Nell'effervescente contesto culturale del secondo XIX secolo, la coscienza nazionale dell'Italia unificata riscopriva la propria identità storica e le radici artistiche; si incrementavano i cantieri di scavo archeologico e di ripristino architettonico: fra i più emblematici quello di Sant'Ambrogio a Milano. In quest'orizzonte, l'ingegnere francese Fernand de Dartein (1838-1912) redigeva l'Étude sur l'architecture lombarde et sur les origines de l'architecture romano-byzantine, prima e colossale indagine sul romanico in Lombardia, e svolgeva i suoi sopralluoghi alla basilica, documentati da schizzi, disegni e planches acquerellate preparatorie alle incisioni. A cent'anni dalla morte dello studioso francese, questa ricerca ne ricostruisce l'indagine e riesamina alcune questioni problematiche, cronologiche e strutturali, riconsiderando come la basilica di Sant'Ambrogio nell'Ottocento abbia avuto nuova vita e sia diventata la basilica che oggi conosciamo.
A Roma politica e poesia non si sono mai potute dividere. I poeti mostravano ai governanti la strada oppure li contestavano. Con Augusto, Roma opera la grande rivoluzione artistica: l'armonia, la pace, l'ordine al posto dello strano e dell'esotico. E Virgilio che, cantando le origini di Roma, indica ad Augusto la strada per la rinascita artistica dell'Impero. L'arte diviene specchio di una nuova ideologia, che influenzerà la storia occidentale con corsi e ricorsi rispetto alla classicità augustea. Essa è presente nello stesso sguardo di Virgilio accompagnatore di Dante. La pace di cui gli uomini e i governanti si sono mostrati sovente incapaci è così "realizzata" da Augusto nel decoro dell'ara Pacis Augustae.
Il tema dell'immagine ha sempre accompagnato la storia del cristianesimo: un iniziale aniconismo, influenzato dal divieto veterotestamentario di farsi immagini di Dio, si sarebbe aperto, con il passare dei secoli e non senza resistenze, a una piena accettazione dell'arte sacra figurativa, a cui la tradizione dell'Oriente bizantino riconobbe una natura teologica di primaria importanza in ordine alla rivelazione del mistero cristiano. In questa ricostruzione l'iconoclasmo e la negazione delle immagini sono stati letti come una crisi, un'interruzione dolorosa in un mondo ormai votato al culto dei tratti di Cristo e dei santi fissati nelle icone. Il cristianesimo delle origini tuttavia, pur tra ostacoli e discussioni, ha realmente accolto e promosso la possibilità delle raffigurazioni religiose? Le lotte iconoclaste furono davvero un momento di crisi o piuttosto l'apice di un cristianesimo spirituale come fu quello dei primi otto secoli? Gli imperatori iconoclasti imposero la propria linea teologica a un clero favorevole alle immagini sacre, o piuttosto furono i difensori convinti di un aniconismo che nel contesto del cristianesimo bizantino rappresentava una tendenza diffusa? Da quando la Chiesa d'Oriente ha iniziato a credere che le icone fossero "irruzione dell'eternità nel tempo"?
Nonostante l'antichità dell'edificio, di fondazione costantiniana, e il prestigio conferito dal prezioso "tesoro" delle reliquie della Passione di Cristo, la basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma non disponeva ancora di un'indagine complessiva della sua storia, monumentale, artistica e spirituale. Gli studi, caratterizzati specialmente negli ultimi anni da importanti interventi di scavo e restauro, si sono però infittiti, sia sulla topografia della zona, di eccezionale rilievo archeologico, sia sulle strutture architettoniche e il complemento pittorico tra Medioevo ed Età moderna. Si è ritenuto quindi opportuno proporre uno strumento di conoscenza sicuro e aggiornato, che oltre a presentare, in efficace sintesi e per nodi fondamentali, la complessa vicenda dell'edificio, integrasse l'approccio tradizionale con la riflessione sul patrimonio di reliquie che lo caratterizza e sulla figura della fondatrice, l'imperatrice Elena, che ne ha fatto una "Gerusalemme a Roma", sintesi irripetibile dei due massimi centri della cristianità. Al progetto, promosso dall'Editoriale Jaca Book, è stato chiamato a collaborare un nutrito gruppo di specialisti, con il coordinamento di Roberto Cassanelli, dell'Università Cattolica del S.C. di Milano, e Emilia Stolfi, a lungo curatrice dell'Archivio dell'abbazia cisterciense di Santa Croce.
