La dimensione itinerante della condizione umana rende ragione del cammino della vita, che si compie attraverso tempi qualificati e non in puri istanti cronologici. Le parole che tessono la trama di questo libro intendono essere una testimonianza della «passione» per l’uomo, sollecitata, approfondita, maturata nei vari tornanti delle contingenze quotidiane, per intravedere qualche sfaccettatura significativa della «verità» dell’uomo che chiede di essere continuamente e prospetticamente cercata, manifestata e comunicata. Le pagine, che si snodano e chiedono di essere sfogliate, con delicatezza e attenzione e non distrattamente e superficialmente, coprono un ampio arco di vita, iniziato all’alba dell’età adolescenziale e permanentemente presente lungo il suo evolversi, fino all’attuale età «tarda adulta». La «passione» per l’uomo, «nonostante tutto», impone il «farsi carico» dell’umano, delle sue parole dicibili e dette, indicibili e inespresse, in tutta la loro insopprimibile inesauribilità.
In una celebre pagina di Shakespeare, Antonio, di fronte al cadavere di Bruto suicidatosi poco prima, esclama: "Questo era un uomo!". Ma che cosa fa di qualcuno "un uomo", qual è la caratteristica che, persino di fronte a un nemico mortale, ci fa sentire in presenza di un "vero uomo"? Per Vito Mancuso, tutto dipende dalla libertà. La vera libertà però è interiore, perché ciò che impedisce alla nostra vita di essere autentica sono le menzogne che diciamo a noi stessi, all'origine di quelle che diciamo agli altri. È la libertà da se stessi a rendere la vita davvero libera e dunque autentica. Ma come si diventa liberi da se stessi? E vale la pena perseguire una vita autentica in un mondo basato sulla finzione? Rispondendo a tali interrogativi, questo saggio sulla libertà sorprenderà anche per la passione e la chiarezza con cui è scritto.
Il presente studio intende approfondire le coerenze per le quali, nella proposta filosofica personalistica di Luigi Stefanini, l'affermazione dell'irriducibilità della persona e la tematizzazione di una identità forte siano inseparabili dall'apertura e dalla relazionalità, ovvero tenta di mettere in risalto le ragioni per le quali è possibile affermare che «La monade spirituale è tutta porte e tutta finestre». Mentre i primi due capitoli, più ricostruttivi, si concentrano sulla definizione del personalismo e sulle peculiarità del concetto di persona, negli altri due l'accento è posto sulle aperture che tale concetto implica, a partire dalla formulazione di una estetica come scienza della parola assoluta e dall'elaborazione di un personalismo morale come presupposto per intendere e affermare la necessità della socialità.
È il decennio più buio del Novecento. Tra il 1933 e il 1943 finisce precipitosamente il secolo d'oro della modernità europea e comincia il capitolo più nero della nostra storia, che trascina nel baratro tutto l'Occidente. La Grande depressione schiaccia le democrazie. La paura e la povertà innescano il desiderio di leader forti. In Germania Hitler prende facilmente il potere e fa sprofondare il mondo in un'altra guerra. Le spire del totalitarismo penetrano nella vita quotidiana. Nessuno può fuggire. Non esistono alternative all'oppressione, all'esilio o alla resa. Per la libertà non c'è più spazio. Nel momento più lugubre della tempesta, quando ogni speranza sembra vana, quattro filosofe, ognuna con una voce unica e folgorante, gettano le fondamenta intellettuali per una nuova società libera. Hannah Arendt, Simone de Beauvoir, Ayn Rand e Simone Weil nella catastrofe coltivano le loro idee rivoluzionarie: sul rapporto tra individuo e società, tra donna e uomo, sesso e genere, libertà e totalitarismo. Le loro vite avventurose le muovono dalla Leningrado di Stalin a Hollywood, dalla Berlino di Hitler e dalla Parigi occupata a New York; ma soprattutto le portano a pensare idee che non erano mai state pensate prima, senza le quali il nostro presente sarebbe diverso da come lo conosciamo. Ciascuna delle loro esistenze - da fuggitive, attiviste, combattenti della Resistenza - è una filosofia vissuta e una testimonianza potentissima del potere liberatorio del pensiero. Ancora oggi la loro opera è un esempio della salvezza che la filosofia può donare in tempi oscuri. Quattro grandi icone che insegnano cosa significa vivere per la libertà. Simone de Beauvoir, Hannah Arendt, Simone Weil e Ayn Rand: nelle furie e negli orrori del nazismo e della guerra quattro grandi visionarie, esuli e ribelli, militanti e geniali, inventano le radici di una società giusta. Un racconto sulla conquista della libertà, quando sembrava che fosse perduta per sempre.
