La questione dell'autorità, tema classico delle filosofie dell'educazione, del diritto e della politica, non pare aver trovato altrettanta attenzione da parte della filosofia morale. Tale difetto di interesse potrebbe avere a che fare con un certo sospetto che la nozione tradizionalmente suscita, sospetto riconducibile a una presunta alternativa tra l'autorità e la libertà. Dal punto di vista sostanziale, tuttavia, la libertà ha una sua genealogia: si sviluppa e matura nel tempo, grazie anche a mediazioni esteriori, simbolicamente istituite, le quali assumono per il soggetto e per la collettività la figura dell'autorità. Autorità è ciò che genera libertà e umanità: questa è la conclusione a cui giunge un secolo di studi sul tema, ma è anche l'intuizione fondamentale di una peculiare filosofia italiana dell'autorità che, iniziata da Vico nel XVIII secolo, conosce significative riprese nel XX secolo e apre prospettive future in vista di un'antropologia e di un'etica dell'autorità.
Nel panorama della filosofia francese del Novecento, Vladimir Jankélévitch (1903-1985) emerge come figura di rilievo ma anche di complessa collocazione storiografica e ardua interpretazione teoretica. In "Fino al sacrificio", Giulia Maniezzi si propone di ricostruire e discutere criticamente uno degli aspetti del pensiero di Jankélévitch rimasti finora nella penombra: la condizione morale dell'uomo e il suo fondamento metafisico. La celebre affermazione jankélévitchiana secondo cui «la morale ne se distingue-t-elle plus de la métaphysique» è come il baricentro dei tre momenti argomentativi articolati nei tre capitoli del volume. Iniziando con un'indagine dettagliata circa lo statuto e il compito della filosofia prima, il testo si dirige successivamente alla presentazione critica della teoria jankélévitchiana della creazione e della temporalità, giungendo, infine, a scandagliare la questione della condizione morale nella sua portata metafisica.
Tre aggettivi (universale, plurale, comune) compongono il titolo di questo libro a indicare le direttrici del suo discorso. Tre prospettive oggi culturalmente e speculativamente rilevanti, che delimitano lo spazio di complesse problematiche e di importanti questioni sociali. Tre qualificazioni che stanno tra loro non come una neutra sequenza descrittiva, ma come espressione di opposizioni e composizioni dialettiche. Il volume si articola in otto capitoli che, due a due, ne tracciano i percorsi secondo aree o strati significativi: secolarizzazione e laicità; universalismo, contestualismo, interculturalismo; legame sociale e globalizzazione; comunanza, comunità, bene comune; alla ricerca di una possibile prospettiva socio-politica nell'età della crisi totale degli universali accomunanti e dell'emergenza delle differenze autoreferenziali. Risalire alla secolarizzazione dell'universale cristiano e all'invenzione dei grandi universali moderni, sino alla loro smentita nel radicalismo nichilista, significa cercare l'origine del processo epocale in atto, che si rifrange nei problemi del pluralismo socio-politico e del multiculturalismo, del legame sociale e della globalizzazione, ma che permette anche di interrogarsi se una certa idea comunitaria, in quanto sintesi concreta di universalità e di particolarità, non possa riaprire la prospettiva antropologica e politica.
La cultura moderna ha spesso stornato la generazione dalle categorie ontologiche, antropologiche ed etiche fondamentali, o l'ha mantenuta, ma nel senso dell'autoproduzione idealista. Sennonché la stessa identità soggettiva e, di seguito, l'umana capacità di fare esperienza feconda, richiedono la generazione da parte di altri per essere attivate: grazie alle relazioni benefico-virtuose guadagniamo le nostre capacità fondamentali (cognitive, riflessive, deliberative, espressive, dialogiche, tecniche, ecc.). Insomma, la generatività è la dimensione antropologicamente sintetica, a partire dalla quale è possibile giudicare le relazioni umane, che sono sempre generative o de-generative, sempre istituenti o destituenti altri. A dispetto della sentenza secondo cui «la mia libertà finisce dove comincia la tua», si può invece dire che «la mia libertà esiste perché c'è la tua, e se la tua è benefica, inoltre ha senso anche, e principalmente in vista della relazione generativa benefica reciprocante con la tua». Il presente volume ha focalizzato la categoria della generazione, prefissandosi il compito di conseguire un incremento di riflessione critica su questa categoria ontologica, antropologica ed etica cruciale. Postfazione di Francesco Botturi.
Nella dimensione relazionale della sessualità si trova una chiave fondamentale per capire sia la complessa storia dei rapporti fra uomini e donne, sia i drastici cambiamenti che negli ultimi decenni si sono prodotti nel mondo del lavoro, nella vita in famiglia, nella politica e nella cultura, dove gli uomini e le donne sono diventati ugualmente attivi. Ma l'uguaglianza stabilita al livello delle attività significa forse che le differenze non abbiano nessun tipo di valore personale o sociale? Appoggiandosi sui recenti dati della ricerca psicologica e sociologica, Antonio Malo mette in luce come né le concezioni naturalistiche della sessualità, contrarie a ogni tipo di cambiamento, né quelle postmoderne, che pretendono di de-costruire i sessi, i generi e anche la famiglia, sono in grado di dare una risposta soddisfacente a questa domanda. Egli propone allora di ripensare la sessualità umana da un punto di vista analogico rispetto a quella dei mammiferi più evoluti, senza però cadere in una sorta di biologismo. L'autore evidenzia infatti che qualsiasi tipo di separazione tra sesso e genere equivale a un'astrazione (che presenta come reale qualcosa che esiste solo nella nostra mente) da cui derivano lo stereotipo e l'ideologia. La sessualità umana è invece, una struttura complessa e articolata. Non riguarda solo il sesso corporeo e sociale, ma include anche molti altri aspetti finora poco studiati, come la tendenza sessuata, il desiderio, l'innamoramento, la reciprocità nell'amore, le relazioni d'identificazione e differenziazione nella coppia e nella famiglia, ossia la genealogia, la generazione e l'inter-generazione. Ne consegue che un'identità matura richiede di integrare tutti questi elementi, per migliorare - come uomo o come donna - la qualità delle relazioni umane.
Fino a poco tempo fa tutte le società hanno considerato il matrimonio come una partnership coniugale, l'unione tra un uomo e una donna. "Che cos'è il matrimonio?" identifica e difende le ragioni di questo consenso storico e mostra come ridefinire il matrimonio civile non solo non sia necessario, ma anche irragionevole e contrario al bene comune. Pubblicato originariamente sull'"Harvard Journal of Law and Public Policy" (2010), è divenuto rapidamente uno dei saggi più citati nel mondo delle scienze sociali. Da allora è stato oggetto di dibattito di studiosi e attivisti in tutto il mondo come la più formidabile difesa della tradizione. Gli autori propongono una critica penetrante all'idea che l'uguaglianza richieda di ridefinire il matrimonio. Essi difendono il principio che il matrimonio, come unione di corpo e spirito ordinato alla vita famigliare, lega l'uomo e la donna come marito e moglie, e mostrano come esso sia non un bene privato e individuale, ma un bene pubblico capace di garantire spazi di libertà ai cittadini. Senza il concorso di questi fattori costitutivi del matrimonio, si finisce per riconoscere le più svariate forme di unione sessuale, erodendo l'istituto matrimoniale e danneggiando seriamente il bene comune sociale.
Il tema del bene comune è oggi tanto presente in una società che, a rischio di frammentazione, ne percepisce pur confusamente la necessità, quanto teoricamente indicibile da parte della filosofia politica, influenzata da eredità socialiste e da prospettive individualiste liberali. Di qui la necessità, per una riproposizione del tema, di una approfondita calibratura che tenga conto delle istanze presenti nel pensiero moderno e contemporaneo e delle ragioni ereditate dalla tradizione classica. È nato con questi interrogativi un lavoro seminariale fra docenti di diverse università italiane che, in questo volume, affrontano il tema del bene comune da diverse prospettive e con diverse sensibilità e competenze. In particolare, tre prospettive complementari offrono una gamma interessante di significati del bene comune: i fondamenti teorici dell'idea nello sfondo della sua lunga storia e della sua crisi; l'esperienza che del bene comune si ha in modo anche atematico nel vivere associato; gli ambiti della cultura civile in cui la questione del bene comune ha un forte rilievo, quali sono l'ambito economico, quello religioso pubblico, quello dei diritti umani, quello delle utopie tecnologiche.