La pubblicazione (1762) del Campo Marzio di Giovanni Battista Piranesi, quinto volume delle sue "Antichità romane", la più ampia ed erudita ricostruzione mai compiuta della Roma antica, suscitò grande sorpresa. Al suo interno era infatti scomparsa la Via Lata (l'odierna Via del Corso), un'arteria fondamentale nella rete viaria dell'Urbe, spostata in altra parte della città. Per spiegare i motivi dell'originale scelta, Connors indaga sulla genesi dell'opera e ripercorre la storia delle precedenti piante di Roma utilizzate da Piranesi, da quella di Leonardo Bufalini (1551) alla scoperta (1562) dei frammenti della pianta marmorea risalente a Settimio Severo, sino alla pianta, recentissima, di Giovanni Battista Nolli (1748). Anche se le ipotesi piranesiane sono state smentite dalle ricerche più recenti, il suo modo di "anatomizzare" le rovine con immaginazione quasi visionaria, nutrita dal sapere cumulato da generazioni di antiquari e di topografi ma anche dall'esame diretto dei resti sopravvissuti, rimane straordinariamente avvincente e istruttivo. Il volume pubblica sia il testo pronunciato in italiano della XXI "Conferenza dell'Unione" tenuta a Roma il 1° dicembre 2003, sia quello successivamente elaborato, ampliato e annotato, in inglese. Prefazione di Walter Geerts. Introduzione di Lousie Rice
Secondo Walter Benjamin, il cinema è l'arte emblematica del mondo moderno, di cui riflette i ritmi, l'esperienza e la tragica discontinuità. Gli scritti proposti in questo volume intendono riflettere sui film di Sokurov in modo "saggistico", come è da tempo normale per opere di letteratura o di arti figurative. La critica del cinema, differentemente da una semplice "storia", interroga i fotogrammi e le sequenze come fossero "immagini di pensiero", che ci rivelano le dimensioni dello spazio e del tempo in cui viviamo e la struttura profonda del nostro immaginario. D'altra parte alcuni registi si prestano in modo evidente a questo lavoro di riflessione, perché essi stessi rifiutano il cinema commerciale e spettacolare e la loro opera contiene un'esplicita interrogazione sulla natura delle immagini e sul loro ruolo nella modernità (artistica e politica). Questo libro analizza l'opera di A. Sokurov, considerato dalla critica come uno dei migliori registi europei attuali e l'unico vero erede di A. Tarkovskij. Metafisica, storia e politica si intrecciano nei suoi film in modo indissolubile. In particolare, Sokurov è autore di una "quadrilogia del potere", Moloch (1999), Taurus (2000), Il Sole (2004), Faust (2011), opere in cui considera la costituzione e il disfacimento dei totalitarismi del '900
"Simbolo del potere imperiale", "ottava meraviglia del mondo", "luogo tra terra e cielo": con espressioni di questo tenore, nell’arco di tutto il Medio Evo cristiano, la basilica di Santa Sofia a Costantinopoli venne salutata e celebrata non solo come il culmine di una plurisecolare competenza tecnica e architettonica ma anche come opera "di ispirazione divina", in virtù di uno speciale favore disceso dall’alto sull’imperatore Giustiniano (527-565) che la commissionò e la realizzò esattamente negli anni in cui il suo potere,, centrato nella Nuova Roma sul Bosforo, andava dalle Alpi al Nilo, dall’Eufrate al Danubio alla penisola iberica.
Il presente volume propone una restituzione appassionata, accademicamente impeccabile, ma accessibile anche ai non specialisti (grazie a un ricco apparato iconografico espressamente concepito per questo volume) del testo che Procopio di Cesarea, il massimo storico dell’epoca di Giustiniano, dedicò alla Santa Sofia. La compenetrazione tra le competenze storico-artistiche e storico-filologiche dei due curatori del volume consente di godere appieno del testo procopiano in un fitto tessuto di raffinati rimandi letterari e di precise indicazioni per la visione diretta del capolavoro di Santa Sofia. Ancor oggi come nel VI secolo bizantino quella basilica "sfida l’osservatore" in una costante eccedenza della visione rispetto alla comprensione, che Procopio ha formulato per primo e per tutti, e che continua a rivelarsi come una sapienza insieme dichiarata e segreta.
