"Quando hai ottant'anni, l'unica cosa che puoi fare in un giorno di pieno agosto è andare al bar". E che fare al bar? Le carte, i fatti altrui, discussioni continue, e dopo: investigare. Come fanno i vecchietti del BarLume: Nonno Ampelio, l'oste Aldo, il Rimediotti pensionato di destra, il Del Tacca-del-Comune. Se c'è un delitto nei dintorni di Pineta, il loro onnisciente pettegolezzo diventa una formidabile macchina da indagine. Da dove Massimo il barrista estrae la chiave dell'enigma, come una Miss Marple in puro toscano. "La briscola in cinque": da un cassonetto dell'immondizia sporge il cadavere di una ragazzina. Sembra un fatto di sesso e droga, di balordi del giro, anche per la condotta della vittima, figlia di una delle migliori casate di Pineta. Dalle beffarde maldicenze, durante la partita a carte dei vecchietti del BarLume, spunta un intrigo più contorto e scabroso. "Il gioco delle tre carte": congresso a Pineta. Viene ucciso un anziano professore giapponese. Non c'è altra traccia da seguire se non un computer, ma aprendolo non si trova un indizio. Il commissario Fusco è smarrito. I vecchietti, al BarLume, fanno confusione. Nel gioco delle tre carte, la carta che vince si nasconde ostentandola. Come la verità in questo enigma investigativo. "Il re dei giochi": il re dei giochi è il biliardo nuovo dove si accampano in permanenza i vecchietti del BarLume. Più che giocare, sezionano Pineta. Sulla statale c'è stato un terribile incidente. È morto un ragazzo ed è in coma...
Prima dei romanzi della "Milano nera", Giorgio Scerbanenco creò una serie di polizieschi investigativi di stampo più classico incentrata sulla figura di un detective tutt'altro che classico, sul quale il padre nobile del giallo all'italiana poggiava la sua voglia di sperimentare. Arthur Jelling, archivista della polizia di Boston, come carattere saliente presenta un'estrema timidezza e si considera un comune impiegato, anzi: "Il più oscuro degli impiegati". Ma la memoria di una miriade di casi, filtrata dal talento di psicologo, ne fanno un imbattibile risolutore di enigmi, dal tratto garbato e schivo che disarma il colpevole. In "Sei giorni di preavviso", un attore, famoso e narcisista, si barrica in casa perché riceve avvisi, sempre più minacciosi. La scoperta del mittente dei messaggi di morte è affidata all'archivista della polizia. In "La bambola cieca", il milionario Déravans, accecato da un incidente, può essere guarito solo dall'ardita chirurgia del professor Linden. Questi riceve una minaccia di morte prontamente eseguita, minaccia trasmessa per mezzo di una bambola cieca. Il timido archivista capisce che l'unica via da seguire è capire cosa Déravans non avrebbe dovuto vedere se restituito alla luce. In "Nessuno è colpevole", Jelling affronta un caso senza problemi: un uomo è ucciso durante una partita di caccia e il suo compagno è reo confesso. La soluzione acquieta tutti. Solo l'archivista dal rossore facile non è pago e architetta una astrusa dimostrazione per assurdo.
Scrive Andrea Camilleri nella Nota a questo volume: "Nella mia vita ci sono stati due libri che mi hanno formato non come scrittore, ma come persona. Il primo era stato "La condizione umana" di Malraux, il secondo indubbiamente fu "Il mondo e una prigione" di Guglielmo Petroni. Fu, dunque, Petroni uno dei protagonisti della cultura italiana del secondo Novecento, come poeta, come narratore e anche come organizzatore (essendo tra i creatori del terzo programma radiofonico). Il nome delle parole è il libro autobiografico dal quale traspare un desiderio di sintesi, di bilancio: quasi un giustificare la scelta di dedicarsi, lui di famiglia povera, bambino autodidatta, alla cultura; scelta sentita simile a una sorta di tradimento del destino di nascita suo e di quelli come lui di non potersi esprimere. Un racconto che va dalla "casa povera" alla "casa giusta", cioè dalla prima infanzia agli anni dell'affermazione. Scandito in tre tempi. Il tempo dell'infanzia, in cui un essere sensibile alla bellezza apre gli occhi dentro "una vita povera che non conosce il nome dei colori e nemmeno quello delle parole". Il tempo dell'adolescenza, in cui per caso Guglielmo s'incontra con l'arte e l'arte gli trasmette il bisogno imperioso di "impossessarsi delle parole necessarie per adeguarsi agli oscuri sovvertimenti che le nuove immagini avevano provocato nel mio povero spazio spirituale": un bisogno di lettura di poesia e di scrittura.