Siamo talmente abituati a guardare il mondo e gli altri a partire da noi stessi che neanche ci accorgiamo più di cosa sia il bene. Agli altri non si va in un secondo momento, quando si è già scoperto da soli e per proprio conto che cos'è il bene. Il senso di qualcosa d'altro entra piuttosto dall'inizio e in maniera costitutiva nel suo concetto, perché il bene interroga e smuove da come si è. Senza sapere di qualcosa di diverso da sé, per come si è, non può nascere il bene, né un dovere. Non è neppure questione di individui o di comunità. Ovunque si manifesti la pretesa di coincidere del tutto con se stessi, di centrarsi su di sé, si allontana il richiamo del bene. Vi sono epoche che sembrano a prima vista più sensibili a ciò che unisce, all'universale, e altre che paiono più inclini a rivendicare le diversità. Pur con le proprie peculiarità, questo vale allo stesso modo per la classicità (platonismo, aristotelismo, tomismo), per l'epoca della soggettività (Kierkegaard, Sartre, postmoderno), per il dibattito sull'altruismo (solidarietà). Il bene accomuna, ma non azzera. Il bene differisce, ma non isola. Porta oltre sé ma rifiuta ogni sintesi dell'umano. Tenendosi a distanza da cliché di comodo, attraverso tre articolati movimenti (archeologia, esistenza, condivisione) si restituisce in via teorica ed ermeneutica la struttura in tensione del bene verso l'altro da sé.
Si parla sempre più di interculturalita, sempre meno di multiculturalismo. In effetti, la molteplicità culturale non è certo una novità. C'è sempre stata nella storia umana. E tutto questo potrebbe dirsi anche dell'interculturalità. Perché allora queste realtà sociopolitiche sono diventate problema? Semplice: perché nessuno tollera più culture egemoni. Ogni cultura rivendica una qualche parità ed esige rispetto: chiede di poter partecipare alla vita comune sulla terra senza anatemi. A volte anche senza restrizioni. Ma questo è davvero possibile? E soprattutto: questo è giusto? Sembra proprio di no. Senza alcune restrizioni, a volte no: dice l'etica. Anche le realtà culturali, come tutte le realtà di questo mondo, devono essere attraversate e illuminate dalla domanda intorno al bene e al male. Il fatto è che nessuna cultura è, in sé e per sé, buona o cattiva: va interrogata nelle sue forme e nelle sue pretese, perché potrebbe portare con sé elementi che giocano contro la comune umanità (per esempio, certi casi di mutilazione del corpo). Ogni cultura va rispettata e onorata, certo, ma a misura che essa, a sua volta, rispetti e onori l'umanità comune. Il principio del riconoscimento, che è il punto di riferimento regolativo di tutto il libro e che è l'ispiratore, più o meno celato, del recente passaggio dalla cifra fattuale del multiculturalismo alla cifra prescrittiva dell'interculturalità, deve poter dispiegare la sua universalità anche riguardo alle differenti identità culturali.
Il testo propone una ricostruzione storico-teoretica della prospettiva postumanistica, evidenziandone i principali snodi concettuali, a partire dalla NeueAnthropologie, dal pensiero di Foucault e di Deleuze, passando per la biologia evoluzionistica e l'infofilosofia fino a giungere alla tecnoscienza contemporanea, intesa come luogo di collisione e commistione del sapere e dell'agire umano. Accanto a tale ricognizione si propone una problematizzazione della semantica del postumano, sottolineandone il limite critico in una concezione riduttiva e riduzionista della natura umana, della quale, per contro, si propone un recupero dei significato classico secondo il suo concetto non naturalistico, per il quale essa non è riducibile a semplice e statica materia, ma è da intendersi come ciò che ha in sé il principio di movimento e di quiete. Una natura umana così intesa comprende in sé gli attributi principali del pensiero postu-manistico, in particolare dinamismo e ibridazione, restando nel contempo inscritta in un orizzonte ancora antropologico.
Prendendo atto della difficoltà nel caratterizzare univocamente l’approccio narrativo all’etica, che pure è auspicato da più parti e in diversi ambiti del dibattito contemporaneo, il volume prende in esame alcune matrici filosofiche dell’etica narrativa, allo scopo di evidenziarne la specificità e le risorse. In particolare, vengono analizzate e proposte teoriche di Alasdair Maclntyre, lris Murdoch, David Carr, Charles Taylor e Paul Ricoeur, che attribuiscono alla categoria di “narrazione” una valenza pratico-etica; dal loro confronto emerge un profilo teorico dell’etica narrativa, del quale viene vagliato il contributo ai fini di una fondazione antropologica della norma etica. Tra le risorse dell’approccio narrativo vengono individuate l’esplorazione della soglia tra antropologia ed etica (mediante la tematizzazione della vita come unità narrativa) e l’approfondimento del rapporto tra universale etico e storie di vita particolari; quale limite ditale approccio, invece, si riconosce la non-autosufficienza della narrazione ai fini della fondazione etica.
"Il cuore ha sempre ragione, libera le tue emozioni". È spesso questo il motto dell'uomo contemporaneo, che non di rado è un homo sentiens che cerca di vivere delle emozioni continue e sempre più intense. Perciò le virtù sono oggetto di un pesante discredito: la persona virtuosa - si dice - è remissiva, è spenta, vive in modo rigidamente ascetico, e la virtù è ritenuta un freno alle passioni. Perché mai riparlare di virtù come fa il presente testo? Il punto è che (come argomenta l'autore) l'homo sentiens non è felice. Inoltre l'etica moderna ha palesato diverse lacune ed insufficienze, che hanno sospinto diversi autori, soprattutto dell'anglofona Virtue Ethics, a rilanciare i temi del carattere e della virtù. Questo testo argomenta, per esempio, le seguenti tesi: l'uomo ha bisogno di un fine per poter dare senso alle norme; ha bisogno di essere amato e la moralità consiste in un qualche esercizio dell'amore, in un ordo amoris; ha bisogno di virtù e di coltivare delle emozioni appropriate. In particolare, questo lavoro tematizza le emozioni e promuove non già la loro repressione, bensì l'assunzione della loro energia, investigandone la natura ed illustrando alcune attività che consentono di gestirle e di non essere da loro dominati. L'autore mostra come le emozioni possano diventare alleate della ragione e costitutive della virtù, come possano darci slancio e supportare positivamente la ragione. È vero che a volte possono fuorviarci, tuttavia non bisogna contrapporle alla ragione...
«Maschio e femmina li creò» si dice in Genesi, offrendo così delle parole attraverso cui pensare un’esperienza fondamentale: il nostro essere nel mondo uomini e donne. Ma la differenza sessuale non è solo un’esperienza fondamentale; è anche un’esperienza tra le più difficili da praticare: la storia della sua comprensione è infatti scandita da stereotipi che hanno ostacolato il suo essere un luogo di libertà e di riconoscimento reciproco. Oggi gli stereotipi che legittimano relazioni di dominio non sono venuti del tutto meno, né in Occidente, né nel resto del mondo; tuttavia il nostro tempo è caratterizzato dalla ‘libertà femminile’, che obbliga a parlare di un nuovo scenario. In questo nuovo scenario è urgente il bisogno di una riflessione etica e, ancor prima, antropologica sul senso della differenza sessuale, come dimostra la conflittualità o la competizione tra i sessi, che spesso diventa violenza. Ora, però, a compiere tale riflessione possiamo essere sia uomini sia donne, con le occasioni di ascolto reciproco e di scambio di punti di vista prima impossibili. Questo libro raccoglie contributi di filosofi e filosofe, psicoanalisti e psicoanaliste, teologi e teologhe, che riconoscono e restituiscono alla differenza sessuale la sua fondamentalità, cioè il suo essere una questione che un pensiero radicale dell’umano non può più aggirare.
