona lettura. E buona estate.
Tracce n.6, Giugno 2018
Germogli
01.06.2018
Che novità porta la fede nel mondo, in questo mondo? Per noi può essere una domanda scontata, già pronta per essere accomodata in risposte a cui rischiamo di assuefarci: altri valori, scelte di vita diverse, una concezione dell’uomo radicalmente differente – addirittura alternativa – rispetto a tante idee che vediamo diffondersi. Tutte cose vere, intendiamoci. Ma che hanno bisogno di prendere carne, per non restare formule.
Poi succedono fatti che scontati non sono per niente, anzi. Per esempio, che il leader di una nazione dove impera la laicità assoluta, come il presidente francese Emmanuel Macron, riconosca in un discorso che la società ha bisogno dei cristiani perché portano «un contributo di un altro livello alla comprensione del nostro tempo», e chieda loro di continuare a portare in dote al Paese «tre doni: la vostra saggezza, il vostro impegno, la vostra libertà». Oppure, che si possa leggere sul New York Times un articolo in cui una firma altrettanto laica e liberal racconti tutto il suo stupore davanti a una casa di accoglienza per minori nata dal carisma di don Giussani, e vi individui «una filosofia incarnata, una fede nella bellezza espressa in modo concreto». O, ancora, tanti altri casi, grandi e piccoli (li trovate pure nel libretto allegato a questo Tracce, con il racconto degli Esercizi della Fraternità di CL), di “non cristiani” che restano colpiti da qualcosa che incontrano. Fino a riconoscerne l'utilità per sé e per tutti. E a domandare ai cristiani proprio l’ultima cosa che, tante volte, loro stessi si aspettano di sentirsi chiedere: di essere se stessi, fino in fondo. Perché il mondo ne ha bisogno.
Occorre esserne consapevoli, per poter dare un contributo reale.
Al cristianesimo non è chiesto un “supplemento d’anima”, dei valori, di ristabilire un assetto etico dove tutto crolla. Ma fatti che indichino che un altro mondo è possibile. Luoghi dove già accade, dove spunta un germoglio di novità. Testimoni che con la loro vita aprano una prospettiva diversa, permettano di spalancare la ragione e allargare il respiro. Per questo l’aiuto più grande che possiamo dare è anzitutto la nostra conversione, vivere noi la fede. «Se non facciamo in prima persona esperienza di Cristo come risposta all’attesa infinita del nostro cuore, non potremo comunicarlo agli altri come un bene per loro», osserva don Julián Carrón in quegli Esercizi (dal titolo sintomatico: “Ecco, faccio una cosa nuova: non ve ne accorgete?”).
Il “Primo Piano” è dedicato a questo. Ma anche nel resto del giornale se ne trova traccia. Dalle Lettere, ai “Percorsi”, dove trovate lo storico intervento del cardinale Jean-Louis Tauran a Riad, Arabia Saudita: esempio perfetto di un dialogo che sembra impossibile se lo si riduce a schemi, ma diventa reale quando accade tra persone. O nella testimonianza di don Michiel Peeters, in missione nella “sua” Olanda ormai post-cristiana: era la terra che dava più sacerdoti pronti a partire per il mondo, è diventata arida di fede. Eppure qualcosa rinasce, anche lì...
Cari amici, quello che avete tra le mani è il nuovo Tracce.
È un cambiamento importante, come vedete. I motivi li abbiamo spiegati in maniera approfondita nel numero scorso, raccontando perché ci sembra adeguato, in questo momento, passare dal giornale a cui eravamo – ed eravate – abituati, in stile newsmagazine, a una rivista che, senza cambiare la sua natura, cerchi di andare ancora più in profondità, di offrire elementi che aiutino a scandagliare il tema principale scelto ogni mese con articoli anche ampi, dati, suggerimenti di lettura. E di compiere insieme dei “percorsi” negli argomenti che trattiamo nella seconda parte, con interviste, incontri e reportage. Il tutto mentre il ritmo della vita quotidiana del movimento nel mondo è raccontato dal sito (clonline.org) e via social.
È un cammino nuovo, che iniziamo insieme a voi, con letizia e consapevolezza che si tratta di un tentativo. Partiamo. E lo facciamo iniziando da un tema particolarmente urgente: i giovani. A loro, papa Francesco dedicherà addirittura un Sinodo. A ottobre chiamerà la Chiesa universale a discutere su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, ovvero la scelta della propria strada in un mondo che si sta facendo sempre più complesso, confuso, difficile da decifrare. Ma lo farà anzitutto interpellandoli, facendo parlare in primo luogo loro, «mettendosi in ascolto» delle loro domande ed attese.