Servizi di consulenza non sempre serissimi e interi scaffali di libri di 'self-help' hanno trasformato la riflessione su che cosa sia la vera vita in trattazione superficiale orientata al raggiungimento della realizzazione personale, della riscoperta di se stessi o di una non meglio precisata ricerca della felicità. Con questo libro uno dei più noti e apprezzati filosofi contemporanei, da sempre sensibile agli intrecci tra saperi di provenienza culturale differente, ci esorta a tornare invece ai fondamentali della filosofia, per porre le giuste domande su una questione radicale: qual è la vita degna di essere vissuta? È vita vera quella che portiamo avanti giorno dopo giorno? O esiste una dimensione autentica che ci sfugge? E la storia della filosofia occidentale, da Platone a Cartesio e Heidegger, ci fornisce gli strumenti più adatti per tentare una risposta? François Jullien affronta coraggiosamente un tema che ha da sempre sollecitato pensatori e scrittori, a Oriente come a Occidente. Una lettura utile tanto più in un tempo di smarrimento profondo come è quello che stiamo attraversando.
Pubblicato nel 1960, Finitudine e colpa è con Verità e metodo di Gadamer il testo che inaugura l'"âge herméneutique", un'età che ha fatto dello statuto dell'interpretazione una questione dirimente per la filosofia. L'ermeneutica in quest'opera si presenta come decifrazione dei simboli e dei miti attraverso i quali è stata fatta esperienza, nelle tradizioni greca e biblica, dell'enigma del male. Simboli primari (impurità, peccato, colpevolezza) declinati nei miti del "principio e della "fine" e caratterizzati da una duplicità di senso. Di qui la definizione della ermeneutica come dialettica tra senso letterale e senso profondo dei simboli. Un modello posto sotto il motto «il simbolo dà a pensare». Sta in ciò la classicità di Finitudine e colpa: Ricoeur ha fatto del male - delle sue condizioni simboliche di possibilità - la cosa stessa della filosofia. E ha giustificato - come fosse una «seconda rivoluzione copernicana» - la legittimità dell'ermeneutica: essa è il cammino della ragione, attraverso il conflitto delle interpretazioni, per render conto del male che è già lì, e resta opaco al rischiaramento. Un compito «mai finito di distruggere gli idoli, al fine di lasciare parlare i simboli».
Il recupero di una visione unitaria su un essere così complesso e multiforme qual è l'uomo - soggetto dotato di inalienabile dignità e responsabilità morale ed esistenziale verso se stesso, gli altri uomini e il mondo naturale - avviene qui attraverso una riproposta della visione classica della philosophia perennis secondo la tradizione tomistica, che non elude però il confronto con alcuni settori di ricerca e di riflessione che segnano e condizionano l'epoca contemporanea. Trovano quindi spazio le riflessioni critiche provocate da altri campi d'indagine e da diverse prospettive: dalla tecnologia all'intelligenza artificiale, dall'ecologia alla dialettica natura/cultura, dalla socialità alla corporeità.
Giovanni Gentile non è stato soltanto l'insigne filosofo dell'«atto puro», autore della «storica» riforma scolastica e direttore dell'"Enciclopedia Italiana". Sin dal 1922, subito dopo la Marcia su Roma, si rivelò anche uno dei più influenti intellettuali dell'Italia littoria. Animato da un forte protagonismo politico e da un malcelato desiderio di potere, ricoprì innumerevoli incarichi e ruoli apicali negli anni cruciali della stabilizzazione del consenso al regime: ministro della Pubblica istruzione, senatore, membro del Gran Consiglio del fascismo, estensore del Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925, ideatore del giuramento di fedeltà imposto ai professori universitari nel 1931, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, fondatore e presidente dell'Istituto nazionale fascista di cultura. Pronto a mettere al servizio del duce la sua vasta cultura e abilità di divulgatore, Gentile diventa un suo fidato consigliere, lo smanioso organizzatore di iniziative editoriali a sfondo propagandistico, l'ideologo di guerre a cui non prende parte. A causa di un itinerario così compromettente, perderà per strada molti tra colleghi, amici, discepoli ed estimatori. Oltre a Benedetto Croce - che gli contrapporrà il Manifesto degli intellettuali antifascisti -, Piero Gobetti, Guido De Ruggiero, Gaetano Salvemini, per citarne alcuni. Gentile rimane al fianco di Mussolini anche dopo il 25 luglio 1943 e la caduta del fascismo. Fino al 15 aprile 1944, quando viene ucciso da un gruppo di partigiani comunisti nei pressi della sua villa di Firenze. Da decenni, sulla natura di questo «delitto politico», s'infittiscono polemiche giornalistiche e storiografiche, spesso viziate da ricostruzioni d'impianto dietrologico che hanno fatto ricadere ogni responsabilità sul PCI di Togliatti, su centri occulti interni e stranieri, senza mettere in adeguato rilievo il clima di «guerra civile» in cui precipitò l'Italia nel 1943-45. Il documentato libro di Franzinelli fa chiarezza su questo e altri aspetti oscuri della biografia gentiliana. Lo sconcertante quadro che ne emerge fa riflettere su come uno stimato intellettuale possa mutare le proprie idee fino a snaturarle, compiendo precise scelte di campo che, di fatto, contribuirono a rafforzare la dittatura mussoliniana. A pagarne il prezzo più alto fu il popolo italiano. E lo stesso Gentile.