Gli autori
Riccardo Fanciullacci ha conseguito il dottorato di ricerca (con una tesi sulla struttura del giudizio e la pretesa di verità) all’Università Ca’ Foscari di Venezia dove attualmente collabora con la Cattedra di Filosofia morale e con il Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica (CISE). È anche segretario scientifico del Centro di Etica Generale e Applicata (CEGA) dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia. Ha pubblicato un ampio saggio sulla Regola d’Oro nel volume a cura di C. Vigna e S. Zanardo, La regola d’oro come etica universale(Vita e Pensiero, Milano 2005). Susy Zanardo è docente a contratto di Filosofia morale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Collabora con il Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica (CISE) della medesima università. Ha pubblicato, oltre a diversi saggi sul pensiero francese contemporaneo, il volume Il legame del dono (Vita e Pensiero, 2007); ha curato, con C. Vigna, La regola d’oro come etica universale (Vita e Pensiero, 2005) e Etica di frontiera. Nuove forme del bene e del male (Vita e Pensiero, 2008).
Il libro presenta per la prima volta dopo oltre due secoli un commento al testo della seconda Critica di Kant. Paragrafo per paragrafo l'autore guida il lettore a una intelligenza diretta del testo che tiene presente sia il complesso degli scritti di Kant sia il contesto della riflessione morale alla fine del secolo XVIII. Nell'intento di cogliere il significato obiettivo della Critica, l'autore evita una lettura armonizzatrice che passi sopra a scabrosità e incongruenze del testo e che miri a costruire un'etica aggiornata alle discussioni moderne, ma estranea alle argomentazioni del filosofo di Königsberg. Il commento è inframezzato da numerosi excursus nei quali vengono discussi separatamente concetti e problemi di particolare rilevanza che si presentano nel corso della Critica. L'autore ha cercato di distinguere l'esegesi immanente, nella quale ci si prefigge di individuare il significato obiettivo del testo kantiano, da un'esegesi esterna la quale valuti l'etica di Kant dal punto di vista di quell'esperienza morale che è comune a tutti gli uomini. Una siffatta valutazione coincide largamente con la filosofia morale di san Tommaso.
Il volume nasce nel contesto di una ricerca tripartita, che esplora la questione del bene nell’ambito del dibattito filosofico contemporaneo. A questo sono dedicati altri due volumi collettanei: Forme del bene condiviso (Bologna 2007) e Etica di frontiera. Nuove forme del bene e del male (Milano 2008), a cui si aggiunge in modo coordinato il presente volume con un approfondimento sul tema dell’agire dal punto di vista antropologico. Esso si presenta come un itinerario attraverso diverse aree dell’esperienza indagate nella prospettiva dell’azione e delle sue forme, con l’attenzione rivolta alle figure del bene che vi si delineano. La prima parte propone linee teoriche sull’agire secondo diverse sensibilità filosofiche, analitica, neoclassica, neokantiana, neoaristotelica. Nelle tre parti successive l’indagine traccia degli itinerari teorici entro grandi ambiti esemplari dell’esperienza, in cui sono in gioco l’agire linguistico, quello sociale e quello della cura dell’umano. L’incrocio delle indagini sull’agire prospetta diverse figure del bene, raccolte attorno a tre idee fondamentali: il bene come rivelazione del senso umano dell’agire; il carattere relazionale intrinseco al bene dell’agire; il bene dell’agire, rivelativo e relazionale, come generativo dell’umano. L’apice del significato umano dell’agire, infatti, è l’attivazione e la cura della relazione come luogo in cui è in atto una qualche forma di generazione o rigenerazione dell’umano.
Francesco Botturi, ordinario di Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano, si è occupato di antropologia e di filosofia della storia, nell’ambito della filosofia francese contemporanea (Struttura e soggettività. Saggio su Bachelard e Althusser, Milano 1976; Filosofia della in-differenza. Univocità e nichilismo in G. Deleuze, 1986 e 1987), nell’ambito della filosofia moderna con gli studi su G.B. Vico (La sapienza della storia. G.B. Vico e la filosofia pratica, Milano 1991 e Tempo, linguaggio, azione. Lineamenti della vichiana “storia ideale eterna”, Napoli 1996) e con prospettiva teoretica (Desiderio e verità. Per una antropologia cristiana nell’epoca della secolarizzazione, Milano 1986 e Per una filosofia dell’esperienza storica, Milano 1987). Successivamente ha orientato la sua ricerca in campo antropologico-etico con numerosi saggi, tra cui Per una epistemologia della ragion pratica (2004), Esperienza del bene e dinamismo della ragion pratica (2004), Etica degli affetti? (2004), L’ontologia dialettica della libertà (2005), Universalismo e multiculturalismo (2006), Intelligenza pratica e totalità soggettiva (2007). Presso Vita e Pensiero dirige con C. Vigna l’«Annuario di etica».
Intento del volume è contribuire alla comprensione della natura del rapporto che il soggetto umano intrattiene con la parola. La riflessione ruota intorno a due interrogativi fondamentali: innanzitutto qual è, se ve ne è uno, lo specifico dell'esperienza umana della parola? Tale questione si è imposta a partire dalla constatazione che il linguaggio è un fenomeno che non coinvolge solo l'uomo, che non riguarda solo il soggetto umano, ma interessa, ad esempio, anche il mondo animale e ampi settori del mondo tecnologico. Il secondo interrogativo al centro di queste pagine è il seguente: qual è il luogo dell'esperienza della parola? A queste e altre questioni il volume risponde sviluppando una riflessione che, sulla base di alcune importanti distinzioni, come quelle tra "essere loquens" ed "essere eloquens", tra "reagire" e "rispondere", tra "trasferimento di informazioni" e "comunicazione", tra "scrivente" e "scrittore", giunge a identificare un rapporto di essenza tra l'ordine dell'esperienza e quello della parola, e quindi tra l'atto di parola e l'atto morale.
Il termine ‘narrativismo’ rimanda alla centralità della categoria di narrazione nei più svariati ambiti della cultura contemporanea, anche filosofica. L’estensione del termine sembra però minacciarne la densità: che cos’è la narrazione, che il narrativismo nomina di continuo? Il volume di Francesca Cattaneo prende le mosse dalle origini del termine ‘narrativismo’ e dalla sua accezione più stretta, riferita a una corrente della filosofia della storia angloamericana sviluppatasi dalla prima metà degli anni Sessanta. Analizzandone la genesi e le principali evoluzioni fino agli anni Ottanta, il testo si propone di mostrare come il narrativismo sviluppi uno studio del collegamento narrativo e delle sue differenti funzioni, approfondendo ora la dimensione sequenziale della narrazione, ora la sua dimensione sintetica (portata in primo piano dall’opera di L.O. Mink e H. White). Nelle diverse proposte narrativistiche viene inoltre identificato come centrale il nesso tra azione e narrazione, esplorato tramite lo studio del rapporto tra narrazione e azione narrata (primo narrativismo), oppure tematizzando l’azione stessa del narrare in quanto azione poetico-retorica (dopo la ‘svolta’ whiteana), o interrogandosi sul rapporto tra le azioni narrate e l’azione del narrare, come nel caso del narrativismo di matrice fenomenologica (F.A. Olafson, D. Carr), che analizza le implicazioni ontologiche della continuità tra le narrazioni storiche e le azioni che vi sono rappresentate.
Francesca Cattaneo (Cantù 1980) è dottoranda di ricerca in Filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove nel 2005 ha conseguito il premio «Massimiliano Ferrara» per la migliore tesi di laurea sul tema della ragion pratica degli anni 2003/2005. Ha curato i lemmi narrativismo e Hayden White in Enciclopedia Filosofica, Milano 2006 e ha pubblicato il saggio L’azione narrativa nel volume di F. Botturi (a cura di), Prospettiva dell’azione e figure del bene, Vita e Pensiero, Milano 2008.