I primi passi del nuovo Tracce vogliono offrire un contributo a questo lavoro. Accettando quella che per la Chiesa – come dice Julián Carrón, la guida di CL, nella premessa di un libro appena pubblicato (La voce unica dell’ideale) – è «un’avventura entusiasmante: verificare se la proposta cristiana trova ancora spazio nel cuore dei giovani». È una partita decisiva, perché il futuro della Chiesa, e non solo, dipende da questo. Ed è un’avventura che non riguarda solo i nostri figli o alunni, ma anche – e soprattutto – noi, gli adulti. Quanto siamo disponibili a fare con loro questo cammino? E che cosa abbiamo da offrirgli? I giovani «non si accontentano di parole», osserva Carrón: «Hanno bisogno di qualcosa che sia all’altezza dei desideri del loro cuore».
Tracce è, da sempre, un tentativo di trovare, guardare e raccontare questo “qualcosa”. Qualche anno fa, all’inizio di un altro cambiamento, dicevamo che in fondo la natura del nostro giornale è semplice: «È un amico che ti dice: guarda! Guarda che cose grandi Cristo sta compiendo davanti a noi», per farsi conoscere e per diventare compagno alla nostra strada. Ecco, vorremmo continuare ad esserlo ancora di più, in una veste più essenziale, ma dove il filo rosso – e non potrebbe essere altrimenti – non sono le idee e le parole, ma la vita stessa. Ovvero, testimoni e fatti, da guardare e comprendere nella loro profondità, per scoprirne l’origine. Buona lettura. E buon cammino, insieme.
Era solo due numeri fa. L’Italia andava verso il voto, in una situazione complicata. E in un clima di divisioni e rancori che si respira anche altrove, in questo anno in cui molti Paesi importanti sono chiamati alle elezioni, abbiamo riproposto lo splendido discorso di Cesena in cui papa Francesco riprendeva il filo del bene comune, di un tessuto sociale da ricucire come urgenza più seria di oggi. Accanto, c’erano esempi e testimonianze di persone impegnate nella ricerca di questo filo, con una tenacia e una passione che andavano controcorrente rispetto allo scontento generale.
Bene, il voto è passato, almeno da noi. Che cosa resta di quel tentativo? Ha generato qualcosa? Sta costruendo, ora?
Il “Primo Piano” è dedicato a questo. Con una rassegna di fatti, episodi, incontri a tutto campo che rispondono da soli a questa domanda. Fatti piccoli, dirà qualcuno; inincidenti rispetto alle grandi manovre in corso per formare alleanze in Parlamento e creare un Governo. Ma chiunque, leggendo, è in grado di giudicare. Di decidere se l’esperienza di centinaia di persone in tutta Italia impegnate a capire senza affidarsi solo ai pareri di “chi sa di politica”, a incontrare l’altro al di là degli steccati predefiniti, a creare un clima di dialogo reale dove sembrava impossibile persino parlarsi, siano o meno un patrimonio prezioso per questo Paese, dove il bene comune resta il problema più grande anche dopo il voto.
Ma c’è di più. Perché la proposta di cui si dava conto in queste pagine era ancora più profonda. Don Julián Carrón, presidente della Fraternità di CL, l’ha definita più volte così: «Un’occasione per verificare la fede». Le elezioni - la politica - come circostanza in cui si può vedere se e come la proposta cristiana è pertinente alla vita, e in cui la fede stessa può farsi più matura, consapevole, cosciente. Fino a conoscerne di più il punto sorgivo: Cristo. Proposta spiazzante, in un momento in cui al massimo si discuteva di partiti e programmi. Cosa è successo da questo punto di vista?
La “Pagina Uno” permette di vederlo più a fondo. Di comprendere meglio che razza di avventura può essere vivere la fede in questa situazione e che compito abbiamo noi cristiani in questo mondo. Anche in contesti che sembrano lontanissimi dall’Italia impegolata nella tornata elettorale, come l’Uganda e il Kenya raccontati nel reportage di Ignacio Carbajosa. O il Venezuela, di cui si parla più avanti.
