Con la pubblicazione del terzo volume, che contiene le "Nemee", si completa la serie dei quattro che la Fondazione Valla dedica all'opera di Pindaro, il più grande poeta lirico dell'antichità e uno dei maggiori di tutti i tempi: undici odi, delle quali tre non sono legate ai giochi nemei, ma che i grammatici alessandrini inclusero sotto la medesima etichetta. Se quelli di Nemea, che si tenevano ogni due anni presso il tempio di Zeus in una vallata boscosa del Peloponneso, erano considerati giochi minori rispetto a quelli quadriennali di Olimpia e di Delfi, le "Nemee" non sono meno affascinanti delle Olimpiche o delle Pitiche , e certo pari alle "Istmiche". È sufficiente ascoltare la voce di Pindaro per andare oltre le definizioni di poesia cortigiana e poesia civile tra le quali la critica ha ondeggiato per secoli. La sua è poesia e basta, agonistica certo e d'occasione, perché celebra la vittoria in una competizione atletica, ma è lirica, come diceva l'autore del "Sublime", che nel suo trasporto creativo infiamma ogni cosa. Eccolo, il Pindaro delle "Nemee", spingersi verso i limiti del mondo, le Colonne di Eracle, e raccontare i miti con la velocità e l'aura che gli hanno dato la fama: le nozze splendide di Peleo e Teti; Achille, biondo fanciullo, a caccia di leoni, cinghiali e cervi; la contesa tra il forte Aiace e l'astuto Odisseo per le armi del Pelide; ed Eracle, e Telamone, e Castore e Polideuce. «Una» afferma Pindaro nella sesta "Nemea", «la stirpe di uomini e dèi: da una sola madre/ è il respiro a entrambi. Ma potenza in tutto diversa ci/ separa, ché niente noi siamo,/ mentre il cielo di bronzo è per essi eterna/ incrollabile sede». Eppure, gli uomini, le cui generazioni sono come i campi, che un anno danno frutto e un anno no, «in qualcosa» somigliano, «nel gran senno o l'aspetto, a immortali». La giovinezza è «possente, messaggera delle divine/ tenerezze di Afrodite», e lei Pindaro invoca all'inizio dell'ottava "Nemea". Ma più spesso chiama la Musa, che «oro/ salda e candido avorio/ e fiore di giglio, sottratto a rugiada marina». Non è, lui, uno scultore: che crea «statue/ dritte sulla loro base,/ immobili». No, lui fa rotta «su navi/ o barche leggere», e vola come un'aquila oltre il mare. Un commento molto ricco, e una traduzione bellissima, accompagnano queste "Nemee".
Poeta dotto, che riassume la tradizione elegiaca latina, che si colloca all'insegna di Boezio, e che ha assimilato la cultura biblica e cristiana al punto di utilizzarne espressioni e frasi, Massimiano «recepisce e interiorizza il cosiddetto "pessimismo greco", che trova la sua espressione nelle parole del satiro Sileno, secondo il quale la cosa migliore per l'uomo è non essere nato e, una volta nato, morire presto. Il non essere è l'unico modo per sottrarsi all'infelicità che appartiene all'essere, anche e soprattutto nella vecchiaia, l'esperienza più tragica della vita». Se le figure femminili - Licoride, Aquilina, Candida e la Graia puella - si situano al centro delle "Elegie", è "Senectus" la vera donna alla quale Massimiano soggiace come un amante alla propria Dama. Realista a oltranza, egli non rifugge dalle immagini più forti e più crude. Scrittore latino nell'Italia ostrogota del VI secolo, Massimiano è il poeta della senescenza: dell'uomo e dell'intero mondo antico.
L'"Elettra" di Sofocle ha sempre goduto, nei duemila-cinquecento anni dalla sua comparsa, di una popolarità eccezionale, tanto da conoscere numerosissime riscritture sino all'Elektra di Hofmannsthal (poi trasformata in memorabile opera in musica da Richard Strauss), a O'Neill, Giraudoux e Sartre. La personalità della protagonista vi campeggia assoluta. La trama si svolge con rapidità stupefacente, ma con una quantità di svolte e raddoppiamenti sensazionali. Il tessuto lirico, drammatico e melodrammatico è teso come la corda di una lira. In questa edizione si dà una lettura nuova della protagonista: Elettra vi è interpretata come un "problema" «in quanto ostacola i cospiratori e ruba la scena ai loro piani»; il dramma stesso si configura come "problema", «perché è privo del normale meccanismo che serve a portare avanti la trama». Davanti alla sconfitta ateniese nella guerra contro Sparta, Sofocle sceglie di «sondare più da vicino l'individuo drammatico», ma anche qui sorgono questioni non indifferenti: per esempio, «può un individuo eroico essere esemplare se la forza della sua personalità non è diretta contro potenti antagonisti ma resta un'esibizione largamente inefficace da parte di una persona», come Elettra, «posta ai margini»? E ancora: perché Sofocle complica la trama del riconoscimento tra Elettra e Oreste già resa celebre dalla versione di Eschilo? Nell'Elettra sofoclea tale intreccio si sviluppa in una serie di scene di finzione che vedono il Precettore narrare la morte di Oreste; poi la sorella Crisotemi annunciare che è vivo e raccontare una replica dell'episodio, ben noto dalle Coefore, presso la tomba di Agamennone; quindi la comparsa dell'urna, portata da Oreste stesso, che ne conterrebbe le ceneri, e l'esibizione dell'anello paterno come prova definitiva. «Sì, proprio l'unico che viene a soffrire dei tuoi mali», dice Oreste di sé stesso un attimo prima, in un verso denso di compassione. «Oreste è qui morto per finzione, e ora per quella finzione sano e salvo», esclama Elettra, convinta dall'anello. Quella «finzione» è la chiave di volta dell'emozione intensa che ancora oggi suscita l'"Elettra" di Sofocle.
È il Nemico supremo, che minaccia il cosmo, la cristianità, il Signore stesso. Preannunciato nelle Lettere di Giovanni e incastonato nella Trinità del Male dell'Apocalisse, è «inventato» da Ireneo, Ippolito, Tertulliano e Origene. Poi, dilaga nell'immaginazione del Medioevo. Questo terzo e ultimo volume completa la serie dedicata a quella che è forse la leggenda più grande dell'Occidente medievale: il Figlio della perdizione, colui che precede la seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi. I secoli dal XIII al XV vogliono fare «scienza» del suo avvento. Pietro d'Ailly, per esempio, predica la concordanza quasi perfetta di astronomia e storia, elaborando un calcolo complesso per collocare la venuta dell'Anticristo attorno all'anno 1789 - quello della Rivoluzione francese - e sostenere che «a quei tempi secondo gli astronomi ci sarà un cambiamento di religione, e secondo loro dopo Maometto ci sarà qualcuno potente che stabilirà una legislazione vergognosa e fondata sulla magia, perciò si può credere con verosimile probabilità che dopo la religione di Maometto non ne arriverà nessun'altra, se non la legge dell'Anticristo». Chi è, infatti, l'Anticristo per gli studiosi del tardo Medioevo? È un eretico, un giudeo, un musulmano? O, addirittura, il papa di Roma, come suggeriscono tra gli altri Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale, nonché l'inglese John Wyclif? Per scoprirlo, il Medioevo mette in campo tutta la sua scienza. Da un lato, decide che l'Anticristo è già nato. Dall'altro, cerca di costruirne la biografia, e impiega l'esegesi biblica (cioè la «scienza» della Bibbia) e la «scienza» astrologica per discuterne l'avvento. Così, Bernardino da Siena inscena, a partire dalla bolla «Exiit qui seminat» di Niccolò III, e dall'Apocalisse, un grandioso «concilio dei diavoli convocato da Lucifero in persona», in cui Ammone, il Diavolo dello sterminio, Belzebù e Asmodeo gli riferiscono «su quanto stanno mettendo in opera per preparare la venuta dell'Anticristo». Asmodeo viene poi incaricato di recarsi in paradiso a chiedere giustizia. Mentre Ruggero Bacone raccomanda l'uso della matematica per determinare il quando, il dove e il come l'Anticristo sorgerà. Abbiamo dunque sotto gli occhi un libro affascinante, che presenta gli incubi del Medioevo con chiarezza esemplare.
«E in questa conversazione milesia io intreccerò per te storie di ogni genere e incanterò le tue orecchie benevole con un dolce sussurro.» Così, in tono apparentemente leggero, si aprono le Metamorfosi di Apuleio, conosciute anche come L'asino d'oro, il secondo grande romanzo latino dopo il Satyricon di Petronio e prima dell'anonima Storia di Apollonio. Riprendendo un perduto originale greco, Apuleio narra le avventure di Lucio, un giovane animato da insaziabile curiosità che viaggia attraverso la Tessaglia. Trasformato per errore in asino, dovrebbe mangiare delle rose per tornare uomo, ma viene portato via da una banda di ladroni e usato come bestia da soma. Nel covo dei briganti conosce Carite, una giovane rapita a scopo di riscatto; la vecchia governante dei malfattori, per consolarla, le racconta la favola, poi celeberrima, di Amore e Psiche: la quale non è che la più lunga delle tante digressioni, le affascinanti storie che arricchiscono le Metamorfosi e diverranno tesoro della novellistica, dalle avventure narrate dai rapitori alle storie noir dello schiavo fedifrago e della donna assassina, ai divertenti adulteri delle mogli del mugnaio e del tintore. Le peripezie di Lucio, l'una più mirabolante dell'altra, continuano a lungo, sino a sfociare nell'undecimo e ultimo libro, che stupisce per la nuova dimensione filosofico-religiosa, ancor oggi discussa. Lucio prega la Luna di liberarlo dalle sue disgrazie. Comparsa nelle vesti di Iside, la dea gli preannuncia la salvezza: il giorno dopo, durante una processione, un suo sacerdote gli porgerà una corona di rose. Nuovamente essere umano, Lucio si fa adepto della divinità egizia ed è iniziato ai suoi misteri. Ma il suo viaggio e il suo percorso iniziatico non sono ancora finiti. In sogno, Iside gli ordina di recarsi a Roma, dove lo attendono due nuove iniziazioni misteriche e una luminosa carriera di retore. Apuleio, il colto africano maestro della lingua, autore delle sfavillanti orazioni dei Florida, dell'apologia giudiziaria de magia, e delle operette filosofiche de deo Socratis e de Platone et eius dogmate, si rivela così il «Signore delle innumerevoli connessioni» tra tutte le cose. La Fondazione Valla pubblica una nuova edizione critica delle Metamorfosi in quattro volumi.
La Teogonia è uno dei testi fondanti della civiltà greca, perché racconta il Principio e la genesi delle divinità primigenie, sino al dominio di Zeus, dando a esse un nome. Genesi, cioè generazione. Non Creazione, della quale, come anche di un Dio creatore dal nulla, non vi è traccia in Esiodo. Gli esseri primi semplicemente «vennero ad essere»: Caos, Terra, Tartaro ed Eros, «il più bello fra gli dèi immortali, / che scioglie le membra». L'immane vuoto, il Caos, nel quale campeggia la materia prima, la Terra; il fondo «caliginoso» del mondo sotterraneo, Tartaro, nel quale verranno poi confinati i Titani sconfitti. E, su tutto regnante, l'Amore. Di questi mattoni originari è fatto il cosmo, per Esiodo: sono essi che generano le entità successive: da Caos nascono Erebo e Notte, e da loro, unitisi «in amore», Etere e Giorno. Terra, d'altra parte, genera, «uguale a sé, Cielo stellato», affinché tutt'intorno la copra e per gli dèi beati sia sede sicura sempre. Primo di tutti i racconti cosmogonici classici, la Teogonia non si ferma alla genesi degli dèi, ma nella versione che ci è pervenuta giunge, dopo le vicende di Prometeo e la guerra contro i Titani e Tifeo, addirittura sino a Ulisse: il quale con Circe genera Agrio e Latino, che regnano sui Tirreni. Ma soprattutto, la Teogonia inizia e termina con le Muse: «Le Muse eliconie cantiamo per prime», recita l'apertura del poema. Le Muse, figlie di Zeus e Memoria, formano danze belle e seducenti, ondeggiando sui piedi. «Velate di fitta bruma», esse vanno nella notte, «versando una voce bellissima» e celebrando gli dèi. Sono loro che ispirano Esiodo: a lui che «pascolava gli agnelli ai piedi dell'Elicona divino» esse hanno dato per scettro un ramo d'alloro, e impongono di cantare il «vero», perché egli glorifichi «ciò che sarà e ciò che prima è stato»: e di celebrare «la stirpe dei beati che sempre sono, ma di cantare loro all'inizio e alla fine sempre». Un parallelo implicito viene così stabilito nella Teogonia tra l'inizio del mondo e quello del canto, della poesia. Perché anche le Muse cantano, glorificando «la stirpe venerabile» degli dèi, «dal principio, quelli che Terra e il vasto Cielo generarono». Allora «ride» la dimora del padre «alla voce di giglio delle dee» e le Muse, come Esiodo, cantano il Principio.
«Quanto alla costituzione degli Ateniesi, che essi abbiano scelto questo tipo di costituzione, io non approvo, perché, scegliendo così, hanno scelto che i cattivi stiano meglio dei buoni: per questo non approvo. Ma poiché hanno deciso così, dimostrerò come in tutto e nel modo dovuto essi conservino la loro costituzione e facciano tutte quelle altre cose che agli altri Greci sembrano sbagliate.» Sono le parole di esordio di questa Costituzione degli Ateniesi, giuntaci tra le opere dello storico Senofonte, ma a lui negata con decisione dalla critica filologica sin dall'inizio dell'Ottocento. Con esse l'autore dichiara la sua posizione politica e il suo intento: è un oligarchico (uno dei «buoni»), che detesta il popolo (i «cattivi») e la forma di governo democratica, ma che con sorprendente paradosso si propone di mostrare come il funzionamento della democrazia ateniese sia efficace nell'assicurarle successo e continuità. Della grande democrazia periclea quale presentata da Tucidide e amata dai moderni non sono predicati e descritti, in questo pamphlet, gli elevati principi miranti ad assicurare ai cittadini libertà e benessere; al contrario, essa è vista come una sorta di egoistica e animosa rivalsa dei poveri sui ricchi: resa possibile solo dal fatto che il popolo ateniese ha acquisito potere per mezzo della flotta, la quale ha assicurato ad Atene la supremazia tra tutte le città della Grecia. È infatti il popolo, dice il nostro testo, «che fa andare le navi e conferisce la potenza alla città». La Costituzione degli Ateniesi dello Pseudo-Senofonte, così diversa dall'omonima opera aristotelica, non ha paralleli nella produzione greca di carattere politico. È uno scritto animato da forti passioni, espresse con il linguaggio in uso nella pubblicistica ateniese del V e del IV secolo. Ma quali ne erano i concreti destinatari e quali le reali finalità? Un invito all'eversione? Un ammonimento ai compagni di consorteria più inflessibili perché accettino una situazione in cui l'avversario è più forte? Oppure, e proprio per il fatto che l'autore assume con disinvoltura il presunto o inconfessato punto di vista dei suoi dichiarati avversari, l'opuscolo è un esempio del discorso teorico di IV secolo sulle costituzioni? Sono alcuni tra gli enigmi di quest'opera affascinante sulla quale gli studiosi continuano a interrogarsi. Con un saggio di Luciano Canfora.
La «Narrazione cronologica» di Niceta Coniata racconta, suddividendoli in 19 libri, gli eventi accaduti a Bisanzio nel secolo circa che precede la conquista della città da parte dei Crociati. Essa è pubblicata dalla Fondazione Valla in tre volumi dal titolo «Grandezza e catastrofe di Bisanzio». La lacuna del primo volume della serie (uscito nel 1994 e da molto tempo non più disponibile) viene ora colmata da questa edizione completamente nuova, che - in linea con i voll. II (1999) e III (2014) - presenta a fronte e traduce il testo greco stabilito da Jan-Louis van Dieten. In questa prima parte della narrazione (corrispondente ai libri I-VIII) la caduta della città, e del mondo dorato e crudele che essa racchiude, è ancora lontana, e le vicende storiche si intrecciano a quelle dei foschi sovrani che Niceta descrive con particolare vivacità: dominano il lusso, il potere, le grandi cerimonie. Ma Niceta oscuramente avverte il presagio di una catastrofe imminente.
Siamo al termine della grande "Guida della Grecia", la Periegesi che Pausania compie, nel II secolo dopo Cristo, all'epoca degli Antonini: raccogliendo nell'ambito di un cammino geografico notizie storiche, artistiche, mitologiche. Nel Libro I, Atene. Nei Libri V e VI, al centro dell'opera, Olimpia e l'Elide. Nel Libro X: Delfi. Una struttura tripolare, dunque, per la Guida, opera di un erudito dalle ambizioni - in larga misura realizzate - di storico emulatore di Erodoto, impegnato soprattutto a recuperare, attraverso il viaggio nei luoghi e tra i monumenti della memoria, la grecità arcaica, classica e protoellenistica. Delfi occupa giustamente il libro conclusivo per le sue caratteristiche di sito "riassuntivo" della ellenicità. Ecco, allora, la grande strada Schiste, dopo il trivio dove Edipo uccise il padre, e dove ancora si trova la tomba di Laio, salire diventando «maggiormente scoscesa e più difficile anche per un uomo senza bagaglio»: si arrampica per il monte sul quale si erge Delfi, con il suo santuario, i suoi templi, gli antri, le rocce, le fonti, le iscrizioni, le statue, le pitture. Pausania annota tutto, tutto paragona: scava nelle leggende, riporta brani altrimenti perduti e per noi preziosi, racconta la storia dell'oracolo, del «consesso generale dei Greci», e delle gare, le Pitiche, che a poco a poco presero a tenersi lì. Lo vediamo entrare nel recinto sacro di Apollo, esaminare gli ex voto, fermarsi dinanzi alle sculture, contemplare il cavallo di bronzo donato dagli Argivi, «che è poi il famoso cavallo di legno di Troia, opera di Antifane di Argo», le statue realizzate con la decima dell'impresa di Maratona e compiute da Fidia: Atena, Apollo, Milziade, Eretteo. Chi legge percorre in realtà, attraversando Delfi, la memoria stessa della Grecia: le massime dei sapienti, «conosci te stesso» e «bando agli eccessi», un Omero in bronzo con l'oracolo che gli fu dato, il trono di Pindaro, la tomba di Neottolemo figlio di Achille. Siamo all'inizio di tutto. Nella gran sala fatta costruire dagli Cnidii, sulla quale Pausania si sofferma a lungo con meravigliata e protratta concentrazione, campeggiano le pitture di Polignoto: la Distruzione di Troia, e la Discesa agli Inferi - il mondo dell'Iliade, quello dell' Odissea.
«Dunque ora non tenderà forse la mano per cogliere anche il frutto dell'albero della vita e mangiarne e vivere in eterno?», domanda il Maestro, citando il terzo capitolo della Genesi, in apertura del libro V del Periphyseon. La questione è centrale nella filosofia, nella teologia e nell'immaginario stesso di Giovanni Scoto, questo straordinario pensatore irlandese che, in pieno Medioevo, è capace di sovvertire la tradizione. Perché si tratta di vedere come con quelle parole la Genesi non predichi condanna e morte, ma invece prometta «il ritorno della natura umana a quella stessa felicità che aveva perduto peccando». Giovanni Scoto, allora, riorganizza la sequenza biblica e unifica le quattro immagini, «quella del tendere la mano, del cherubino, della spada di fiamme e della via che conduce all'albero della vita, come quattro inseparabili simboli di speranza per l'umanità». E un tratto di quella originalità della quale è cosciente l'autore stesso. Il quale si serve della sua conoscenza dei Padri greci per moltiplicare le immagini come in una girandola. Ecco la lievitazione, ecco l'aria «totalmente trasformata nello splendore del sole, a tal punto che niente appare in essa se non la luce: per quanto la luce sia una cosa e l'aria un'altra, pure la luce predomina nell'aria sicché sembra esservi soltanto luce». Ecco il «ferro liquefatto», che pare trasformarsi in fuoco. Proprio con l'aria e con il fuoco Giovanni Scoto sembra ritornare, come in un grande cerchio, all'inizio di Sulle nature dell'universo. Ma passando alla «celebrazione dell'unione finale della natura umana tutta con Dio», l'ultimo libro del trattato costituisce una nuova, eclatante interpretazione dei testi fondanti della cristianità. «L'interpretazione», scrive Peter Dronke, «che tiene insieme la mano tesa dell'uomo con il cherubino e la spada di fiamme, la via e l'albero della vita e l'accensione del fuoco, è tale da confutare ogni suggestione di barriera o di minaccia. Trasforma ciascun dettaglio in un auspicio del ritorno. Nella sua tecnica di trasformazione, mostra quello che Coleridge chiamò il "potere esemplastico" dell'immaginazione. È l'opposto del distinguere significati allegorici separati; è una capacità di unificare le immagini, fondendole invece di lasciarle come fili separati. Nei rari momenti alti come questo, l'immaginazione fa di più che radunare: dà a più significati un'unica forma.»
Tutta l'Asia si muove per partecipare alla spedizione che il re di Persia, Serse, organizza contro Atene e la Grecia al fine di vendicare la sconfitta patita dal padre Dario. Del viaggio e dei popoli che lo compiono Erodoto fornisce una descrizione precisa e affascinante: dei luoghi, degli usi, dei costumi, dell'abbigliamento e degli armamenti delle diverse etnie. Per noi moderni, però, il centro del libro è la battaglia delle Termopili nell'estate del 480 a.C, che per primo Erodoto descrisse e che da più di due millenni è impressa nella memoria collettiva: quando, come recita un'iscrizione riportata proprio dallo storico, in quel passo tra i monti, «un giorno, contro tre milioni combatterono quattromila uomini dal Peloponneso»; resistenza, tradimento, aggiramento, ferocia e valore, vittoria e sacrificio sino all'ultimo istante: «Alla maggior parte di loro» scrive Erodoto dei momenti finali, quando i quattromila sono ridotti a trecento spartani, «le lance si erano ormai spezzate, ed essi uccidevano i Persiani con le spade. E in questo scontro cade Leonida, dopo essersi rivelato uomo valorosissimo e, intorno a lui, altri illustri Spartiati». I Greci indietreggiano verso la parte stretta della strada e vanno ad attestarsi su una collina: «Questa collina si trova all'ingresso del passo, dove ora è collocato il leone di pietra in onore di Leonida. E qui, i barbari li seppellirono con i dardi, mentre si difendevano con le spade - quelli che ancora le avevano -, con le mani e con i denti, alcuni, inseguendoli di fronte e demolendo il muro di difesa, altri, circondandoli tutto intorno da tutte le parti». Lo scontro tra Greci e Persiani deflagra in tutta la sua portata: è uno scontro tra civiltà, tra ideali opposti gli uni agli altri.