L’etica è una delle teorie più legate alla fluidità della vita umana, perché è mirata al governo dell’agire, che è sempre singolare; dunque determinato dalle coordinate dell’empiria (lo spazio e il tempo; cioè poi il molteplice e il divenire). Essa orienta in tal modo la vita. Ma, se deve seguire della vita le volute, deve pure, nel contempo, ritrarsene. Come ogni teoria. Una teoria, anzitutto e per lo più, risulta dalla comprensione dei fenomeni. Ora, per comprendere qualcosa, bisogna in certo modo prendere le distanze dalle parti e stare al tutto. Come l’occhio rispetto alle forme e ai colori. L’etica deve dunque coniugare il singolare con l’universale, cioè stare al singolare con uno sguardo universale, per rendere universale il singolare. Questo, poi, praticamente significa, per un essere umano, orientare. L’etica, allora, non è una teoria come tutte le altre. Se comprende il singolare per orientarlo all’universale, deve stare in certo modo sempre alla frontiera, cioè deve sempre scrutare la realtà del nuovo che avanza, se vuol dargli la forma trascendentale dell’oggetto conveniente con il buon uso della libertà. La frontiera è una cifra simbolica che tutti intercettano con facilità. È anche una cifra piena di fascino, perché sembra alludere nel linguaggio comune alla possibilità di straordinarie avventure. Lascia, cioè, pensare a quel che verrà in termini di grande seduzione, perché fa immaginare terre inesplorate, dalle quali certamente verrà il bene per noi. Tace, però, quasi sempre intorno ai rischi che tutto questo porta con sé. Quando qualcosa viene a noi, non sempre è per noi. Anzi, non di rado è contro di noi, fino a minacciarci di morte. Per questo le frontiere sono state sempre, in realtà, vigilate. Essere alla frontiera è perciò lo stesso che vigilare sulla frontiera. In faccia al nemico, perché il nemico non sorprenda. Essere alla frontiera è proteggere dal male e custodire il bene. Ma proteggere dal male ogni essere umano e custodire il bene di ogni essere umano. A partire dai più piccoli e dai più poveri. Ecco la vocazione di questo libro e, prima ancora, di quelli che l’hanno scritto.
Carmelo Vigna è ordinario di Filosofia morale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove ha diretto il Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze e ha fondato e attualmente dirige il Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica (CISE). È direttore (con Francesco Botturi) dell’Annuario di etica (edito da Vita e Pensiero). È Presidente del Centro di Etica Generale e Applicata (CEGA) dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia. È autore di numerose pubblicazioni.
Susy Zanardo è dottore di ricerca. È stata borsista del Centro Universitario Cattolico (CUC) - II livello. È segretaria scientifica del Centro di Etica Generale e Applicata (CEGA) dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia. Collabora con la Cattedra di Filosofia morale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e con il Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica (CISE) della medesima Università. In questa collana ha pubblicato Il legame del dono (2007) e, sempre in questa collana, ha curato (con Carmelo Vigna) La Regola d’oro come etica universale (2005).
C’è uno stretto legame tra l’etica e le forme di vita: la prima cresce e si sviluppa inevitabilmente attraverso la mediazione delle forme culturali e storiche vigenti, specie di quelle più consolidate, nelle quali si svolgono le esperienze di vita più significative degli uomini; le seconde non rimangono fisse e determinate una volta per tutte, ma sono soggette a una continua opera di revisione e di autoriflessione, nella quale si rende presente anche l’istanza etica.
Questo volume non ha certo la pretesa di compiere una ricognizione esaustiva di tutte quelle che possono essere definite a vario titolo ‘forme di vita’: si limita a considerarne alcune, concentrandosi sui risvolti di ordine morale. Dopo una prima parte introduttiva, dedicata al rapporto tra etica e intelligenza, il libro indaga la forma di vita religiosa, ponendosi l’interrogativo di quale sia la sua specificità e di come essa si rapporti all’etica. La parte concernente la bioetica analizza quindi le diverse modalità con le quali si è soliti, non sempre in modo del tutto consapevole, rappresentarla: come pratica sociale o come sintesi interdisciplinare, nella quale confluiscono saperi di genere diverso, o infine come disciplina prettamente filosofica. Gli affetti costituiscono poi un luogo privilegiato di espressione della dimensione etica: di ciò si occupa la parte quarta dedicata alla vita relazionale. L’ultima forma indagata è quella dell’economia, rispetto alla quale si sottolinea l’importanza di assumere un paradigma antropologico di tipo relazionale. Chiude il volume un affascinante excursus dedicato alle molteplici figure della felicità e ai significati che queste rivestono per l’economia.
Antonio Da Re è professore straordinario di Filosofia morale presso l’Università di Padova. Dirige la rivista «Etica per le professioni. Questioni di etica applicata». Fra le sue pubblicazioni: L'ermeneutica di Gadamer e la filosofia pratica (Rimini 1982); L'etica tra felicità e dovere. L'attuale dibattito sulla filosofia pratica (Bologna 1987); La saggezza possibile. Ragioni e limiti dell'etica (Padova 1994); Tra antico e moderno. Nicolai Hartmann e l'etica materiale dei valori (Milano 1996); Figure dell’etica (in Introduzione all’etica, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2001); Filosofia morale. Storia, teorie, argomenti (Milano 2003); Virtù, natura e normatività (in collaborazione con G. De Anna, Padova 2004).
La figura del dono si è imposta negli ultimi anni come cifra essenziale della post-modernità. Pensatori come Husserl e Heidegger hanno preparato il terreno. Altri e più recenti protagonisti del dibattito filosofico (soprattutto J. Derrida e J.-L. Marion) hanno dedicato al dono libri fondamentali. Ma una teoria del dono, dopo il celebre saggio di Mauss, non può ignorare la relazione tra dono e legame. Come purtroppo, sinora e per lo più, è stato fatto.
Questo libro affronta in modo diretto e deciso il senso della questione e propone una direzione di indagine nuova, attraverso una discussione serrata e illuminante delle tesi di Marion e di Derrida. Tanto l’onnipresenza della ‘donazione’ (Marion) quanto l’impossibilità del ‘dono’ (Derrida) vengono ponderate con cura e giudicate con equilibrio. Una insolita profondità di sguardo mette a nudo con implacabile rigore tutte le fragilità dei due pensatori francesi antagonisti e prepara l’affondo teorico finale che ne oltrepassa le rigide unilateralità mediante la tessitura del rapporto tra dono e legame come reciproco riconoscimento tra due (o più) soggettività in relazione.
Il dono, in ultima istanza, si dice in questo libro, è sempre ‘dono di noi stessi ad un altro come noi’: è la piena realizzazione della struttura dell’umano come essere per altri. Tutte le forme di dono declinano la simbolica di questo gesto originario, ma non possono esserne che versioni ‘ridotte’. Ed è per questo che il dono ci lega con una forza più potente di ogni altra. Dono e legame creano perciò un circolo virtuoso. L’umano è questo circolo della vita, che le Scritture narrano come il rapporto tra un uomo e una donna. E le Scritture dicono pure che in quel rapporto abita tutto ciò che può darci un’indicazione simbolica di quel che Dio stesso è come per noi.
Susy Zanardo è dottore di ricerca. È stata borsista del Centro Universitario Cattolico (CUC) - II livello. È segretaria scientifica del Centro di Etica Generale e Applicata (CEGA) dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia. Collabora con la Cattedra di Filosofia morale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e con il Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica (CISE) della medesima Università. Ha pubblicato diversi saggi sul pensiero francese contemporaneo. È curatrice (con Carmelo Vigna) e coautrice del volume La Regola d'oro come etica universale (Vita e Pensiero, Milano 2005).
Nella vita individuale e associata, oggi sottoposta all’influsso dell’individualismo liberista e utilitarista, possono sorgere difficoltà sul fronte dell’azione e della spiegazione della realtà. Risulta difficile soddisfare le richieste sempre più articolate dei cittadini in tema di beni e servizi privati, pubblici e relazionali. La difficoltà può riguardare, nell’attività economica, il conseguimento di obiettivi prioritari di qualità e innovazione. Problemi di rilievo si incontrano pure per il raggiungimento di traguardi economici collettivi primari nell’ipercompetizione attuale e dalla forte dimensione cooperativa, quali il potenziamento della competitività e dell’attrazione territoriale. Difficoltà si profilano infine rispetto alla domanda di conferire senso all’agire umano, che si manifesta con forza nella teoria economica e nelle forme di ripresa di attenzione al tema della felicità. Cresce dunque l’interesse per una lettura della realtà alla luce dell’idea di persona e delle connesse implicazioni valoriali e comportamentali, supportato da recenti elaborazioni del pensiero filosofico, per ripensare le cose umane e ricomporre cultura, economia e natura, nel rispetto della dignità dell’uomo.
