Una sentenza di Hegel assegnava alla filosofia il compito di comprendere il proprio tempo con il pensiero. Secondo Marramao questa responsabilità, caratteristica dell'epoca moderna, non è demandabile oggi ad altri saperi, e tanto meno cedibile a chi si proclama depositario delle risorse di senso. Ma il precetto hegeliano va rideclinato al di fuori di statuti privilegiati e logiche di supremazia: se responsabilità significa "rispondere a" piuttosto che "rispondere di", allora lasciarsi interpellare dal presente comporta intensificare il tenore dialogico della riflessione e dislocarsi come interrogante. Marramao guarda ai transiti accidentati e ai fraintendimenti della mondializzazione, alle sue rigidità identitarie e alle sue patologie temporali, alle sue false alternative e alle sue polarità immobili. Al contempo irrinunciabili e inadeguate, le categorie universalistiche del diritto e dell'humanitas riacquistano forza solo quando sono messe in tensione con le esperienze emozionali del valore e le retoriche all'opera nel racconto di sé, cui va restituito uno statuto concettuale. Dalla singolarità con quanto ha di irriducibile, e non dall'identità nelle sue diverse configurazioni comunitarie, statuali, etniche o linguistiche, occorre partire per delineare una sfera pubblica globale che si riconosca nell'unico universalismo non omologante, quello della differenza.
Pierre Sansot - autore, fra l'altro, di "Sul buon uso della lentezza" - se ne è andato lasciando un'opera postuma dedicata al tema di "quel che resta". Se l'eliminazione di ciò che viene ritenuto inutile, il culto forsennato del nuovo sembrano essere le parole d'ordine del mondo di oggi, Sansot invita a riconoscere con più serenità la presenza di tutto il resto, di tutto ciò che è altro da noi. Una presenza talvolta rivelatrice di assenza, un pieno che allude a un vuoto, una decisione che si fa all'improvviso esitazione. In questo libro si parla di briciole, rifiuti, avanzi, scarti, ma anche di reliquie, ricordi e rimorsi, di imponderabili tracce e devastanti macerie. Restare vuol dire anche insistere e resistere, difendere nella memoria di chi sopravvive il ricordo di un'esistenza, salvaguardare la propria umanità opponendo al resto spregevole della morte il potere di un sorriso, confidando che, qui e ora, "la nostra società e la nostra terra sono più belle che mai". Questo volume è un'opera incompiuta: il tempo e la malattia hanno impedito a Sansot di effettuare un'ultima revisione. Ma paradossalmente è proprio questa incompiutezza a rendere la prosa lieve e meticolosa.
Pierre Hadot è solo un ragazzo quando il cielo stellato gli regala un'esperienza indimenticabile, in cui più tardi riconosce ciò che Romain Rolland chiama il "sentimento oceanico". "Credo di essere filosofo a partire da quel momento", dice una sessantina d'anni dopo. Che cos'è filosofare? Per Hadot la filosofia è un'esperienza vissuta. I discorsi filosofici degli antichi sono "esercizi spirituali" che non mirano a informare, ma a formare e a trasformare noi stessi. E se filosofare vuoi dire "esercitarsi a morire", esercitarsi a morire vuoi dire esercitarsi a vivere con piena lucidità, staccarsi dal proprio io per aprirsi a una prospettiva universale l'itinerario della saggezza.
Il libro raccoglie una serie di saggi e interviste nelle quali Gauchet torna sulla tesi centrale de "Il disincanto del mondo" a vent'anni dalla sua pubblicazione. Tra i temi trattati, l'idea della modernità come processo di "uscita dalla religione" e l'interpretazione della crisi della democrazia contemporanea come il risvolto negativo del regime dell'integrale autonomia. Nella prima parte, si mostra la validità e la pertinenza storica e filosofica delle tesi sostenute ne "Il disincanto del mondo" confutando l'ipotesi diffusa che vede in fenomeni quali l'emergere dei più diversi fondamentalismi religiosi, o nell'affiorare di nuove forme di spiritualità, il segno di un ritorno del religioso. Nella seconda parte, si mostra l'altro aspetto del problema: cosa ne è di una politica ricondotta all'integrale auto-definizione del suo contenuto e dei suoi fini? E della religione cui è sottratta qualsiasi presa sul sociale? L'ipotesi gauchetiana offre un punto di vista originale e una lucida analisi delle attuali contraddizioni.