La più ardente aspirazione del giovane Agostino era quella di "cercare razionalmente la verità", come egli dichiara nelle Retractationes, "su ciò che più intensamente desiderava conoscere". Nascono da qui i Soliloqui, nei quali egli rivolge domande e risposte a sé stesso, "quasi che io e la mia ragione fossimo due realtà distinte, mentre ero presente io solo". Dialogo, dunque, come in Platone, e ricerca della verità. Brevi e incompiuti, i Soliloqui, dei quali la Fondazione Valla presenta l'edizione di Manlio Simonetti, ardono però di passione intellettuale e rivelano il fondamento stesso del pensiero di Agostino, che all'inizio del Libro II invoca: Deus semper idem, noverit me, noverit te, "Dio che sei sempre lo stesso, possa io conoscere me e conoscere te". È stata chiamata, questa preghiera, il "postulato primario di Agostino", un pronunciamento su sé stesso e su Dio: "su sé stesso in quanto dichiara ciò che egli farà con la propria mente"; e su sé stesso e Dio in quanto dichiara la ragion d'essere fondamentale di ogni "fare" di questo tipo: "che ogni intelletto creato esiste soltanto per scoprire il Creatore e dilettarsi in lui". Ecco perché i Soliloqui si aprono con una preghiera di "inusitate dimensioni" e di straordinaria magnificenza che è inno di lode e invocazione.
Immergendosi nel volume V della Letteratura francescana, il lettore si domanderà a un certo punto se il messaggio più vero di Francesco non sia stato quello mistico. Pur vivendo esperienze esistenziali del tutto diverse l'una dall'altra, infatti, Angela da Foligno e Raimondo Lullo portano testimonianza purissima del vivere, sulle orme del santo di Assisi, con e nel Cristo: "testimonianza intera di che cosa fu realmente l'esperienza di Francesco, la sua inevitabile povertà nell'esperienza della divinizzazione, la laicità della vita cristiana nell'ortodossia e la corrispondente teologia della resurrezione". Ecco Angela, sul finire del Memoriale dettato al frate, confidargli: "Una volta ho interrogato Dio dicendo così: "Ecco, tu sei in questo sacramento dell'altare. Dove sono i tuoi fedeli?". Quindi, aprendo l'intelletto dell'anima, rispose dicendo: "Dovunque io sono, sono con me anche i fedeli". E io stessa vedevo che era così. E chiarissimamente trovavo me dovunque era lui. Ma in Dio ciò che è "essere dentro" non è ciò che è "essere fuori". E lui è il solo che è dovunque pur comprendendo tutto". Nella vita di Angela, che non si allontana dalla sua piccola porzione di Umbria, che non è affiliata a un ordine religioso, ma semplice terziaria francescana alla guida di un gruppo di laici, Dio si manifesta di continuo. Raimondo Lullo è invece uomo di cultura, poeta e teologo.
Sesto giorno della Creazione: Dio dà forma al bestiame, ai rettili, agli animali selvatici. Poi crea l'uomo e la donna a sua immagine e somiglianza. Nella Genesi vengono quindi il Paradiso, l'albero della conoscenza del bene e del male, l'uomo che impone il nome a ciascun essere vivente, la tentazione a opera del serpente, la Caduta e la cacciata dall'Eden. Sono scene cruciali e piene di problemi. Quando Giovanni Scoto vi giunge, nel libro che doveva essere l'ultimo di "Sulle nature dell'universo", il Maestro che ne è il protagonista teme di dover affrontare un oceano periglioso: esso, dice, "prende avvio dalle opere della sesta contemplazione profetica sull'istituzione della totalità", e "tratterà del ritorno di tutte le cose in quella natura che non crea e non è creata". Ma la difficoltà della materia e "l'incontro e lo scontro di tante diverse interpretazioni" rendono questo Libro IV "impraticabile per le ondate vorticose, scivoloso per l'ambiguità dei discorsi, pericoloso per le sirti (cioè per i tratti dottrinali oscuri)". li viaggio attraverso l' oceano è la prima, grande immagine del Libro IV del Periphyseon: in realtà, scrive Peter Dronke, esso "è il viaggio attraverso il tema del ritorno, in tutta la sua irriducibile complessità".
Siamo nel bel mezzo del Medioevo, in quel secolo X quando, sfaldatosi in Occidente l'impero fondato da Carlo Magno, ha inizio un regno d'Italia conteso senza esclusione di colpi dai potenti delle regioni settentrionali con l'appoggio, o l'ostilità, dei sovrani tedeschi e del papa. Liutprando, rampollo di una famiglia di rilievo, nasce a Pavia - capitale del regno verso il 920, vi viene educato, entra sin da bambino a corte cantando nel coro, diviene diacono, viene inviato da Berengario in ambasceria a Costantinopoli. Un contrasto violento con il sovrano lo costringe a riparare presso Ottone I, re di Germania e futuro imperatore, del quale sarà spesso emissario importante. Alla corte di questi, nel 956, l'inviato del califfo di Cordova, Recemundo vescovo di Elvira, esorta Liutprando a comporre un'opera di carattere storiografico. Nasce, allora, l'Antapodosis in sei libri: i primi tre narrano vicende delle quali l'autore ha appreso da altri, gli ultimi di eventi dei quali è stato testimone diretto. È la storia intricata dei "fatti degli imperatori e dei re" di mezza Europa, di forti condottieri e di principi "smidollati" ed "effeminati", e s'intitola Antapodosis perché l'autore l'intende come una "ritorsione", una sorta di vendetta, contro Berengario e la moglie Guilla per quel che essi hanno fatto a lui. Introduzione di Girolamo Arnaldi.
Da Troia a Roma, da Achille a Ulisse a Enea: e poi a Romolo, Numa Pompilio, Giulio Cesare, Augusto. Ovidio sceglie di terminare le "Metamorfosi" con afflato epico, combinando "Iliade", "Odissea" ed "Eneide" in un unico straordinario amalgama. Ma non dimentica l'ispirazione centrale del suo poema, il divenire. Ne è esempio mirabile, fra tanti, la metamorfosi di Glauco che, respinto da Scilla, si getta in mare dopo aver gustato l'erba miracolosa diventando un dio, nel "trasumanar" che giungerà sino a Dante.
"Lettera di Policarpo ai Filippesi", "Lettera di Barnaba", "Pastore di Erma": ci si accosta con emozione, in questo secondo volume dedicato dalla Fondazione Valla alla letteratura cristiana più antica, a testi che avrebbero forse potuto entrare a far parte del Nuovo Testamento canonico. E in effetti la "Lettera di Barnaba" vi rimase sino al IV secolo e il "Pastore di Erma" fu sul punto di accedervi. Prima che tutto fosse fissato irrevocabilmente, si ascoltano in questi documenti voci antiche, autorevoli e diverse: testimoni del periodo nel quale la tradizione cristiana andava formandosi tra contrapposizioni, conflitti e ricomposizioni, eppure in costante dialogo con i Vangeli e l'opera di Paolo. Così Policarpo, tutto dedito al problema della giustizia, rievoca le Beatitudini e la missione dell'Apostolo: "né io né un altro mio simile" scrive "è in grado di emulare la sapienza del beato e glorioso Paolo, il quale, venuto in mezzo a voi, faccia a faccia con gli uomini di allora, insegnò con precisione e fermezza la parola di verità". "Barnaba", per molto tempo considerato proprio il collaboratore di Paolo che porta quel nome negli Atti degli Apostoli, vuole insegnare la "conoscenza perfetta" e distingue "due vie di insegnamento e potere, l'una della luce e l'altra delle tenebre", alle quali sono preposti rispettivamente gli angeli del Signore e quelli di Satana.
Negli ultimi anni della sua vita, Niceta Coniata, che aveva occupato posti di rilievo nella burocrazia bizantina, abitò a Nicea. L'impero era crollato (1204): i Latini si erano divisi le spoglie di Bisanzio; e, nell'abbandono e nella desolazione, Niceta raccontò ciò che aveva visto e appreso, con un odio, una furia e una ferocia, che fanno della seconda e terza parte di "Grandezza e catastrofe di Bisanzio" uno dei capolavori sconosciuti della letteratura universale. Il mondo non era altro che male: violenza, malvagità, sfrenatezza, oscenità erotica, corruzione, stereo, rovina. Come uno dei grandi storici del potere, Niceta Coniata rappresentò la tirannia che degradava e contagiava il mondo: raffigurandola soprattutto nel meraviglioso ritratto di Andronico, questo malvagio vestito di viola, scaltro, cialtrone, lacrimoso e teatrante, che possedeva la stessa disperata fantasia nel male dei grandi malvagi di Shakespeare. Rappresentò la turbolenta e crudelissima plebe di Costantinopoli, che massacrava poveri e imperatori; e gli "stramaledetti Latini", gli spavaldi e boriosi Normanni, che assalivano le città greche. Dovunque, in cielo, c'erano segni sinistri. Niceta Coniata interrogava e cercava la presenza di Dio nella storia: avvertiva in ogni istante il mistero religioso della realtà; ma da ogni parte il Cielo gli rispondeva che non c'era salvezza: o almeno non c'era speranza per lui. "Grandezza e catastrofe di Bisanzio" è uno spettacoloso racconto teatrale, di cui Niceta era insieme il narratore e il regista. Impregnava tutte le cose con il suo odio: ma l'odio, tra le sue mani di grande letterato, diventava furia visionaria, ossessione morale, splendore retorico, solennità metaforica, atroce precisione ritrattistica. Qualche volta, nei momenti in cui il genio di Niceta è più libero, abbiamo l'impressione che Tacito, Psello e Saint-Simon si siano fusi nella penna dell'antico burocrate bizantino.
Il secondo volume della "Grandezza e catastrofe di Bisanzio" è stampato nel classico testo a cura di Jan-Louis van Dieten, che l'autore ha rivisto e corretto per questa edizione. Mentre Riccardo Maisano aveva composto il complesso e vivace commento del primo volume, il commento del secondo è opera di Anna Fontani, che ha reso mirabilmente la densità, l'arcaismo e l'audacia espressiva di Niceta Coniata.
Il 12 aprile 1204 i crociati conquistarono e presero a saccheggiare Costantinopoli. È l'evento che, insieme alla narrazione drammatica della cosiddetta quarta Crociata, domina questo terzo e ultimo volume della "Grandezza e catastrofe di Bisanzio" - la "Narrazione cronologica" - di Niceta Coniata, che ne è stato testimone oculare. Gli efferati Latini - i normanni, i tedeschi, i francesi, i veneziani - non conoscono pietà. Entrano a Bisanzio con furia peggiore di quella dei barbari: mostrando un disprezzo senza pari per gli abitanti sconfitti, e vendicandosi dell'immane massacro che nel 1182 era stato compiuto degli abitanti cattolici della città, non risparmiano né vecchi né bambini. Separano le famiglie, rapiscono, violentano, uccidono. La popolazione, stremata, emerge dalle sue case "avvolta in stracci, emaciata dal digiuno, mutata di colore, con l'aspetto cadaverico e gli occhi iniettati di sangue". Non sa, neppure, dove fuggire, perché gli invasori non tralasciano di perlustrare un solo angolo, né rispettano luogo sacro che possa offrire rifugio: "dovunque uno corresse, veniva tirato via dai nemici che irrompevano ed era portato dove quelli volevano". Niceta stesso, grande logoteta, già cancelliere e segretario dell'imperatore, fugge verso Nicea. Uno spettacolo desolante si fissa nella sua mente, che lo rievocherà con accenti furibondi ed echi continui dei grandi scrittori classici...
Siamo, dunque, alla fine della leggenda sulle origini di Roma, quando Tito Tazio prima e Romolo dopo scompaiono dalla scena: ucciso, il primo, il Sabino, dai parenti inferociti di quegli ambasciatori di Lavinio che erano stati ammazzati da briganti amici di lui (ma il sospetto ricadde su Romolo, che poco dolore aveva mostrato per la morte dell'uomo che s'era associato nel governo); sparito, il secondo, dopo aver sconfitto Fidene e Veio, nel buio di un'eclissi o di un temporale: forse eliminato dai senatori irritati dal fare sempre più monarchico del fondatore, dalla sua arroganza tirannica; oppure asceso in cielo e divenuto un dio, Quirino: come Giulio Proculo dichiarò in pubblico gli avesse rivelato Romolo stesso, apparendogli dopo la morte sul Quirinale. Se "scomodissimo" fu per i Romani ricordare "il modo della nascita della città, fra inganni, uccisioni e gentaglia", non tanto più comodo deve essere stato per loro consacrare alla leggenda la fine delle origini. Il quarto volume della Leggenda di Roma porta a conclusione il grande lavoro di raccolta e interpretazione dei miti che i Romani stessi si sono tramandati per generazioni sull'inizio e i primi sviluppi della loro città: miti che costituiscono un aspetto essenziale della storia culturale, e perciò della storia tout court, dell'antica Roma. L'architettura del volume ha però struttura circolare: perché dopo esser giunto alla fine di Romolo, ritorna al principio, alla fondazione, e ne elenca gli artefici secondo le fonti.
"Poiché non esiste città che non sia una comunità e non c'è comunità che non sussista in vista di un certo bene, è indubbio che tutte vanno in cerca di un qualche bene, ma soprattutto lo perseguirà la comunità che, per essere sovrana fra tutte e comprensiva di tutte, cercherà il bene che sovrasta tutti gli altri. Si tratta di quella che noi chiamiamo città o comunità politica." Le prime righe della "Politica" di Aristotele testimoniano del suo tentativo di fondare l'analisi politica sui valori etici. Tutto il libro è, in effetti, una riflessione attenta sulle forme di governo della Grecia classica. "Aristotele pensa alla democrazia" sostiene Richard Kraut, "come a un sistema che miri alla libertà, e non solamente all'uguaglianza", e un aspetto della libertà della quale i democratici devono tener conto consiste nell'equa suddivisione del potere ("vale a dire: governare ed essere governati a propria volta"). Ma un altro aspetto è per Aristotele ancora più interessante: la libertà di vivere la propria vita così come uno la sceglie. Introduzioni di Luciano Canfora e Richard Kraut. Commento di Trevor J. Saunders e Richard Robinson.
"Avrei dovuto pensare che da quel nome 'nihil' venga significata l'ineffabile, incomprensibile e inaccessibile luminosità della bontà divina, ignota a tutti gli intelletti tanto umani che angelici." Così Giovanni Scoto nel cuore del Libro III, esso stesso al centro del "Periphyseon". Il nulla domina le sue idee rivoluzionarie sulla Creazione. "Quando la trascendenza divina comincia ad apparire nelle teofanie" scrive Peter Dronke, "allora quel nulla diviene qualcosa. Creare dal nulla tutti gli esseri, dal più alto al più basso, significa farli apparire come teofanie, come manifestazioni del divino." Perché Giovanni Scoto sostiene che nel Verbo divino, nella Sapienza, tutte le cose sono sia eterne sia fatte, e che Dio, nel creare il mondo, crea anche sé stesso. La Sapienza è informe, e in essa sussiste la materia, essa stessa informe. Nessun filosofo platonico si era spinto sino a questo. La Sapienza, che è l'esemplare infinito di tutte le forme, non ha bisogno di forma "a essa superiore per formarsi", ma quando discende nelle forme guarda a sé stessa come al suo proprio principio formatore. Nella sua trascendenza, la Sapienza è non-essere e assoluto nulla, "ma in virtù della sua presenza nelle cose essa insieme è ed è detta essere". L'animato dibattito tra maestro e discepolo che costituisce l'ossatura del "Periphyseon" raggiunge qui uno dei suoi punti più alti, dettando tutta l'interpretazione letterale della Genesi che l'ispirato profeta Mosè ha composto nel linguaggio della poesia e del mito.
Questo quarto volume della serie - secondo di due dedicati a Bonaventura da Bagnoregio - presenta la "Legenda maior", l'opera in cui l'"erede" di Francesco narra la vita strana e meravigliosa del fondatore dell'ordine, e salvatore dello stesso Bonaventura, il quale, ammalatosi gravemente da bambino, attribuisce a san Francesco la propria guarigione. L'opera nel suo complesso si articola in sei volumi, e copre il primo, fondamentale secolo della letteratura francescana (all'incirca dall'inizio del Duecento all'inizio del Trecento). Il primo volume, uscito nel 2004, raccoglie gli scritti di Francesco, di Chiara e dei loro contemporanei; il secondo, del 2005, quelli di Tommaso da Celano, Giuliano da Spira, l'Anonimo Perugino e i detti di Francesco nella tradizione agiografica; il terzo, del 2012, le opere mistiche di Bonaventura: l'"Itinerarium mentis in Deum", la "Vitis mystica" e i "Sermones".
"Ottima è l'acqua e l'oro come fuoco che avvampa rifulge nella notte più di ogni superba ricchezza." È l'apertura dell'"Olimpica I" "il più bello fra tutti i canti", come di essa scriveva Luciano sei secoli dopo la sua composizione. Un inizio solenne, nel quale regnano la trasparenza e il bagliore: quelli che più tardi si sarebbero riassunti nella parola claritas. E che subito riverberano nei versi successivi, nei quali splende l'astro fulgido del sole che arde "nell'etere deserto". A voler cantare gli agoni, sostiene Pindaro, si deve per forza scegliere i migliori, le Olimpiadi: che sono come l'acqua, l'oro, il fuoco, il sole, e che ebbero luogo in Grecia per oltre mille anni, dal 776 a.C. a quel 393 d.C. nel quale l'imperatore Teodosio e il vescovo Ambrogio li proibirono. Pindaro, oltreché delle "Pitiche", delle "Istmiche" e delle "Nemee", è anche - nell'immaginazione dei lettori e dei poeti dei due millenni e mezzo che da lui ci separano - il grande poeta, il poeta per eccellenza, delle "Olimpiche". Con esse, celebra di volta in volta la vittoria degli atleti nelle gare di Olimpia. Ma i suoi epinici sono famosi per la luce che li pervade, la velocità fulminea dei passaggi tematici (i celebri "voli pindarici") intercalati a brevi sentenze di saggezza, l'esaltazione degli ideali di eroismo e gloria, la descrizione incisiva dei fenomeni naturali. Commento a cura di Carmine Catenacci, Pietro Giannini e Liana Lomiento.
"Dio dunque non sa di se stesso che cos'è, perché non è un "che cosa"." Questa frase sconcertante si legge verso la fine del Libro II del "Periphyseon" di Giovanni Scoto Eriugena. È la formulazione esplicita di quella "ignoranza divina" che costituisce uno dei temi principali di questo Libro: "il più labirintico dei cinque", pieno di digressioni, excursus, e persino di riflessioni sulla natura e le diverse specie di digressioni. Se infatti il suo tema centrale è la seconda divisione della natura - la natura che è creata e crea, cioè le cause primordiali - gli argomenti che emergono nel corso della trattazione sono molti e affascinanti: il ritorno di tutte le cose alla loro origine divina, l'ascensione di Cristo come viaggio che supera la separazione fra terra e cielo, la processione dello Spirito dal Padre e non dal Figlio, le triadi divine e umane, il compimento della divisione di tutte le sostanze nella natura umana. Scritto in un latino straordinario da uno dei pochissimi filosofi del Medioevo che conoscessero il greco, e profondamente influenzato dal pensiero di Padri greci quali Basilio, Massimo il Confessore, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo, e qui, nel Libro II, ispirato non soltanto alla speculazione neoplatonica, ma anche a un mito cosmogonico più antico, "Sulle nature dell'universo" è vibrante testimonianza personale che si presenta come "racconto immaginario di un'immagine".
Siamo, nella narrazione sinuosa di Ovidio, alla generazione immediatamente precedente quella della guerra di Troia. Dominati dal canto di Orfeo che ha perso Euridice, i Libri X-XII raccontano alcune tra le storie più belle di tutta l'opera, nella quale si fondono ora epica e storia mitica del mondo. E Orfeo stesso che si presenta agli Inferi reclamando la sposa uccisa dal morso di un serpente e che poi la perde per essersi voltato a guardarla mentre la conduce fuori dall'Averno. Fugge allora in luoghi remoti consolandosi col canto e narrando la storia di Ganimede. Da questa nasce quella di Giacinto, e poi quella di Pigmalione, che a sua volta fa emergere quella di Venere e Adone. E quando Orfeo viene fatto a pezzi dalle Baccanti, subito viene evocato Mida, e poi Esione, e quindi Peleo e Teti, i genitori di Achille. Allora prende il via la fondazione di Troia, e il racconto dell'immane guerra. In mezzo, ecco però la storia delicata e dolente di Ceice e Alcione: dell'uomo che, per consultare l'oracolo, s'imbarca, incontra una furibonda tempesta, annega; e della sposa che - avvisata da Morfeo nelle vesti del marito - vuole raggiungere il corpo di lui nel mare e si getta saltando dal molo.