Gli studi contenuti in questo volume sono stati presentati da filosofi ed economisti nel corso di un Convegno tenutosi nell’Ateneo perugino nel marzo 2006. Essi prendono in esame l’idea di persona nel contesto economico attuale di progressiva globalizzazione, diffuso economicismo e predominio dell’economia sulla politica, al fine di saggiarne la capacità di rispondere alle esigenze di un nuovo umanesimo.
Pierluigi Grasselli insegna Politica economica nella Facoltà di Economia dell’Università di Perugia. È autore di numerosi saggi su temi di politica monetaria e fiscale, di economia del turismo, di politica dello sviluppo, di connessioni tra etica ed economia.
Marco Moschini insegna Ermeneutica filosofica presso l’Università degli Studi di Perugia. Ha approfondito temi della metafisica, della dialettica, del pensiero ontologico contemporaneo con specifici risvolti intorno alla fondazione della morale. A questi argomenti ha dedicato saggi e articoli monografici.
Almeno a prima vista, il percorso dell’etica occidentale appare segnato da un’ostilità irriducibile tra logos e pathos. Fin dall’origine, l’affanno filosofico principale sembra dovuto al tentativo di limitare il commercio con le passioni, assumendo il controllo razionale dell’esperienza. Ma più il logos ha cercato di mantenersi puro, più le passioni si sono scatenate, divenendo - soprattutto nel Romanticismo - il controcanto della ragione.
Oggi l’antica discordia si è lentamente trasformata in una separazione senza ritorno. Così, da una parte, il pathos è celebrato nella forma privata e insindacabile dell’emozione; dall’altra, il logos si muove entro la corta misura della ragione scientifica, che - per definizione - è ‘anemotional’. Si tratta di un destino inevitabile? Dipende dalla premessa: se il pathos è ‘alogon’, cioè un ‘altrove’ irrazionale della razionalità, allora è impossibile rimediare ad un’estraneità così radicale. Se, invece, l’affettivo è concepito come un modo di funzionare che è proprio della ragione, se, in altri termini, pathos e logos hanno una radice comune, allora c’è spazio per comporne l’unità.
Muovere da questa seconda premessa non pare insensato: persino coloro che hanno inteso difendere la purezza della ragione, come - ad esempio - gli Stoici, Platone, Descartes, Spinoza, Kant, non sono così lontani dall’idea di una primordiale e reciproca afferenza di logos e affettività. Idea che la tradizione classica (in particolare aristotelica e scolastica) è stata capace di pensare e che la fenomenologia (soprattutto con Michel Henry) ha in qualche modo reinventato, accreditando la consapevolezza che una soggettività razionale finita, situata in un corpo, è pensabile unicamente a partire dalla presenza della ragione negli affetti: non si dà logos se non dentro il campo della ricettività (che va dal sensibile allo spirituale); né si dà affettività umana che non sia, in qualche modo, già innervata dalla ragione.
Paolo Gomarasca insegna Antropologia alla Facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e svolge la sua attività di ricerca presso la cattedra di Filosofia morale della medesima Università. Tra i suoi lavori: Rosmini e la forma morale dell’essere (Milano 1998); Il linguaggio del male (Vita e Pensiero, Milano 2001); I confini dell’altro. Etica dello spazio multiculturale (Vita e Pensiero, Milano 2004).
La Regola d’oro («Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te» o, in positivo, «Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te») merita oggi un’attenzione filosofica particolare, anche se si tratta di un’intuizione sapienziale, innanzi tutto, e non di un principio teorico, più o meno raffinato nella sua formulazione. L’intuizione sapienziale ha in questo caso il grande vantaggio di esprimersi genialmente intorno al rapporto giusto tra esseri umani. Non ad un rapporto giusto, ma proprio al rapporto giusto. Ciò significa che la Regola d’oro contiene virtualmente in sé tutte le forme di comando per altri, poiché essa dice della ‘qualità’ della relazione tra noi indipendentemente dal gesto singolare che dovesse incarnarla. Ed è proprio la ricerca di una qualità buona della relazione tra noi la fatica del nostro tempo che non può più permettersi la dicotomia politica amico-nemico. All’oscillazione amico-nemico c’è sempre meno riparo attraverso la proiezione dell’inimicizia all’esterno della comunità e la collocazione dell’amicizia al suo interno, come accade nella guerra di un popolo contro un altro. Siamo sempre più destinati a essere, insieme, tutti amici possibili e tutti possibili nemici; anche di noi stessi. Ma come essere possibili amici? La Regola d’oro porta a parola, nella sua bella formulazione, l’indicazione, semplice e radicale, delle dinamiche dell’umana amicizia, meglio di quanto non accada ad altri principi della ragion pratica. Perciò può essere considerata una cifra emergente dell’universalità etica, di cui è diventato altrettanto universale il bisogno.
Carmelo Vigna è ordinario di Filosofia morale presso l’Università degli Studi Ca’ Foscari di Venezia, dove ha diretto il Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze e ha fondato e attualmente dirige il Centro Interuniversitario per gli studi sull’Etica (C.I.S.E.). Insegna anche presso l’Università Cattolica di Milano. È direttore (con F. Botturi) dell’«Annuario di etica» (Vita e Pensiero). Per Vita e Pensiero ha curato: Multiculturalismo e identità (con S. Zamagni, 2002); Etica trascendentale e intersoggettività (2002); Libertà, giustizia e bene in una società plurale (2003); Etiche e politiche della post-modernità (2003); Etica del plurale (con E. Bonan, 2004).
Susy Zanardo è dottore di ricerca e borsista del Centro Universitario Cattolico (II livello). Collabora con la Cattedra di Filosofia morale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e con il Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica (C.I.S.E.). Ha pubblicato lavori sul pensiero contemporaneo di area francese.
La riflessione etica è davvero separabile da un’indagine sulla natura dell’uomo, come ritiene gran parte della filosofia morale contemporanea? Non è questa l’opinione di Charles Taylor, uno dei più importanti filosofi contemporanei: in questo volume, che riunisce per la prima volta in traduzione italiana un’ampia selezione degli scritti di etica e di antropologia filosofica, lo studioso canadese chiarisce come i due piani del discorso – quello etico e quello antropologico – si intersechino e si combinino costantemente e fruttuosamente. Da questo intento principale trae origine una riflessione ricca di spunti e temi in cui trovano spazio questioni filosofiche fondamentali come la comprensione dell’agire umano, la definizione di persona, la relazione tra emozioni e ragione e tra la natura umana e il linguaggio, le aporie dello scetticismo e del relativismo etico, la diversità dei beni umani, i limiti dell’utilitarismo e delle etiche procedurali. Il tutto in uno stile di pensiero originale che unisce il rigore dell’approccio analitico e l’ampiezza di orizzonti della filosofia continentale.
Charles Taylor (Montreal, 1931) è professore di Filosofia e Diritto alla Northwestern University di Chicago e professore emerito di Filosofia e Scienze politiche alla McGill University di Montreal. È autore, tra l’altro, di Hegel e la filosofia moderna (Bologna 1984), Radici dell’io (Milano 1993), Il disagio della modernità (Roma-Bari 1994), La modernità della religione (Roma 2004), Modern Social Imaginaries (Durham 2004).
Paolo Costa (Milano, 1966) è dottore di ricerca in Antropologia filosofica. Svolge attività di ricerca presso l’Istituto per le Scienze Religiose di Trento. È autore, tra l’altro, di Verso un’ontologia dell’umano. Antropologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor (Milano 2001) e ha curato l’edizione italiana di La modernità della religione.
«La giustizia non può stare senza riferirsi all’orizzonte della reciprocità riconoscente, la reciprocità riconoscente è impraticabile senza la disponibilità alla cura reciproca e quindi alla reciproca responsabilità. Si dirà che queste semplici cose comuni sono molte volte tradite. Ed è vero, purtroppo. La storia ne fa fede. Tanto che qualcuno va, ancora e sempre, dietro alla disperazione politica di tipo hobbesiano, inventando vincoli per costringere gli esseri umani a stare in qualche modo insieme. Almeno per paura. Ma nessuna costrizione costruisce una città. Tutt’al più, fa sopravvivere per qualche tempo una città già costruita. La costrizione, infatti, segue sempre alla rottura di un vincolo di alleanza, e vive solo dei «resti» di quel vincolo. Quando li ha tutti consumati, sparisce anche come costrizione. E con lei sparisce la città. Per nostra fortuna, da qualche parte le forme di alleanza tra gli umani risorgono incessantemente. Non può esser diversamente, perché sono la nostra prima radice. Risorgono quando un uomo e una donna si mettono a vivere insieme; risorgono quando degli amici si danno la voce; risorgono quando ci sono i bambini da crescere; risorgono tutte le volte che qualcuno invita vicini e lontani a condividere la verità e il bene. Allora giustizia, riconoscimento e responsabilità ridiventano parole d’ordine degne della nostra attenzione. Questo libro a più mani è un piccolo invito a esercitare, senza stancarsi, questa attenzione essenziale.»
