
La drammatica vicenda di una famiglia ebrea consente di leggere la grande storia con rinnovata profondità
Tra le 8.500 persone arrestate, uccise o deportate durante l’occupazione tedesca in Italia, in quanto considerate di "razza ebraica" dai persecutori, gli "ebrei stranieri" furono il gruppo percentualmente più colpito dagli arresti e dalle spedizioni verso la fabbrica della morte. Molti fra loro erano già in fuga da anni - in un’Europa sempre più consegnata alla barbarie del razzismo di Stato - e avevano trovato un rifugio precario in un Paese come l’Italia, che pure era parte del sistema di discriminazioni che si stava realizzando sul continente. Hans e Robert Lichtner erano due ragazzi viennesi; avevano 15 e 11 anni quando giunsero in Italia e la loro vita cambiò per sempre. Di fronte alla persecuzione Hans, Robert e i loro genitori ebbero, per difendersi, solo se stessi e la forza della loro coscienza; non erano dotati di altre armi che della consapevolezza della dignità umana. Usarono quest’arma nel modo migliore, ergendo la propria esistenza a difesa di se stessa. Ed ebbero la ventura di incontrare altri uomini che nutrivano la medesima fede nella dignità umana. Questo libro rappresenta perciò in primo luogo la ricostruzione, su base archivistica, di una vicenda individuale, cioè del destino di esistenze ordinarie nell’Europa razzista degli anni ’30 e ’40 del Novecento. In quanto emblematica, la vicenda che è al centro di questo libro vuole contribuire a disegnare un intreccio indiziario sul regime fascista, la sua natura, alcune delle forze che lo agitavano, tanto a livello generale quanto a livello locale. Tanto più che la ricerca storica sul fascismo non può fare a meno del metodo del case study, poiché - per la natura del regime e per il modus operandi degli uomini che lo guidarono (al centro e in periferia) - a volte proprio nei contesti individuali emergono dati di carattere generale, di cui si avrebbe altrimenti una percezione incompleta e sfumata. In particolare, la documentazione di cui si avvale il libro permette di meglio focalizzare l’atteggiamento di opposizione assunto nei confronti della politica razzista del regime da parte dei seguaci di Balbo, di alcuni fiancheggiatori cattolici del fascismo e di esponenti dell’episcopato meridionale, come l’arcivescovo di Chieti, mons. Venturi. Gli stessi documenti consentono di aggiungere nuovi elementi di valutazione storica sul carattere peculiare del fascismo abruzzese, sulla figura di alcuni prefetti operanti a Pescara durante il regime, su aspetti interessanti dei rapporti tra strutture ministeriali di regime e tra autorità fasciste, sul fenomeno dell’internamento dei civili durante il secondo conflitto mondiale.
Il diario di una madre in viaggio con il figlio perduto
«Quando, verso la fine di agosto del 2005, fui improvvisamente attraversata dal desiderio e dal bisogno urgente e inderogabile di essere sul luogo dove mio figlio si era suicidato un anno prima, non sapevo che avrei scritto un diario del lento viaggio che mi ha poi portato da Lucca a Otranto. Invece, subito la prima sera, sola, in una piccola camera di un piccolo albergo sui Monti Sibillini, mi sono ritrovata a dialogare per iscritto con lui, ad annotare pensieri, cose viste, sensazioni. E così è stato per ogni sera dei diciassette giorni che il viaggio è durato. Forse un modo per fissare i pensieri, per non lasciarli pericolosamente liberi, non so. Al ritorno ho trascritto tutto sul computer. Non avevo intenzione di pubblicare questo diario. È dovuto passare del tempo prima che prendessi questa decisione. Che ho preso innanzitutto per ricordare e onorare mio figlio, ma anche perché ho pensato che forse la condivisione di un lutto può essere di conforto ad altri oltre che a se stessi, ed infine perché non si dimentichi che nel mondo di oggi, dove ormai si è schiavi di un apparire sempre belli, giovani, sani ed efficienti, dove la morte è diventata quasi un tabù di cui non parlare, c’è anche questo. E fa parte della nostra vita».
