Passeggiando nei pressi di una fonderia - così si narra - Pitagora ebbe la prima fulminante intuizione circa l'armonia: il suono calibrato che usciva dal luogo lo spinse a entrare e indagarne la natura. Entrato, trovò cinque uomini che impugnavano altrettanti martelli di diverse grandezze. Scoprì così che quattro di quegli utensili, tutt'altro che musicali per loro natura, grazie a ben precise dimensioni, riuscivano a emettere un suono armonico, capace di dilettare l'orecchio oltre ogni aspettativa. Era il primo passo per lo studio dell'armonia sonora e dell'approccio alle leggi che governano la musica. Il quinto di quei martelli invece - punto nodale del discorso dell'autore - venne scartato dalle osservazioni di Pitagora, non essendo egli stato in grado né di misurarlo, né di udirlo distintamente. Cosa indusse Pitagora a questa azione di scarto così ferma e decisa? Il libro parte proprio da questo, ipotizzando che la scelta offra la chiave per la definizione dell'idea stessa dell'armonia. Dal rifiuto del quinto martello, infatti, sarebbe nata la teoria del suono musicale, rifiuto che coincide con il primo assioma della scienza del mondo sensibile.
Una pluralità di indagini e di metodi convergono sulla coppia di concetti Dio e Divino, considerati in un ampio spazio temporale che va dal mondo antico al Medioevo fino alla contemporaneità. Il primo tema messo in luce è la definizione del divino, nella filosofia greca classica, nell'età imperiale e nel XX secolo, qui riconsiderando la natura di "dio provvidente" alla luce della tragedia umana della Seconda guerra mondiale e dell'olocausto. In seconda istanza, il discorso si rivolge alla questione del finalismo: questo tema, connesso a quello della provvidenza, è investigato sotto molteplici punti di vista e costituisce il baricentro dell'opera. In quest'ambito si colloca il problema del male in una prospettiva universale e metafisica, cioè nell'opposizione fra assoluto e relativo, umano e divino, sensibile e soprasensibile. Il bilancio teoretico di questa ricerca si traduce nel riconoscere alla metafisica non solo la competenza su un vasto repertorio di ambiti (protologia, eziologia, ontologia, ousiologia, teologia), ma anche lo studio specifico della sostanza e di ciò che dipende da essa, al fine di esprimere in maniera fondata quanto può essere assunto come fondamento di altro secondo una visione gerarchica di tutto ciò che esiste. Il volume raccoglie gli Atti del Convegno "Il divino e l'ordine del mondo: una polarità ricorrente. Minima Metaphysica" tenuto presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano il 5-7 novembre 2012.
In dieci capitoli che si sviluppano nella forma di un dialogo, Robert Spaemann descrive episodi, esperienze ed incontri che lo hanno durevolmente segnato. Dialoghi ed episodi formano così un libro nel quale Robert Spaemann racconta le tappe della sua vita e il proprio itinerario intellettuale. Elementi biografici e filosofici si mescolano, e il racconto - come è tipico per questi e per molti altri dialoghi con Robert Spaemann - si allarga fino a sfociare in un nuovo pensare. Ne è derivato un panorama di immagini e di pensieri dalle tappe di vita, ritratti, discussioni e posizioni, che farà gioire chi già conosce Spaemann, ma terrà pure viva l'attenzione di ogni altro lettore che ancora non lo abbia incontrato. I due interessi della ragione, un testo che in nuce ripropone il pensiero di Robert Spaemann degli ultimi anni, costituisce il punto conclusivo e l'ultimo atto di questa concisa biografia intellettuale in forma di dialogo.
"Mi pare che nella Trilogia ci sia abbastanza luce per chi voglia scorgere qualcosa che riguardi l'uomo contemporaneo e abbastanza oscurità per chi non intenda vedervi nulla: io riconosco nell'opera calviniana un triplice trattato di antropologia in cui l'autore, forse inconsapevolmente, si concentra sulla condizione dell'uomo post-moderno per coglierne le inquietudini, le incoerenze e le contraddizioni. Nel visconte, nel barone e nel cavaliere traspaiono tre emblemi della crisi che l'uomo, oggi, vive; tre simboli liquidi della nostalgia per uno stato d'armonia smarrito e dell'aspirazione a una condizione di completezza perduta. Come i personaggi della Trilogia anche l'uomo contemporaneo vive in bilico: emarginato ai bordi dell'universo in cui è costretto a sussistere senza un perché, egli si trova attualmente di fronte a un bivio, quello che propone l'alternativa radicale tra l'essere-di-più e il non-essere-mai-più" (dall'"Introduzione").