Egle Bonan è dottore di ricerca; è stata assegnista presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia; si è perfezionata a Parigi, presso l’Ecole Normale Superieure Fontenay/Saint-Cloud. Attualmente svolge attività di ricerca come borsista nell’ambito del Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica. Si occupa principalmente di tematiche connesse all’ontologia, all’antropologia e all’etica, con particolare riferimento alla filosofia contemporanea francese. Ha pubblicato il volume Soggetto ed Essere. Indagini sul pensiero di E. Levinas (Silea 2002) e una serie di saggi.
Carmelo Vigna è ordinario di Filosofia morale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove ha diretto il Dipartimento di Filosofia e T.d.S. e ha fondato e attualmente dirige il Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica (C.I.S.E.). Insegna anche presso l’Università Cattolica di Milano. Ha pubblicato Il frammento e l’Intero (Vita e Pensiero, Milano 2000). È curatore e coautore dei seguenti volumi, tutti editi da Vita e Pensiero: Introduzione all’etica (con S. Zamagni, 2001); Multiculturalismo e identità (2002); Etica trascendentale e intersoggettività (2002); Libertà, giustizia e bene in una società plurale (2003); Etiche e politiche della postmodernità (2003). Con F. Botturi ha fondato e dirige l’Annuario di etica.
L’incontro tra culture diverse caratterizza le società democratiche nell’era della globalizzazione. La convivenza con gli stranieri pone ovvi problemi giuridico-politici; meno ovvio, forse, è il fatto che i vari tentativi di soluzione siano influenzati dal modo individualistico con cui la modernità ha pensato il soggetto. Lo si vede bene analizzando il concetto di confine: lo spazio concreto in cui l’individualismo moderno ha determinato la spaccatura fondamentale tra ‘noi’ e ‘loro’, assecondando l’illusione di poter fare a meno degli altri. Un confine chiuso, impermeabile alle differenze, sembra essere una china invitante per le moderne politiche multiculturali. La soluzione postmoderna, dal canto suo, appare poco convincente: cancellare i confini, vagabondare nel mondo senza il peso di un’identità da difendere, scongiura il rischio individualistico di escludere l’altro, il diverso; tuttavia, il culto dell’erranza senza meta rende altrettanto impossibile ‘fare società’.
Serve, allora, un’alternativa antropologica che valorizzi la relazione con l’altro come bene primario della soggettività in quanto umana. Infatti, solo a partire da un’etica della relazione è possibile pensare e attuare una politica di reale accoglienza: non un’apertura indiscriminata delle frontiere, o una generosità a senso unico, bensì l’attuazione di legami di riconoscimento che impegnano tanto chi dona quanto chi riceve nell’opera comune di ‘essere-insieme’. Un’opera che – non a caso – la Chiesa ha posto al centro del suo magistero sulla multiculturalità. È per questo che un multiculturalismo sensibile al significato etico del riconoscimento dovrebbe guardare con attenzione all’esperienza cristiana del confine. Non come rimedio spiritualistico, ma come indicazione antropologicamente pertinente. Ne potrebbe nascere una politica rinnovata, all’altezza del compito che l’incontro tra culture ci impone.
Paolo Gomarasca, DEA in Filosofia, dottore di ricerca in Filosofia, collabora al corso di Filosofia sociale e alla cattedra di Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi lavori: Rosmini e la forma morale dell’essere (Milano 1998); Il linguaggio del male (Vita e Pensiero, Milano 2001); Libertà e colpa, in F. Botturi (a cura di), Soggetto e libertà nella condizione postmoderna (Vita e Pensiero, Milano 2002); Identità e differenze nelle politiche multiculturali, in V. Cesareo (a cura di), L’Altro. Identità, dialogo e conflitto nella società plurale (Vita e Pensiero, Milano 2004).
L’interrogativo che muove l’indagine qui proposta, condotta a molte voci ma espressiva di un disegno unitario, riguarda la pensabilità della libertà nella condizione postmoderna dell’esperienza. Dopo una prima parte esplorativa delle coordinate culturali e antropologiche in cui si collocano prassi e teoria della libertà nell’era della tecnica, la seconda parte inaugura un percorso alla ricerca di un profilo teorico persuasivo della libertà umana, colta nella sua struttura antropologica pluridimensionale, nel suo ‘paradosso’ ontologico-metafisico, nell’enigma tragico della sua defettibilità colpevole e nella sua vocazione teologica. La terza parte torna alle questioni dell’oggi, con un approccio critico e propositivo ad alcuni aspetti problematici rispetto all’idea o alla prassi della libertà. Si tratta di saperi che toccano in modo incisivo la possibilità della libertà, e insieme l’identità soggettiva, come avviene nella sociobiologia, nelle scienze cognitive, nella psicoanalisi. Si tratta poi di condizioni e problemi sociali in cui è in gioco la praticabilità della libertà nel suo esercizio pubblico, come avviene nella nuova organizzazione del lavoro, nelle tecnologie della comunicazione sociale, nelle attuali condizioni di pluralismo culturale e religioso, nel problema dell’educazione. Il risultato dell’indagine è multiplo. Emerge, in primo luogo, una rinnovata consapevolezza della centralità della questione tecnologica, risultando la tecnologia al tempo stesso occasione e insidia per la libertà. In questa condizione culturale epocale è di estrema importanza riscattare la libertà da una concezione astratta, per guadagnarne la pienezza antropologica quale organismo polisenso di scelta, finalità e relazione, e insieme l’unità trascendentale come autodeterminazione. Qui si delinea il problema dell’origine e del significato metafisico della libertà, la cui ricchezza antropologica e verticalità metafisica risultano congiunte e indispensabili per pensare la sua realizzazione storica, là dove si consuma anche il dramma della sua negazione colpevole e l’apertura della prospettiva teologica sulla novità radicale di una Libertà redentrice.
Francesco Botturi, ordinario di Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano, si è occupato di antropologia nella prospettiva della filosofia della storia, dapprima nell’ambito della filosofia francese contemporanea (“Struttura e soggettività. Saggio su Bachelard e Althusser”, Milano 1976), poi in G.B. Vico (“La sapienza della storia. G.B. Vico e la filosofia pratica”, Milano 1991), e dal punto di vista teoretico (“Per una filosofia dell’esperienza storica”, Milano 1986). Recentemente ha orientato la sua ricerca in campo antropologico-etico, con numerosi saggi, tra cui “Libertà e formazione morale” (2000), “Princìpi morali ed assoluti etici” (2001), “Pluralismo culturale e unità politica nella globalizzazione postmoderna” (2001), “Pluralismo sociale e sistema della libertà” (2002), “Scissione dell’esperienza e identità antropologica” (2002), “Il bene della relazione e i beni della persona” (2002).
A distanza di quattordici anni dalla prima pubblicazione in edizione originale, “Il realismo morale e i fondamenti dell’etica” è già divenuto un classico della metaetica e dell’etica normativa analitica. Il testo, che rappresenta la versione più organica e logicamente cogente della prospettiva sostenuta dal cosiddetto ‘realismo morale americano’, sviluppa una teoria esternalistica della motivazione morale, un’epistemologia morale coerentistica, un’ontologia morale di tipo realistico e naturalistico, un’etica normativa improntata a una forma oggettiva di utilitarismo.
Queste tesi vengono argomentate alla luce delle competenze che l’autore possiede nell’ambito di discipline quali l’epistemologia, la filosofia del linguaggio, l’ontologia, la filosofia della mente, la storia della filosofia. Tale poderoso insieme di conoscenze di sfondo rende la lettura del testo coinvolgente e attuale, per la capacità di cogliere in un unico sguardo temi e problemi che solo astrattamente appaiono suddivisi in ambiti disciplinari diversi. L’attualità del volume è testimoniata anche dal ruolo centrale che in esso gioca il tema del naturalismo. Le argomentazioni di Brink a favore di un naturalismo non riduzionistico offrono, per la loro chiarezza e il loro rigore, un contributo importante al dibattito sul naturalismo filosofico, rivolto tanto a coloro che simpatizzano con il naturalismo, quanto a coloro che vi resistono.
