L' Italia esce dalla seconda guerra mondiale in rovina. Divisa, invasa ed economicamente disastrata, è una nazione che qualcuno dice abbia cessato di esistere. Solo quindici anni dopo, nel 1960, esplode l’economia: l’Italia del boom è il paese che cresce più velocemente nel mondo, mentre la società rurale scompare per far posto a quella industriale. John Foot racconta la nostra tumultuosa storia dal dopoguerra a oggi: dal silenzioso assorbimento dei fascisti nella società dopo il 1945 al regno di Silvio Berlusconi, dal picco artistico del cinema neorealista alla celebrazione del centocinquantesimo compleanno dell’Italia unita, queste pagine rispecchiano sia il lato corrotto che quello luminoso di un paese complesso. Se è vero poi che spesso sono i singoli individui a cambiare il corso della storia, John Foot racconta anche le vicende degli italiani comuni che hanno cambiato il loro paese: Franca Viola, la donna che rifiutò il matrimonio a dispetto delle convenzioni sociali; Don Milani, il sacerdote deciso a dare un’istruzione anche ai bambini più poveri; Franco Basaglia, lo psichiatra che disse no alle pratiche della repressione e della deumanizzazione; Roberto Rossellini, il cineasta che provò a costruire bellezza dal caos della guerra… Personaggi e luoghi indispensabili per comporre la storia del nostro paese dal 1945 a oggi.
Nessun Greco, come nessun Romano, ha mai immaginato un mondo senza guerre. Più che un’utopia, l’avrebbe ritenuta un’assurdità. Non che i Greci e i Romani fossero amanti della guerra, ma la guerra era parte della vita. Così come era possibile finire catturati dai pirati durante un viaggio in mare per essere venduti come schiavi in qualche mercato dell’Egeo, o cadere vittima di un’epidemia o di una carestia, oppure, semplicemente, morire in giovane età per mille motivi, così era nell’ordine delle cose umane incappare in una guerra, morire in battaglia o restare invalidi e girare in cerca di un’improbabile guarigione. Solo chi si prendeva cura della difesa dai nemici esterni ed era pronto, nella buona stagione, a marciare fuori dai confini per combattere contro il nemico, poteva aspirare a definirsi cittadino. Un libro dalla scrittura piacevolissima e appassionante, che ci avvicina all’universo mentale degli antichi e ce li restituisce, nella loro diversità, con profondo rispetto.
Abbiamo diviso in modo netto carnefici e vittime, l’Occidente e il caos, abbiamo tranquillizzato la nostra coscienza con racconti semplici e consolanti. Siamo riusciti a tracciare un confine tra umano e disumano: abbiamo descritto il terrorismo, gli attentati, le torture come sinonimo di disumano, e l’abbiamo rimosso dal nostro vissuto. Così l’Isis era un mostro sconosciuto che andava annientato, e le terre su cui ha allignato solo delle terre guaste da lasciare al loro destino segnato. Eppure tutto questo vale fino a quando non proviamo ad avvicinare lo sguardo, per vedere quanto di irresistibilmente umano resti anche dove abbiamo pensato non ci fosse bisogno di guardare più nulla. Francesca Mannocchi, giornalista reporter, già autrice con Alessio Romenzi del documentario Isis Tomorrow. The lost souls of Mosul, acclamato al Festival del Cinema di Venezia, in questo libro mette a disposizione del lettore un racconto dalle sfumature inaspettate. Dopo aver visitato le prigioni dell’Isis, essere scampata alle pallottole dei cecchini, aver visto cadaveri di bambini appena bruciati, ha deciso di usare il suo rigore e il suo coraggio da reporter per trasformare una storia che nessuno vuole ascoltare in un grande romanzo dal vero del nostro tempo. Non c’è un solo ritratto di questo volume che non si incida nella nostra mente: le donne vedove di miliziani pronte a essere madri di altri martiri, i bambini dei carnefici dell’Isis accanto ai bambini delle vittime dell’Isis nello stesso campo profughi, i giovanissimi orfani del Califfato che speravano di immolarsi in un attentato e adesso senza una gamba guardano fisso il vuoto, gli adolescenti terroristi che sembrano dei ragazzi di una qualunque periferia del pianeta. Quale sarà il futuro che li attende e ci attende?