"Tutto d'invenzione è il rustico paesotto: il paesaggio remoto, le otto chiese (sette per gli abbienti, una per i contadini), il Circolo litigioso e scalmanato; le scivolose segretezze, le vacanterie escandescenti di angusti e scaduti puntigli, le aggressioni sbagliate fatte in nome dell'onore, la foia atroce di un brigante dal nome biblico, l'astio e le divisioni tra bassa aristocrazia di campagna, professionisti borghesi, massari, campieri, nullatenenti. Assolutamente vera è invece la faccenda, testimoniata da Filippo Turati e da Don Luigi Sturzo. E personaggio storico è il protagonista Matteo Teresi, avvocato dei poveri e dei deboli; e giornalista, che la sua animosa attività di denuncia nutre di socialismo umanitario. Un fremito, un rimbombo, un intollerabile fracasso investe il villaggio. Si teme un'epidemia di colera. Corre l'anno 1901. Per un susseguirsi sbrigliato di equivoci, si crede al contagio. A un'invasione del Maligno. Nelle chiese si raccolgono e si mescolano le classi sociali. I preti, tutti, tranne quello della parrocchia dei poveri, svampano dai pulpiti sulle teste dei fedeli spauriti. Colgono l'occasione e infamano Teresi. Lo accusano di essere un sovversivo: in lega con il diavolo, nelle sue battaglie laiche. Viene indetta una crociata d'espiazione contro 'il diavolo sotto forma dell'avvocato', che attenta all'ordine sociale e all'unità sacra delle famiglie per dar luogo a una nuova Sodoma e a un'altra Gomorra." (Salvatore Silvano Nigro)
Tre individui: tre diversi la cui emarginazione non è dovuta a cause sociali o ideologiche, ma alla sindrome di Tourette, che provoca tic motori e verbali e una luminosa sensibilità. Sono amici; hanno passioni complementari; svolgono lavori solitari. Il primo è sospettato ingiustamente di un omicidio e diventa bersaglio di inspiegabili tentativi di ucciderlo. Gli altri due cominciano a indagare sul delitto per scagionarlo. Scovano le tracce di traffici tenebrosi e assassini, incrociano un gigante russo che nutre perverse utopie estetiche, si battono contro coppie di gemelli killer. Incompresi dalla polizia, tormentati da tic compulsivi che imitano pezzi di realtà svelandone la trama invisibile, vagabondano per le calles livide e i sotterranei miserabili di una Buenos Aires che prepara il bicentenario della indipendenza, tra bombe di nazionalisti, colonne di fumo, palazzi distrutti. "La sindrome di Rasputin" non è un giallo convenzionale. La critica in Argentina lo ha definito un feuilleton avventuroso, e l'autore, un innovatore del genere nella letteratura in lingua spagnola, vi unisce, all'avventura, l'azione cruda, la comicità del grottesco e dell'assurdo che diventa logica del mondo, sprazzi da fantascienza, e una visione in bianco e nero che s'ispira esplicitamente a sguardi cinematografici. Il tutto per raccontare, in fondo, la sostanza umana di un'amicizia nata dove la cosiddetta normalità erige i suoi muri.
Quattro donne in un labirinto senza uscita. Il laboratorio dell'esperimento è un chiuso residence messicano. Un villaggio in cui vivono in lussuoso isolamento le mogli degli ingegneri stranieri al lavoro in un grande cantiere. Paula, aspirante scrittrice e intellettuale, di umore scostante; Victoria, professoressa di chimica, intelligente e positiva; Susy, giovanissima americana segnata da un passato familiare traumatico e affamata d'affetto; Manuela, moglie sessantenne del capo, realizzata e sicura di sé con uno spirito protettivo da matrona. Piccole invidie, normali pettegolezzi, pretese e profferte di amicizia, sottili nevrosi, si incrociano e si scontrano come prevedibile e naturale. Ma un giorno una di esse si innamora del marito di un'altra. E scoppia una specie di reazione a catena, che investe, in una tempesta di sentimenti implacabili, ognuna di loro e ciascuno dei rapporti matrimoniali. Come se la scintilla di quell'amore irregolare fosse il lampo improvviso che illumina, per un attimo e per sempre, un paesaggio sconosciuto, fino a quel momento sepolto nella notte. Alicia Giménez-Bartlett si immerge impietosa nelle fragili personalità esposte allo stress di situazioni improvvise, insolite, che le scoprono indifese.