David O. Brink è docente alla facoltà di Filosofia dell’Università di San Diego, CA e ha conseguito il dottorato in Filosofia nel 1985 presso la Cornell University. I suoi interessi di ricerca si rivolgono all’etica, in particolare alla metaetica e ai fondamenti della morale, alla filosofia della politica e al diritto. Tra le pubblicazioni più recenti si segnalano: "Common Sense and First Principles in Sidgwick’s Methods", «Social Philosophy & Policy», 11 (1994); "Realism, Naturalism and Moral Semantics", «Social Philosophy & Policy», 18 (2001); "Some Forms and Limits of Consequentialism", in "The Oxford Handbook of Ethical Theory", a cura di D. Copp, Clarendon Press, Oxford 2003.
La vecchia Europa vive una nuova stagione, come epicentro amato e odiato di una profonda migrazione di popoli che convengono soprattutto dall’oriente e dal sud del mondo, in cerca di una vita migliore o semplicemente per sfuggire alla fame, al dolore e alla morte. In non pochi casi, anche per ritrovare una dignità di vita. Come è accaduto e continua ad accadere per la vita sociale (e politica) americana, anche per noi europei v’è il problema di stabilire il giusto rapporto fra la necessità di reperire un codice comune di convivenza e l’istanza della molteplicità etnico-culturale. La letteratura sull’argomento oscilla tra due estremi, non facilmente componibili: da un lato, si cerca la soluzione per sottrazione, e si bada al reperimento di alcune costanti dell’umano che dovrebbero da tutti essere riconosciute per via della loro universalità; dall’altro lato si nega che un tale compito possa essere eseguito e si ricorre a una soluzione per addizione. Il molteplice culturale dovrebbe essere semplicemente registrato e tutte le differenze essere coltivate. La fragilità di entrambe le soluzioni, che pure contengono una loro verità, è diventata fin troppo evidente. Bisognava, dunque, volgere lo sguardo altrove. Bisognava dare indicazioni intorno a una universalità concreta degli umani, che onorasse tanto ciò che li accomuna quanto ciò che li fa differire. Questo libro ci ha provato, mettendo in campo, nell’istruzione determinata delle molteplici questioni (universalità dei diritti, flussi migratori, cittadinanza globale, ruolo pubblico della religione, politiche dell’identità) il principio della reciprocità del riconoscersi, come architettura di senso dei rapporti tra noi.
Carmelo Vigna è ordinario di Filosofia morale presso l’Università di Venezia, dove ha diretto il Dipartimento di Filosofia e T.d.S. e ha fondato e attualmente dirige il Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica (C.I.S.E.). Insegna anche presso l’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi scritti recenti ricordiamo: “La politica e la speranza” (Roma 1999, con V. Melchiorre); “L’enigma del desiderio” (Cinisello Balsamo 1999, con L. Ancona e P.A. Sequeri); “Il frammento e l’Intero” (Vita e Pensiero, Milano 2000). Ha curato i volumi: “La libertà del bene” (Vita e Pensiero, Milano 1998); “Essere giusti con l’altro” (Torino 2000) e “Introduzione all’etica” (Vita e Pensiero, Milano 2001).
Stefano Zamagni è ordinario di Economia politica presso l’Università di Bologna; docente a contratto presso l’Università L. Bocconi di Milano e presso la Johns Hopkins University, Bologna Center. Direttore del Master in Economia della cooperazione. Membro del Comitato editoriale di «Economia Politica»; «Economics and Philosophy»; «Journal of Economic Methodology»; «Mind and Society»; «Ragion Pratica»; «Brock Review». Tra i suoi scritti ricordiamo: “Economia e Etica” (Roma 1994); “Profilo di Storia del pensiero economico” (Roma 1997, con E. Screpanti); “Complessità relazionale e comportamento economico” (Bologna 2002, con P. Sacco).
È antica sfida per la riflessione filosofica confrontarsi con l’enigma dell’azione, problematico luogo di frontiera in cui s’incontrano il naturale e lo storico, l’individuale e il collettivo, l’interiore e l’esteriore. Dinanzi a questo paradossale Giano bifronte, anche i filosofi hanno percorso vie diverse, non di rado antitetiche. Ripartire oggi dall’azione significa intercettare un antico dilemma, attraverso il quale è possibile rintracciare in forme nuove, meno divaricate e più dialogiche, il volto e la responsabilità dell’essere personale. Il presente volume intende riprendere alcune domande fondamentali intorno a questo tema, affidando la riflessione a studiosi di livello internazionale, che aprono prospettive di notevole rilievo, in un intreccio di percorsi storiografici e proposte speculative: l’eredità del pensiero antico e moderno è posta a confronto con il dibattito epistemologico più recente, la ricerca di fondamenti ontologici ed etici si apre ai temi del diritto e della storia. In tale contesto, interrogarsi sulle radici personali della prassi rappresenta un antidoto contro ogni forma di semplificazione epistemologica e, nello stesso tempo, porta in primo piano l’anomalia della condizione umana, costantemente in bilico tra il peso mortificante del patire e il coraggio instancabile dell’agire. È proprio attraverso l’azione che la persona umana restituisce al mondo più di quanto riceve, affidando al coraggio dell’iniziativa e alla gratuità della speranza il compito di riqualificare un’antropologia sospesa tra fattuale e progettuale, tra finitezza e infinito.
Luigi Alici è professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Macerata e docente di Filosofia teoretica presso la Lumsa di Roma. Tra i suoi scritti: "Il linguaggio come segno e come testimonianza. Una rilettura di Agostino", Roma 1976; "Tempo e storia. Il 'divenire' nella filosofia del ’900", Roma 1978; "Il valore della parola", Assisi 1984; "Il pensiero del Novecento", Brescia 1989 (terza edizione); "Presenza e ulteriorità", Assisi 1992; "Con le lanterne accese. Il tempo delle scelte difficili", Roma 1999; "L’altro nell’io. In dialogo con Agostino", Roma 1999. Ha curato l’edizione italiana di varie opere di sant’Agostino, tra le quali: "La città di Dio"; "La dottrina cristiana"; "Confessioni"; "La natura del bene". Dirige la rivista «Dialoghi» e la collana «Le ragioni del bene», presso la quale ha pubblicato, con F. Santeusanio e F. D’Agostino, "La dignità degli ultimi giorni" (Milano 1998).
L’etica occupa finalmente i pensieri di molti. Ma non bisogna troppo gioirne. Solitamente, si parla molto della salute, quando non si sta bene. E noi, abitanti delle società tecnologicamente avanzate, non stiamo proprio bene. Abbiamo bisogno, appunto, di etica. L’etica è, in effetti, una sorta di dottrina della salute dell’esistenza umana nella sua interezza, ma anche una indicazione di quel che è opportuno fare per riacquistare la salute, se per avventura la si fosse persa. Perciò questa Introduzione all’etica vorrebbe essere anche una introduzione etica. Vorrebbe, cioè, orientare al senso della vita piena, attraverso la ricostruzione dei nodi fondamentali del dibattito morale della tradizione occidentale, a partire da una solida radicazione nel presente e con una proposta teorica mirata. La novità del libro non sta solo nel tentativo di coniugare teoria, prassi e storia, ma anche nel trattare e i temi dell’etica generale, nella prima parte, e i temi dell’etica applicata nella seconda parte, dando la parola a una serie di specialisti in grado di guidare il lettore con un discorso rigoroso, centrato sui nostri grandi «luoghi di prova» (il mondo naturale, la sessualità, l’attività produttiva, la comunicazione mediatica, gli scambi economici, le relazioni giuridiche, l’attività scientifica e tecnologica, ma anche il desiderio d’assoluto). La decifrazione di questi luoghi oggi molti chiedono all’etica, e giustamente. Il libro è stato scritto per loro.