Il primo volume di Figure del pensiero medievale, come recita il titolo, presenta «i fondamenti» e gli «inizi» della figura della teologia che verrà elaborata nella riflessione occidentale fino alla «Via moderna», ossia fino al XIV e agli inizi del XV secolo. Né si tratta soltanto degli inizi cronologici: i vari saggi editi nel volume delineano, infatti, gli inizi metodologici, in certo modo esemplari, che avviano e determinano la forma della teologia, quale verrà in seguito elaborata. Il capitolo introduttivo offre una sintesi della teologia medievale, con le sue fonti e i suoi riferimenti e processi fondamentali. Seguono poi i grandi modelli: Agostino, con la fede che genera l’“intelletto teologico”; Boezio, con le sue esemplari attuazioni o i suoi “opuscoli” della teologia risultante dall’investimento razionale della stessa fede; Gregorio, che resterà il geniale ispiratore della teologia come «intelligenza spirituale», come lettura di tutte le risorse dei significati biblici, destinati ad avverarsi come esperienza; lo Pseudo-Dionigi, il maestro della teologia come inesausta ricerca e desiderio di Dio come di inarrivabile trascendenza, e impossibilità di “possesso”, di là da ogni rappresentatività e simbolo; Isidoro di Siviglia, con il suo enciclopedismo, mirante alla visione il più possibile comprensiva della realtà della natura e della storia; Giovanni Scoto, il geniale “discepolo” dell’Areopagita, alle origini della sapienza medievale, uno dei quattro fondatori della scuola di Parigi, per il quale la theologia indica una forma di sapere, proprio dell’uomo e costruito per mezzo della ragione a partire dalla lettura del dato rivelato, avente direttamente come oggetto Dio e la realtà divina, risultante dall’insopprimibile desiderio di conoscenza che è il sentimento motore di ogni indagine filosofica, ma che in un teologo diventa desiderio di conoscenza di Dio, desiderio di rispondere a quell’amore che orienta l’universo intero verso la causa prima, nei vari modi e moti specifici di ciascuna creatura, e che nell’uomo si manifesta appunto nella conoscenza. Per Giovanni Scoto l’uomo è animal theologum, filosofo per natura, teologo per natura e per grazia. D’altronde, la teologia non si oppone alla poesia: ed ecco in questo volume dei fondamenti e degli inizi dal IV al IX secolo i frutti della poesia e della teologia. Abbiamo detto che il valore del volume è quello di porsi non tanto cronologicamente, quanto metodologicamente, oltre che contenutisticamente, al principio. Certo, le riflessioni dei secoli successivi non saranno puramente ripetitive, ma affatto creative, e tuttavia proprio questi primi saggi non cesseranno di esserne l’ispirazione.
Questo breve saggio di Inos Biffi
non solo ci fa comprendere l’itinerario
culturale di Newman, ma a un tempo ci
illumina sulla sua santità.
Tema fondamentale di questo opuscolo
è la relazione tra Newman e i
Padri, che – egli afferma – lo hanno
fatto cattolico.
L’incontro con questi «antichi luminari
della Chiesa» appare precoce nella
vita di Newman, ma la loro frequentazione,
che nasceva da una profonda consonanza
intellettuale e affinità spirituale,
lo accompagnerà per tutta la vita. Egli
affermerà che la lettura dei Padri era per
lui fonte di «delizia»; li sentiva, infatti, e
li considerava come suoi familiari.
Alcuni di essi erano i suoi «vecchi amici
del secolo IV», e i loro scritti li considerava
come i suoi «archivi di famiglia».
Il primo capitolo offre una sintesi di questa “amicizia”,
partendo dal testamento in cui richiama alcuni di questi
Padri, affidando loro la sua anima e il suo corpo. Il secondo
capitolo descrive minutamente la sua
visita a Milano, la «città di sant’Ambrogio
» – come egli la chiama, scrivendo
agli amici in Inghilterra: di quel
«maestoso Ambrogio», che fu uno dei
«vecchi amici» di quel secolo IV, dove
egli ritrovò il modello dell’ortodossia e
quindi della Chiesa “cattolica”, o la
Chiesa vera e “compiuta”.
L’ultimo capitoletto è uno schizzo
sulla santità di Newman: una santità
maturata nel silenzio e nella persuasione
che – sono parole sue –, «se siamo
pazienti, Dio lavora per noi. Egli lavora
per coloro che non lavorano per se
stessi».
Lasciò anche scritto: «Gli uomini
illustri agli occhi del mondo sono grandissimi
da lontano, mentre avvicinandosi
rimpiccioliscono; ma l’attrazione
esercitata da una santità inconsapevole possiede una forza
irresistibile. Essa persuade il debole, il timido, il dubbioso e
l’indagatore». Ora è la santità di Newman a persuaderci.