È il racconto, sorprendente, di ciò che Cristo continua a generare nel mondo, ovunque ci sia un uomo disponibile ad accoglierLo. È il cuore del nostro lavoro, da sempre. E lo sarà anche in futuro, con una veste rinnovata. Dal prossimo numero, Tracce cambia faccia: una nuova grafica, una struttura diversa. A pagina 10 trovate le ragioni e un assaggio di quello che verrà. Intanto, buona lettura. E buon proseguimento.
Sono passati cinque anni, da quella sera. Due giorni appena di Conclave, e dopo la scossa imponente arrivata il mese prima con le dimissioni di Benedetto XVI, un altro fatto imprevedibile: dalla loggia di San Pietro si affacciava Francesco, il primo Papa latinoamericano, quello che i Cardinali erano andati a prendere «quasi alla fine del mondo».
Si è capito in fretta che quel «fratelli e sorelle, buonasera» con cui papa Bergoglio salutò per la prima volta i fedeli, e il gesto altrettanto inedito di chinarsi davanti a loro per domandare la benedizione del popolo «per il suo Vescovo», erano solo i primi segni di grandi novità in arrivo.
In questi anni, Francesco ce ne sta proponendo tante. Lo fa usando sempre lo stesso metodo: parole e gesti insieme, inseparabili. Così, per esempio, all’insistenza sulla «Chiesa in uscita» e le periferie si accompagnano le visite insolite con cui inizia sempre i suoi viaggi (il carcere, la casa d’accoglienza, il quartiere-banlieue). L’urgenza di trattare i migranti come persone viene richiamata mentre lui stesso accoglie i profughi a Lesbo. Alla condanna della «terza guerra mondiale a pezzi» si affiancano le iniziative che hanno permesso di gettare ponti dove c’erano solo muri (tra Usa e Cuba, nel Centrafrica, in Colombia; e in Siria, Russia, Cina...). La «preferenza per i poveri» si intreccia con gesti concreti e simbolici, dal pranzo con i senzatetto al rifugio aperto in Vaticano, alla lavanda dei piedi del Giovedì Santo. E via dicendo, in una serie di fatti che danno una luce più intensa anche a quelli che potrebbero sembrare soltanto “richiami morali”, come le parole contro i crimini dell’«economia dello scarto» o a favore di una politica che serva il bene comune - urgenza che ricordavamo proprio il mese scorso e che resta decisiva qualsiasi sia il risultato delle elezioni avvenute nel frattempo (questo giornale viene stampato prima del 4 marzo...).
Possiamo resistere davanti a questi fatti, fermarci a una lettura superficiale, ridurne la portata riconducendoli nel recinto degli schemi abituali, e ritrovarci a parlare di sociologia, di pauperismo, persino di vicinanza o meno alla Tradizione. Oppure possiamo lasciare che quell’unità così potente di parole e gesti - la testimonianza di Francesco - ci provochi fino in fondo, fino alla sua origine. Che lui stesso, da subito e in mille modi, chiama l’«essenziale», «il cuore del Vangelo», il «primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”». Un annuncio rivolto a tutti, come si è visto in maniera clamorosa durante l’Anno della Misericordia. E capace di rendere ancora più radicale il confronto avviato dai suoi predecessori, e in particolare proprio da papa Ratzinger, con il caotico «cambiamento d’epoca» di cui, poco alla volta, stiamo prendendo coscienza.
Cinque anni sono pochi per abbozzare bilanci. Ma possono essere l’occasione per fermarsi e riprendere il filo di una domanda decisiva: ma a noi - a me - cosa chiede tutto questo? Che strada sta indicando il Papa? Cosa ci propone e cosa ci offre?
È il tentativo che facciamo con il “Primo Piano” di questo numero. Intervistando testimoni significativi. Raccontando storie che “fanno vedere”. E usando come bussola un testo che risale a pochi mesi dopo l’elezione di Francesco, ma che è tutt’altro che superato. Anzi, è decisivo per capire: è l’Evangelii gaudium, l’esortazione apostolica da lui stesso indicata come suo «documento programmatico». Il titolo dice già molto: la gioia del Vangelo. Non è un caso, come osserva il cardinale Luis Tagle, uno degli uomini più vicini al Papa: «Francesco mette l’accento sulla gioia. C’è una tendenza nel mondo contemporaneo, non solo nella Chiesa, a sentirsi stanchi e tristi. La vita familiare, lo studio, il lavoro: sono vissuti come un peso. Ma noi abbiamo la vera ragione per essere lieti: Gesù, morto e risorto, è vivo ed è la nostra speranza».