Carmelo Vigna è ordinario di Filosofia morale presso l’Università di Venezia, dove ha diretto il Dipartimento di Filosofia e T. d. S. e ha fondato e attualmente dirige il Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica (CISE). Tra i suoi scritti: Ragione e religione (Milano 1971); Filosofia e marxismo (Milano 1974); Le origini del marxismo teorico in Italia (Roma 1977); Invito al pensiero di Aristotele (Milano 1992); Il frammento e l’Intero (Vita e Pensiero, Milano 2000). In collaborazione con altri: Antonio Gramsci. Il pensiero teorico e politico, la «questione leninista» (Roma 1979; 2 voll.); La politica e la speranza (Roma 1999); L’enigma del desiderio (Cinisello Balsamo 1999).
Nell’ultimo decennio, Alasdair MacIntyre ha svolto nel panorama filosofico l’ambivalente ruolo di una scomoda presenza-assenza. Presenza inevitabile, una volta pubblicato nel 1981 il suo celebre Dopo la virtù, è poi lentamente passato sullo sfondo, divenendo l’ispiratore o l’avversario obbligato in buona parte dei dibattiti di etica, da una parte e dall’altra dell’Atlantico. A partire da una prospettiva aristotelicotomistica, in un serrato dialogo con le correnti filosofiche e di pensiero a lui contemporanee, MacIntyre elabora nel corso degli anni una suggestiva proposta fondata sulla centralità delle comunità entro le quali possono nascere e maturare le virtù che costituiscono la vita buona per l’uomo. Le virtù rispondono, è la tesi di questo volume, al propo-sito di promuovere la specificità razionale dell’uomo, ma nella consapevolezza che egli è anche ed essenzialmente il proprio corpo, e quindi deve fare i conti con l’imperfezione, il limite, la malattia. Per questa via, attraverso analisi fenomenologiche, proprio dalle condizioni di vulnerabilità e dipendenza si ricavano le ragioni ultime dell’indispensabilità delle virtù: quelle «del ragionamento umano indipendente» e quelle della «dipendenza riconosciuta», queste ultime fondamentali per la comprensione del vero bene personale e altrui, e quindi necessarie per con-durre una vita veramente solidale. Mentre discute le posizioni di Heidegger e Davidson, dialoga con Nietzsche, Adam Smith e Rorty, e non disdegna incursioni tra le ultime scoperte dell’etologia e delle scienze umane, MacIntyre si mantiene sempre vicino anche alla prospettiva del lettore non specializzato. Questo infatti non è un libro scritto esclusivamente per filosofi: secondo lo spirito di Aristotele, suo compito è cercare di venire in aiuto a quanti, nei meandri dell’attuale società complessa e multiculturale, si pongono gli interrogativi fondamentali di sempre sul senso del proprio agire.
Alasdair MacIntyre (Glasgow 1929), professore di Filosofia morale presso l’Università di Notre Dame (Indiana), è autore di numerose mono-grafie dedicate a figure importanti della storia delle idee (Marx, Marcuse, Freud, Hegel, Hume) e della prestigiosa A Short History of Ethics, che ha collezionato numerose edizioni inglesi e traduzioni all’estero. MacIntyre è autore anche di numerosi saggi, che spaziano nei campi della teoria dell’azione, della storia della filosofia, dell’epistemologia delle scienze morali e della filosofia della religione. Nelle sue opere ha cercato con insistenza un dialogo tra la filosofia morale e le altre scienze, soprattutto quelle sociali. In edizione italiana ha pubblicato: Dopo la virtù (Milano 1987), che segna la svolta aristotelica del suo pensiero; Enciclopedia, Genealogia e Tradizione (Milano 1993) e Giustizia e razionalità (Milano 1995), nelle quali l’aristotelismo viene coerentemente riletto in una prospettiva tomistica.
Uno degli aspetti più celebrati del recente progresso civile è il grandioso sviluppo della medicina. Eppure, attendibili indizi segnalano che, stranamente, cresce anche il potere della malattia sull’uomo. Essa paralizza la libertà, il timore di esserne raggiunti è oggi più che mai insistente, la cura della salute si fa ossessiva. Se da un lato, grazie alla medicina, cresce il potere tecnico sulla malattia, dall’altro diminuiscono le risorse morali per affrontarla. Si deve infatti riconoscere che la malattia pone anche, e non marginalmente, un compito morale. Per questo, oltre a liberare l’uomo dalla malattia, è necessario fare di tale condizione un tempo in cui volere, e non in cui sospendere la vita in attesa che passi. La tradizione cristiana considerava la malattia come tempo di ‘penitenza’: non solo nel senso di pena e di espiazione, ma soprattutto nel senso di un tempo che propone il rinnovato appello alla conversione, chiedendo di riconsiderare la propria vita con altri occhi. Questo aspetto della malattia oggi non è più riconosciuto. Si parla con insistenza di etica della medicina, non di morale della malattia. Il valore in questione è sempre e solo il sollievo dalla sofferenza. Chi vive quell’esperienza in forme gravi, vede svanire le evidenze ovvie che sostenevano la sua vita nel tempo ‘normale’ della salute, ed è quindi coinvolto in una lotta per la speranza. Essa è vissuta oggi in modo solitario e implicito, viene rimossa dalla comunicazione reciproca, o perché è oggetto di tacita censura o perché non si dispone delle parole per esprimerla. Il saggio di Angelini denuncia i diversi modi nei quali si esercita tale censura, e consente al malato di sostenere la lotta per riappropriarsi della speranza restituendogli la parola.
L'affermarsi della razionalità scientifica e della pratica tecnica in tutti i domìni del vissuto sono l'aspetto caratterizzante della nostra cultura, l'"ambiente" nel quale ci troviamo a vivere e ad agire. Lo sviluppo scientifico-tecnico, dalla modernità fino ai giorni nostri, ha prodotto un effetto di sradicamento e di destabilizzazione: l'uomo non è più davanti a una realtà stabile alla quale può rapportarsi, bensì a una realtà incompiuta che egli stesso quotidianamente trasforma. L'universo non è più un 'cosmo', ma un mondo penetrato dall'azione dell'uomo che, pertanto, è chiamato a riflettere sempre di nuovo sulla propria incidenza e responsabilità. Tale situazione determina un maggior rilievo dell'etica, posta di fronte a problemi inediti. Scienza ed etica sono entrambe "dimensioni" dell'esistenza. In quest'opera, Jean Ladrière, mostra come l'etica sia dimensione originaria dell'esistenza, ma esistenza e azione si svolgono in un orizzonte che non è più solo il "mondo della vita" né solo il mondo della natura: è il "mondo degli artefatti", prodotto dal nostro intervento scientifico-tecnico. La scienza e le sue molteplici applicazioni tecniche sono un aspetto determinante con il quale bisogna fare i conti, non per esorcizzarlo, ma per meglio comprenderlo nelle sue potenzialità e nei suoi limiti, affinché l'intervento dell'uomo nel mondo sia veramente azione umana, libera, ragionevole e responsabile.
La crisi dello Stato moderno e il trasferimento di alcune sue essenziali funzioni al mercato, da una parte, e alla società civile, dall'altra, hanno forse reso superflua la politica? L'hanno forse ridotta a compiti di mero controllo esteriore e di rispetto delle regole del gioco? Stretta fra l'universalismo dei diritti dell'uomo e il particolarismo delle comunità chiuse, la politica rischia di non trovare più il suo spazio vitale. Eppure proprio l'individualismo e il pluralismo stanno contribuendo a rivitalizzare l'istanza di una dimensione comunitaria dell'operare politico. Sono proprio le identità individuali e collettive a richiedere, non solo per la loro protezione e per il loro sviluppo, ma per la loro stessa costituzione un riconoscimento politico. Più che mai l'individuo ha bisogno, per elaborare e realizzare i propri progetti di vita, di un contesto pubblico che coltivi e renda accessibili una grande varietà di beni. Ciò vuol dire che per ben costruire la propria identità personale bisogna cooperare con gli altri nel mantenere aperto e vitale tutto l'orizzonte del bene umano. La tesi che sostiene quest'indagine è che non vi può essere politica come attività se non v'è politica come comunità, essendo questa il luogo dove si realizza l'autentica e piena fioritura della persona umana. In tal modo la politica, non più semplicisticamente identificata con gli apparati istituzionali, può ritrovare in un contesto democratico il suo senso morale.