Inos Biffi è docente ordinario emerito di Storia della teologia medievale e di Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia
Settentrionale (Milano) e docente incaricato presso la Facoltà di Teologia di Lugano. È presidente dell’Istituto per la Storia della
Teologia medievale di Milano e dirige in collaborazione le collane Biblioteca di Cultura medievale e Eredità medievale. Storia della
Teologia da Boezio a Erasmo da Rotterdam presso la Jaca Book. Presso la Facoltà di Teologia di Lugano è direttore dell’Istituto di
Storia della teologia. Nell’ambito del Medioevo è autore di ricerche sui teologi di scoli XI, XII e XIII. È curatore, in collaborazione, dell’opera
Omnia (latino-italiano) di Sant’Anselmo d’Aosta e del Corpus Colombiano. È dottore aggregato della Biblioteca Ambrosiana.
Larga parte della su attività è anche dedicata al campo della liturgia, particolarmente di quella ambrosiana, della quale ha curato la
riforma. Collabora alle principali riviste teologiche, tra cui «La Scuola Cattolica», «Teologia», «Communio» e «Rivista Teologica di
Lugano». Presso la Jaca Book è in corso di pubblicazione la sua Opera Omnia.
Il Diario portoghese redatto tra il 1941 e il 1945, è una testimonianza diretta, intensa e drammatica di un periodo cruciale della vita di Mircea Eliade e ci presenta un ritratto inedito del grande studioso romeno. Non destinato alla pubblicazione durante la vita del suo autore, appare ora quale unico documento edito in forma integrale nella produzione memorialistica dell’autore del Trattato di storia delle religioni. Una scrittura nervosa, febbrile, sincera e incandescente ci rivela un complesso intreccio di orgoglio e consapevolezza intellettuale, spiritualità e carnalità, ascesi ed erotismo, tensione creativa e disorientamento interiore, ossessione patriottica e presa di distanza dalle scelte politiche nazionaliste del passato, sconforto psicologico e lucidità di analisi. All’autenticità della riflessione intima si accompagna l’attenzione critica: note di lettura, appunti di viaggio, incontri, considerazioni e annotazioni a margine delle proprie creazioni letterarie e scientifiche. Infine, la decisione radicale: Parigi e la scelta dell’esilio.
MIRCEA ELIADE (1907-1986), nato a Bucarest, ha vissuto in India dal 1928 al 1932. Ha insegnato filosofia all’Università di Bucarest dal 1933 al 1940. Addetto culturale a Londra e poi a Lisbona, nel 1945 viene nominato professore presso l’École des Hautes Études a Parigi.
Ha insegnato alla Sorbona e in diverse università europee. Dal 1957 è stato titolare della cattedra di Storia delle religioni dell’Università di Chicago, dove nel 1985 è stata istituita la cattedra «Mircea Eliade
a lui dedicata.
La globalizzazione non è un fenomeno
recente. Perché non ha ancora
eliminato la diversità culturale? La storia
mescola da secoli le nostre civiltà.
Tuttavia, il panorama culturale del pianeta
mostra un livello di diversità complessiva
elevato e sostanzialmente
costante nel lungo periodo.
Questo può derivare da diversi
motivi: siamo più sensibili alla diversità
proprio perché scarseggia o perché
abbiamo migliorato la nostra capacità
recettiva; oppure ancora (e questo non
esclude la precedente spiegazione)
ordine e disordine culturale si creano
insieme. Se fosse così, non dovremmo
solo difendere una diversità creatasi,
chissà come, in passato, ma preoccuparci
di assicurare le migliori condizioni
per la sua riproduzione oggi.
Quali sono queste condizioni? Due
filoni di pensiero sono alla base del
ragionamento: quello della complessità
e quello evolutivo.
Il primo ci dice che l’emergere di sistemi complessi, in
questo caso aggregazioni discrete, coerenti, che rompono
il continuum del disordine culturale rendendosi riconoscibili,
è possibile in condizioni lontane dall’equilibrio, al
cosiddetto “margine del caos” (la frontiera cui allude il
titolo). Sfortunatamente le politiche culturali contemporanee,
soprattutto quelle dei musei, non rispettano queste
mostrano una tendenza verso l’equilibrio:
una bella parola nel linguaggio
quotidiano, ma un concetto pessimo
per l’evoluzione della vita, anche di
quella culturale.