Venezia è nel 1499 una grande potenza europea. Solo dieci anni dopo – sconfitta militarmente e politicamente dalla Lega di Cambrai – è una sopravvissuta. Con quell’inizio Cinquecento si sgretola il suo dominio e inizia una decadenza dorata che durerà ben tre secoli: uno stato tanto ricco e potente poteva deteriorarsi solo con una magnificente lentezza. La Serenissima repubblica sostituirà allora la forza con l’ostentazione, la potenza con la ricchezza, il ferro con l’oro. Sarà il suo modo per recuperare il formidabile colpo inferto da tutti i grandi stati d’Europa – esclusa la sola Inghilterra – coalizzati contro di lei e il conseguente rischio di scomparire per sempre dalla carta geografica. Venezia non sarà più potente, ma splendente, e riuscirà a mantenere un proprio ruolo centrale utilizzando l’arte, l’architettura, le celebrazioni delle ricorrenze civili e religiose. Non potrà più intimorire con il clangore delle armi, ma riuscirà a meravigliare con il tintinnare delle monete. E che monete: a metà Cinquecento il ducato comincia a essere chiamato zecchino e il suo prestigio sarà tale che ancora oggi definiamo zecchino l’oro puro. La Venezia del Cinquecento è quella del mito arrivato fino a noi: la città dei palazzi di Sansovino, della celebrazione del governo perfetto e della giustizia equanime, della rivoluzione del colore che influenzerà tutta la pittura successiva. Nel magnifico decennio raccontato in queste pagine avvincenti, Venezia diventa l’ombelico del mondo: Giorgione dipinge la Tempesta, esordisce Tiziano, muore Gentile Bellini, si devia il fiume Brenta, si inaugurano monumenti (primo tra tutti la torre dell’Orologio); brucia il fondaco dei Tedeschi e in tre anni (tre anni!) viene ricostruito; Aldo Manuzio pubblica il primo libro tascabile della storia e Ottaviano Petrucci il primo libro musicale a caratteri mobili (entrambi nel 1501); i portoghesi circumnavigano l’Africa e rompono il monopolio veneziano nel commercio delle spezie; nel Maggior consiglio i patrizi votano utilizzando un’urna chiusa – la prima che si conosca – e quando vogliono farsi eleggere si accordano nel broglio; si ha per la prima volta notizia di un’asta di opere d’arte; risiedono a Venezia il pittore Albrecht Dürer e il filosofo Erasmo mentre il matematico Luca Pacioli pubblica il libro che riproduce i solidi leonardeschi. Alessandro Marzo Magno ricostruisce lo stupefacente susseguirsi di eventi che hanno portato la Dominante – così veniva chiamata la città di Venezia – a essere la fucina delle arti che conosciamo e amiamo.
Nell’immaginario collettivo gli anni Settanta sono rimasti impressi come gli anni di piombo, una definizione che evoca il tanto sangue versato dai terroristi, dagli stragisti, dalla criminalità organizzata. Sono rimasti così nell’oblio gli ‘altri’ anni Settanta: un decennio di crescita democratica che ha consentito di sconfiggere i terrorismi. Grazie a questa Italia di gran lunga maggioritaria rispetto alle minoranze criminali, si sono evitati i pericoli di un’involuzione autoritaria o di un’esplosione rivoluzionaria, gli obiettivi rispettivamente degli strateghi del terrore e dei brigatisti. Chi ha vissuto quegli anni ha una memoria viva dei fermenti democratici che percorrevano la sua generazione. Al contrario dei loro coetanei che si smarrivano nei miti rivoluzionari o si mettevano al servizio dei golpisti o della mafia, moltissimi altri giovani e meno giovani, saliti prepotentemente alla ribalta della politica sulla scia del boom economico, legavano il loro impegno agli ideali della democrazia e del progresso. Vale per i giovani impegnati nei movimenti – operai, studenti, borghesi – ma vale anche per i militanti e per una parte delle élite politiche al governo e all’opposizione che hanno interpretato le trasformazioni in corso nella società e ne hanno accolto le istanze. Non è un caso che in quegli anni entri in vigore lo Statuto dei Lavoratori, il servizio sanitario nazionale e vengano approvate leggi fondamentali come quella sul divorzio e sull’aborto. Questo libro ripercorre la vicenda di tre generazioni di giovani e giovanissimi, di ogni ceto sociale, che nel giro di un ventennio hanno realizzato una vera e propria rivoluzione culturale che ha cambiato l’intera società italiana, dal mondo del lavoro a quello delle imprese, delle scuole, delle università, delle professioni, del pubblico impiego, delle famiglie, della politica e della Chiesa.