La filosofia di Aristotele è un caso forse unico, nella storia, di "sistema aperto", cioè di filosofia che è un vero sistema, dotato di una grande differenziazione interna, ma anche di una certa unità; ed è anche un sistema aperto, suscettibile di continue integrazioni, anzi di molteplici usi, data la sua grande versatilità, attestata da una fortuna tra le più longeve che mai si siano date e da una presenza massiccia nella stessa filosofia del Novecento. A essa si possono attingere concetti, categorie, distinzioni, dottrine, adoperabili per gli usi più svariati, nelle più diverse direzioni, sia filosofiche che scientifiche, sia teoretiche, cioè logico-metafisiche, che pratiche, cioè etico-politiche, per non parlare degli usi a fini poetici e retorici. Ma questi concetti, distinzioni, dottrine funzionano, cioè rispondono allo scopo per cui vengono impiegati, solo se sono utilizzati nel rispetto del loro significato originario. Si tratta di una coerenza non rigida, ma elastica, di una logica non monolitica, ma articolata e duttile, Dall'esistenzialismo di Heidegger alla filosofia pratica di Gadamer, dalla "nuova retorica" di Perelman e Toulmin alla nuova scienza di Prigogine e Jacob, alla nuova epistemologia di Kuhn e Feyerabend, Enrico Berti ritrova le tracce dell'inesauribile forza del pensiero aristotelico.
Le domande fondamentali (Qual è il senso dell’esistenza? Perché il male e la sofferenza?...) – e, in un certo senso, anche le risposte – sono presenti, per natura, all’intelligenza di ogni uomo, sono la sostanza della religione che, perciò, accomuna tutti gli uomini, al di là delle religioni particolari. L’autore affronta il carattere razionale e quindi specificamente umano della religione, la quale si rivela così strumento di «dialogo tra uomini e popoli alla ricerca di soluzioni ragionevoli per la realizzazione del bene comune».
Prefazione di Ferdinando Adornato
Jay Heinrichs insegna a districarsi tra i trabocchetti della comunicazione non verbale e a fare propri con semplicità i cardini della retorica classica, svelando che politici, autori, personaggi televisivi e star del cinema o della musica se ne sono sempre serviti per ottenere il più antico degli scopi: fare di testa propria. Così si scoprirà che fanno parte degli omerismi (non di Omero ma di Homer Simpson) l'anamnesi, l'antitesi o l'aporia, si imparerà a parlare come Bush, a sedurre in tre minuti un poliziotto per non farsi fare la multa e a litigare con il fidanzato ispirandosi a Cats e Macbeth...
In un contesto culturale definito come "post-metafisico", è ancora possibile pensare Dio e la verità senza scadere nel relativismo, ma pure senza riproporre un oggettivismo di ritorno? Come perseguire l'impresa di "allargare gli spazi della razionalità" (Benedetto XVI), superando le estenuanti separazioni antiche e moderne tra umano e divino, tempo ed eternità, sapere e credere? Il volume si impegna ad affrontare tali interrogativi epocali, tramite un confronto serrato con le opere di tre esponenti significativi della cosiddetta "Scuola heideggeriana cattolica": J.B. Lotz, M. Müller e B. Welte. I loro percorsi appaiono istruttivi per il tentativo di riflettere - insieme con Heidegger, ma anche oltre e contro il suo pensiero - a proposito dell'essere e del fondamento, prendendo sul serio il carattere storico dell'uomo e della sua coscienza. Il saggio cerca di ricostruire il contributo di tali autori, mettendone in rilievo ed esplicitandone la fecondità per la ricerca contempo-ranea della filosofia e della teologia. Nella consapevolezza - accertata una volta per tutte dall'Evangelo - che soltanto l'incontro con l'evento della verità di Dio è capace di aprire l'accesso all'origine e al compimento della libertà di ogni uomo.