Un'opera fortemente innovativa che intreccia storia dell'arte, politica e religione
Nel mondo bizantino la Vergine Maria incarnava il potere piuttosto che la tenerezza materna. Conosciuta come la Madre di Dio, divenne garante della vittoria militare e quindi dell’autorità imperiale. In questo libro pionieristico, Bissera V. Pentcheva collega la fusione di culto mariano e ordinamento imperiale con i poteri attribuiti alle immagini di questa donna Tutta Santa. Attingendo a una gamma di fonti e immagini, da monete e sigilli a mosaici monumentali, Pentcheva dimostra che uno slittamento fondamentale dalle reliquie alle icone nel culto bizantino avvenne verso la fine del X secolo. Inoltre, l’autrice mostra come le processioni attraverso la città di Costantinopoli fornissero il contesto nel quale le icone mariane si presentavano quali colonne portanti delle richieste imperiali di protezione divina. Pentcheva apre nuove strade sostenendo che la devozione alle icone mariane dovrebbe essere considerata uno sviluppo posteriore a quanto generalmente si presume. Questa nuova prospettiva ha importanti implicazioni non solo per la storia del rituale imperiale, ma anche per la comprensione della creazione di una nuova iconografia mariana nel corso del XII e XIII secolo. Centrato su questioni fondamentali di arte, religione e politica, Icone e potere fornisce un contributo significativo all’intero campo degli studi medievali. L’opera sarà anche di grande interesse per tutti coloro che si occupano del culto di Maria nelle tradizioni cristiane in Oriente e in Occidente.
Un'opera simbolo della grande pittura antica. Uno studio serrato, coinvolgente e innovativo
Il grande affresco dionisiaco della villa dei Misteri esercita uno strano fascino sugli innumerevoli visitatori di Pompei. Il suo significato ha suscitato numerose polemiche, più feconde di quanto non lasci intendere un recente studio nel quale i misteri evocati dalla pittura sono ridotti a dei segreti d’alcova. Questo successo, unico nel suo genere forse in tutta la storia della pittura, è dovuto al genio pubblicitario dell’archeologo italiano Amedeo Maiuri, che ebbe l’idea di chiamare villa dei Misteri quella che era ancora villa Item, dal nome del proprietario del terreno dove la villa fu portata alla luce a partire dal 1906. Anche dopo le spettacolari scoperte in Macedonia, questo affresco rimane tra le testimonianze più impressionanti che noi possediamo di quella che fu la grande pittura antica della tradizione greca, e grazie ad esso si può condividere un po’ dell’ammirazione che gli Antichi hanno rivolto a maestri come Zeusi, Parrasio o Apelle, le cui opere sono irrimediabilmente perdute. Nessuno può restare insensibile alla straordinaria presenza di questi personaggi distribuiti sui quattro lati di una grande sala della villa, all’intensità dei loro sguardi, ai sentimenti spesso violenti che esprimono e che li rendono così vivi. Un altro aspetto che spiega l’influenza di questa pittura sulla nostra sensibilità contemporanea, è che in essa sono presentate azioni rituali legate ai famosi misteri di Dioniso, dei quali la proprietaria della villa intorno al 60 a.C. fu senza dubbio una convinta officiante. Se una trentina di interpretazioni, spesso molto contraddittorie, dell’affresco sono state proposte da un secolo a questa parte dagli specialisti dell’Antichità, solo l’approccio religioso resiste a un confronto tra la pittura e le numerose fonti testuali e iconografiche di cui disponiamo. Per questo motivo, l’affresco è una testimonianza unica sulle credenze e la vita interiore di una donna che fu al tempo stesso contemporanea e prossima a Cicerone.
La sacralizzazione dell’immagine è qui al centro di una ricerca che ne mette in luce tutta la straordinaria importanza: elemento centrale della concezione bizantina del rapporto col divino, essa condiziona fin dalle origini l’evoluzione e la definizione dei princìpi estetici e tecnici dell’arte di Bisanzio. Un’influenza che si manifesta nella concezione bizantina dello spazio e del tempo e nella loro rappresentazione, traducendosi nell’iconografia tipica dell’arte orientale, nel suo rigore formale come nella ricchezza e varietà cromatica delle composizioni: la ieratica frontalità e immobilità delle figure è così emanazione diretta della loro santità, mentre i colori delle vesti e dello sfondo rimandano agli elementi centrali della funzione sacra, come l’oro, simbolo della luce divina, il bianco, riflesso della purezza di Cristo, o il blu, segno della spiritualità dei santi. Fondata sulla credenza in un legame diretto tra rappresentazione e rappresentato, la sacralizzazione dell’immagine svolge un ruolo fondamentale nella formazione e nello sviluppo di tutti gli aspetti del cristianesimo orientale, dalla riflessione teologica alla pratica liturgica, alle forme della devozione, fino alla definizione dei rapporti con l’Occidente: espressione tipica del pensiero mistico della Chiesa d’Oriente, la sacralizzazione dell’immagine costituirà per tutto il Medioevo uno dei nodi centrali del contrasto tra la Chiesa romana e Bisanzio. Bisanzio, però, proprio alla conquista di Costantinopoli da parte dei latini, vede sorgere nel suo seno il primo rinascimento, ricollegandosi al mondo greco. Una nuova concezione dello spazio e del tempo, dell’umanità e dell’amore, percorrerà le opere artistiche in un momento profetico anche per l’arte occidentale. Poi, preoccupazioni spirituali e non solo riporteranno Bisanzio in un suo alveo primigenio.