L’Italia si contende con il Giappone il primato di nazione con più elevate speranze di vita. Nel nostro Paese l’aspettativa di vita media alla nascita varia da 82,3 anni per gli uomini con alto livello di istruzione a 79,2 anni per i meno istruiti. Per le donne il dato è ancora più favorevole: 86 anni per chi è in più fortunate condizioni socio-economiche e culturali; 84,5 anni per chi vive in condizioni di minori opportunità. Questa è certo un’ottima notizia, di cui possiamo andare fieri. Tuttavia, il dilatarsi del tempo delle nostre vite apre scenari nuovi e preoccupanti: come affrontare nel giusto modo le ultime decadi dell’esistenza? Come accettare l’inevitabile deterioramento delle condizioni di salute? Come convivere con l’insorgere delle malattie croniche? E ancora, che senso dare alle proprie giornate quando si esce dalla vita attiva? Non esiste una sola vecchiaia: naturalmente in parte il nostro destino è segnato dai geni che abbiamo avuto in eredità dai nostri genitori. Moltissimo però dipende da noi, dal nostro stile di vita, dalla scelta di vivere al meglio una stagione che può anche dare molti frutti. Con l’avanzare dell’età, infatti, la nostra capacità di giudizio risente positivamente delle nostre esperienze, e si sviluppa un tipo di pensiero libero, davvero adulto perché privo dei lazzi dell’esuberanza giovanile. La plasticità mentale acquisita negli anni può donare competenze e capacità sorprendenti. Nelle pagine di questo libro si parlerà quindi sia delle problematiche che interessano tutti gli organi e gli apparati del nostro corpo già a partire dai 50 anni (ma di vecchiaia vera e propria nei Paesi avanzati si parla dai 75 anni in su) con l’indicazione delle buone pratiche da seguire, sia anche delle risorse da valorizzare.
Il ‘mito delle origini’ è quello che ci fa pensare che esista un punto magico della nostra storia in cui tutto prende forma, tutto comincia e tutto si spiega; il punto in cui si cela l’intimo segreto della nostra identità. Questo libro dimostra che sul piano storico un tale paradigma non funziona. E lo fa a partire da un piatto fumante di spaghetti al pomodoro. Ma perché il paradigma non funziona? Per due buoni motivi. Il primo è che le ‘origini’ di per sé non spiegano nulla. È celebre la metafora di Marc Bloch: all’origine di ogni quercia c’è una ghianda, ma non tutte le ghiande diventano querce, e ciò che veramente interessa lo storico è capire quali ‘condizioni ambientali’ (economiche, sociali, tecnologiche, politiche, culturali) hanno reso possibile quello sviluppo, consentendo alla ghianda di mettere radici. Il secondo motivo è che ricercare le ‘origini’ di ciò che siamo (ovvero la nostra identità) non ci porta quasi mai a ritrovare noi stessi (ciò che eravamo) bensì una complessità di situazioni storiche – altre culture, altri popoli, altre tradizioni – il cui incontro e la cui mescolanza ha prodotto ciò che siamo diventati. Con il risultato che nella ricerca delle radici, non troviamo solo noi stessi ma anche e soprattutto gli altri, che vivono in noi e danno corpo alla nostra identità. Basta un piatto di spaghetti al pomodoro, il nostro piatto identitario per eccellenza, per scoprirlo: le sue origini ci riconducono in queste pagine a tempi lontani (dall’età antica e medioevale sino all’epoca moderna e contemporanea), in luoghi distanti (dall’Asia all’America, dall’Africa all’Europa) e alla scoperta di abitudini alimentari, modalità e tecniche produttive diversissime da quelle che conosciamo e pratichiamo oggi.