"Secondo l'esempio del beatissimo padre Francesco, anch'io, peccatore indegno in tutto, che viene dopo di lui come settimo ministro generale dei frati, mi affannavo nell'inseguire questa pace. Così, a trentatré anni dalla sua scomparsa, mi ritirai, per volere di Dio, sul monte della Verna, un luogo di quiete dove desideravo cercare la pace dello spirito. Là, riflettendo su alcune ascensioni della mente in Dio, tra gli altri casi mi si presentò alla memoria il miracolo che si era manifestato al beato Francesco in quello stesso luogo, cioè la visione del serafino alato in forma di Crocifisso. Meditando su quella visione, mi sembrò subito che essa rivelasse l'innalzamento in croce, durante la contemplazione, del nostro padre Francesco e la via per raggiungerlo." Inizia così, il celebre "Itinerario della mente in Dio" di Bonaventura da Bagnoregio. Un trattato esemplarmente breve di teologia mistica che costituisce una guida per mostrare come l'uomo possa innalzarsi fino a conoscere veramente Dio: e anzi a Dio possa unirsi. Ispirandosi a Dionigi pseudo-Areopagita e ad Agostino, e soprattutto alla vita e all'esperienza mistica di Francesco d'Assisi, e alla Passione di Cristo, Bonaventura disegna nel suo libro la perfezione cristiana: come un cammino attraverso sei illuminazioni che con Francesco e il serafino si aprono e si chiudono, e che alle sei ali di quell'essere celeste corrispondono. Commento di Daniele Solvi.
"Il Romanzo di Alessandro" è in assoluto l'opera dell'antichità più amata e più tradotta, e che ha esercitato maggiore e più duratura influenza. Dalla sua prima comparsa in età ellenistica è stata copiata e riscritta una infinità di volte, non solo nella sua lingua originaria, il greco, ma anche in una molteplicità di lingue e dialetti di epoca sia tardoantica sia medievale sia moderna. Luogo di raccolta di tutte le leggende su Alessandro Magno, è una intrigante combinazione di generi priva di qualsiasi unità letteraria, eppure dotata di una inesauribile capacità di fascinazione.
II Periphyseon, un dialogo in cinque libri tra un insegnante e il suo arguto allievo, è forse l'opera più grande e originale del pensiero medievale prima della Summa di Tommaso d'Aquino. Scritto in un latino straordinario da uno dei pochissimi filosofi del Medioevo che conoscessero il greco, e profondamente influenzato dal pensiero di Padri greci quali Basilio, Massimo il Confessore, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo, "Sulle nature dell'universo" è una vibrante testimonianza personale che si presenta come "racconto immaginario di un'immagine". Ma è anche una discussione serrata e razionalmente argomentata alla ricerca del Primo Principio, che fonda l'Essere e sta al di sopra dell'Essere. "Natura è dunque il nome generale di tutte le cose che sono e di tutte quelle che non sono", scrive Giovanni all'inizio della sua opera. Essa comprende sia Dio sia il creato, ed è divisa in quattro specie: ciò che crea e non è creato, Dio; ciò che crea ed è creato, le Cause Prime o Idee; ciò che è creato e non crea, gli effetti temporali, le cose create; e infine ciò che non è creato e non crea, il non essere, il nulla. Tutto il Libro I del Periphyseon è dedicato alla Creazione dell'universo da parte di Dio.
Il secondo volume, a cura di uno storico delle origini cristiane e di un medievalista, ricostruisce quello che è forse il più grande mito dell'Occidente medievale: l'Anticristo, che per quasi tredici secoli ha dominato i pensieri, le immaginazioni, le visioni e i deliri della gente cristiana. Attraverso un puntuale esame dei testi che hanno parlato di "anticristo", l'opera mostra quale sia stata l'evoluzione in campo semantico, politico, teologico del termine, come si sia trasformata nel tempo l'idea dell'Anticristo stesso. Il primo volume, edito nel 2005, ha presentato testi scritti tra il II e il IV secolo. In questo secondo volume l'arco di tempo abbracciato è più vasto, si arriva fino al XII secolo, come più vasto è il panorama delle voci prese in esame. La figura dell'Anticristo, il Nemico, l'Avversario dei tempi ultimi, che si è ormai delineata e continuamente muta forma aspetto e significato, turba, tormenta, ossessiona tutti gli scrittori cristiani
Quando Poimandres, il Nous del dominio assoluto, appare in forma di essere gigantesco a un uomo tutto teso col pensiero verso l'essere e gli domanda cosa voglia "udire e vedere e poi apprendere e conoscere grazie alla contemplazione", il suo interlocutore gli risponde: "Voglio essere istruito intorno agli esseri, comprenderne la natura e conoscere dio". E così che inizia il primo Trattato, il Poimandres, del Corpus Hermeticum: e subito a quell'uomo si svela tutto, trasformandosi in luce serena e gioiosa della quale egli si innamora. La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto - il "Corpus Hermeticum" - è una delle raccolte di testi più fortunate e influenti che la tarda antichità ci abbia lasciato. Ed è certo difficile resistere al fascino che viene dalla sua singolare miscela di teologia e cosmologia, di studio dell'uomo e dottrina dell'anima, demonologia e astrologia. È un libro, questo, che parla del Principio e della Fine, e adombra una via di Salvezza. Ha, inoltre, una storia del tutto romanzesca. Già attribuito al "tre volte grande" ("trismegistos", appunto) Ermes - il dio della scrittura, dell'astrologia e dell'alchimia che risulta dall'associazione della divinità greca con l'egizio Thoth - esso è ritenuto antico quanto se non più di Mosè, e interpretato come prefigurazione del Cristianesimo. Redatto, in realtà, tra il I e il IV secolo della nostra èra, nel 1460 l'originale greco giunge nelle mani di Cosimo de' Medici, che ordina subito a Marsilio Ficino di dimenticare Platone...
Il viaggio di Guglielmo ha inizio nel 1253: è passato pochissimo tempo da quando il terrore di un'invasione mongola ha sconvolto l'europa. gli invasori sono giunti, invincibili, in Polonia, Boemia, Ungheria, sino alle coste dell'Adriatico, seminando distruzione e facendo prigionieri cristiani di mezzo continente. Poi, sono svaniti. È necessario conoscerli meglio, stabilire relazioni diplomatiche e commerciali, tentare di convertirli. Per due anni il frate fiammingo percorre i territori dell'Asia Centrale, attraversa la regione del Volga e raggiunge Karakorum, la capitale del gran Khan Mangu. Rientrato in Terrasanta nel 1255, Guglielmo scrive l'Itinerarium: un resoconto ufficiale del viaggio in forma di lettera, una relazione che sfata le leggende diffuse in Occidente sui mostri che popolerebbero le regioni misteriose dell'Asia. È un uomo forte, colto, infaticabile, aperto. Gli interessano gli usi e i costumi dei Mongoli, le persone che incontra, le discussioni che tiene con loro. Rimane colpito dal loro perenne vagare di nomadi, turbato dall'assenza di città, villaggi e case, spaesato negli orizzonti senza fine delle steppe: "Tutto ciò che vedevamo era cielo e terra..." scrive; "per tutto quello spazio non ci sono né boschi, né alture, né pietre, ma solo ottima erba".
Insieme all'"Odissea", le "Metamorfosi" sono il libro più fortunato che l'antichità classica ci abbia lasciato. Dante e Shakespeare, pittori e scultori, musicisti e romanzieri di ogni paese e di ogni età lo hanno amato, riscritto, illustrato, dipinto. È il libro che per la sua leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità Italo Calvino affidava al terzo millennio. È la summa del mito antico, ma anche delle passioni e dell'infelicità che dominano da sempre il mondo. Tutto, secondo Ovidio, muta: il cosmo, gli dèi, i corpi degli uomini e delle donne. Nelle "Metamorfosi", le storie di animali che divengono pietre, di eroi e ninfe mutati in stelle, di numi che s'incarnano, nascono l'una dall'altra, si intrecciano, riaffiorano in sequenza velocissima e cangiante. Con il quarto volume dell'opera giungiamo ai libri centrali delle Metamorfosi, quelli che vanno dal VII al IX. Vi incontriamo vicende celeberrime: quella, furibonda, di Giasone e soprattutto di Medea durante e dopo la spedizione degli Argonauti, la prima che abbia solcato il mare; la terribile pestilenza di Egina; le storie tragiche di Cefalo e Procri, di Minosse e Scilla, di Ercole e Deianira; ma anche, all'estremo opposto, la favola delicatissima e commovente di Filemone e Bauci, che gli interpreti del Medioevo cristiano seppero bene come spiegare. I due vecchi sposi ospitano Mercurio e Giove nella loro misera capanna, pronti persino a sacrificare la loro unica oca per sfamare degnamente gli dèi.
Attorno alle origini di Roma esiste una complessa, affascinante leggenda che l’opera della Fondazione Valla intende ricostruire su basi nuove. Essa si articola in quattro volumi (il primo uscito nel 2006; il secondo nel 2010; il quarto – La morte di Tito Tazio e la fine di Romolo – previsto per il 2012) e offre al lettore un’ampia raccolta di fonti (annalistiche, antiquarie e poetiche; da Esiodo ai Padri della Chiesa) divise per «mitemi» o unità mitiche fondamentali, e analizzate comparativamente alla ricerca dei «motivi canonici» fissati dalla tradizione e di una stratigrafi a del mito confrontata con gli scavi archeologici. Se il secondo volume, ripercorrendo le vicende del ratto delle sabine e della conseguente guerra romano-sabina, si concludeva con la riconciliazione fra i due popoli e la creazione di uno stato comune, il terzo volume è dedicato in maniera specifica e approfondita alla costituzione, che della vita comune è il fondamento: organizzazione civica ed esercito, divisione dei poteri e spartizione del territorio, e poi feste e costumi, riti, leggi e istituzioni che dagli eventi narrati traggono la loro origine.
Completato il suo viaggio attraverso le regioni del Peloponneso (libri II-VIII), l’itinerario di Pausania prosegue con la Beozia, terra confinante con l’Attica da cui era partito (libro I). Nel libro IX, dunque, lo scrittore muove da Platea – dove la battaglia del 479 a.C., con la morte del comandante in capo persiano Mardonio e la vittoria della lega ellenica condotta dallo spartano Pausania, sancì la fi ne dell’invasione persiana della Grecia – e chiude con Cheronea – dove Filippo di Macedonia sconfisse nel 338 un esercito di città greche, che persero così per sempre la loro indipendenza –: due luoghi dal forte valore simbolico per tutta la grecità perché ad essi corrispondono due eventi cardine della storia greca. Domina il libro, però, Tebe, la capitale, con il suo tragico passato di lotte fratricide e odi insanabili. La Beozia, tuttavia, è anche la terra della poesia, della musica, degli oracoli e della mantica. E soprattutto dell’Elicona. Alle dee di questo monte, le Muse, alla loro origine e alla loro iconografi a è dedicata una trattazione specifica. Sulle pendici dell’Elicona, nel loro santuario, si trovavano le statue di poeti, musici e cantori: tra questi Esiodo, che proprio lì era nato, e del quale l’autore ricorda l’investitura poetica.
"È bello tramontare dal mondo a Dio, perché in lui io possa sorgere" scrive Ignazio di Antiochia ai Romani, avviandosi verso il martirio nelle fauci delle belve. E la testimonianza ultima della sequela di Cristo. "Seguendo Gesù" indica, infatti, i documenti che vengono dopo i Vangeli; ma allude anche al seguire Cristo che i suoi discepoli più antichi si raccomandano l'un l'altro. In questo primo dei due volumi che la Fondazione Valla dedica alla letteratura cristiana delle origini troviamo allora alcuni degli scritti che risalgono agli anni fra il 70 d.C. e i primi due decenni del II secolo, lo stesso periodo in cui furono composte la maggior parte delle opere che poi entrarono nel canone del Nuovo Testamento. Rappresentano una generazione successiva a quella dei testimoni oculari del Cristo, ma certo a qualcuno di questi autori sarà capitato di incontrare e ascoltare un discepolo diretto di Gesù. Le sue parole risuonano in essi per essere state apprese per via orale o grazie a brevi raccolte per noi perdute, anche se già alcuni vangeli erano stati composti. Il termine "cristiano" non è ancora comune, eppure il messaggio di Gesù è già radicato: a Roma, a Corinto, in Asia Minore. Impregnato spesso di giudaismo, talvolta debitore nei confronti della tradizione greco-romana, o cristianesimo prende corpo e vigore fra contrapposizioni, conflitti, e ricomposizioni. Le comunità si organizzano, meditano e discutono la Buona Novella e i modi migliori per seguirla.
Si completa con questo secondo volume l'Historia ecclesiastica gentis Anglorum, scritta in latino e divisa in cinque libri, l'opera più nota di Beda. Fu studiata per l'intero Medioevo e oltre in tutti i Paesi d'Europa, influenzando gli storici successivi. L'Historia ecclesiastica narra le vicende del popolo inglese a partire dallo sbarco di Giulio Cesare in Inghilterra fino al 730 e rappresenta per noi la gran parte di quanto conosciamo della storia inglese antica fino al 700 d.C. Alla narrazione degli eventi si lega strettamente la storia della diffusione del cristianesimo in quelle regioni un tempo pagane. Così, in questo secondo volume, troviamo un moltiplicarsi di storie edificanti, di conversioni, miracoli e guarigioni, e persino - nel libro V - lo straordinario racconto di un uomo pio resuscitato dalla morte: la sua descrizione dell'aldilà, potente e visionaria, sembra già preannunciare quella che ne farà Dante nella Commedia.
In questo volume - secondo dell'opera della Fondazione Valla sulle origini di Roma - la vicenda è quella del primo accrescimento della città. Racconta Livio che, poco dopo la fondazione, Roma era già così forte da eguagliare ogni popolazione confinante, ma "per la scarsità di donne la grandezza sarebbe durata solo una generazione". Allora Romolo architettò un inganno straordinario: predispose dei giochi grandiosi in onore di Nettuno Equestre, ordinando che se ne desse notizia fra i vicini. Fra di essi, con figli e mogli, i Sabini. Un tumulto sollevato ad arte durante lo spettacolo offrì il destro ai romani di precipitarsi a rapire le donne degli ospiti. Mariti e parenti umiliati si radunarono sotto Tito Tazio per rispondere a Roma con le armi. È la prima delle guerre romane del successivo millennio. Ma è anche l'occasione per stabilire una pace su basi nuove, con una lungimirante politica di assimilazione. Gli storici narrano che i romani si diedero a blandire in primo luogo le donne, promettendo loro cittadinanza, beni e prole, e giustificando l'atto con la passione d'amore. Poi, mentre infuriava la battaglia fra Romani e Sabini, le donne stesse s'interposero fra i combattenti, la pace fu stabilita, e di due popoli "si fece un popolo solo". Il volume presenta tutta la documentazione storico-mitica di questi primordi e ne offre un'interpretazione originale: dal ratto delle donne alla prima espansione militare fino alla pace finale con la diarchia Romolo-Tito Tazio.
Già attribuita al «tre volte grande» («trismegistos», appunto) Ermes - il dio della scrittura, dell'astrologia e dell'alchimia che risulta dall'associazione, presente sin da Erodoto, della divinità greca con l'egizio Thoth - essa è ritenuta antica quanto se non più di Mose, e interpretata come prefigurazione del Cristianesimo. In realtà, la redazione dei testi sembra risalire ai secoli fra il I e il IV della nostra èra, mentre una parte, l'Asclepius - un trattato di magia che riporta le pratiche dei sacerdoti egizi - circola già nel Medioevo occidentale nella traduzione latina ritenuta di Apuleio. Ma nel 1460 l'originale greco giunge nelle mani di Cosimo de' Medici, che ordina subito a Marsilio Ficino di dimenticare Platone e dedicarsi al Corpus. Ficino completa l'opera nell'aprile del 1463 e riceve come compenso una villa a Careggi. Nel Seicento, la paternità e la vetustà dell'opera sono infine demolite, a colpi di filologia, da Isaac Casaubon. Per secoli, però, la sua influenza è fondamentale: da Pico della Mirandola a Hieronymus Bosch, da Pieter Bruegel a John Milton, da Giordano Bruno a Isaac Newton, e più tardi ancora sino a William Blake, artisti e intellettuali coltivano l'ermetismo. Ermete trova il suo posto persino sul pavimento del Duomo di Siena. Ed è certo difficile resistere al fascino della sua rivelazione segreta, nella quale teologia e cosmologia si mescolano allo studio dell'uomo e alla dottrina dell'anima, dove demonologia e astrologia si fondono.
Gesù e un uomo raggiungono la riva di un fiume e si siedono a mangiare. Consumano due dei tre pani che hanno. Gesù si alza, va a bere al fiume, torna e, non trovando la pagnotta, chiede all'altro chi l'abbia presa. "Non so", risponde. Ripartiti, Gesù vede una gazzella con due piccoli, ne chiama a sé uno, lo uccide, ne arrostisce una parte e ne mangiano. Poi dice al piccolo di gazzella: "Con il consenso di Dio, alzati!", e quello si alza e se ne va. Allora si rivolge all'uomo: "Per Colui che ti ha mostrato questo prodigio, ti chiedo: chi ha preso la pagnotta?"; e quello risponde: "Non lo so". Giunti a un corso d'acqua, Gesù prende l'uomo per mano e i due camminano sull'acqua. Gesù domanda: "Per Colui che ti ha mostrato questo prodigio, ti chiedo: chi ha preso la pagnotta?". L'altro risponde di nuovo: "Non lo so". Arrivati in un deserto, Gesù prende a raccogliere della sabbia: "Con il consenso di Dio, diventa oro", dice, e così accade. Gesù lo divide in tre parti: "Un terzo a me, uno a te e uno a chi ha preso la pagnotta ". Quello replica: "L'ho presa io!". E Gesù: "Allora è tutto per te!".
È una delle tante storie incantevoli che fanno parte del vero e proprio "vangelo musulmano" contenuto in questo libro: e prosegue poi verso una conclusione sorprendente. Ma il Gesù dell'islam è nello stesso tempo più semplice e più complesso di quanto non emerga da essa. R)mi, il più grande mistico persiano, scrive: "Il corpo è simile a Maria: ognuno ha un Gesù dentro di sé. Se sentiremo in noi i dolori, il nostro Gesù nascerà ". 'Ôsa Ibn Maryam, Gesù figlio di Maria, è infatti uno dei maggiori profeti dell'islam: che, fin dal Corano, ne tramanda molte parole. Riletture plurisecolari del Gesù dei Vangeli e degli apocrifi, esse ci restituiscono un Gesù musulmano, o un Gesù che parla all'islam, e a noi: "Beato colui che guarda con il cuore, ma il suo cuore non è in ciò che vede".
I detti islamici di Gesù - che segue Le parole dimenticate di Gesù, in una serie intesa a offrire un quadro completo delle immagini di Gesù nelle varie tradizioni - è un libro dal fascino particolare: racconta l'unico caso di una religione mondiale che sceglie di adottare la figura centrale di un'altra, finendo per riconoscere questa figura come costitutiva della propria identità.
Nella cosmogonia e nella mitologia manichee Materia e Luce lottano sempre, coinvolgendo il mondo e l'uomo in un turbinio di aria, vento, fuoco, fumo, melma; di firmamenti e terre; di arconti e personificazioni; di grida e bagliori. L'eterna lotta fra bene e male è il ritmo stesso dell'universo. Vi sono tre tempi e tre creazioni. Il Padre della Grandezza e il Re delle Tenebre, la Madre della Vita e l'Uomo Primordiale, l'Amico delle Luci e il Grande Architetto, lo Spirito e le Vergini. Mani si ritiene, dopo Budda, Zoroastro e Gesù, l'ultimo inviato del Dio della Verità. Ma si proclama anche "apostolo di Gesù Cristo", e richiama come anticipazioni profetiche della sua le rivelazioni di Adamo, Seth e Sem, e il rapimento di Paolo al terzo Ciclo. Così il Manicheismo appare come nuova, originale sintesi gnostica di motivi provenienti dalle fedi e dalle mitologie che lo precedono. Forse per questo la religione di Mani, considerata pericolosissima eresia da tutte le altre e perseguitata dal potere politico nella stessa Persia in cui nasce, possiede un fascino e un'attrazione particolari, e si diffonde con una rapidità e una forza straordinarie in occidente e in oriente. Ne è adepto, a lungo, sant'Agostino, ma i suoi seguaci sciamano ben presto in tutta l'Asia Centrale e si spingono fino in Cina.
I due volumi dei "Trattati d'amore" cristiani offrono al pubblico una raccolta di testi che indagano il problema dell'amore nel pensiero cristiano del XII secolo. Il XII è infatti, in Europa, il secolo dell'amore: i trovatori celebrano l'amor cortese, i romanzi narrano la passione di Tristano e Isotta o di Lancillotto, Abelardo ed Eloisa vivono un'infuocata relazione. I religiosi non sono da meno: elaborano, impiegando un linguaggio appassionato e immagini meravigliose, affascinanti teorie sull'amore mistico. Se Dio, come proclama il Vangelo di Giovanni, è carità, cioè amore, l'uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, è dominato da quello stesso sentimento e al suo Creatore deve rivolgerlo per poter raggiungere l'unione con Dio. È il momento che Dante celebrerà al termine del Paradiso, quando l'"amor che move il sole e l'altre stelle" volge la sua volontà e il suo desiderio "sì come rota ch'igualmente è mossa".
"Angeli, non Angli", esclama il futuro papa Gregorio Magno quando vede dei bellissimi schiavi inglesi in vendita nel Foro di Roma. Da questa frase prende l'avvio la missione di riconversione della Britannia abbandonata dalle legioni e occupata dagli Angli e dai Sassoni. È l'inizio ideale della "Storia degli Inglesi" composta da Beda nel VIII secolo. Leggermente balbuziente, chiuso per tutta la sua vita nei monasteri di Wearmouth e Jarrow, Beda possiede però "l'ardente spiro" del quale Dante lo vede fiammeggiare nel Ciclo dei Sapienti. Ha commentato quasi tutta la Bibbia, si è occupato del computo del tempo ha composto un "De natura rerum", trattati di ortografia e metrica, vite di santi e persino poesia. La sua "Historia ecclesiastica gentis Anglorum", della quale la Fondazione Valla pubblica in due volumi la prima edizione critica in quaranta anni, è fra le più belle opere storiografiche del Medioevo. Tutto è organizzato con mano sapiente e narrato col piglio dello scrittore di razza. Ma tutto, anche, ha l'aura delle origini e il passo della meditazione sugli accadimenti: se Beda vuole ancorare a Roma l'alba delle vicende inglesi è perché quella che Gregorio, per mezzo del suo missionario Agostino, porta nel Kent è una nuova cultura.