In fondo è questo che indica il Papa, con parole e gesti. E noi «non desideriamo altro che seguirlo», come ha scritto don Julián Carrón alla Fraternità di CL dopo l’udienza del 2 febbraio, domandando «allo Spirito di Cristo risorto di aiutarlo a portare il peso di tutta la Chiesa». Buona lettura. E buona Pasqua.
Il 4 marzo l’Italia va al voto. Ci arriva confusa, spiazzata da una realtà politica sempre più liquida e da un atteggiamento sempre più sfiduciato, diffidente, aggressivo. Certo, non è il clima greve che si può respirare in altre parti del mondo dove si andrà alle urne nel 2018, e dove i problemi - per vari motivi - sono più gravi (dall’Egitto alla Russia, dall’Iraq alla Colombia, e poi Brasile, Messico, Venezuela...). Ma anche se con toni e sfumature molto diversi, l’accento di fondo, ovunque, è simile: divisioni acute, rancori radicati, delegittimazione reciproca. Non è un caso che uno dei libri che hanno fatto più discutere nei mesi scorsi, perché più capaci di leggere il presente, si intitoli L’età della rabbia, di Pankaj Mishra, che trovate intervistato proprio in questo Tracce, in occasione dell’uscita italiana.
È da tempo che cerchiamo di dare il nostro piccolo contributo alla questione che ci sembra più urgente anche in politica, più di poltrone e programmi: recuperare la consapevolezza che l’altro è un bene. Riscoprire le ragioni profonde - e non scontate - del vivere insieme. Preoccupazione condivisa con personalità molto più in vista, che hanno a cuore il bene comune: dal presidente Sergio Mattarella (basterebbe rileggersi il suo discorso di fine anno) a papa Francesco, di cui in questi giorni abbiamo rimesso in circolazione il bellissimo intervento fatto a Cesena il 1° ottobre scorso. Il popolo, dice Francesco, ha bisogno «della buona politica», perché il suo «volto autentico», la sua «ragion d’essere», è offrire «un servizio inestimabile al bene dell’intera collettività». Per questo la Chiesa «la considera una nobile forma di carità».
Ecco, il “Primo piano” di questo numero prova a capire come recuperare questa “ragion d’essere”. Lo fa attraverso un dialogo con Sabino Cassese, laico, uno degli osservatori più acuti della situazione italiana. E poi attraverso dei fatti, storie di gente che giorno per giorno tenta di cucire, o ricucire, un tessuto comune; e lo fa in piazze minori, scelte apposta dietro le quinte della “grande” politica, perché ad essere decisivo è il metodo... Lo stesso criterio con cui proponiamo altre due storie, sudamericane appunto. Dalla Colombia arriva il racconto dell’incontro tra una candidata e la comunità locale di CL: esempio piccolo, ma reale, di una prospettiva che può ribaltarsi, da «cosa chiediamo ai politici» a «ma la fede incide anche lì?». Dal Brasile, la descrizione di come una realtà nata “dal basso” - le Apac - sta cambiando il sistema carcerario di tutto il Paese. Perché la sussidiarietà è qualcosa di reale, e serve. Micro e macro, local e global. Ma il punto è lo stesso: che occasione saranno per ognuno di noi queste settimane? Che verifica potremo fare di quanto e come la fede aiuti ad affrontare anche le infinite domande che emergono dal caos della politica?
In fondo, è la scommessa che ha aperto in noi - e che riapre di continuo - don Giussani. È morto tredici anni fa, ma è più presente che mai. Non solo per l’attualità impressionante delle sue intuizioni (sarebbe utile riprendere, per esempio, il discorso che fece ad Assago alla Dc lombarda nel 1987), ma proprio per come continua a provocare ora migliaia di persone. Che si tratti di universitari americani o di liceali bolognesi, del sindaco di una cittadina di provincia o di persone appassionate al tema dell’educazione, è una sollecitazione continua a prendere sul serio e fino in fondo le proprie domande, l’altro, la realtà... La vita.
L’editoriale di questo numero è il contributo del Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione pubblicato da Avvenire il 22 dicembre 2017
«La realtà è superiore all’idea» (Evangelii Gaudium, 231). Non c’è niente che sfidi di più la ragione dell’uomo, la logica umana, che un fatto, un avvenimento reale. Pensiamo al popolo ebraico in esilio, di cui parla il profeta Isaia.