Giuliano, comunemente conosciuto come Giuliano l’Apostata (Giuliano il traditore), è una delle personalità chiave del IV secolo d.C., il secolo in cui si compì il passaggio dall’impero pagano a quello cristiano. Nipote di Costantino – era nato nel 331/2 da uno dei fratellastri di quello –, sopravvissuto alle stragi che nell’estate del 337 portarono all’eliminazione dell’intero ramo cadetto della famiglia regnante, Giuliano trascorse il resto della sua infanzia e buona parte dell’adolescenza in un esilio dorato. Perfezionò quindi la sua educazione, studiando retorica e filosofia in diverse importanti città dell’oriente ellenistico. Le esperienze maturate allora – e in particolare l’incontro con il neoplatonismo –, lo spinsero ad abbandonare il cristianesimo, la religione della sua famiglia, e ad abbracciare il culto degli dei tradizionali. Richiamato a corte nel 355 e nominato Cesare (imperatore ‘in seconda’) dal cugino Costanzo II, si distinse in Gallia per le sue doti di generale e di amministratore. Nel 361 fu proclamato Augusto dalle sue truppe e di lì a poco, con la morte del cugino, si ritrovò unico sovrano dell’impero. Rivelate finalmente le sue vere opinioni religiose, Giuliano intraprese una politica di restaurazione del paganesimo ma il progetto non poté compiersi per la sua prematura scomparsa nel corso di una sfortunata campagna in Persia (363 d.C.). La narrazione segue uno schema biografico tradizionale, ma ampio spazio è riservato pure alla trattazione di alcuni aspetti marcanti della vita sociale, culturale, religiosa e politica dell’epoca.
A volte, da un romanzo, riporti anche solo una frase. Un'intuizione. Una cosa che ignoravi. A volte, anche solo una visione o un gesto. Altre volte, una storia che somiglia alla tua. Da Tom Sawyer al giovane Holden, da Jane Eyre a Raskòl'nikov e ai personaggi di Roth, la magia dei grandi libri, guide strane, insolite, spiazzanti. Leggendo possiamo vivere il non ancora vissuto e il mai vivibile, dichiararci a qualcuno con un coraggio mai avuto, percepire un dolore che somiglia al nostro o solo sapere che esiste. Perché la letteratura ci racconta. La sorpresa del crescere, le sfide, la scoperta del desiderio, l'amore, le ambizioni, le illusioni - magari perdute; la voglia di andare lontano o di tornare a casa; la paura di invecchiare e tutte le paure, ma anche tutte le speranze.
"Tra il 9 e l'11 aprile avvenne una delle stragi più efferate di tutta l'occupazione dell'Etiopia. Un gruppo di ribelli, inseguito da una colonna italiana, si asserragliò all'interno di una grande grotta. Si trovava nella regione del Gaia Zeret-Lalomedir. L'assedio durò diversi giorni. Per avere la meglio sui ribelli si chiese l'intervento di un plotone del reparto chimico. Quando i superstiti decisero di arrendersi gli italiani divisero gli uomini e i ragazzini dalle donne e dai bambini. I primi vennero mitragliati a gruppi di cinquanta sul ciglio del burrone. I bambini e le donne non sopravvissero a lungo a causa dell'iprite." Stragi sconcertanti, deportazioni, lager: ecco l'Italia fascista in Etiopia. Dominioni ricostruisce le operazioni belliche della "più grande campagna coloniale della storia" e la mattanza che portò allo sfascio l'effimero, inutile impero voluto da Mussolini, conquistato male e governato peggio.