Alessandro diviene un mito mentre è ancora vivo e percorre il mondo. Alla creazione di questo mito ha forse contribuito il nipote di Aristotele, Callistene, che seguì il Macedone nelle sue imprese fin quando non cadde in disgrazia. Persino gli storici non riescono a distinguere completamente dove termini, per Alessandro, il resoconto fattuale e dove inizi la leggenda. Ma è il Romanzo che «trasforma in eventi storici cose che Alessandro ha solo sognato di fare». E il Romanzo che ci narra la conquista dell'Italia e di Cartagine, il suo desiderio di immortalità e conoscenza assoluta. Di questo straordinario bestseller esistono innumerevoli versioni in tutte le lingue, dal greco e dal latino sino all'ebraico, all'arabo e al persiano. Per la prima volta al mondo, la Fondazione Valla - che inizia con questo la pubblicazione dell'opera in tre volumi - presenta quattro recensioni "sinottiche" del Romanzo, tre greche (A, B e Y) e quella latina di Giulio Valerio. Le riscritture colpiscono l'immaginazione: singole parole, frasi, episodi vengono trasformati in un processo continuo, come se ciascun autore, talvolta non comprendendo il predecessore, ma soprattutto conquistato dall'aura meravigliosa dell'argomento, abbia voluto aggiungere, sottrarre e cambiare quasi stesse raccontando la storia oralmente. Ecco così che il Romanzo si presenta come una «intrigante commistione di generi»: lettere, diatribe retoriche, passi di prosa mista a versi, inserzioni successive: è romance, racconto di meraviglie, descrizione del mondo, enciclopedia, biografia: favola e storia. L'introduzione e il commento di Richard Stoneman, e la traduzione di Tristano Gargiulo, ci calano, in questo primo volume accompagnato da un affascinante apparato iconografico, nei primordi della vicenda: il misterioso e gustoso concepimento di Alessandro da parte di Nectanebo, ultimo faraone d'Egitto e grandissimo mago; il suo crescere, educato da Aristotele, nel valore e nella virtù; l'inizio della sua conquista del mondo con Tebe, Tiro, la Siria e l'Egitto; la fondazione della città ideale, Alessandria; e infine l'attacco all'impero persiano. Domina, su tutte, l'immagine del condottiero che domanda al «più potente di tutti gli dèi»: «Signore, svelami ancora una cosa, quando e come sono destinato a finire la vita?».
Indice - Sommario
Premessa
Introduzione
Bibliografia e abbreviazioni bibliografiche
Cartine
TESTI E TRADUZIONI
Sigla
Vita di Alessandro il Macedone I
Alessandro il Macedone I
Storia straordinaria e davvero mirabile del re Alessandro signore del mondo
Giulio Valerio, Imprese di Alessandro il Macedone I
Narrato nel libro biblico dei "Numeri", il viaggio del popolo di Israele dalla schiavitù d'Egitto attraverso il deserto fino alla Terra Promessa è stato interpretato da uno dei maggiori padri della chiesa, Origene, come allegoria del viaggio dell'anima dall'idolatria e dal peccato verso la virtù, la conoscenza, la fede e Dio. Ogni particolare del racconto biblico trova così significato: i tempi, i toponimi, le tende, i cibi, le bevande, la sorgente, il pozzo; ogni dettaglio è esaminato alla luce di tutta la Scrittura. La grande suggestione che l'allegoria di Origene esercitò è testimoniata dalle riprese che ne hanno operato molti altri esegeti cristiani: Girolamo, Gregorio di Nissa, lo Pseudo-Ambrogio, Agostino, Bruno d'Asti, Bernardo di Clairvaux e Pier Damiani. Ognuno amplifica le intuizioni del maestro alessandrino per i propri scopi e imprimendovi la propria impronta. Il viaggio dell'anima si diffonde e si trasforma: assume le fattezze del pellegrinaggio di Dante nell'aldilà o del moderno romanzo di formazione. Questo volume raccoglie i testi esegetici sul libro dei "Numeri" di Origene, ma anche dei suoi successori da Girolamo e Bernardo, da Bruno d'Asti ad Agostino.
I trovatori celebrano l'amor cortese. I romanzi narrano la passione di Tristano e Isotta o di Lancillotto. Abelardo ed Eloisa vivono un'infuocata relazione. Il XII è, in Europa, il secolo dell'amore. I religiosi non sono da meno ed elaborano affascinanti teorie sull'amore mistico. Se Dio è, come proclama Giovanni amore, l'uomo, che è fatto a sua immagine e somiglianza, è dominato da quel sentimento e al suo Creatore deve rivolgerlo. Dall'"abisso della dissomiglianza" l'"anima curva" si "converte" tendendo a lui la propria volontà. La ragione "può vedere Dio soltanto in ciò che egli non è; l'amore è l'unica conoscenza che si avvicini alla divinità, il vero "intelletto". La stessa teologia negativa viene superata. Attraverso quattro "gradi" di carità, o tre "visite", tre "sabati", l'uomo progredisce verso l'"unità dello spirito", l'"eccesso della mente", l'"abbraccio"; l'unione con Dio. Il volume segue il cammino di Guglielmo di Saint-Thierry e Bernardo di Clairvaux, i due amici che, combattendo il razionalismo di Abelardo, hanno costruito una teologia dell'amore che influenzò anche alcuni trovatori. Guglielmo, contemplando "ogni angolo ed estremità" della propria coscienza, guarda al Volto ed esclama: "O volto, o volto! Quanto beato il volto che, vedendoti, merita di essere trasformato da te". Per Bernardo, provare l'amore vuol dire essere "deificati", e al culmine dell'esperienza mistica ogni sentimento umano si dissolve e si riversa nel fondo della volontà di Dio.
Insieme all'"Odissea", le "Metamorfosi" sono il libro più fortunato che l'antichità classica ci abbia lasciato. Dante e Shakespeare, pittori e scultori, musicisti e romanzieri di ogni paese e di ogni età lo hanno amato, riscritto, illustrato, dipinto. È il libro che per la sua leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità Italo Calvino affidava al terzo millennio. E' la summa del mito antico, ma anche delle passioni e dell'infelicità che dominano da sempre il mondo. Tutto, secondo Ovidio, muta: il cosmo, gli dèi, i corpi degli uomini e delle donne. Nelle "Metamorfosi", le storie di animali che divengono pietre, di eroi e ninfe mutati in stelle, di numi che s'incarnano, nascono l'una dall'altra, si intrecciano, riaffiorano in sequenza velocissima e cangiante. Nei libri III e IV troviamo alcuni degli episodi più belli di tutta l'opera, centrati sulle vicende mitiche di Tebe. Cadmo uccide il drago, ne semina i denti - dai quali nascono guerrieri che si sterminano fra di loro - e fonda la città. Atteone vede Diana nuda, è trasformato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani. Narciso, specchiandosi nell'acqua, si innamora di sé stesso e diviene un fiore. Eco lo ama perdutamente e, respinta da lui, rimane puro suono che ripete le parole nell'aria. Semele, amata da Giove, chiede al dio di unirsi a lei in tutto il suo fulgore e rimane incenerita. Ino alleva il figlio dei due, Bacco, impazzisce su istigazione di Giunone, si getta nei flutti e diventa dea marina. Piramo e Tisbe, amandosi follemente, si uccidono l'una dopo l'altro, e il sangue tinge di nero le bacche bianche del gelso. Perseo vince Medusa e ne usa il capo, il cui sguardo pietrifica, per mutare Atlante in monte. Storie, direbbe Shakespeare, di "suono e furore", nelle quali la guerra fratricida, l'amore infelice, il volto del terrore, divengono città, fiori, sassi, foglie scure, e in cui la voce si perde nel vento. La Fondazione Valla prosegue con questo la pubblicazione in sei volumi delle "Metamorfosi", basando il testo e gli apparati su quelli editi da Richard Tarrant per gli Oxford Classical Texts: la cura generale è di Alessandro Barchiesi. Il commento è affidato allo stesso Barchiesi e a Gianpiero Rosati. La traduzione è opera di Ludovica Koch.
Indice - Sommario
Premessa dei curatori
Abbreviazioni bibliografiche
Nota al testo
TESTO e TRADUZIONE
Sigla
Libro terzo
Libro quarto
COMMENTO
Libro terzo
Libro quarto
Il Manicheismo fu l'unica religione creata da un uomo che era, al tempo stesso, un grande pittore e un grande musicista: iranico di padre e di madre, Mani nacque nel 216 d.C. in Mesopotamia. La sua predicazione, che si definiva una "Religione della Luce" o "La Speranza di Vita", aveva origini cristiane, gnostiche, buddhiste, zoroastriane. Egli, che si riteneva il Gesù dei suoi tempi, pensava che nel mondo esistessero all'origine due principi opposti: il Bene Assoluto e il Male Assoluto. Tuttavia, nel corso dei tempi, il Male si era insinuato nel Bene, contaminandolo. Compito di ogni fedele manicheo era quello di salvare e liberare tutte le particelle di luce prigioniere della materia, fino a restaurare la purezza originaria del mondo della Luce. Da principio, Mani fu accolto con favore alla Corte persiana. Seguendo le grandi strade di comunicazione dell'epoca, la sua religione si diffuse nell'Africa settentrionale, in Egitto, in Siria, in Dalmazia, in Gallia, in Spagna, in Arabia, in India, in Cina, coprendo un territorio più vasto di quello di qualsiasi altra religione. Poi egli venne perseguitato dal clero zoroastriano, imprigionato e condannato a morte; i suoi seguaci seguirono la sua stessa sorte; i loro scritti arsi e distrutti.
Morfologia e commento di Paolo Carafa e Maria Teresa D'Alessio.
Appendici di Paolo Carafa, Maria Teresa D'Alessio e Calo de Simone.
Roma è stata un'avventura unica nel mondo antico, e più tardi in quello medievale e moderno. «E chi» scriveva Plutarco, «vedendo la nascita, la salvezza, la crescita e il divenire adulto di Romolo, non direbbe subito che la Fortuna ne ha posto le fondamenta e il Valore vi ha costruito sopra?» Cicerone magnificava l'intelligenza che presiedette alla scelta del luogo: «Romolo scelse il luogo destinato alla città con incredibile accortezza, come deve fare chi cerca di creare uno stato destinato a durare. Infatti non si spinse verso il mare per invadere il territorio dei Rutuli o degli Aborigeni o fondare una città alla foce del Tevere: capì invece e vide con eccezionale preveggenza che i luoghi marittimi non sono i più adatti alle città che vengono fondate con la speranza che durino e dominino». Attorno alle origini di Roma i popoli che l'hanno costruita, subita, accettata e disprezzata hanno creato una complessa, affascinante leggenda: che i tre volumi lanciati ora dalla Fondazione Valla intendono ricostruire su basi nuove. Nel primo, poesia e storia sondano le vicende leggendarie di Alba Longa, di Numitore e Amulio, di Marte e Rea Silvia, della lupa e del picchio, dei gemelli allevati dai pastori Faustolo e Acca Larenzia, della fondazione della Roma Quadrata sul Palatino, della lite fra Remo e Romolo e dell'uccisione del primo. Romani e Greci collaborano nella mitopoiesi: c'è chi propone come padri i discendenti del troiano Enea, chi invece attribuisce la fondazione agli eredi del greco Ulisse. Fabio Pittore ed Ellanico, Esio-do ed Ennio, Virgilio e Ovidio, Livio, Dionisio di Ali-carnasso e Diodoro Siculo: tutti si interrogano sui primordi, la nascita e gli sviluppi di Roma. E ancora molti secoli dopo, quando ormai la città starà perdendo la sua grandezza e la sua potenza, gli echi della leggenda risuoneranno negli ultimi scrittori pagani e nei Padri della Chiesa: in Servio e nel Mitografo Vaticano, in Giustino, Gerolamo e Agostino. Viene qui presentata una grande raccolta di fonti annalistiche, antiquarie e poetiche divise per «mitemi» o unità mitiche fondamentali, e analizzate comparativamente alla ricerca dei «motivi canonici» fissati dalla tradizione e di una stratigrafia del mito confrontata con gli scavi archeologici. Sullo sfondo, alcune domande che ci intrigano. Come nascono i miti? Rispecchiano o no la realtà? E ancora. Da dove vengono il nome di Roma e di Romolo? E lui, Romolo, è davvero esistito? Ha poi fondato la sua città?
Indice - Sommario
Introduzione
Organizzazione dell'opera
Abbreviazioni bibliografiche
Fonti letterarie della leggenda di Roma
Figure e personaggi della leggenda di Roma
TESTI E TRADUZIONI
1. La nascita dei gemelli
2. Esposizione e salvazione dei gemelli
3. L'iniziazione dei gemelli e un rito di purifiazione-fecondita
4. La conquista di Alba e l'uccisione di Amulio
5. La fondazione della città
COMMENTO
1. La nascita dei gemelli
2. Esposizione e salvazione dei gemelli
3. L'iniziazione dei gemelli e un rito di purifiazione-fecondita
4. La conquista di Alba e l'uccisione di Amulio
5. La fondazione della città
APPENDICI
1. I nomi di Romolo e Remo come etruschi
2. Fratelli/gemelli, tra cooperazione e conflitto
3. I Lupercali
I bibliotecari alessandrini intitolarono al nome di Calliope - la Musa della poesia epica - il nono libro, l'ultimo, delle Storie di Erodoto. E ad essa paiono conformarsi l'argomento e il tono del libro. Strettamente legato al precedente, esso narra la fase terminale dell'epico scontro fra Persiani e Greci negli anni 480-479 a.C. Tre i nuclei principali del racconto: la battaglia di Platea; quella, avvenuta lo stesso giorno, di Micale; e infine la conquista di Sesto. Se intorno a questi avvenimenti si dipanano e si intersecano, come è tipico di Erodoto, continue digressioni - lunghi preparativi bellici, cataloghi di forze militari, narrazioni biografiche, descrizione di luoghi e aneddoti -, non v'è dubbio che l'attenzione dello storico si concentri sulla sequenza principale. Ecco che, scomparso Serse dalla scena, il libro si apre con l'occupazione e la devastazione di Atene da parte del generale Mardonio. Eppure, a questo tragico inizio fa seguito una memorabile riscossa: nonostante le invidie, i contrasti, le incomprensioni fra Ateniesi e Spartani - che culmineranno dopo quasi cinquant'anni nella Guerra del Peloponneso -, le due città rivali lottano qui insieme. Su richiesta della prostrata Atene, Sparta invia un grosso contingente comandato da Pausania. La tensione monta intollerabile per dieci giorni, mentre i due eserciti si fronteggiano. Poi, scoppia in combattimento furibondo, in cui i guerrieri si affrontano lontani e arcaici come eroi omerici e allo stesso tempo vicini e attuali come gli uomini più familiari. Con gli Ateniesi immobilizzati, tocca agli Spartani e ai Tegeati reggere l'urto. E i Persiani vengono alla fine sbaragliati. Collegando il trionfo di Platea al glorioso disastro delle Termopili all'inizio delle Guerre, Erodoto scrive: «Allora, secondo l'oracolo, fu pagata da Mardonio la pena dell'uccisione di Leonida, e Pausania, figlio di Cleom-broto, figlio di Anassandrida, riportò la vittoria più bella di tutte quelle che conosciamo». Battuti per mare e per terra, a Micale e più tardi a Sesto, i Persiani iniziano il ritiro definitivo. Poco prima, il crepuscolo viene annunciato dalla fosca vicenda di Serse invischiato nella passione per la moglie di suo fratello: quasi una novella di depravazione e violenza, a incorniciare il primo capolavoro della storiografia occidentale. Questa edizione integralmente rinnovata del nono libro contiene anche l'Indice dei nomi di tutte le Storie, la cui pubblicazione verrà completata nel 2008 con il settimo libro.
Indice - Sommario
Introduzione al Libro IX
Bibliografia
Abbreviazioni bibliografiche
Sommario del Libro IX
Tavola cronologica
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Nota al testo del Libro IX
Il Libro IX delle Storie
Scoli
COMMENTO
Appendici
Indice generale dei nomi
Gian Luca Potestà e Marco Rizzi, entrambi docenti all'Università Cattolica di Milano e specialisti dell'antichità classica, cercano di spiegare come nasce il mito dell'Anticristo, questa poderosa figura di antagonista che da quasi due millenni domina la nostra cultura. E lo fanno offrendo questa antologia dei testi antichi (dal II al IV secolo) che hanno parlato dell'anticristo e sottolineando come inizialmente il termine non indicasse l'Antimessia, ma genericamente chi si opponeva a Gesù Cristo. Questo volume sarà seguito da un secondo, dedicato al periodo tra il V e il XII secolo, e da un terzo, per il periodo dal XIII al XV secolo.
Nel 2004, la Fondazione Valla ha pubblicato il primo volume di una "Letteratura francescana" in quattro volumi, a cura di Claudio Leonardi. Per la prima volta, forse, è riapparso alla luce quel miracolo che fu san Francesco: il mistico più puro della storia umana. Parlava soltanto con parole bibliche ed evangeliche, che uscivano dalla sua bocca con la stessa limpidezza e trasparenza con la quale, milleduecento anni prima, erano uscite dalla bocca di Gesù Cristo. In questo secondo volume, troviamo i testi biografici più antichi: la "Vita" di Tommaso da Celano, Giuliano da Spira, l'Anonimo perugino, la Lettera dei tre compagni, la Compilazione di Assisi, la Compilazione fiorentina, lo "Specchio minore di perfezione". La biografia di Tommaso da Celano - di grandissima intensità e gravità spirituale - è quasi ignota: la più bella vita di santo che sia mai stata scritta nell'Occidente cristiano: superiore persino alla "Vita di Antonio" di Atanasio e alla "Vita di Martino" di Sulpicio Severo.
San Francesco viene rappresentato come una novità totale nella storia: prima di lui, c'era la tenebra, una tenebra anche di chiese e di monaci; e con lui giunge, per pochi anni, lo splendore della luce: il fuoco - il fuoco dello Spirito Santo, il fuoco di Cristo, il fuoco della parola d'ogni giorno. Eppure questo novatore assoluto, che parla a Dio senza intermediari come Cristo nei Vangeli, non vuole costruire una chiesa nuova, ma riparare e restaurare la chiesa vecchia e cadente. Mentre attraversa il mondo, mobile come un animale senza casa, vede Dio nelle cose, ed esorta "le messi e la vigna, le pietre e i boschi e tutte le belle campagne, le fonti irrigue e ogni verde giardino" ad amare ed esaltare Dio. La scrittura è nobile quanto la natura: come pensavano, nello stesso tempo, gli ebrei del Medio Oriente, tutte le scritture, anche quelle non cristiane, sono venerabili, perché contengono le lettere con le quali si compone il nome di Cristo. Ciò che è straziante è la fine di Francesco. Dopo pochi anni, capisce il proprio fallimento. Vuol tornare alle origini, quando non c'erano né chiese né case, ma campi e caverne. Annuncia la degradazione del suo Ordine, che emanerà "un puzzo ributtante", mentre tutti, attorno a lui, cominciano già a litigare per il potere o le forme. Così, sulla terra, il fuoco dello spirito si spegne subito; niente e nessuno rimane a un livello celeste; e nemmeno "un secondo Cristo" riesce a sopravvivere dopo pochi anni di beatitudine, follia e letizia.
I "Dialogi" di Gregorio Magno, composti in latino in quattro libri, furono tra i più amabili, drammatici e insieme divertenti testi del Medioevo. In un'Italia invasa dai goti e longobardi, visitata dalle pestilenze e dalla carestia, tutto era caos e tenebra. Restavano solo i monaci a compiere prodigi: resuscitavano i morti, liberavano gli ossessi, moltiplicavano olio e vino. Il testo, composto per un pubblico vasto e popolare, è riproposto con la cura di Manlio Simonetti e Salvatore Pricoco.
San Francesco è la figura più popolare della storia italiana: centinaia di affreschi e quadri lo ric
San Francesco è la figura più popolare della storia italiana: centinaia di affreschi e quadri lo ricordano: ha generato un'enorme letteratura: è stato proclamato protettore del nostro paese; eppure quasi nessun italiano ha letto i suoi scritti meravigliosi. In questa raccolta, Claudio Leonardi si propone di liberare la sua figura dalle falsificazioni che l'hanno nascosta e adulterata, fino a farlo diventare un rivoluzionario politico, un nemico dell'ordine sociale, o uno gnostico. Dello gnostico, egli non aveva nulla: né il disprezzo della natura e del corpo, né la negazione dell'Antico Testamento e della Chiesa. Chi era dunque quest'uomo durissimo e dolcissimo, che diceva di essere ignorans et idiota? Era un mistico, forse il più assoluto nella storia cristiana. Quando sulla piazza d'Assisi rinunciò ad ogni bene terreno, denudandosi davanti al popolo, voleva rifiutare il mondo per abbandonarsi totalmente a Dio: solo a Dio. Voleva morire a sé stesso: annichilirsi, come aveva fatto il Cristo: farsi guidare da Dio, abitare in Dio, essere abitato da Dio, sentirsi trasformato in lui. Nella storia cristiana, solo Francesco, forse, diventò completamente il Cristo, senza ombre né residui umani. La povertà non era, per lui, un fine, ma solo un mezzo per abbandonare il peso di questa terra.