L’ultima cosa che gli ebrei si sarebbero aspettati, quando tutto sembrava finito, mentre erano in mezzo al nulla, era qualcuno che sfidasse le sconfitte che avevano subìto e la misura con cui giudicavano. Tanto è vero che avevano cominciato ad abituarsi alla situazione in cui si erano venuti a trovare. Eppure in mezzo al deserto risuona una voce: «Io sono il Signore» (Is 41,13ss), una voce che pronuncia parole che nessuno avrebbe il coraggio di dire, tanto sono lontane dalla logica umana: «Non temere».
Possibile?! Come si può non temere quando si è sperduti in mezzo al nulla, nell’esilio?
Si tratta della stessa reazione che abbiamo anche noi davanti alle sfide attuali: ci assale la paura, ci viene da innalzare muri per proteggerci; cerchiamo sicurezza in qualcosa di costruito da noi, ragionando secondo una logica puramente umana, esattamente quella che viene provocata costantemente da Dio: «Io sono il Signore, non temere!». Davanti ai nostri occhi appare tutta la Sua diversità. Infatti quel «non temere!» è la cosa meno creduta oggi, la meno credibile anche per noi; davanti a tutto quello che sta accadendo nel mondo, chi può dire di non avere paura?
«Io sono il Signore, non temere». La nostra ragione e la nostra libertà sono provocate da questa promessa, come capitò al popolo in esilio. Anche noi siamo come un «vermiciattolo di Giacobbe, larva d’Israele», ci sentiamo così piccoli davanti all’enormità dei problemi. Siamo disponibili a dare credito all’annuncio della liberazione che risuona per noi oggi? «Non temere, io ti vengo in aiuto».
Commentando queste parole, papa Francesco ha detto: «Il Natale ci aiuta a capire questo: in quella mangiatoia [...] è Dio grande che ha la forza di tutto, ma si rimpicciolisce per farci vicino e lì ci aiuta, ci promette delle cose» (Omelia Santa Marta, 14 dicembre 2017). C’è qualcosa di più sconvolgente per le nostre misure?
Sempre il Signore ci spiazza, perché ha uno sguardo diverso, vero, sul reale, capace di cogliere dati che noi non vediamo. Se accettiamo la sfida, noi che siamo così miseri potremo riconoscere la risposta al nostro grido: «Io, il Signore, risponderò loro, io, Dio d’Israele, non li abbandonerò». Chi confida in Lui, chi si abbandona al disegno di un Altro vede il compiersi della promessa: «Farò scaturire fiumi su brulle colline». Non è forse questo che ci stupisce di certi incontri? Mentre alcuni sono sempre più impauriti, sempre più ripiegati su se stessi, sempre più chiusi, sempre più scoraggiati, altri fioriscono e testimoniano un modo diverso, positivo, di vivere le cose solite.
Come è possibile che taluni risplendano di vita e altri trovino in ogni circostanza solo una conferma del loro scetticismo? Perché tutto passa attraverso la sottile lama della libertà. «Cambierò il deserto in un lago d’acqua, la terra arida in zona di sorgenti»: se assecondiamo il richiamo del Signore, potremo vedere fiorire la vita in questa terra arida, in questa nostra situazione storica - non in un’altra, in questa. «Nel deserto pianterò cedri, acacie, mirti e ulivi; nella steppa porrò cipressi, olmi e abeti». Chi si affida a questa promessa comincerà a guadagnare la vita vivendo.
Eppure spesso si insinua in noi la domanda: il Signore non potrebbe risparmiarci tante circostanze sfavorevoli con cui dobbiamo confrontarci? Non ci rendiamo conto che certe situazioni sono il frutto di un uso sbagliato della nostra libertà; Israele non si era fidato del Signore, non aveva creduto alla Sua parola e aveva preferito allearsi con le potenze dell’epoca, finendo in esilio. Chi invece si affida comincia a vedere i segni del Signore in azione: Dio opera nella storia «perché vedano e sappiano, considerino e comprendano [...] che questo ha fatto la mano del Signore, lo ha creato il Santo d’Israele».
Chi non si affida non vedrà, perché il mondo sarà sempre pieno di contraddizioni che spaventano, ma in chi accoglie Gesù la vita comincia a risplendere. Chi Lo riconosce comincia a vedere i germogli di una vita che fiorisce.
Occorre essere semplici, come dice Gesù che viene nel Natale: «Fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,11).