È attorno all'inaudito che, senza saperlo, continuano a ruotare e ad avvolgersi le nostre vite. Solo l'in-audito, in fondo, è degno di interesse, in quanto ciò che è già "udito", registrato e assimilato, non ha, in realtà, niente da apportare, se non qualche aggiustamento e sistemazione. Sul punto, forse non è il caso di continuare a ingannarci. Al contempo, visto che l'inaudito è ciò che in sé sfugge, ne consegue che ciò che di esso si lascia normalmente captare e cogliere sia innanzitutto deludente. La radicale estraneità e stranezza, non essendo pienamente liberata, si volge in banalità e familiarità. Quando non sono all'altezza dell'inaudito, mi annoio: mi stanco di quello che ho appreso o, piuttosto, di ciò che non ne ho appreso. Incontrare l'inaudito, al contrario, sbatterci improvvisamente contro, significa spostare in maniera smisurata la frontiera del possibile, sempre troppo stabile, e la morte stessa, commensurata all'incommensurabile e al vertiginoso dell'inaudito, si ritrova all'improvviso sottratta al suo isolamento. L'immaginazione, come la scienza e la fede, fa tanti sforzi per integrare la morte nella vita, per iscriverla nel suo metabolismo, per assimilarla allo scopo di giustificarla. Ma che ne è di quanto essa conserva di "inaccettabile", come si è soliti dire, ossia di non integrabile da parte del soggetto? Non resta che ricorrere alla categoria riferita a ciò che non si integra, a ciò che è fuori categoria: l'inaudito - meglio che l'"Infinito", la categoria spesso invocata per rendere conto di quel debordare - può finalmente mordere quanto di più refrattario risulta per il pensiero.
Nelle alterne vicende dell'esistenza terrena, la percezione della bellezza costituisce per l'anima un'esperienza fondamentale per l'intensità e la qualità degli affetti e dei pensieri che suscita, e per i cammini e le prospettive che può in vario modo dischiudere. Per Plotino infatti la bellezza rappresenta un elemento imprescindibile di quello che possiamo chiamare il romanzo dell'anima: racconto drammatico e insieme meditazione filosofica che ha per oggetto la vita della psyché oscillante tra i due poli dell'intelligibile e della materia, fintanto che non si produca, nella folgorazione istantanea, il contatto ineffabile con il principio primo della realtà. Dal visibile all'invisibile, dal materiale all'immateriale, dalla dimensione dei corpi al regno della mente e del pensiero assoluti, dal dispiegamento del molteplice all'unità assoluta: questo è il viaggio iniziatico cui i trattati plotiniani qui raccolti (Il bello, Il bello intelligibile e Il bene e l'Uno) invitano il proprio lettore, questa è la traiettoria di una philosophia, di un "amore della sapienza" che, giorno dopo giorno, è esercizio e pratica di sé, impegno vitale e sforzo strenuo di accedere a un altro piano di coscienza e a una diversa forma di esistenza.
La forma del dialogo appartiene alla letteratura quanto alla filosofia, nella quale ha toccato il suo vertice nella produzione platonica. Senza il dialogo la filosofia, così come la conosciamo, non avrebbe prodotto quei risultati e quei valori ai quali ancora oggi attingiamo. Se la figura di Socrate è addirittura impensabile al di fuori di una relazione dialogica e il suo non sapere non avrebbe senso, potremmo dire che anche una gran parte del pensiero non avrebbe toccato la profondità né il livello artistico che gli va riconosciuto senza il ricorso a questo mezzo. Questo Dialogo filosofico, di Vittorio Hösle, è l'esposizione più completa della storia letteraria e filosofica della forma dialogica, che dalle origini platoniche si estende ai momenti più interessanti e cruciali della nostra cultura. Dalla figura e dal ruolo di Socrate prende piede una trattazione che percorre l'intera storia del pensiero occidentale, con un felice intreccio di autori che ne rappresentano le stazioni più autorevoli. L'esposizione si svolge fluida, da Cicerone, Boezio e Agostino attraverso Abelardo e Lullo, Petrarca, Cusano e Bodin, D'Alembert, Diderot e Hume fino alla nostra epoca (nella quale questa forma sembra in declino) con Feyerabend e Murdoch. Un tema che nella sua complessità e ricchezza tocca l'interesse di ogni lettore.
"Nessuno può pensare un pensiero per me, così come nessuno all'infuori di me può mettermi il cappello sulla testa". "Niente è così difficile come non ingannare sé stessi". "Ho detto una volta e forse con ragione: la civiltà passata diventerà un mucchio di rovine e alla $ne un mucchio di cenere, ma sulla cenere aleggeranno spiriti". Questa raccolta di pensieri e annotazioni di varia natura appartiene al lascito manoscritto di Wittgenstein e rappresenta non già una fase della sua ricerca filosofica, ma una sorta di traversata aforistica di tutta la sua vita (il primo pensiero è del 1914, l'ultimo del 1951, anno della sua morte). Qui Wittgenstein, con maggior evidenza che altrove, parla innanzitutto a sé stesso, interrogandosi su ciò che il suo pensiero spesso presupponeva senza nominarlo: la sua visione della società che lo circondava, della musica, della letteratura, del cristianesimo, dell'ebraismo, della scienza.