Il passato si manifesta sempre nel presente e, nel nostro tempo, ha costruito un mondo alienato, dove la follia dei mercati senza regole, l'iniquità sociale, la precarietà degli equilibri geopolitici, la guerra globale al terrorismo, il rischio nucleare, la distruzione dell'ecosistema, l'inarrestabile migrazione dei nuovi nomadi della terra, la mancanza di un nuovo ordine mondiale che disciplini l'economia globale e stabilisca un nuovo diritto della gente segnano il futuro delle giovani generazioni nel nuovo secolo. Esse sono il futuro, noi siamo il passato che distrugge il presente e pretende di fermare il tempo, di sottrarsi al divenire. Un'illusione. Di qui, in Occidente, l'esigenza di andare oltre, e di costruire un'economia altra e una società altra che diano un senso nuovo al mondo. Si dirà che una tale esigenza è utopia, ma è l'utopia del futuro che muove la storia del presente.
È concepibile che esistano al contempo un soggetto onnipresciente, in grado di conoscere ogni cosa prima che accada, e individui che non siano determinati ad agire solo come questo soggetto vede e vuole? Come conciliare il fatto che un evento accaduto ieri possa, oggi, non essere accaduto ieri? La libertà coincide davvero con l'assoluta apertura del futuro? Se invece il futuro è chiuso dalla prescienza divina, o dai limiti della nostra esistenza, si possono comunque, o forse proprio per questo, aprire spazi di libertà in questo mondo? Ecco alcune delle domande che secoli di tradizioni filosofiche, scientifiche e teologiche hanno raccolto sotto il termine compatibilismo. Vi è stato, e vi è ancora, chi ha sostenuto che siano domande senza risposta, tentativi di metterle brache al mondo. Questo libro tratta di chi ha cercato di fornire una risposta, una soluzione all'interno del proprio modo di pensare - da Severino Boezio ad Anselmo d'Aosta a Tommaso d'Aquino; da Duns Scoto a Ockham sino a Molina e Leibniz. Oppure di chi ritiene utile servirsi del passato come di una serie di soluzioni a domande del presente. Ma racconta anche di chi ha serenamente rinunciato a rispondere, sino a chi intravede nel compatibilismo uno strumento prezioso per il dialogo tra culture e tradizioni religiose.
Dopo il primo volume, dedicato a Israele e a come prese forma in simboli la sua esperienza sullo sfondo degli imperi cosmologici del vicino Oriente Antico, il secondo volume di Ordine e storia, un grande classico della filosofia politica, si rivolge all'area greca. Anche qui si attuò una rottura con la prospettiva cosmologica, grazie a un "salto nell'essere" in cui il mito fu oltrepassato nell'ordine trascendente-divino. Si trattò di un passaggio graduale, scandito dalla transizione dal mito alla filosofia. Esso prese avvio nell'epica omerica, con la creazione del mito olimpico e il risveglio della coscienza di un comune ordine egeo che poggiava su un passato minoico-miceneo. Proseguì con la Teogonia esiodea, in cui il materiale mitico, soprattutto omerico, venne riplasmato secondo un'intenzione speculativa. Approdò infine mediante l'anello intermedio dei "filosofi mistici" Senofane, Parmenide ed Eraclito - alla metafisica di Platone e Aristotele. Il termine di questa transizione trova espressione nella formula "Dio misura invisibile dell'uomo". Questo lungo percorso viene scandito da Voegelin in due volumi: il primo dei quali (quello presente) inizia dal remoto passato minoico e termina con i rivolgimenti dell'età della Sofistica.
Non ci sarebbe bisogno di leggi, di regole, di comandamenti, se non ci fossero uomini e donne disposti all'imbroglio, alla menzogna, al furto, al falso giuramento e all'omicidio. Eppure - sostiene Ágnes Heller - fino a quando la capacità di distinguere il bene dal male prevale sugli altri princìpi, resta valido un punto centrale di riferimento morale. «Certamente ogni persona retta lo è in modo diverso, ciascuno a suo modo, ma l'uomo e la donna retta rimangono sempre colui o colei che preferirebbe, se fosse posto di fronte a una scelta, soffrire un'ingiustizia piuttosto che commetterla, subire un torto piuttosto che farlo di proposito a un altro». Tuttavia, la rettitudine non è immediatamente identificabile con la bontà o con la scelta della sofferenza come testimonianza morale. L'irreprensibilità di una persona retta è molto più modesta: essa sceglie di soffrire solo nel caso in cui l'unica alternativa alla sua sofferenza sia la causa indiretta della sofferenza altrui.