Da qualche decennio l’arte romanica è alla moda. La si osserva archeologicamente, la si studia con moderni metodi filologici, la si visita persino nei viaggi organizzati. Piace la sua austerità imponente, la sua essenzialità percepita come segno di una forte religiosità, la sua facies nuda, spoglia, sobria. Ma la basilica di Ripoll o il Fondaco dei Turchi a Venezia sono veramente edifici romanici? Le cupole della cattedrale di Périgueux o la facciata di quella di Le Puy sono davvero medievali? Le statue lignee raffiguranti la Madonna e Cristo con il volto nero erano proprio così brutte e scarnificate? Ma l’arte romanica che oggi abbiamo davanti ai nostri occhi corrisponde davvero a quella medievale? In questo libro si mette in discussione il concetto stesso di romanico e di arte romanica, ne si indagano le origini, e soprattutto si contestualizza la sua genesi storiografica nel particolare contesto culturale della prima metà dell’Ottocento, quando in tutta Europa per la prima volta si scoprì, come d’improvviso, la produzione artistica anteriore all’avvento di quella maniera di costruire che Vasari definì come tedesca o portata dai Goti. In quei decenni segnati dalle campagne napoleoniche e dal Congresso di Vienna, tra Neoclassicismo e Romanticismo, i paesi dell’Europa decisero di riappropriarsi del proprio passato nazionale, catalogando, restaurando, studiando e anche ricostruendo l’arte costitutiva di ciascuna nazione: il romanico. Il libro analizza l’elaborazione storiografica e nazionalistica dell’idea di romanico, e ne decostruisce le invenzioni e gli errori, ponendo l’accento su alcune questioni controverse, come la popolarità degli artisti, il ruolo della donna nell’universo artistico misogino dell’epoca o la ricca policromia degli edifici. Ma nello stesso tempo svela la vera personalità del Medioevo romanico, dalla Francia all’Italia, dall’Inghilterra alla Catalogna, mettendo a confronto idee e modelli architettonici e figurativi, in un dialogo che dové essere in quei secoli molto più vivace e vitale di quel che oggi abitualmente pensiamo.
Questo volume offre un’introduzione completa e di chiara comprensione al complesso mondo simbolico paleocristiano, bizantino e altomedievale dando al lettore le necessarie chiavi di lettura ai fondamenti primi dell’intero simbolismo cristiano, «che cerca l’Invisibile nel visibile», così che «è adeguato al tema il fatto che il rapporto tra il simbolismo e il sacro stia al centro del libro». Non casualmente Ladner cita Peter Brown, Karl Rahner («Il Logos divenuto uomo – Cristo – è il simbolo assoluto di Dio nel mondo»), Odo Casel (per cui il mistero cultuale cristiano «era in primo luogo la liturgia cristocentrica»), Hans Urs von Balthasar di "Gloria. Una estetica teologica", Henri de Lubac di "Esegesi medievale", cioè capisaldi della riflessione storica e teologica moderna. Le prospettive sono quelle proprie del primo cristianesimo e vengono esplicitate nel sottotitolo: Immagini di Dio, del Cosmo e dell’Uomo. Il saggio, un classico mai pubblicato in Italia, ha l’ampio respiro necessario per affrontare un tema così vasto e così fondativo della cultura cristiana e occidentale: coinvolge l’arte, la teologia, la cosmologia, l’antropologia e l’intera vita religiosa del tempo. La scelta precisa dei limiti temporali entro cui trattare il tema e una articolazione sistematica permettono all’autore una modalità di osservazione in grado di rendere comprensibile sia il dettaglio – la singola immagine, il singolo tema iconografico – sia i suoi collegamenti al contesto culturale complessivo.