Il secondo ci dice che l’evoluzione è
una partita complessa, che si gioca su
più livelli: individuale, di specie e di
ambiente collettivo. Solo quando si
realizzano determinati cambiamenti,
coerenti fra loro a ogni livello, si ha
evoluzione vera, ossia duratura.
Sfortunatamente le politiche che pretenderebbero
di far evolvere i musei, si
limitano il più delle volte a modificarli
su un piano definibile, in analogia con
la biologia, somatico e lamarkiano ma
non genetico. Incentivi e disincentivi,
regole e standard, possono produrre
mutamenti anche visibili, ma effimeri:
come quelli di un atleta i cui muscoli si
sono formati in palestra, non dureranno
nelle generazioni successive.
La conclusione è che nuove e più efficaci politiche
museali dovrebbero essere più indirette, operare “lungo la
frontiera” e occuparsi di modificare l’ambiente in cui si
muovono le creature culturali, più che di modificare direttamente
le creature stesse. E’ un cambiamento profondo e
coraggioso, necessario per dare un futuro alla straordinaria
bellezza che osserviamo nel mondo.
Maurizio Maggi è nato nel 1956 a Torino. Laureato in Scienze politiche con indirizzo economico, ricercatore dirigente dell’Ires, ente di
ricerca della Regione Piemonte. Ha insegnato presso Università Statale, Cattolica, Politecnico e Bocconi di Milano, Università di
Goteborg, Valencia e Bilbao oltre che per diversi Master universitari a Torino; autore di numerosi testi di economia della cultura e di
museologia. Fra gli altri: Economia e politica dei beni culturali (1993, con Luigi Bobbio), Ecomusei: cosa sono e cosa possono
diventare (2001, con Vittorio Falletti), Ecomusei. Guida Europea (2002). Ha pubblicato su riviste di museologia internazionali
(Museum International, International Journal of Cultural Heritage, Chinese Museum) e italiane (Rivista di Economia della Cultura,
Nuova Museologia). Impegnato sul campo nella comunità di pratica ecomuseale Mondi Locali.
Questo volume (circa 500 colonne,
70 voci) della Enciclopedia delle religioni,
è dedicato alla trattazione dei
fenomeni religiosi, o variamente legati
alla religione, che si sono sviluppati
nell’Africa. Il Dizionario ha natura
notevolmente composita e variegata a
causa, naturalmente, della particolarità
della vicenda storica del continente.
Poiché si tratta di precocissimi e ripetuti
incontri fra le tradizioni religiose
native e le grandi religioni missionarie
dell’umanità, provenienti dall’esterno,
l’indice che in questo volume si propone
alterna, grandi voci che trattano
delle tradizioni religiose dell’intero
continente o di sue ampie parti a voci
che trattano della presenza in Africa delle grandi religioni
monoteistiche, fino a voci più specifiche dedicate alle religioni
propriamente africane di singole popolazioni o gruppi di popolazioni. Ma sono altresì
presenti voci che trattano delle principali
figure divine oggetto delle credenze
delle popolazioni africane,
accanto alle biografie dei tanti profeti
e fondatori di culti millenaristici o di
Chiese indipendenti (talora influenzati
dalle religioni tradizionali, talora
dal Cristianesimo o dall’Islam) che
hanno punteggiato in modo particolarissimo
la storia religiosa del continente.
Si aggiungono, infine, alcune
voci dedicate alle particolari espressioni
africane di fenomeni o concezioni
universalmente diffusi nel mondo
delle religioni (Anima, Iconografia,
Magia, Maschere, Musica, Regalità,
Stregoneria, Teatro, Trickster) e qualche voce che descrive
fenomeni religiosi tipicamente ed esclusivamente africani
(Culti di afflizione).
Mircea Eliade (1907-1986), nato a Bucarest, ha vissuto in India dal 1928 al 1932. Ha insegnato filosofia all’Università di Bucarest
dal 1933 al 1940. Addetto culturale a Londra e poi a Lisbona, nel 1945 viene nominato professore presso l’École des Hautes Études
a Parigi. Ha insegnato alla Sorbona e in diverse università europee. Dal 1957 è stato titolare della cattedra di Storia delle religioni
dell’Università di Chicago, dove nel 1985 è stata istituita la cattedra “Mircea Eliade” a lui dedicata.