La Bibbia era il centro e il cuore della sua vita. Quando scriveva, intesseva parole e frasi bibliche, che uscivano dalla sua bocca come un tempo, nei Vangeli, erano uscite dalla bocca di Cristo. Nessun altro mistico cristiano ci lascia questa doppia impressione: leggiamo insieme le parole dei Vangeli e quelle di Francesco, perché egli non conosceva altra lingua, e l'usava con una limpidezza e una trasparenza, che hanno qualcosa di celeste. Questa raccolta è il primo tentativo sistematico di ordinare cronologicamente gli scritti di Francesco: dai primi progetti di una vita religiosa comune agli ultimi testi, nei quali egli è percorso dalla gioia incontenibile di sentire in sé stesso i tratti di un altro Cristo. Insieme ai suoi scritti, questo volume raccoglie quelli di Chiara. Il secondo, terzo e quarto volume comprenderanno le vite e i detti di Francesco, l'incontro tra Francesco e la Povertà, Jacopone da Todi, le mistiche francescane, e gli scritti degli «spirituali», da Pietro di Giovanni Olivi a Raimondo Lullo ad Angelo Clareno. Il secondo volume verrà pubblicato nel 2005.
In questo libro, curato da Mauro Pesce, vengono raccolte le parole di Gesù, contenute in testi greci e latini, che non appartengono ai quattro Vangeli canonici. Cosa ha veramente detto Gesù, nella sua apparizione terrena? Con lo sviluppo degli studi, la risposta diventa sempre più difficile. Dopo la morte di Gesù, in Palestina e poi in tutto l'ambiente cristiano, era diffusa una moltitudine di suoi detti. I quattro evangelisti ne fecero ognuno una scelta, secondo lo scopo che si prefiggevano scrivendo il loro Vangelo. Ma molti detti rimasero fuori da questa scelta. Alcuni di essi, anteriori ai Vangeli, sono confluiti nelle Lettere di Paolo, che per esempio conserva le parole sulla fine del mondo che i Vangeli aboliscono: un grido, una voce di arcangelo, la tromba di Dio, la discesa del Cristo, la resurrezione dei morti. Molti altri detti, di cui non possiamo mettere in dubbio l'antichità, rimasero esclusi anche dalle Lettere di Paolo e dagli altri scritti del Nuovo Testamento. Sino a poco tempo fa, gli studiosi li ritenevano tarde invenzioni o rielaborazioni di tipo gnostico. Oggi, invece, pensano che fossero accolti con piena fiducia dai gruppi cristiani almeno fino al IV secolo, quando la Chiesa finì per vedere solo nei quattro Vangeli la voce autentica di Gesù. Da queste bellissime Parole dimenticate, viene alla luce un ritratto di Gesù che ci sorprende e talora ci sconvolge. Spesso egli rivela ad alcuni dei suoi discepoli delle parole segrete, che dovevano restare nascoste, e aggiunge: «Chi troverà l'interpretazione di queste parole non gusterà la morte». Gesù è dovunque: «Solleva la pietra e là mi troverai, taglia il legno e io sono là». Annuncia un futuro misterioso: «Essendo stato interrogato da uno su quando venisse il suo regno, disse: "Quando i due saranno uno, e il fuori come il dentro, e il maschio con la femmina né maschio né femmina"».
Con il Filottete, per la prima volta rappresentato ad Atene nel 409 a.c. la Fondazione Valla da inizio all'edizione completa delle tragedie e dei frammenti di Sofocle. I testi critici delle tragedie sono a cura di Guido Avezzù e di Andrea Tessier, le traduzioni di Giovanni Cerri e di Bruno Gentili, i commenti di otto studiosi: statunitensi, inglesi e italiani. Quando la scena si apre, Odissee e Neottolemo sono appena giunti a Lemno. Filottete vive in una grotta, dove intravediamo un giaciglio di foglie, una coppa di legno malamente sbozzata, tracce di un falò, e i suoi poveri stracci stesi al suolo, "sporchi di brutta cancrena". Dieci anni prima, i Greci l'hanno abbandonato lì, per la sua piaga purulenta al piede. Nessuno è più solo e sventurato di lui: nessuno così nobile, innocente e ingenuo, sebbene abbia conosciuto tutti i mali della vita. Egli ha commesso una colpa, violando il territorio sacro del santuario di Crise: la dea l'ha punito col morso di un serpente; ma non sapremo mai se la sua sia davvero una colpa. Il dolore di Filottete è intollerabile:
mai incontriamo, nella tragedia greca, il divino che agisce così tremendamente su un corpo umano.
Odissee sa che Troia non può cadere senza l'arco di Filottete, e vuole ingannare l'eroe col soccorso di Neottolemo. L'inganno viene deluso: Neottolemo ricorda il padre, Achille, e rifiuta l'insidia e la corruzione di Odisseo. Alla fine della tragedia, Eracle discende sulla scena: in apparenza, è un lieto fine; Filottete è salvo, sebbene Sofocle non ci spieghi i misteri della provvidenza divina e quelli del dolore umano.
Nel Filottete, Sofocle è un maestro di ironia tragica. Dovunque, egli rivela la traccia dell'invisibile e del divino, che penetra tutte le cose; e subito dopo ne mostra la natura inesplicabile. I segni divini - se pur sono tali - sono deboli, incerti, oscuri: gli avvenimenti si succedono per il gioco del caso o di una finalità che non appare mai evidente. Sebbene gli dei siano possenti, sono visibili solo nel loro mistero. I personaggi umani vivono chiusi nella sfera dell'apparenza: anche quando la verità splende loro sul volto, non la vedono o la scambiano per una illusione.
Il Manicheismo fu l'unica religione creata da un uomo che era, al tempo stesso, un grande pittore e un grande musicista, come se Mozart e Monet si fossero fusi, per un miracolo, nella stessa persona. Per Mani, la musica, quest'arte incorporea, era un mezzo potentissimo di liberazione e di purificazione.
Iranico di padre e di madre, Mani nacque nel 216 d.C. in Mesopotamia. La sua predicazione, che si definiva una "Religione della Luce" o "La Speranza di Vita", aveva origini cristiane, gnostiche, buddiste, zoroastriane. Egli immaginava di essere il Gesù dei suoi tempi. Pensava che, nel mondo, esistessero all'origine due principi opposti: il Bene Assoluto e il Male Assoluto. Nel corso dei tempi, e specialmente di quelli moderni, il Male si insinuò e penetrò nel Bene, contaminandolo. Compito di ogni fedele manicheo era quello di salvare e liberare tutte le particene di luce prigioniere della materia, fino a restaurare la purezza originaria del mondo della Luce.
Da principio, Mani venne accolto con favore alla Corte persiana. Seguendo le grandi strade di comunicazione dell'epoca, la sua religione si diffuse nell'Africa settentrionale, in Egitto, in Siria, in Dalmazia, in Gallia, in Spagna, in Arabia, in Asia centrale, in Cina, coprendo un territorio più vasto di quello di qualsiasi altra religione. Poi Mani venne perseguitato dal clero zoroastriano, imprigionato e condannato a morte. La sua passione - pesantissime catene gli avvolsero il collo, i piedi e le mani - durò ventisei giorni. Come lui, i suoi seguaci vennero perseguitati e massacrati dai potenti: i loro scritti arsi e distrutti, come se nessuno potesse tollerare questa limpida e immaginosa conoscenza del male diffuso sulla terra. Ma, ancora nel XIV secolo, milioni di Manichei sopravvivevano in Cina.
Questa grande raccolta in tre volumi, pubblicata dalla Fondazione Valla, comprende scritti in greco, latino, arabo, turco, cinese, iranico, copto, siriaco, tra i quali le recentissime scoperte papiracee, che hanno completamente cambiato la nostra conoscenza del Manicheismo. Curata da Gherardo Gnoli, essa non ha equivalenti in nessuna lingua europea.
Dopo un primo volume dedicato alle Religioni dei misteri (Eleusi, il dionisismo, l'orfismo), la Fondazione Valla ne pubblica un secondo, dove Paolo Scarpi raccoglie quanto conosciamo sui misteri classici di Samotracia e di Andania, e sui misteri di epoca ellenistica e romana: Iside, Cibele e Attis, e il mitraismo. Samotracia era un'isola dell'Egeo nord-orientale: era un luogo diverso, con un'oscura lingua rituale, un culto oscuro, e dèi egualmente oscuri, che Erodoto chiamava Cabiri. Forse si trattava di un rito segreto di iniziazione, fondato da una corporazione di fabbri.
I misteri ellenistici di Iside ebbero una fortuna immensa nel mondo imperiale romano, e costituirono il maggiore precedente e rivale del Cristianesimo. Non avevano un vero rapporto con i misteri del periodo classico. Nell'epoca di Apuleio, l'anima aspirava ad un Uno, con cui unirsi attraverso la contemplazione e l'ascesi, in una completa trasfigurazione. Il grande mito celebrato nei misteri era quello dell'uccisione di Osiride, e della disperata ricerca, da parte di Iside, del corpo del fratello-marito. La dea ritrovò la bara, e abbracciò il corpo. Seth-Tifone lo lacerò in quattordici pezzi e lo disperse. Di nuovo la dea vagabondò attraverso l'Egitto, e dovunque trovasse un pezzo del cadavere di Osiride costruiva una tomba-santuario. Così il cerchio si chiuse: solo l'uccisione, la lacerazione e la dispersione del corpo divino, da parte delle forze del male, permisero che tutto l'universo partecipasse ai riti sacri.
A Iside è dedicato il più bei romanzo antico: le Metamorfosi di Apuleio, dove viene rappresentata l'iniziazione di Lucio, modello di quella di Tamino nel Flauto magico. Lucio discende nel regno dei morti, attraversa simbolicamente gli elementi, vede gli dèi superi ed inferi, li adora, si unisce estaticamente con il dio; e conosce quella luce sfavillante e velocissima, che accende le anime umane almeno una volta nella vita, quando, in un lampo di beatitudine, possiamo toccare con gli occhi le cose celesti. Viene identificato con Osiride, e appare davanti alla folla vestito con i paramenti sacri, che il dio indossava nella sua apparizione solare. Infine gli appare nel suo vero volto Osiride: "il più potente dei grandi dèi, il sommo tra i più grandi, il massimo tra i sommi, colui che regna sui massimi".
Le "lettere" di Platone sono uno dei misteri più affascinanti della letteratura greca. Non sappiamo chi le ha scritte: se Platone, o uno o più contraffattori. Sicuramente autentica è la settima, una riflessione sui complessi rapporti che intercorrono tra potere e filosofia. Comunque sia, queste tredici lettere sono la testimonianza di un esperimento che parve concretizzare il sogno di Platone: portare al potere dei filosofi o dei governanti-filosofi, che traducessero le sue dottrine relative alla legislazione e al governo dello stato. Questo tentativo, consumatosi a più riprese alla corte di Dioniso II tiranno di Siracusa, fallì miseramente.
Questo è il primo volume di un'amplissima raccolta di testi, unica al mondo, delle Religioni dei misteri: comprende i misteri di Eleusi, quelli dionisiaci ed orfici. li secondo volume, sempre a cura di Paolo Scarpi, raccoglierà i testi dei misteri di Samotracia, di Andania, di Iside, di Cibele e Attis, e di Mitra.
I "misteri" costituivano la parte esoterica della religione greca, e ancor oggi sono conosciuti solo in piccola parte da cenni, allusioni, racconti parziali. Essi imponevano il segreto ai loro iniziati. Eppure la ricostruzione amorosa dei misteri di Eleusi li fa vivere davanti ai nostri occhi, come se oggi ripetessimo, insieme agli Ateniesi del V o del IV secolo a.C., la lenta processione fino al tempio.
I misteri di Eleusi nascono da un fallimento divino: Demetra non riesce a rendere immortale il piccolo Demofonte; e le donne non sopportano la radiosa e tremenda epifania della dea. In cambio di questo fallimento, Demetra rivela agli uomini i sacri riti, durante i quali si annullano, per qualche giorno, le differenze tra i cittadini e tra uomini e dèi. Giunti ad Eleusi, gli iniziati bevono una bevanda, il ciceone: ascoltano una formula misteriosa: hanno una intensa rivelazione luminosa; contemplano uno spettacolo che ci sfugge. Sono le vicende di Demetra e di Persefone? O l'ostensione di una spiga di grano? O di un fallo? O la "grande luce"?
Senza essere resi immortali, gli iniziati ottengono in ogni caso una sorte privilegiata dopo la morte. Come dice Sofocle: "O tre volte beati / i mortali che, visti questi misteri, / vanno nell'Ade, perché solo per essi laggiù / c'è vita, mentre per gli altri, laggiù, non vi è che del male". Per Platone e Aristotele, l'esperienza eleusina è il simbolo della parte suprema dell'esperienza filosofica, quando la mente tocca - come si può toccare un corpo - la luce della verità.
Con questo secondo volume si conclude la pubblicazione del Poema degli astri di Manilio: il testo critico, che deriva da un riesame dell'intera tradizione testuale, è a cura di Enrico Flores; la traduzione di Riccardo Scarda; e il commento, per la parte storico-letteraria di Riccardo Scarda e per quella astronomico-astrologica di Simonetta Feraboli.
Il poema degli astri nacque da un profondo senso di angoscia metafisica e psicologica. Per vincere questa angoscia, Manilio conobbe un solo mezzo: indagare i segreti della natura (che è "divina", come l'uomo), portandoli alla più estrema chiarezza intellettuale. Spiegando questi misteri, Manilio trovava dovunque i segni della necessità, che guida tutte le cose. La venerazione della necessità faceva discendere la quiete nell'animo inquieto di Manilio e dei suoi contemporanei. Oggi, siamo abituati a trovare in ogni giornale oroscopi astrologici. Ma chi voglia conoscere la grandezza del pensiero astronomico-astrologico, legga Manilio, con le sue descrizioni dei caratteri umani dipendenti dagli astri: meravigliose per penetrazione psicologica e ricchezza di rapporti. Con arte squisita, Manilio disegna i tappeti del cielo; e dal cielo guarda tutte le regioni della terra, tutte le attività umane, tutte le minime vicende della storia e della vita quotidiana. Ogni cosa ha rapporto con le altre: tutto forma un'architettura. Usciamo dalla lettura del suo poema, così complesso e variegato, con l'animo pieno di reverenza.
Testo raffinatissimo accompagnato da una pregevole curatela che tuttavia, per il tema trattato, può raggiungere un pubblico ampio di lettori interessati alle questioni astrologiche. Con arte squisita, Manilio disegna i tappeti del cielo; e dal cielo guarda tutte le regioni della terra, tutte le attività umane, tutte le minime vicende della storia e della vita quotidiana. Il testo critico, che deriva da un riesame dell’intera tradizione testuale, è a cura di Enrico Flores (ordinario di letteratura latina nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli Federico II); la traduzione di Riccardo Scarcia (ordinario di filologia latina all’Università di Roma Tor Vergata); il commento, per la parte storico-letteraria di Riccardo Scarcia e per quella astronomico-astrologica di Simonetta Feraboli che insegna letteratura greca all’Università di Genova.
Indice - Sommario
Abbreviazioni bibliografiche
Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
COMMENTO
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Euripide si lamenta. Siamo nel secondo giorno della festa femminile delle Tesmoforie: egli teme che le donne lo condannino a morte, per punirlo di aver parlato male di loro. E vorrebbe che Agatone, un poeta effeminato, vada a difenderlo alla festa. Ma Agatone ha paura e rifiuta l'incarico. Allora il Parente - un buffone - prende il suo posto. Euripide lo rade, gli brucia i peli sulle natiche, lo rende liscio come una donna, lo traveste con abiti femminili. Ecco l'assemblea delle Tesmoforie: le donne protestano contro Euripide: il Parente denigra le donne: arriva Clistene, un famoso invertito: il Parente sgozza un otre di vino: Euripide dice dei versi della sua "Elena": questo dramma elegantissimo viene parodiato; e così via, di trovata in trovata, ognuna più spettacolare e divertente dell'altra. Non sappiamo mai se Aristofane schernisca o difenda le donne: non sappiamo cosa pensi veramente di Euripide. Come saperlo? Tutto è un gioco che si compiace di sé stesso. Alla fine "abbiamo giocato abbastanza: è tempo che ognuna ritorni alla sua casa". Nelle "Donne alle Tesmoforie", la volgarità di Aristofane tocca il suo culmine: la commedia sembra una farsaccia da paese, come spesso le commedie di Shakespeare - ma una fantasia prodigiosa innalza tutto ciò che è volgare ed osceno nel regno della vertiginosa follia comica.
Tragedia e commedia in un classico brioso e magnificamente tradotto che si inserisce – come quinto titolo dopo Le rane, Gli uccelli, Le Donne all’assemblea, e Le Nuvole – nella sezione “tutto Aristofane” della collana “Scrittori greci e latini”. Una nuova edizione critica e una curatela di prestigio: Carlo Prato, professore emerito di Letteratura greca all’Università di Lecce, insigne filologo dedicatosi da sempre allo studio del commediografo ateniese e, in particolare, ai rapporti tra Aristofane ed Euripide; la traduzione moderna e spigliata è di Dario Del Corno, titolare di Letteratura Greca alla Statale di Milano e docente di storia del teatro, autentico specialista di spettacoli classici.
Indice - Sommario
Introduzione
Indicazioni bibliografiche
TESTO E TRADUZIONE
- Sigla
- Le Donne alle tesmoforie
COMMENTO
Appendice metrica
Indice delle cose notevoli
Indice dei termini greci
Prefazione / Introduzione
I - La data di rappresentazione
L'assenza di hypothesis ("argomento") e di notizie certe o attendibili (testimonianze, scoli, allusioni storiche ecc.) ha reso difficile fissare la data di rappresentazione delle Tesmoforiazuse (Le Donne alle Tesmoforie), non solo per quanto con cerne l'anno in cui la commedia partecipò al concorso, ma anche per la sede del teatro nella quale essa venne allestita.
L'opinione corrente, sia pure con contrasti, è orientata in favore rispettivamente del 411 e delle Dionisie cittadine. In passato, soprattutto prima dell'intervento di Wilamowitz, che sostenne la data del 411, aveva trovato numerosi e autorevoli consensi anche la tesi del 410, recentemente ribadita da Rhodes.
Alla data del 411 si è arrivati principalmente sulla base di una preziosa indicazione del testo aristofaneo, dal quale si apprende che in "quello stesso luogo", dove si svolgeva lo spettacolo, l'anno precedente si era esibito Euripide con una tragedia, l'Andromeda, da lui, secondo un altro scolio, messa in scena insieme all'Elena; anche di questi due drammi, in verità, mancano informazioni dirette circa la data di rappresentazione, ma questa volta è stato possibile ricostruirla grazie a una notizia fornita dallo scolio a Ran. 53, secondo la quale l'Andromeda era stata presentata agli agoni tragici sette anni prima delle "Rane" (messe in scena esse stesse alle Lenee del 405), cioè nel 412.
Per quanto riguarda il tipo di concorso cui avrebbe partecipato Aristofane, l'orientamento della critica risulta favorevole, in prevalenza, a una rappresentazione delle Tesmoforiazuse alle Dionisie cittadine (marzo-aprile), ma le argomentazioni addotte non paiono decisive, anzi hanno tutte l'aria di petizioni di principio. Ciò vale, in verità, sia per chi ha aderito alla tesi prevalente, sia per chi (come Schmid-StähIin, Gelzer ecc.) si è pronunciato in favore della tesi opposta, cioè di una rappresentazione delle Tesmoforiazuse alle Lenee e di quella della Lisistrata alle grandi Dionisie, sia per chi (come il Cantarella) si è deciso per la rappresentazione di entrambe le commedie alle Lenee, sia per chi (come Russo) ha optato per una loro rappresentazione alle Dionisie cittadine.
Il secondo e ultimo volume delle "Storie di Alessandro Magno" accompagna il lettore dalla morte di Dario di Persia a quella di Alessandro Magno, a Babilonia. Alessandro, ormai dominato da un incontrollabile desiderio di illimitato possesso, travalica i limiti che gli dèi hanno imposto alla sua natura umana: cerca di emulare la maestà divina dei sovrani achemenidi e compie ogni genere di sfrenatezze. Con la sua sensibilità psicologica, e soprattutto con la sua capacità di rendere i sentimenti in modo drammatico e spettacolare, l'autore descrive questa metamorfosi fatale attraverso una serie di scene grandiose e di forte impatto emotivo.
Il settimo volume della "Guida della Grecia, L'Acaia", che la Fondazione Valla pubblica a cura di Mauro Moggi e Massimo Osanna, è il più patetico. Mai Pausania rivela così profondamente, come qui, il suo amore per la Grecia: per la religione, la storia, la letteratura, la lingua, l'arte, il paesaggio, le pietre, la vita quotidiana del suo paese ideale. Nel secondo secolo prima di Cristo, la Grecia si è estinta: Pausania non sa se per volontà degli dei, o per tradimento e viltà degli uomini. Prima i Macedoni e poi i Romani hanno posseduto e occupato la Grecia; e ora di quel corpo glorioso resta soltanto "una pianta mutilata e per la maggior parte secca". Pausania guarda con disperazione a questa fine: ma non riesce a vedere nessun'altra luce nella storia del mondo, e con venerazione percorre i luoghi sacri, e descrive con precisione e passione nascosta i paesaggi e le pietre.
Dopo la prima parte storica, il resto del settimo libro è dedicato agli dei, alle città, agli alberi, alle statue arcai-che, agli oracoli dell'Acaia. Conosciamo l'oracolo di Ermes. Chi sul far della sera arriva sulla piazza di Fare, sussurra una domanda alla statua del dio: poi si tappa le orecchie e si allontana: quando esce dalla piazza, toglie le mani dalle orecchie; le prime parole che ascolta gli rivelano il responso di Ermes. Conosciamo delle storie d'amore. Un uomo s'innamora di una ninfa marina, che lo abbandona. Lui muore d'amore: Afrodite lo cambia in fiume; ma nemmeno come acqua corrente può dimenticare la passione che l'ha legato alla ninfa. Allora Afrodite gli fa l'ultimo e più grande dei doni: gliela fa dimenticare. Poi trasforma le sue onde in rimedio e oblio per tutti gli innamorati infelici che vi immergono le membra.