Líarte dellíicona ha sempre esercitato su artisti e fedeli un potere di attrazione, tanto che il mistero delle immagini sante resta una questione aperta anche oggi.
In questo libro, che puÚ essere a ragion veduta considerato un classico sul tema, cíË tutta la capacit‡ degli autori di far penetrare con sensibilit‡ il lettore occidentale nella tradizione ortodossa, nella teologia e nelle intuizioni spirituali, in un approccio allíicona che non possiamo definire se non contemplativo.
I contenuti sono da considerarsi teologici: líicona Ë una eco visuale dellíIncarnazione; la predicazione vivente della Chiesa; una traduzione per immagini della conoscenza teologica e spirituale.
Il volume offre la riproduzione di icone superbe del tutto inedite o sconosciute al grande pubblico. Troviamo nel libro una sezione sulla tecnica pittorica dellíicona; la descrizione dei principali tipi di icone e líindividuazione di oltre sessanta icone (di cui dieci dedicate alla Vergine) tutte debitamente illustrate con splendide tavole a colori; nonchÈ la presentazione dettagliata dellíiconostasi della chiesa russa.
I trattati di tecniche artistiche medievali, dal Teofilo a Germini, si trovano spesso citati - nei cataloghi di mostre di opere d'arte restaurate e ora anche dai media - come guide insostituibili per le pratiche artistiche del passato, e quindi come normativi per il restauro. In effetti, si tratta di un genere letterario capace di offrire risposte facendo luce sui procedimenti di produzione Artistica nel Medioevo. Pur nella necessità di un approccio criticamente avveduto, quindi non rigidamente letterale, l'autrice mette in luce la grande quantità di dati genuini che tali trattati offrono al lettore moderno. Il volume si apre con un saggio che introduce al genere letterario, per poi analizzare i sette principali trattati che hanno segnato la pratica artistica dall'epoca tardoantica fino al XV secolo. II libro si propone come uno strumento aggiornato e qualificato per l'operatore in campo artistico, e per il crescente pubblico dei Beni culturali, su un argomento di grande attualità.
Il volume accoglie una scelta di saggi dedicati dall'autore all'arte del Tre e Quattrocento, lungo il crinale di quel momento d'eccezione della cultura figurativa europea che annuncia e accompagna la soglia fra Medioevo e Rinascimento. Scritte fra il 1934 e il 1985, queste pagine intessono un dialogo appassionato con artisti sommi o semplicemente grandi, come Giotto e lacopo della Quercia, i grandi riminesi e Pisanello; raccontano di opere epocali, come la Maestà di Duccio e l'affresco giottesco del primo Giubileo; svelano monumenti della complessità e novità del Duomo di Siena e di Orvieto; invitano a riflettere sulle differenze di struttura che possono segnare le diverse civiltà figurative.
Sant'Agostino nel 400, a proposito del tempo, scriveva che esso era stato costituito dalla divina provvidenza per la nostra salvezza. L'affermazione che la vita umana del suo svolgersi e la storia fossero inserite nell'economia (dispensatio) di salvezza gettava le basi per una visione escatologica del passare del tempo e della sua stessa esistenza. Un'operazione analoga è stata compiuta dai Padri della Chiesa riconoscendo una economia salvifica alle forme artistiche che raffiguravano l'invisibile. A seguito della crisi dell'iconoclasmo bizantino dell'VIII e IX secolo, l'affermazione dell'economia salvifica della rappresentazione artistica ha consentito all'immagine di farsi icona, consegnando alla Chiesa uno strumento pedagogico.
In quest'opera l'autore sottrae definitivamente l'arte mediterranea dei secoli dal III al VII secolo al pregiudizio classicistico della "decadenza" per mostrarne le ragioni di fondo, nella trasformazione da una visione del mondo essenzialmente umanistica a una concezione più spirituale ed astratta. Il testo riporta i riferimenti alla storia delle idee dell'epoca, allo sviluppo dei centri di produzione artistica, da Costantinopoli a Ravenna, alla persistenza di tradizioni antiche fino ad arrivare all'accostamento con l'esperienza artistica del XX secolo dell'astrattismo. Il corredo di oltre 200 illustrazioni costituisce per la sua completezza quasi un libro dentro il libro.
L'indagine estetica e semiologica dell'autrice, docente presso l'Università Lateranense di Roma, sostiene la tesi che la Pop Art non sia affatto ironica o polemica nei confronti della società dei consumi. Contraddicendo la più diffusa interpretazione afferma che essa è omogenea e integrata al sistema culturale prevalente.