"Il tuo problema, Martin, è che fai il lavoro sbagliato. Nel momento sbagliato. Dalla parte sbagliata del mondo. Nel sistema sbagliato" è la frase finale di quest'ultimo romanzo che conclude la saga poliziesca di Martin Beck e della sua squadra di investigatori sulle strade di Stoccolma. E, detta dall'amico leale Kollberg che si è ritirato disgustato dalla polizia, suona simile a un'epigrafe generale di tutte le loro avventure. I dieci "romanzi su un crimine" della coppia Sjowall e Wahloo intendevano, infatti, mostrare come vanno le vere indagini di polizia nella società impastata di ingiustizia: quando il successo del poliziotto migliore, che svela le circostanze e le cause reali, coincide sempre, inevitabile, con il suo stesso fallimento morale. In "Terroristi" tutti questi motivi diversi -l'avventura, la denuncia sociale, l'inquietudine morale, una certa satira di costume dei potenti risaltano in esplicito rilievo. Giunto all'apice della carriera, Martin Beck deve affrontare, di fatto contemporaneamente, più casi insieme. L'omicidio di un regista pornografico e imprenditore del vizio. Una strana rapina commessa, a a detta dello sbrigativo procuratore, da una ragazza madre fuoriuscita da un mondo incantato. E infine, vicenda principale, l'attentato terroristico progettato contro un potente senatore americano in visita.
Un Natale degli anni Cinquanta. Tutta la famiglia è riunita intorno all'albero, che porta sulla cima un puntale con l'effigie di un angelo che il piccolo Morfeo fissa incantato; ora il bambino si allontana, si rannicchia presso una finestra, quando una persiana si stacca piombandogli sul capo. Il trauma lo lascia per giorni tra la vita e la morte. Ciò che segue è il tempo di Morfeo, da quel disgraziato incidente agli anni futuri. Ma ciò che segue può essere letto come un lungo delirio, come un sogno oppure come un racconto di verità alterato dal dolore, un dolore che c'è sempre, acquattato nelle pieghe della vita, e periodicamente mostra la smorfia. Morfeo cresce, diventa scrittore, incontra il mondo e i suoi curiosi abitanti: ha amici, passioni, e un amatissimo figlio. Ma tutto il suo cammino è segnato dalla malattia, forse eredità di quella ferita, forse no, che lo rende diverso e non mette d'accordo i medici, tantomeno l'industria delle cure. Superbia, vanità, incompetenza, ma soprattutto il cinico affarismo lo lasciano in balia dei farmaci, ne diventa dipendente, le sue giornate sono ritmate da quel "dominio chimico".
"Il commissario Montalbano si tiene costantemente d'occhio. È frastornato dai trasognamenti. Qualcuno gioca ingegnosamente con lui. Misura i passi del commissario. Li indirizza. Li spinge là dove è inutile che vadano: lungo piste che, se sono giuste, si rendono irriconoscibili, si cancellano, o si labirintizzano. Montalbano ha una sua cultura cinematografica. E gli viene in mente il vecchio film 'La signora di Shanghai' di Orson Welles: il torbido noir, con tutti i suoi scombussolamenti, e tutti i suoi illusionismi barocchi. Montalbano entra nel film. E vede se stesso disorientato, dentro la scena finale, nella sala degli specchi di un padiglione del Luna Park. Il prodigio degli specchi altera lo spazio visibile. Si spara. Ma non si capisce se i bersagli sono reali o esito di un gioco di specchi. Un villino, un giro di macchine, una storia d'amore un po' scespiriana, due esplosioni apparentemente insensate, un proiettile senza tracciabile direzione, una coppia di cadaveri, bruciato uno, bestialmente violentato l'altro, entrano nella trama del romanzo. La narrazione si concede focali corte, inquadrature insolite, avanzamenti lentissimi alternati a piani-sequenza vertiginosi. Scorre come un film. Turba e sconvolge, ma non si nega qualche respiro ludico, utile anch'esso alla soluzione del giallo. Persino Catarella ha il suo momento di gloria, alla fine." Salvatore Silvano Nigro