Indice - Sommario
Nota introduttiva al Libro VII
di Mauro Moggi e Massimo Osanna
Bibliografia
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
a cura di Mauro Moggi
Sigla
Libro VII: L'Acaia
COMMENTO
a cura di Mauro Moggi e Massimo Osanna
Libro VII: L'Acaia
INDICI
a cura di Maria Elena De Luna e Cesare Zizza
Indice dei nomi propri di personaggi storici e mitici e di divinità
Indice dei nomi etnici e geografici
Indice di altri nomi propri (santuari, istituzioni, feste, monumenti, edifici, opere letterarie, ecc.)
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La sezione narrativa (1,1-17,4) del libro sull'Acaia prevale nettamente su quella descrittiva (17,5-27,12.): comprende infatti, oltre alle linee essenziali della storia antica e del popolamento ellenico della Ionia d'Asia, anche la trattazione della storia più recente, cioè del periodo che ebbe nella Lega achea uno dei principali protagonisti e che si concluse con la distruzione di Corinto e l'assoggettamento della Grecia a Roma.
Dopo aver fornito le indicazioni indispensabili a collocare la regione nel Peloponneso, Pausania passa a trattare l'arrivo di Xuto nell'Egialo e l'acquisizione del regno da parte di suo figlio Ione, grazie al quale gli Egialesi aggiunsero alla loro originaria denominazione la qualificazione di Ioni. A questo punto, le vicende di quella che sarà l'Acaia si intrecciano con le vicende dell'Attica, mentre cominciano a delinearsi le relazioni reciproche sia fra queste due regioni, sia fra di esse e l'area micrasiatica nella quale sorgerà la dodecapoli ionica. L'espulsione degli Achei da Argo e da Sparta a opera dei Dori e la conseguente cacciata degli Ioni dall'Egialo da parte degli Achei rappresentano due avvenimenti di grande rilievo. La migrazione degli Ioni peloponnesiaci, prima per breve tempo ad Atene e poi in maniera definitiva sulle coste anatoliche, diventa oggetto di una digressione ampia e assai ricca di dettagli, che tenta di ricostruire minuziosamente la fase della fondazione e delle vicende più antiche della dodecapoli micrasiatica, riservando particolare attenzione alla definizione dei legami parentali delle singole città "coloniali" con le città e i popoli della Grecia metropolitana.
Lo schema espositivo adottato per la fondazione di Mileto, la prima polis a essere presa in considerazione, è paradigmatico, in quanto nelle sue linee essenziali si ripete nelle trattazioni dedicate alla maggior parte delle altre città: nome del fondatore (o dei fondatori); ricostruzione dell'origine e della storia più antica del centro e (là dove esistono) dei santuari più importanti, che sono ritenuti in genere antichissimi e in qualche caso preesistenti all'arrivo degli Ioni; descrizione delle presenze indigene, e in qualche caso greche, nell'area di insediamento (uniche eccezioni in questo senso Clazomene e Focea, che sarebbero state fondate in territori disabitati); modalità dell'incontro fra coloni e popolazioni già insediate nelle aree destinate alla occupazione e assetto finale raggiunto dalle singole poleis. Il tutto sulla base di una miriade di notizie reperite anche o soprattutto nell'ambito delle fonti locali.
In questo quadro, il regime di pacifica convivenza attribuito ai Cari e ai Cretesi stanziati a Mileto costituisce un esempio di impatto morbido fra coloni e popolazioni locali, che trova pochi paralleli nell'excursus sulla occupazione ionica della regione e solo in riferimento alle aree dotate di un importante centro cultuale. Il popolamento della Ionia, soprattutto per quanto riguarda gli episodi riconducibili agli Ioni guidati dai Codridi, è visto essenzialmente come una affermazione, spesso basata sulla violenza, dei coloni sugli indigeni, e quindi della grecità sui barbari: questi, di norma, non trovano il minimo spazio nelle poleis che vanno nascendo e consolidandosi. La posizione assunta da Pausania si inserisce nel solco della tradizione storiografica più antica sulla colonizzazione e può essere considerata indicativa della natura profonda del fenomeno coloniale e dell'atteggiamento mentale, ispirato da un forte etnocentrismo, che ha ispirato l'espansione greca in ogni epoca. Inoltre, certi moduli narrativi, come quello delle peregrinazioni degli Ioni che fondarono Clazomene, trovano paralleli precisi in alcuni precedenti ben noti (la fondazione di Cirene in Erodoto e quella di Megara Iblea in Tucidide). In questa trattazione antistorica del passato remoto non mancano digressioni minori sia su eventi altrettanto lontani nel tempo, come le vicende di Dedalo in Sicilia, sia su fatti relativamente recenti, come il sinecismo di Efeso a opera di Lisimaco, che comportò lo spopolamento (parziale) di Colofone e di Lebedo, o la tirannide di Ierone a Priene - ignorata da tutta la tradizione letteraria, ma confermata epigraficamente - o, ancora, la ricostruzione di Smirne e il suo accoglimento nella dodecapoli ionica.
Una breve e sintetica sezione descrittiva sulle cose da vedere (in particolare santuari, statue, tombe, fiumi, sorgenti, acque termali), che comunque non fa della Ionia una regione che possa essere considerata oggetto di trattazione diretta, chiude il discorso aperto dalla migrazione degli Ioni in Oriente e consente, con un procedimento anulare, la ripresa del discorso relativo agli Achei. Essi appaiono ormai stabilmente insediati nella regione peloponnesiaca: della loro dodecapoli vengono elencate e collocate nel territorio - procedendo da ovest verso est, sulla base di un itinerario costiero, inframmezzato da rapide puntate verso l'interno - le città della fase più antica, compresa Elice, di cui Pausania conosce la catastrofica distruzione, ed esclusa invece Patre, che, fondata appunto dagli Achei, non poteva essere annoverata fra le città appartenute originariamente agli Egialesi Ioni e passate poi ai nuovi occupanti.
Con la segnalazione della partecipazione alla guerra di Troia inizia la rassegna delle imprese militari degli Achei, che si accompagna alla denuncia delle loro assenze nei momenti topici della storia greca; come al solito, la presenza o l'assenza ai combattimenti delle guerre persiane, alla battaglia di Cheronea e alla guerra di Lamia contro i Macedoni o alla difesa delle Termopile contro i Galati, misurano il patriottismo panellenico e la correttezza degli Elleni del passato.
"La preghiera dei cristiani", a cura di Salvatore Pricoco e Manlio Simonetti, è la maggiore raccolta di preghiere cristiane che oggi esista in Italia. Comprende le due forme di preghiera: la preghiera intima, segreta, quella che Gesù raccomandava col "Padre nostro". Eccone un bellissimo esempio negli scritti di Simeone il Nuovo Teologo: "Vieni, luce vera. Vieni, vita eterna. Vieni, mistero nascosto. Vieni, tesoro senza nome. Vieni, realtà ineffabile. Vieni, persona inconcepibile. Vieni, esultanza senza fine. Vieni, luce senza tramonto. Vieni, attesa verace di tutti quelli che saranno salvati. Vieni, risveglio di quelli che dormono... Vieni, solo a chi è solo, perché io sono solo, come vedi. Vieni, mio respiro e vita". La seconda forma di preghiera è quella liturgica, che trionfa specialmente a Bisanzio, con la partecipazione al rito di Cristo, lo Spirito Santo, Maria e una moltitudine di angeli.
La raccolta è divisa in quattro parti. La prima comprende i testi greci dal I al V secolo: dal "Padre nostro" al "Magnificat" alle preghiere comprese negli "Atti apocrifi", in Clemente Romano, Policarpo di Smirne, Clemente Alessandrino, Metodio di Olimpo, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, Sinesio di Cirene, nella "Tradizione apostolica" e nelle "Costituzioni degli apostoli". La seconda parte comprende i testi latini dal III al V secolo: Cipriano, Arnobio, Lattanzio, Damaso, Ausonio, Ambrogio, Prudenzio, Agostino, Paolino di Noia, Sedulio. La terza parte comprende i testi greci dal V all'XI secolo: le grandi Liturgie bizantine, Romano il Melodo, Andrea di Creta, Cosma di Maiuma, Giovanni Damasceno, "l'Inno acatisto in onore della Madre di Dio". La quarta parte comprende i testi latini dal VI al XII secolo: Boezio, Cassiodoro, Draconzio, Fulgenzio, Ennodio, Venanzio Fortunato, Colomba, Paolino di Aquileia, Alcuino, Rabano Mauro, Pier Damiani, san Francesco.
Il "Cantico dei cantici" è uno dei grandi misteri dell'Antico Testamento. Non sappiamo se sia un canto d'amore, quale appare a chi legge, o se abbia un significato simbolico, che allude all'amore tra Dio e Israele; né sappiamo quando sia stato scritto, se nel V o nel I sec. a.C. Certo, Israele lo comprese nel canone dei libri divinamente ispirati, e più tardi i cristiani lo accolsero tra i libri dell'Antico Testamento. Ma il "Cantito dei cantici" deve la sua immensa fortuna proprio a Origene, che gli dedicò attorno al 245 le due "Omelie" presentate in questo volume, che ci sono giunte nella traduzione latina di san Girolamo.
Verso la fine del primo secolo, un cristiano, che era stato relegato nella piccola isola di Patmos, fu tratto "in spirito" nel regno di Dio. Come Isaia, Giovanni varcò le porte dei cieli, che si aprirono davanti a lui con un mortale fragore di cardini. Non fu un sogno, né un lampo: ma una visione folgorante che si impresse nei suoi sguardi, colmò il suo cuore e venne trascritta nelle pagine di un piccolo libro dolce come il miele, amaro come l'assenzio.
Mentre leggiamo "l'Apocalisse", avvertiamo una tensione, un impeto, una passione, che hanno qualcosa di cannibalesco: furore di possedere e ingoiare dei libri e di proiettarli in un altro spazio di carta. Le immagini strappate a Isaia e a Ezechiele sembrano aggredirci negli occhi. Così questo libro, che non nasce da un'esperienza visionaria, è diventato il più grande testo visionario dell'Occidente. La letteratura ha appreso "dal1'Apocalisse" che vedere è, in primo luogo, una visione di libri. Il futuro si approssima. Tutti i presentimenti ci minacciano e stanno per diventare presenti. "Il tempo è vicino" L'ora della prova si abbatterà fra poco sul mondo intero: una drammatica imminenza, come non si era mai intesa in un'opera umana, incombe su ogni segno. Avvertiamo sulla carta la presenza dell'evento che sta per erompere davanti ai nostri occhi: le immagini ci sembrano frammenti di futuro, aeroliti di futuro, che una mano ha strappato all'ignoto del tempo.
Come i profeti biblici, Giovanni voleva che le parole della profezia fossero osservate e messe in pratica. Così fu aperto, chiaro, violento, per proclamare l'essenza del suo messaggio: l'avvento di Cristo, l'imminenza di eventi tremendi. Ma, col gesto opposto, nascose la sua rivelazione dietro un velo di enigmi. Contava sul mistero, sull'equivoco, sulla polivalenza dei significati. Sapeva che, per quanto gli interpreti traforassero il suo testo, vi sarebbe rimasto molto o moltissimo di insondabile. Sapeva che i libri chiari e aperti muoiono appena nati. Soltanto i libri scritti con la calligrafia cifrata dei cieli, solo i libri che nessuno può dissigillare completamente, continuano a infuocare per secoli i pensieri degli uomini.
In questo ampio commento "dell'Apocalisse", che può essere letto con passione da tutti, Edmondo Lupieri ha cercato di penetrarne il mistero. La sua interpretazione, fondata su una conoscenza minuziosissima della letteratura giudaica apocalittica e di Qumran, sorprenderà per la sua novità e la sua verisimiglianza.
Indice - Sommario
Premessa
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
Abbreviazioni delle opere citate
TESTO E TRADUZIONE
- Sigla
- Apocalisse di Giovanni
COMMENTO
Indice dei passi e degli autori citati
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Può ancora esistere, oggi, uno spazio culturale ufficiale per "l'Apocalisse"? Se vi è un testo colmo di angeli e diavoli, di mostri e di cataclismi, di visioni celesti e ultraterrene, di viaggi spirituali in un cosmo geocentrico e pregalileiano, tale testo è proprio quello del veggente di Patmo. Non soltanto, poi, esso pare così ancorato alle categorie mentali del mondo antico, ma non vi è brano del Nuovo Testamento che sia così ricco di minacce e di scene di guerra, con il sangue degli uccisi che giunge sino alle froge dei cavalli e dove la misericordia sembra aver ceduto il passo alla spada. Anche gli stessi premi per gli eletti, infine, soprattutto quel famoso regno millenario di Cristo con i risorti sulla terra, creano problemi a chiese radicate e strutturate in questo mondo. I motivi di disagio nelle chiese cristiane di fronte al "libro delle profezie" di Giovanni, quindi, sono stati e sono numerosi e diffusi. A ripercorrere la storia dell'interpretazione del testo, pare che nelle gerarchie ecclesiali si sia sentito il bisogno di neutralizzarlo, prima ancora di permetterne l'ascolto o la lettura da parte di persone ritenute impreparate. Di converso, l'uso non controllato "dell'Apocalisse" ha sempre accompagnato fenomeni di effervescenza religiosa, spesso sfociati in attività politiche o sociali anticonformistiche, talora concluse davvero nel sangue o nel fuoco. Eppure il fascino del libro permane. La sua lingua dalla cadenza arcaica e strana, le sue immagini che si susseguono come onde di un mare mosso da venti lontani, l'incomprensibilità stessa di certe sue frasi sono altrettanti motivi di attrazione. La lettura o l'ascolto quotidiano della Bibbia sono divenuti un'abitudine di pochi, ma il mistero "dell'Apocalisse", a conclusione del Libro per eccellenza, sta, come in attesa di lettori, anche in quest'ultimo scorcio del secondo millennio cristiano.
"L'Apocalisse" è un testo controverso, difficile da maneggiare: una sorta di esplosivo che costituisce sempre un rischio per l'incauto manipolatore. Anche la critica moderna, nata dalle battaglie illuministiche, ha infine generato teorie interpretative contrapposte e inconciliabili, che a tratti ricalcano le antiche opposte interpretazioni ecclesiastiche. Il fatto è tanto evidente che, negli studi biblici contemporanei, l'esegesi "dell'Apocalisse" è divenuta uno degli obiettivi eletti per gli assalti della critica cosiddetta "postmoderna". Nata dal convincimento che la scienza di tipo positivistico abbia fallito i propri scopi in ogni ramo dello scibile umano, giacché i risultati di ogni indagine sedicente scientifica altro non sarebbero che le proiezioni soggettive del ricercatore, la critica "postmoderna" appare come un'entità multiforme e difficile da analizzare. Essa ha tuttavia spinto ai limiti estremi un processo di relativizzazione di ogni altra forma di ricerca, creando una sorta di nuova apocalisse culturale: non a torto il "postmoderno" è stato paragonato a una specie di mostro che procede inghiottendo ogni altra espressione del patrimonio culturale preesistente, facendosi beffe della ragione e preparandosi alla sublime e definitiva voluttà di inghiottire sé stesso. Coerenza infatti esige che i criteri usati nella demolizione della scienza moderna siano applicati anche ai metodi "postmoderni", non meno soggettivi e relativi di quelli sedicenti razionali e scientifici: la qual cosa dovrebbe condurre al silenzio.
2. In tale temperie culturale, che scopi può prefiggersi un'edizione commentata "dell''Apocalisse"? Abbandoniamo subito le velleità di una lettura che pretenda di spiegare assolutamente tutto. Nella fattispecie "dell'Apocalisse", le letture in cui tutto viene fatto quadrare non quadrano affatto, ma derivano di solito dalla precomprensione del commentatore, mosso da esigenze teologiche o da convincimenti personali che spesso raggiungono livelli monomaniacali.
Questo vuole essere un commento aperto, che proporrà soluzioni nuove e spero convincenti, ma che cercherà sempre di mostrare i nodi interpretativi, rifuggendo dalla tentazione di risolverli tagliandoli. Lo scopo principale del mio lavoro consiste nel condurre il lettore il più vicino possibile a quello che oggi riteniamo fosse il modo di pensare di un giudeo seguace di Gesù nel I secolo d.C. A questo è dedicata l'Introduzione. Il mondo è quello di Gesù di Nazaret, Giovanni Battista, Paolo di Tarso; ma è anche lo stesso di molti altri, a cominciare dagli esseni ultraosservanti di Qumran per finire con Giuseppe, che divenne lo storico ufficiale dei Flavi, cioè proprio di quei generali romani che questo mondo incominciarono a distruggere. Né si trattava di una realtà monolitica o chiusa in sé stessa, ma ricca di permeabilità culturali a tratti sconcertanti. Lo mostra la vicenda di Giuseppe Flavio. Quasi un simbolo appare Berenice, ebrea e "regina" dei giudei, sorella e amante di Agrippa II (ultimo dei piccoli re giudei riconosciuti dai Romani), che divenne amante anche di Tito, sino a seguirlo sul Palatino e a rischiare di divenire imperatrice.
Il testo greco riproduce con poche varianti la più recente delle edizioni critiche "dell'Apocalisse" e la più usata negli studi. In senso proprio, sarebbe onesto dire che non possediamo una vera edizione critica di alcun libro del Nuovo Testamento. Quello che noi abbiamo è un'armonia, ricostruita oggi, fra i testi di diverse edizioni antiche, la cui storia possiamo ipoteticamente tracciare a ritroso fino a un periodo compreso fra il II e il IV secolo d.C. Si tratta di un testo teorico, che nessun antico ha mai avuto fra le mani e che corrisponde a quello che noi pensiamo possa essere stato scritto dall'autore, sulla base dei manoscritti che ci sono giunti. Che siano giunti tali manoscritti, e non altri con testi certamente diversi, è un fatto del tutto casuale, dipendente da motivi esterni: ad esempio il non essere andati distrutti in un incendio o l'essersi trovati in un luogo asciutto. Possiamo comunque considerarlo un buon punto di partenza, non dissimile da quello delle altre opere antiche, quasi tutte ricostruite a tavolino in epoca moderna o contemporanea. Eventuali strepitose scoperte di manoscritti (l'improbabile è già accaduto un paio di volte in questo secolo, a Qumran e a Nag Hammadi) ci porterebbero probabilmente altre varianti, sulla cui validità sarebbe difficile decidere; certamente molte differenze emergerebbero nell'aspetto esteriore del testo.
Prendendo l'avvio dal primo versetto della Genesi, la trattazione si amplia sino ad abbracciare tutta l'opera, in una esegesi appassionata e appassionante che introduce al mistero della creazione.
Quando debbono consultare un'opera d'insieme, gli appassionati dilettanti di mitologia greca sono abituati a leggere "Gli dei e gli eroi" della Grecia di Karl Kerényi o "I miti greci" di Robert Graves. Sarebbe meglio che risalissero molto più indietro nel tempo: a un manuale di autore ignoto, la "Biblioteca" dello pseudo-Apollodoro, redatto tra il II e il III secolo dopo Cristo, che la Fondazione Lorenzo Valla pubblica nella traduzione di Maria Grazia Ciani e con l'introduzione e il commento di Paolo Scarpi. L'ignoto autore credeva ancora negli dei. Come un nuovo Esiodo, si sforzava di raccogliere tutte le tradizioni religiose greche e di sistemarle in un'architettura coerente, portando fino a noi l'ultimo messaggio della classicità declinante. Il lettore moderno vi ritrova, come in un'enciclopedia, tutti i miti greci; Urano e Zeus, Persefone e i Giganti, Meleagro e gli Argonauti, Glauco ed Eracle, Teseo e Odissee. Vi ritrova, soprattutto, una ricchezza straordinaria diversioni parallele o secondarie o locali, che hanno talvolta un interesse più appassionato delle tradizioni maggiori, contribuendo a disegnare quell'intreccio molteplice e risonante di voci, che è per noi la mitologia greca. Il testo dello pseudo-Apollodoro è completato dal ricchissimo commento di Paolo Scarpi: commento che è un secondo manuale, e getta sul testo antico la luce interpretativa degli studiosi moderni di mitologia classica.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Epitome
COMMENTO
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Epitome
Appendice I
Appendice II
Indice mitologico
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
Dalla lettura continua del testo conosciuto come la "Biblioteca" di Apollodoro emerge un grande e complesso paesaggio mitografico: non è stato facile, per quanto necessario, vincere la tentazione di offrire a titolo introduttivo un lungo discorso che indagasse ed esplorasse gli anfratti della mitologia greca se non, addirittura, della mitologia in generale. Le piccole dimensioni di questo "libriccino", come lo chiama Fozio, non sono commisurabili ai problemi di natura storico-religiosa e antropologica che il tessuto narrativo lascia trasparire in filigrana. Ma le dimensioni assunte dalla bibliografia relativa alle problematiche della mitologia greca, moltiplicatasi a dismisura negli ultimi decenni, avrebbero reso in ogni caso ardua l'impresa e sarebbe stato impossibile offrire un panorama completo. Cosi la bibliografia è stata ridotta all'essenziale, confidando sul fatto che ogni ulteriore informazione è ricostruibile sia attraverso le indicazioni fornite nel commento sia ricorrendo alla rassegna dell'"Année Philologique " (Paris).
Considerato per lo più un repertorio mitografico a cui attingere, la "Biblioteca" è stata per così dire condannata da Frazer a diventare un fossile, sia pure insostituibile; un museo in cui sono state conservate "senza un tocco di immaginazione o una scintilla di entusiasmo le lunghe serie di favole e di leggende che ispirarono le immortali produzioni della poesia e le splendide creazioni dell'arte greca".
Nonostante questo inappellabile giudizio, una lettura non frammentaria del testo lascia invece intravedere come la "Biblioteca" non sia banalmente un'opera di erudizione. E forse un'opera di volgarizzazione del patrimonio culturale greco, certamente è una intenzionale sistemazione e ricostruzione del tradizionale paesaggio mitico, che cerca di definire l'universo umano. E queste dovevano essere le intenzioni dell'autore, se è autentico l'epigramma con cui si apriva il testo letto da Fozio, sebbene non riportato dai manoscritti.