Sono pochi i giorni in cui non facciamo, almeno implicitamente, uso del "noi" collettivo, che si stia parlando o semplicemente pensando. Ma che cosa ci legittima a usare questo "noi"? Margaret Gilbert pone qui la questione del fondamento del noi collettivo, cruciale per ogni ontologia sociale, a partire da un originale approccio esistenziale: "Non si può sperare di avere una comprensione adeguata della condizione umana senza rispondere a questa domanda". Elaborando i concetti di "impegno congiunto" e di "soggetto plurale", l'autrice affronta alcuni problemi decisivi del noi collettivo protagonista delle nostre vite quotidiane. Esistono valori collettivi, i valori di un soggetto plurale, di un noi collettivo? E che ne è della libertà dei singoli individui nella condivisione dei valori di un soggetto plurale? Se diciamo che noi siamo moralmente responsabili per qualcosa, che cosa dice questo di me e di te, singoli individui appartenenti a quel collettivo? Qual è la relazione tra l'impegno congiunto costitutivo del noi collettivo e il fenomeno della fusione degli io nell'amore? Che cosa distingue un mero aggregato di singoli esseri umani da un'unità sociale? Nel caso della comunità europea, siamo in presenza della costituzione di un nuovo noi, di un nuovo popolo con le caratteristiche di europei?
Per l'uomo di oggi, che non spera più nella salvezza alla fine dei tempi ma ha davanti a sé un tempo senza fine, navigare in mare aperto sembra ormai diventato l'unico modo di vivere. Ma quale rotta seguire, dopo il tramonto di ogni certezza e il declino della tradizione giudaico-cristiana in Occidente, due segni distintivi della nostra epoca? Al termine di un lungo e originale itinerario di riflessione sulla modernità, Salvatore Natoli analizza le varie forme del fare (il lavoro, innanzitutto, ma anche il consumo, il progresso, il rischio) e il loro rapporto con quello che dovrebbe essere il vero obiettivo di ogni essere umano: un buon uso del mondo. Partendo dalla distinzione aristotelica tra "agire" (dare un senso alle proprie azioni) e "fare" (eseguire un compito), l'autore si chiede quanto, nella nostra frenetica attività quotidiana, siamo "agenti", soggetti capaci di realizzarsi in ciò che fanno, e quanto invece siamo "agiti", elementi impersonali di una serie causale e anonima di cui non si vede né l'inizio né la fine. Per essere titolari della propria vita, e quindi davvero liberi, non basta infatti conformarsi a ciò che l'organizzazione sociale richiede, ma occorre istituire un rapporto autentico con il proprio desiderio, con la propria corporeità e con gli altri. Così, nella società delle abilità, della tecnica e del saper fare, si ripropone in tutta la sua urgenza la questione delle virtù, intese come "abilità a esistere", in grado di darci stabilità e consistenza.
"L'immagine infranta" descrive la parabola del moderno attraverso una fitta trama di rapporti tra romanzieri e poeti (da Cervantes a Celan), filosofi (da Vico a Benjamin), pittori e scultori (da Manet a Fontana, a Pollock). Il filo conduttore è la crisi del linguaggio figurale: il mondo non offre più un'immagine stabile di sé, né il "pensiero" sembra capace di creare nuove immagini per dare ordine al mondo. La profondità di questa crisi, che ha raggiunto la stessa origine dell'esistenza umana, quell'"iconologia della mente" che ha segnato il passaggio da natura a storia, è testimoniata dalle decisioni estreme di due tra gli artisti più significativi del nostro tempo, Pollock e Celan, che non esitarono a "ripetere", per stanchezza, e disperazione, il gesto dell'Empedocle holderliniano - già compiuto, in altra forma, da Nietzsche. Tramonto o nuova alba? "L'immagine infranta" termina con questa domanda, che è anche una speranza: e se la crisi del linguaggio immaginale fosse il prezzo necessario per aprirsi alla possibilità di un linguaggio più umile, ma insieme più largo e profondo? Il linguaggio del corpo e della natura, il linguaggio che non "immagina", che non "fa-segno", ma è la cosa stessa: l'"essere-accanto" di uomini e cose, tra "pietre ed erbe".