Come si è venuta costruendo una filosofia? Quali sono state le tappe della sua gestazione? Sono queste le domande che trovano risposta in questo libro-intervista di Salvatore Natoli. Dagli anni giovanili in Sicilia alla frequentazione dell'Università Cattolica, dallo studio dei classici ai primi lineamenti di un'ermeneutica genealogica, dall'elaborazione di una teoria del soggetto a un'immedesimazione sempre più intensa con il dolore e la felicità degli uomini, dalla ripresa del tema delle virtù allo sviluppo di un'etica del finito: nel percorso filosofico di Natoli l'ascolto e l'interpretazione del reale vanno di pari passo, in un incedere che elabora categorie, offre modelli e fornisce un orizzonte per orientarsi nell'enigmaticità del mondo.
Nel nostro tempo i mezzi di comunicazione di massa, sostanzialmente egemonizzati dal potere economico, stanno trasformando la mentalità corrente, la stessa struttura di base della personalità, distruggendo valori e parametri operativi su cui finora si era articolata la civiltà, sia quelli fondativi della cultura tradizionalista sia quelli che hanno ispirato negli ultimi due secoli la cultura democratica e di sinistra. Per quanto ormai si abbia di ciò una conoscenza diffusa, sembra mancare ancora uno studio analitico e sistematico del fenomeno. L'antica Grecia visse, tra V e IV secolo a.C., una rivoluzione analoga, grazie al passaggio da una cultura ancora prevalentemente orale alla cultura fondata sulla comunicazione scritta e sul libro. Il confronto tra i due sistemi fornì a Platone il distacco critico sufficiente per elaborare una vera e propria teoria scientifica dei meccanismi inconsci, ma infallibili, attraverso cui l'affabulazione, nella sua ripetitività consuetudinaria, plasma gli orientamenti psicologici di una comunità.
"Nessun filosofo ha affascinato per un tempo così lungo tanti lettori con interessi così diversi come Fiatone". A parere di Vittorio Hösle sono almeno tre i motivi di questa fortuna: la "massima originalità" dei contenuti del pensiero, il periodo storico che "appartiene ai più creativi nella storia dell'umanità" e lo "straordinario talento artistico" che caratterizza la figura di Platone. I saggi raccolti in questo volume offrono varie prospettive per una nuova e acuta inter-pretazione di Fiatone. La riflessione di Hösle si apre con l'analisi dello sviluppo dell'ermeneutica platonica con uno sguardo ad ampio raggio che muove dal pensiero dei Medioplatonici per arrivare alla scuola di Tubinga, con particolare riferimento al problema interpretativo rappresentato dalla forma del dialogo ed al rapporto tra oralità e scrittura. La seconda parte del volume si concentra sulla lettura del dialogo "Eutidemo" e sul raffronto tra le tecniche dialogiche di Platone e quelle di Cicerone.
La rêverie - fantasticheria, immaginazione, abbandono al flusso del sogno a occhi aperti - è uno stato della coscienza che tutti conoscono. Gaston Bachelard, figura emblematica dell'epistemologia francese, la definisce come la materia prima dell'opera letteraria. In questo testo, evocativo e magico, si propone di riesaminare in una nuova prospettiva le immagini poetiche fedelmente amate. Oltre a evidenziare il valore conoscitivo della rêverie, mette in luce il godimento che se ne può trarre. Facendo riferimento ai concetti junghiani di animus e anima, Bachelard affronta il tema dell'idealizzazione dell'essere amato. Dedica un altro capitolo ai ricordi d'infanzia e approfondisce la distinzione tra sogno notturno e rêverie diurna. Conclude sostenendo: "Di quale altra libertà psicologica godiamo oltre a quella di fantasticare? Psicologicamente parlando, è proprio nelle rêveries che siamo degli esseri liberi".