Non si tratta dunque di una condensazione erudita del materiale mitologico prodotto dalla civiltà greca, variamente raccolto da fonti diverse, di cui irregolarmente l'autore rende conto, e ordinato secondo un superficiale schema genealogico. Di fronte a una tradizione che ignorava ogni ortodossia, sprovvista di un clero specializzato che avesse proceduto a definirla, e che aveva affidato ai poeti il ruolo di "teologi", la "Biblioteca" si presenta, dopo la "Teogonia" di Esiodo, quale prima opera sistematica. Il registro genealogico su cui è costruito il racconto riprende lo stesso principio di legittimazione che costituiva il fondamento della cultura greca e che conduceva a definire lo statuto umano. E quella cultura, la paideia di cui si fa portatore l'autore nell'epigramma trasmesso da Fozio, che appare alla fine intenzionalmente sopravvalutata, forse per compensare la perdita dell'identità determinatasi con il predominio di Roma. L'autore, senza dubbio arcaizzante, non nomina mai Roma, ne quando parla di Enea o di Antenore, e nemmeno quando descrive l'itinerario occidentale di Eracle. Lo sforzo di recuperare la tradizione mitica è tanto più evidente quanto più appaiono fuori luogo espressioni che possono essere riconducibili a una penetrazione del vocabolario cristiano, come in II 5,12. [124] e 7,7 [157], ma che possono egualmente essere un riflesso della lingua dell'epoca. Quindi sembra del pari frutto di una caduta d'attenzione il solo caso in cui compare la "provvidenza" (II 7,4 [147]), e lo stesso forse si può dire per "mago" (II 8,3[174]). La "Biblioteca" si rivela in ultima istanza portatrice dell'ultimo messaggio della classicità declinante, soffocata dall'imperialismo romano e dalle spinte disgregatrici dei numerosi movimenti esoterici e filosofico-religiosi. Questi movimenti erano protesi alla ricerca di una identità extraumana e al superamento della stessa condizione umana per guadagnare un caeleste habitaculum; erano fortemente sessuofobi e antisomatici, in aperta opposizione con il principio della generazione, da cui era caratterizzata l'antica religiosità olimpica.
Così la "Biblioteca" raccoglie e ordina il sapere mitico, rivivendo nostalgicamente quell'antica liturgia della parola per diffonderla, non diversamente da quanto stava compiendo il mondo giudeo-cristiano. Attraverso l'intreccio e la combinazione di tre registri narrativi, descrittivo, mirice-fondante e favolistico, che intersecano l'ossatura genealogica, essa si propone di "giustificare le strutture e il funzionamento dell'universo nella sua genesi e nella sua dimensione spazio-temporale", divenendo il libro mitologico per eccellenza ma anche per certi aspetti, come riconosceva Frazer, una sorta di "Genesi" pagana.
Con il decimo e undecimo libro delle "Confessioni", che la Fondazione Lorenzo Valla presenta nella traduzione di Gioacchino Chiarini e nel commento di Aimé Solignac e di Marta Cristiani, il racconto della vita di Agostino è ormai terminato. Agostino affronta l'altro tema della sua confessio: la memoria, il tempo, l'universo, il mistero di Dio, in pagine di vertiginosa e angosciosa interrogazione filosofica. Chi ama Dio, ama le sue opere visibili: "quando amo il mio Dio, amo una certa luce e una certa voce e un certo profumo...". Quindi Agostino si avanza nelle "distese e nei vasti palazzi della memoria": lì stanno le immagini nate dalla percezione delle cose, i pensieri nati dai sensi. Ci sono immagini che si presentano immediatamente, altre che si fanno desiderare più a lungo, come se le dovessimo cavar fuori da ripostigli segreti: altre ancora irrompono in massa e balzano in prima fila con l'aria di dire: "Non siamo noi, per caso?". Altre ancora sopraggiungono docilmente e in bell'ordine come uno le chiama. La memoria è il vero miracolo della vita inferiore, "mentre gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le vaste correnti dei fiumi". "Grande è la potenza della memoria, qualcosa di terrificante, mio Dio, la sua profonda e infinita complessità; e tutto questo è la mente, tutto questo sono io. Cosa sono io dunque, mio Dio?"
Le riflessioni sul tempo segnano l'inizio della meditazione sulla realtà divina, che è l'oggetto degli ultimi tre libri. "Non c'è stato un tempo in cui Tu non abbia fatto qualcosa, perché il tempo stesso è opera Tua. E non c'è tempo che Ti sia coeterno, poiché Tu permani; e se il tempo permanesse, non sarebbe più il tempo."
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglorum
Libro X
Libro XI
COMMENTO
Abbreviazioni e sigle
Libro X
Libro XI
San Benedetto, di cui Salvatore Pricoco pubblica la Regola insieme ad altri testi monastici medioevali, non è stato un legislatore rivoluzionario: ma l'accorto e sapiente erede, insieme rigoroso e moderato, della tradizione monastica occidentale. Egli aveva davanti agli occhi un modello antico e meraviglioso: gli eremiti orientali come sant'Antonio, che da soli lottavano con il diavolo nel deserto. Ma egli credeva che questo miracolo fosse ormai irraggiungibile. Voleva fondare qualcosa di più modesto: la vita dei monaci chiusi in una collettività guidata da un superiore; vita che doveva tenere lontana ogni influenza del mondo esterno, ogni viaggio, ogni rapporto con i congiunti. "Nessuno osi riferire ad un altro qualcosa di ciò che ha visto o sentito fuori del monastero, perché sarebbe un'enorme rovina." Tutto era calcolato e previsto dalla regola e dalla sapienza del superiore: ma ogni gesto della vita comune doveva essere impregnato dalle parole della Scrittura, imbevuto dallo sguardo luminoso di Dio, che contemplava i suoi fedeli dall'alto dei cieli. Con i suoi minuziosi suggerimenti, la Regola di san Benedetto ci informa con straordinaria efficacia sulla vita quotidiana dei monaci nel Medioevo, rievocando le mense, i lavori, i sonni, le preghiere, le letture comuni, e l'esempio di un amore reciproco senza limiti. "Se un monaco ha la sensazione che un anziano abbia verso di lui sentimenti d'ira o anche una lieve irritazione, subito, senza indugio, si prostri a terra davanti ai suoi piedi e rimanga disteso a far penitenza fino a quando questa irritazione sia placata e si risolva in una benedizione."
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni e sigle
Bibliografia
TESTO E TRADUZIONE
- Regola dei Quattro Padri
- Seconda Regola dei Padri
- Regola di Macario
- Regola Orientale
- Terza Regola dei Padri
- Regola di san Benedetto
COMMENTO
- Regola dei Quattro Padri
- Seconda Regola dei Padri
- Regola di Macario
- Regola Orientale
- Terza Regola dei Padri
- Regola di san Benedetto
Indice dei passi
Prefazione / Introduzione
Le regole monastiche antiche
L'immagine di un Medioevo monastico interamente benedettino è un luogo comune, tanto inveterato quanto storicamente falso. Essa ha lusingato in particolare la storiografia italiana, che ha alimentato a lungo il mito di san Benedetto padre del monachesimo occidentale, della civiltà religiosa medievale, dell'Europa tout court. In realtà, l'osservanza benedettina trovò diffusione largamente europea solo a partire dall'età carolingia, per l'opera riformatrice di un patrizio visigoto, Benedetto abate di Aniane, che ridusse i monasteri dell'Impero a unità legislativa applicando le direttive politiche di Carlo Magno e Ludovico il Pio. Prima di allora, tra il V e l'VIII secolo, numerose regole circolarono nell'Occidente. Una trentina di esse sono pervenute sino a noi.
Non vanno catalogati tra le regole, anche se talvolta ne portano il nome, scritti di carattere parenetico o didattico o descrittivo. Per esempio non sono regole, com'è evidente, il de laude eremi o il de contemptu munii, due opuscoli scritti tra il 418 e il 430 da Eucherio, monaco di Lérins e poi vescovo di Lione, sebbene contengano non pochi spunti sulla spiritualità e la condotta degli asceti; ma non lo sono neanche talune lettere di Girolamo, come la 2.2., la 58, la 12.5 e altre ancora, che sono dei veri e propri manuali di direzione spirituale, o la lettera di Leandro di Siviglia alla sorella Fiorentina, ne lo sono i libri de institutis coenobiorum di Cassiano, che descrivono i vizi contro i quali il monaco deve lottare e gli indicano i rimedi da adottare.
Tra lo scadere del IV secolo e i primi anni del V si colloca la prima generazione di regole latine. Più precisamente, si tratta in un caso di due testi originali, composti uno, l'Ordo monasterii, intorno al 395 nella cerchia di Sant'Agostino (forse dall'amico Alipio per i monaci di Tagaste), l'altro, il Praeceptum, dallo stesso
Agostino, verso il 397, per il monastero di Ippona, e dalla tradizione trasmessi insieme come "Regula Augustini"; in altri due casi si tratta, invece, di versioni di un testo greco, la Regola di Basilio, e di uno copto, la Regola di Pacomio. La prima fu tradotta da Rufino, che nel 397, su richiesta dell'abate del monastero di Pinete, vicino a Roma, volse in latino una redazione della quale non c'è rimasto l'originale greco, più breve rispetto all'altra, conservataci in greco. La seconda è costituita da quattro gruppi di precetti monastici dettati dal grande fondatore del cenobitismo egiziano, che Girolamo tradusse in latino, nel 404, da una precedente traduzione greca, assieme ad alcune lettere dello stesso Pacomio e del suo primo successore, Teodoro, e assieme al testamento spirituale di Orsiesi, successore di Teodoro.
Direttamente o per il tramite di testi intermedi, queste regole della prima generazione influenzarono le successive, con un fitto intrecciarsi di rapporti, che oggi, grazie soprattutto alle indagini di dom Adalbert de Vogüé, riusciamo a ricostruire abbastanza compiutamente. Tracce delle regole di Agostino e di Pacomio si rinvengono largamente sia nell'area gallo-iberica che in quella italiana e nel monachesimo iro-franco di Colombano; la Regola di Basilio sembra essere stata più presente nelle regole italiane, meno in quelle iberiche e provenzali.
Una seconda fioritura di grandi regole si ebbe a circa un secolo e mezzo dalle prime. Tra le due generazioni stanno - ma ne parleremo partitamente in seguito - le cosiddette Regole dei Santi Padri. I centri creativi di questa seconda stagione legislativa furono la Gallia meridionale e l'Italia centro-meridionale.
In Gallia, lungo la prima metà del VI secolo, svolse un'opera costante di sostegno e di regolamentazione della prassi monastica Cesario, prima monaco a Lérins e poi vescovo di Arse. Il testo più importante è la "Regula ad virgines", la prima regola femminile dell'Occidente, che Cesario compilò per il monastero di san Giovanni in Arles, retto dalla sorella Cesaria, ma che trascese subito l'ambito locale ed esercitò duratura influenza sul monachesimo sia provenzale che italiano, e non solamente femminile. Cesario vi si dedicò a più riprese, tra il 511 e il 534, e vi trasferì, con le opportune correzioni, le norme dell'ascesi e della vita comunitaria maschile, mettendo a profitto non solo i testi monastici più illustri, da Pacomio a Cassiano, ma anche l'esperienza personale, maturata negli anni del soggiorno monastico a Lérins e nella pratica pastorale. Successivamente (e non prima, come si è creduto a lungo), tra il 534 e il 541, Cesario stilò una "Regula monachorum", che di fatto non è che un compendio della regola femminile.
In Italia, tra Roma e Cassino, nella prima metà del VI secolo, a distanza di qualche decennio l'una dall'altra, vedono la luce le due maggiori regole dell'Occidente, quella del Maestro e quella di Benedetto. La questione dei loro rapporti ha dato origine negli ultimi cinquant'anni a una controversia serratissima e feconda di proposte storiografiche rinnovatrici. Oggi è largamente prevalente l'opinione che ammette la priorità e riconosce il valore e l'originalità dell'anonima "Regula Magistri", la più ampia delle Regole latine e la più sistematica. Anche di questi due testi tratteremo a parte.
Un nutrito gruppo di regole - più della metà di quelle che complessivamente ci sono rimaste - furono redatte nell'età successiva, tra la metà del VI secolo e gli ultimi decenni del VII. Sono scritti di modeste dimensioni e quasi sempre di scarsa originalità, che non superarono se non raramente i confini del monastero per il quale furono composti o, al più, i limiti regionali. Unica personalità di statura europea fu Colombano (+ 615), il fondatore di Luxeuil e di Bobbio, al quale, tuttavia, si devono regole di carattere limitato: una "Regula monachorum", contenente una serie di precetti spirituali e una descrizione dell'ufficio liturgico, e una "Regula coenobialis", che è sostanzialmente un codice disciplinare con norme punitive di tipo irlandese, comprendenti anche le percosse. Gli altri legislatori furono vescovi o abati galli, iberici, italici; alcuni testi sono anonimi e talvolta solo il confronto con altre regole meglio note ne lascia sospettare il luogo di provenienza.
Mentre leggiamo le Storie, vediamo Erodoto, animato da una curiosità insaziabile verso la totalità dell'esistenza, entrare nei templi e "osservare, conversare, porre domande, ascoltare, riflettere, paragonare, sollevare problemi, ragionare, talvolta concludere". Egli considera con attenzione e rispetto tutto ciò che fa l'uomo - tutte le nostre imprese gli sembrano degne di interesse o memorabili. E, insieme, sparge un'onnipresente ironia sugli orgogli, le vanità, le pretese, le follie, la hybris dell'uomo.
Prima o dopo di lui, nessuno ha mai saputo orchestrare così perfettamente una storia totale: i fatti politici, economici, militari, i costumi, le leggende, le favole, il folclore, la geografia, i monumenti si equilibrano in quest'opera che respira l'immensità e la libertà degli spazi aperti.
Con il quinto libro delle Storie, tradotto e commentato da uno dei più noti studiosi europei di Erodoto, entriamo in un nuovo mondo, rispetto ai primi quattro libri. Non ci sono più i grandi spazi asiatici e nordafricani, che ci avevano condotto sino ai confini della terra conosciuta, e ci avevano dato la vertigine dell'infinito. Il nostro spazio è la piccola Grecia, sia asiatica che europea. La storia unitaria di tutta la Persia si frantuma in molteplici storie locali di città greche (sullo sfondo, Atene e Sparta), le quali però si richiamano e riecheggiano a vicenda, come parti di una storia non meno universale di quella persiana. Come sempre, il racconto è impareggiabile per freschezza, intelligenza, ironia. Erodoto cerca le minime cause degli eventi; studia le doppie motivazioni; e spiega il contrasto tra la concezione greca e quella persiana della geografia. Egli mostra come gli uomini architettino grandi progetti, che credono di poter realizzare; mentre poi giunge il caso, che si diverte a scompigliare tutti i progetti umani. Mai Erodoto è stato meno nazionalista che in questo libro. La rivolta ionica, che faceva ormai parte dei miti eroici della Grecia, viene rappresentata come un'avventura inutile e sciagurata, nata dall'eccesso di benessere e dalle oscure ambizioni di qualche dubbio personaggio.
Indice - Sommario
Introduzione ai Libri V-IX
Bibliografia
Abbreviazioni bibliografiche
Introduzione al Libro V
Sommario del Libro V
Tavola cronologica
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Nota al testo del Libro V
Il Libro V delle Storie
Scolî
LEXEIS
COMMENTO
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduione ai libri V-IX, di Giuseppe Nenci
E opinione diffusa che le Storie si possano idealmente suddividere nelle due parti corrispondenti agli attuali libri I-IV e VI-IX, fra le quali farebbe da cerniera il libro V.
Alla base di questa convinzione troviamo però motivazioni divergenti: una cosa è infatti sostenere che la diversità derivi da un rimaneggiamento profondo dei primi libri in funzione della storia delle guerre persiane; un'altra cosa è ritenere che la materia degli ultimi libri esigeva una trattazione diversa. Per i fautori della cosiddetta teoria dei logoi, che risale allo Schoell e fu teorizzata dal Bauer nel 1878, le varie parti dell'opera sarebbero state composte separatamente, ubbidendo ogni logos allo stesso schema, dopo di che Erodoto avrebbe più o meno abilmente legato fra loro i vari nuclei tematici: di qui la disorganicità dell'opera, le sproporzioni fra le diverse parti, le digressioni. Ripresa dal Jacoby nel 1915, che ripete le tesi dei logoi scritti per essere resi noti separatamente e rimaneggiati poi in uno scritto unitario per lumeggiare la storia delle guerre persiane, la teoria ha infine trovato nel De Sanctis lo storico che l'ha portata alla sua più coerente teorizzazione. Per il De Sanctis, avendo Erodoto davanti a sé modelli quali gli Annali (come quelli di Carone di Lampsaco), le Periegesi e le Genealogie (come quelle di Ecateo) o monografie sui barbari (i Persikà di Carene di Lampsaco o i Lydiakà di Xanto di Lidia), non avrebbe potuto fare un'opera assolutamente nuova. Per questa ragione Erodoto avrebbe scritto a sua volta alcuni logoi (sui Lidi, gli Egizi, gli Sciti e i Libi) e poi avrebbe pensato di inquadrarli in una storia della Persia, che facesse da cornice, trattandosi di popoli tutti combattuti o incorporati dai Persiani. Una simile narrazione avrebbe poi comportato anche la storia della "grande guerra" fra Grecia e Persia, e specialmente quella di Serse. Sempre secondo il De Sanctis, avvicinandosi alla storia della grande guerra, Erodoto avrebbe sentito crescere l'interesse del pubblico, comprendendo la grandezza della materia che aveva la possibilità di trattare e dando alla sua opera la forma attuale. Di qui lo spostamento dell'interesse dall'etnografia alla storia: di qui la preponderanza della narrazione della guerra fra Grecia e Persia tale da mutare radicalmente il piano della sua opera.
La teoria dei logoi, che è stata il Leitmotiv della critica erodotea dal secolo scorso fino agli anni trenta del Novecento', porta perciò con sé la considerazione che i libri V-IX siano una sorta di coda che avrebbe finito col trasformare geneticamente il resto. Per chi viceversa ritenga che la struttura dell'opera non sia tale da giustificare la teoria dei logoi, che ha alla sua radice una visione formalistica della struttura di un'opera letteraria e fu influenzata dal parallelo dibattito sui poemi omerici fra analisti e unitari, i libri V-IX non si differenziano affatto dai precedenti, salvo che per ragioni legate al loro contenuto. Come è stato osservato, nella seconda parte delle Storie Erodoto non poteva più usare la sua percezione materiale di viaggiatore, ma soltanto paragonare le fonti: in questo senso, "la narrazione della guerra è perciò più derivativa e di conseguenza in un certo senso inferiore"2.
Per questo motivo il nesso unitario fra la prima e la seconda parte delle Storie, più volte richiamato da Erodoto, va visto nella storia dell'espansionismo persiano e nella ricerca della causa del conflitto fra Greci e Persiani. E un nesso esplicitamente dichiarato nella nota premessa delle Storie, che giustifica nello stesso tempo l'interesse per tutto ciò che (in quanto umano e grande) diviene degno di ammirazione, nonché la genesi del conflitto greco-persiano. L'umanità diventa con Erodoto soggetto e oggetto della storia, lasciati al loro destino gli dei delle Teogonie: questo è il laico messaggio di Erodoto; nelle Storie la divinità sovrasta come sempre gli uomini, ma non interviene più direttamente, come nell'immaginazione omerica.
La diversità fra i libri I-IV (in cui prevale la storia degli ethne) e V-IX (caratterizzati da storie di poleis) è se mai da cogliere nel diverso modo, più serrato, di trattare gli eventi, nel venire meno della necessità di pagine etnografico-scientifiche (non era necessaria una etnografia greca), e nella scoperta del concetto unificatore di Hellenikòn, che Erodoto individua nell'unità di sangue, di lingua, di religione, di costumi e istituzioni simili fra Greci, e non nell'abitare una terra chiamata Hellàs. Inoltre, nei libri V-IX, se si eccettua la voluta inserzione della storia arcaica di Sparta e di Atene, le digressioni si fanno più rare sia ratione materiae, sia per l'esigenza di collegare più strettamente fra loro eventi ben connessi anche cronologicamente - cosi la rivolta ionica e le due spedizioni persiane in Grecia -, mentre il loro spazio viene in qualche modo riempito da discorsi ora più frequenti come fra protagonisti più ravvicinati.
In sostanza, è più agevole cogliere ciò che accomuna fra loro le due parti delle Storie, se tali vogliamo che siano, che non ciò che le distingue. E cosi le accomuna l'identica cura nell'affrontare i problemi, la stessa tensione morale, la stessa visione della vita e del mondo: un mondo in cui l'etica delfica della moderazione e i primi spunti di uno spirito laico convivono in Erodoto, sempre presente col suo io narrante, se è vero che "leggerlo è come sentirlo parlare", perché di fatto egli scrive come parla. Il vero nesso unitario dell'opera erodotea sta nel fatto che la sua storia è funzione della sua storiografia, ovvero del modo in cui Erodoto concepiva il mestiere e il lavoro dello storico.
"L'istruzione cristiana" (titolo originale latino: De doctrina christiana) è un trattato di ermeneutica, scritto da sant'Agostino quando era appena diventato vescovo di Ippona. In termini più attuali, può essere definito un manuale in cui il grande Dottore di una Chiesa ancora giovane e inesperta insegna a interpretare la Sacra Scrittura e a spiegarla pubblicamente secondo i canoni stilistici ereditati dalla latinità classica, in sostanza dalla retorica ciceroniana. Come modello supremo, però, viene proposto san Paolo, teologo ispirato e sublime oratore. "L'istruzione cristiana" viene così a situarsi come fondamentale opera-ponte tra l'antichità, nutrita di letteratura profana, e il medioevo, permeato di cultura biblica.
I libri VII, VIII e IX delle "Confessioni", nel commento di Goulven Madec e di Luigi F. Pizzolato, accompagnano la vita di Agostino sino all'autunno del 387. All'inizio del libro VII, Agostino è ancora immerso nell'ombra. Le dottrine manichee lo influenzano profondamente. Se pensa a Dio, immagina qualcosa di corporeo, collocato nello spazio. E da dove nasce il male? E perché Dio crea il male? È un problema a cui Agostino non troverà mai, in realtà, una risposta definitiva: "Che tormento, allora, per il mio cuore in travaglio, che gemito, mio Dio! E lì c'erano le tue orecchie, anche se non lo sapevo". La liberazione è rappresentata dalla lettura dei libri Platonicorum, che gli mostrano Dio come una luce immutabile e gli insegnano che il male non è una sostanza.
Tuttavia, mille ansie e angosce lo torturano ancora: l'eros, il mestiere retorico. Vive nell'incertezza: "E tu, o Signore, fino a quando? Fino a quando, Signore, t'adirerai sino alla fine? [...] Quanto tempo ancora e ancora, domani e domani? Perché non subito?". Infine Agostino sente una voce come di fanciullo, che dalla casa vicina gli dice: "Prendi, leggi; prendi, leggi". È un passo di Paolo. In quel momento, la luce della certezza penetra nel suo cuore; e all'istante tutte le tenebre del dubbio si dissipano. La storia del periodo trascorso con gli amici a Cassiciaco, e la morte della madre Monica ad Ostia, completano il terzo volume. Insieme alla madre, Agostino conosce una rapidissima visione mistica di Dio, anticipatrice della rivelazione definitiva, che ogni cristiano avrà soltanto nella vita eterna.
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglorum
Libro VII
Libro VIII
Libro IX
COMMENTO
Abbreviazioni e sigle
Libro VII
Libro VIII
Libro IX
Nato a Gerusalemme nel 37 dopo Cristo, Flavio Giuseppe discendeva da una famiglia di grandi sacerdoti ebrei. Per qualche tempo, diresse la resistenza del suo popolo contro i romani: poi cadde prigioniero, collaborò con i nemici, predisse l'ascesa al trono di Vespasiano ; e per tutta la vita fu combattuto fra il profondo amore per il Dio di Israele, il tempio di Gerusalemme, i riti amorosamente coltivati e conservati, e la convinzione che la Provvidenza aveva ormai scelto l'immenso, maestoso e armonico impero di Roma.
La guerra giudaica, scritto prima in aramaico poi in greco, è uno dei libri più drammatici della storiografia universale. Il lettore moderno vi trova lo stesso paesaggio di città, di campagne e di deserti, dove pochi decenni prima aveva predicato Gesù Cristo : penetra nel Tempio, apprende i riti e le abitudini degli Esseni, la filosofia politica degli Zeloti, conosce lo stesso mondo che ci è stato recentemente rivelato dai manoscritti del Mar Morto. La prima parte del libro è dedicata ai delitti che funestarono la famiglia di Erode ; e l'intreccio tra la passione per il potere e gli amori e gli odi egualmente sanguinari fra parenti ricorda le tragedie storiche di Shakespeare. Ma il cuore dell'opera è la lotta del piccolo popolo ebreo, guidato dalla fazione degli Zeloti, contro le legioni di Vespasiano e di Tito. Una delle più terribili tragedie della storia di ogni tempo rivive davanti ai nostri occhi: esempi di coraggio disperato, di straordinaria astuzia guerriera e di folle fanatismo rivoluzionario : scene di battaglia, lunghissimi assedi, fame, saccheggi, prigionieri crocifissi, inermi massacrati, gli ultimi difensori che si uccidono a vicenda con le spade, fino al momento - che Flavio Giuseppe rievoca lacrimando - in cui il Tempio, simbolo della tradizione ebraica, viene avvolto dalle fiamme di un incendio inestinguibile.
Questa edizione traduce, nell'appendice a cura di Natalino Radovich, anche i frammenti dell'antica versione russa della Guerra giudaica, che mancano nel testo greco. In alcuni di questi frammenti, appare Gesù Cristo : secondo alcuni studiosi, si tratterebbe della più antica testimonianza d'ambiente ebraico intorno al Messia.
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Libro settimo
Commento
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Libro settimo
Cartine
Tavole genealogiche
Appendice
IL TESTO RUSSO ANTICO DELLA "GUERRA GIUDAICA", a cura di Natalino Radovich
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
Testi
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Libro settimo
Indice dei nomi propri di persona e di luogo
Come un grande drammaturgo, Plutarco rievoca, sullo sfondo delle "Vite di Nicia e di Crasso", i personaggi principali che in quei tempi vissero ad Atene e a Roma: Pericle, Cleone e Alcibiade, Silla, Pompeo e Cesare. Davanti ad essi, Nicia e Crasso sono personaggi minori: entrambi prudenti, amabili e moderati. Nicia tende a nascondersi, mentre alla fine Crasso viene travolto dall'avidità e dall'euforia. Ma nessuno dei due possiede l'energia, la determinazione, la forza che permettono a un uomo di interpretare il proprio tempo e di simboleggiare un periodo storico.
In queste due Vite, Plutarco rivela il dono capitale del drammaturgo: l'amore per il disastro. La follia collettiva che sconvolge Atene e la conduce alla guerra del Peloponneso, il massacro in Sicilia della spedizione guidata da Nicia, il crollo della civiltà ateniese. I segni infausti che accompagnano la spedizione romana in Oriente, il fascino e le insidie del mondo iranico, la sinistra e scurrile mascherata alla corte dei Parti, dove un doppio in vesti femminili impersona Crasso, compaiono le cortigiane, vengono recitate le "Baccanti" di Euripide, mentre la testa del generale romano viene gettata nella sala del banchetto...
Leggendo le due Vite qualcuno si chiederà cosa Tucidide e Shakespeare avrebbero pensato di pagine così straordinarie, capaci di rivaleggiare con la grandiosa obiettività dell'uno e la fantasia visionaria dell'altro.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Nicia
La vita di Crasso
Confronto fra Nicia e Grasso
Scolî
COMMENTO
La vita di Nicia
La vita di Crasso
Confronto fra Nicia e Crasso
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
1. La "Vita di Nicia". In questa biografia è a prima vista percepibile un tratto che la distingue, insieme con poche altre, nel corpus cui appartiene: la ricostruzione della personalità del protagonista non ha le evidenti contraddizioni che, per esempio, si riscontrano nella "Vita di Cìmone". Al primo capitolo, dedicato alla rassegna dei principi metodologici, segue la descrizione del carattere del protagonista, che fluisce ininterrottamente, sotto forma di notazioni quasi mai marginali, anche in quella parte della Vita dedicata al racconto delle sue gesta. In via preliminare va detto che il ritratto di Nicia risulta nient'affatto elogiativo, perché il suo comportamento appare sempre permeato di viltà, di cautela che sconfina nel timore e di superstizione. Plutarco sostiene che Nicia era per natura privo di coraggio e pessimista; in guerra la sua pusillanimità veniva dissimulata dalla fortuna che gli fu propizia in quasi tutte le campagne militari. Nel 425, con un comportamento simile a quello che Dante avrebbe attribuito a Celestino V, Nicia "fece per viltade il gran rifiuto", cedendo all'avversario Cleone il comando dell'impresa di Pilo. E ciò - commenta Plutarco - apparve una vergognosa manifestazione di debolezza, più grave ancora che gettare lo scudo o la clamide in battaglia.
Nicia era costantemente in preda alla paura: per timore dei delatori non pranzava con alcuno dei concittadini, non osava conversare con nessuno, non trascorreva mai le giornate in compagnia di altri; se non aveva affari pubblici da sbrigare, era assai difficile avvicinarlo, perché se ne stava chiuso e rintanato in casa. Non attribuiva mai i suoi successi a prudenza, ad abilità o a virtù personali, bensì alla sorte, e si trincerava dietro l'intervento divino per timore dell'invidia suscitata inevitabilmente dalla fama. Nel 415, non essendo riuscito a dissuadere gli Ateniesi dall'intraprendere la spedizione in Sicilia e posto contro il suo volere a capo dell'armata, Nicia mostrò un'esitazione e un timore sconfinati. Come un fanciullo - nota Plutarco - si volgeva a guardare indietro dall'alto della nave, rimuginando sull'insuccesso dei discorsi da lui pronunziati per evitare la guerra e finendo così con lo scoraggiare i colleghi e spegnere l'ardore dell'impresa. Non c'è da stupirsi che il suo modo di agire offrisse il destro al nemico Ermocrate di esclamare che Nicia era uno stratego veramente ridicolo, in quanto rivolgeva tutti gli sforzi a evitare di combattere, quasi non fosse venuto in Sicilia per questo scopo. Infatti, a furia di calcoli, esitazioni e cautele, finiva con lo sciupare sempre le occasioni propizie. Era facile allo sconforto: battuto dai Siracusani guidati da Gilippo, si lasciò prendere dallo scoraggiamento. Scrisse agli Ateniesi d'inviare in Sicilia un'altra armata oppure di ritirare quella che già c'era; in ogni modo li pregava di esonerarlo dal comando a causa delle cattive condizioni di salute: soffriva terribilmente di "nefrite".
Sulle orme di Tucidide, Plutarco iscrive Nicia nella schiera di quanti temono fortemente gli dèi e sono perciò troppo inclini alle pratiche divinatorie. Quando il 27 agosto 413 si verificò un'eclissi totale di luna proprio mentre gli Ateniesi erano in procinto di lasciare la Sicilia, egli, per ignoranza o superstizione atterrito da quel fenomeno, convinse i suoi uomini a restare per la durata di un'altra lunazione. Così, trascorrendo le giornate a fare sacrifici e a consultare oracoli, rinunziò a una fuga ancora possibile, condannando sé stesso e l'esercito tutto a una sicura sconfitta. E, con una punta di cinismo, Plutarco sostiene altrove che Nicia avrebbe fatto meglio a togliersi la vita, anziché lasciarsi accerchiare per timore dell'ombra prodotta da un'eclissi lunare.
Dotato di straordinari beni di fortuna, non era alieno dal ricorrere alla corruzione: nel 421, conclusa la pace fra Atene e Sparta, con una somma di denaro comprò segretamente il risultato del sorteggio, sicché toccò ai Lacedemoni restituire per primi territori, città conquistate e prigionieri. Ciò che maggiormente viene sottolineato nel corso della Vita è la debolezza di carattere di Nicia: per non combattere contro gli Spartani, consegnò all'inesperienza di Cleone navi, soldati, armi e un comando militare che richiedeva il massimo della competenza, compromettendo non solo il proprio prestigio, ma anche la sicurezza della patria. Infine, nonostante le commoventi parole poste sulla sua bocca, Plutarco sottolinea che, a differenza di Crasso, Nicia si diede in balia dei nemici con il miraggio di una possibile salvezza, procurandosi invece la più ingloriosa delle morti. E quasi a commento, Pausania riferisce che lo stratego ateniese non ebbe il nome inciso sulla stele dei caduti per essersi arreso. Come già Aristofane, Plutarco biasima l'abituale tendenza di Nicia a temporeggiare; ne disapprova la viltà e la debolezza; ne riprova la politica e denunzia il fatto che egli, privo delle qualità di Pericle e della ciarlataneria con cui Cleone compiaceva e insieme controllava il demo, era costretto a cattivarselo per mezzo di spettacoli teatrali, ginnici e altre munificenze.
Qua e là Plutarco è indotto a riconoscere che a Nicia non mancavano doti e qualità, ma lo fa sempre con riserva. Se ne apprezza la moderazione, l'umanità, l'esperienza e l'abilità; se lo presenta come un individuo onesto e saggio che non si lasciò esaltare da speranze nè insuperbire dall'importanza del comando; se ne loda l'astuzia dei piani militari e l'abilità come stratego; se ne ammira l'energia, l'efficacia e la rapidità di movimenti;
Il secondo volume delle "Confessioni" comprende i libri quarto, quinto e sesto, commentati da Luigi E Pizzolato, Patrice Cambronne e Paolo Siniscalco. Composti a onde che si avanzano e si ritirano, secondo un fitto intreccio di motivi sinfonici, questi libri sono da un lato ritmati dal passo inesorabile e vano del tempo ("le cose che vanno dove vanno sempre, per non essere, per non essere più") e, dall'altro, dal passo di Dio che, "per vie nascoste e meravigliose", si insinua nel cuore di Agostino e di ogni uomo. Quando il libro quarto inizia, Agostino possiede una religione e una cultura: crede nel manicheismo, nell'astrologia, nella retorica; e vive come vivono tutti, accanto a una donna e a un figlio. Ma tutto precipita. Presto non crede più nella "massa tetra e informe" del Male, opposta alla quiete imperturbabile di Dio; nell'astrologia ne alle parole di Cicerone e di Aristotele. Intanto ha conosciuto lo slancio entusiastico dell'amicizia, la coscienza di essere due in uno, la morte dell'amico, il dolore straziante della separazione definitiva, il gusto e l'amore delle lacrime. "Tutto mi faceva orrore, persino la luce, e qualsiasi cosa non fosse lui m'era insostenibile e fastidiosa, eccetto il gemito e il pianto. " E su questo terribile strazio grava, nel testo delle "Confessioni", il senso della vanità di tutte le passioni terrene. Alla fine del libro sesto, Agostino ha lasciato l'Africa ed è a Milano. Ascolta e intravede Ambrogio e la sua lettura silenziosa. Ormai è sulla soglia. Attraverso Ambrogio, incomincia a capire le Scritture e la sostanza spirituale. Il Dio "altissimo e vicinissimo, segretissimo e presentissimo" sta per rivelarglisi.
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglorum
Libro IV
Libro V
Libro VI
COMMENTO
Abbreviazioni e sigle
Libro IV
Libro V
Libro VI
Se alla fine del ventesimo secolo esiste un pensiero religioso-filosofico vivo, è certamente quello di tradizione gnostica. Da Kafka a Jung, da Heidegger alla Weil, da Pessoa alla Cvetaeva a Cioran, la letteratura e la psicologia moderne sono state profondamente plasmate dai grandi temi gnostici. La formicolante moltitudine degli dèi; l'idea della luce divina caduta nella materia, da cui cerca di liberarsi; il mondo materiale come carcere; l'ineffabilità come legge segreta dello spirito; l'esilio di ogni uomo; il mito dell'uomo-donna; la rappresentazione mitologica del pensiero e dei sentimenti - non c'è quasi nessun tema gnostico che non risvegli un'eco profonda in un cuore di oggi. Come dice il "Vangelo di Filippo": "La verità non è venuta nuda nel mondo, ma è venuta in simboli ed immagini".
La scoperta dei testi gnostici copti di Nag Hammadi ha fatto dimenticare che i frammenti gnostici conservati, in lingua greca e latina, dai polemisti cristiani sono spesso molto più ricchi e complessi. Nel volume che presentiamo, tutti questi frammenti sono raccolti da Manlio Simonetti e accompagnati da un commento di ammirevole precisione e chiarezza. È la prima volta che testi accecanti per ardore intellettuale e forza di immaginazione vengono messi alla portata di qualsiasi lettore. Tutti comprenderanno che l'apparentemente complicatissima mitologia gnostica continua a parlare di ciascuno di noi. Che cos'è la gnosi? Un'eresia cristiana? O una religione autonoma, di carattere sincretistico, con apporti orientali, greci, ebraici e cristiani? Esiste una gnosi precristiana? A queste domande storico-culturali, da cui dipende il nostro posto nel mondo, il libro curato da Simonetti risponde secondo un'ottica nuova, la quale tiene conto di tutta l'immensa ricerca degli ultimi tempi.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
TESTI E TRADUZIONI
- Parte Prima - Simon Mago e la sua scuola
- Parte Seconda - Ofiti e Sethiani
- Parte Terza - Basilide e i Basilidiani
- Parte Quarta - Carpocrate e suo figlio Epifane
- Parte Quinta - Valentino e la sua scuola
COMMENTO
INDICI
- Indice dei passi biblici e di altri autori
- Indice dei nomi e di alcune cose notevoli
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Esperienza e dottrina dello gnostico
Nell'antichità non si ebbero dubbi sull'appartenenza dello gnosticismo al novero delle eresie che pullularono dal II secolo in poi nella Chiesa cattolica compromettendone in vario modo unità e stabilità. Di esso si misero in luce soprattutto gli stretti legami con la filosofia greca e la pretesa di rappresentare una rivelazione divina (gnosi) riservata a pochi eletti, moralmente e intellettualmente preparati, in contrapposizione alla fede comune della gran massa dei cristiani. Tale fede aveva il suo fondamento nella predicazione pubblica di Gesù continuata dall'opera missionaria degli apostoli: invece la rivelazione gnostica traeva origine da una sorta di insegnamento segreto riservato da Gesù solo a pochi dei suoi discepoli e impartito durante il suo soggiorno in terra fra la resurrezione e l'ascensione, che gli gnostici volentieri consideravano ben più esteso dei quaranta giorni fissati dalla tradizione. Tale insegnamento segreto era stato tramandato per occulta via parallelamente a quello ufficiale della Chiesa, a beneficio di pochi eletti.
In tal modo lo gnosticismo si configurava come rivelazione di tipo superiore e più approfondita rispetto alla tradizione comune della Chiesa: di qui la suggestione che esso esercitò, nei suoi aspetti più intellettualmente impegnati (Basilide, Valentino), sui ceti colti della società cristiana, che più avvertivano l'ambizione e l'esigenza di un approfondimento del dato elementare di fede. Per tal motivo, nel II e III secolo lo gnosticismo rappresentò per la Chiesa il massimo pericolo, maggiore ancora di quello rappresentato dal marcionismo e dal montanismo, anche se non riuscì a darsi la salda organizzazione unitaria del primo né alimentò l'entusiasmo delle folle al pari del secondo. Ma la pronta reazione della Chiesa sul piano sia disciplinare sia organizzativo sia dottrinale fu tale che già alla metà del III secolo lo gnosticismo era ovunque in fase decrescente, anche se sporadicamente continuò a sopravvivere nel IV e anche nel V secolo. I resti delle varie sette gnostiche per lo più confluirono, a partire dal IV secolo, nel manicheismo, che presentava notevoli punti di contatto con l'esperienza e la dottrina gnostica, esasperandone gli aspetti più significativi.
Abbiamo accennato alla mancanza di unità del movimento gnostico; in effetti esso prese consistenza in numerose sette, spesso notevolmente diverse fra loro sul piano sia dell'organizzazione e del culto sia della dottrina, con un'articolazione a diversi livelli per cui si passava da sette di tono e carattere popolari, largamente aperte alle suggestioni magiche e poco esigenti sul piano dell'impegno intellettuale, a sette molto più aperte in questo senso e tali da alimentare un'approfondita riflessione dottrinale e una sincera esperienza mistica. Date tali differenze fra le varie sette gnostiche anche sotto l'aspetto dottrinale, basterà qui solo un rapido cenno sullo sfondo comune un po' a tutte.
Alla base dell'esperienza di ogni gnostico, che si sente alienato nel mondo materiale che lo circonda e lo condiziona, e sostanzialmente estraneo a esso, c'è la convinzione di essere depositario di una rivelazione divina destinata a pochi eletti. Questa rivelazione riguarda la sua più autentica natura, consistente in un germe, una particella di sostanza divina, degradata e caduta nel mondo, prigioniera del corpo materiale da cui anela a liberarsi per tornare al mondo divino da cui ha tratto origine. Ma la redenzione è possibile soltanto grazie all'opera di un Redentore divino, che o scende in persona dal cielo sotto apparenza umana o fa sentire in altro modo la sua presenza, per tramite di un uomo (Gesù) particolarmente meritevole di diventare strumento dell'opera divina di redenzione. Tale opera affranca l'uomo depositario del germe divino dalla schiavitù in cui era tenuto nel mondo materiale: questo infatti aveva tratto origine dall'errore o dal peccato di un essere divino, per lo più di genere femminile (Sophia), ed era stato plasmato da un Dio inferiore, il Demiurgo, identificato col Dio creatore del Vecchio Testamento. Il completo graduale recupero del seme divino degradato e imprigionato nel mondo materiale renderà superflua l'esistenza di questo, che perciò è destinato ad avere fine.
Da tale complesso di dottrina scaturiscono due fondamentali prese di coscienza da parte dello gnostico: I) concezione completamente negativa del mondo materiale, visto come prigione e sepolcro temporaneo del germe divino caduto dal ciclo e immerso in un letargo mortale da cui solo la rivelazione divina (gnosi) lo libera, dando coscienza all'uomo, in cui tale germe è racchiuso, della sua vera origine e del suo destino. Da questa concezione consegue l'opposizione fra il Dio supremo, Padre del Redentore divino che opera il recupero del seme divino, e il Dio inferiore, creatore del mondo, identificato col Dio del popolo ebraico, creatore del cielo e della terra. 2.) La redenzione ha per oggetto soltanto la parte divina dell'uomo, lo spirito (e in alcuni sistemi gnostici anche l'anima, vista come elemento divino di secondo ordine), non il corpo materiale, che perciò è destinato alla dissoluzione finale e non partecipa alla resurrezione e al ritorno dello spirito nel mondo divino (Pleroma, Eone). Quanto alla presenza dell'elemento divino nell'uomo, non c'è completo accordo fra i vari sistemi gnostici: ma è prevalente la convinzione che solo pochi privilegiati (gnostici) abbiano in sé il seme divino, lo spirito, infallibilmente destinato alla presa di coscienza del suo vero essere e perciò alla redenzione e al ritorno nel mondo divino d'origine. Altri uomini albergano soltanto l'elemento divino di secondo ordine (l'anima, sì che tali uomini sono detti psichici), e sono destinati a redenzione e recupero a livello inferiore rispetto agli spirituali.
Molte ipotesi sono state fatte sul culto dei martiri nella Chiesa cristiana primitiva, e sugli "Atti e Passioni", raccolti in questo volume. Sappiamo con certezza che questi acta martyrum presuppongono un'opera di redazione, che poggiava sia sulla consultazione degli archivi sia su quella dei testimoni oculari. Quando il redattore greco o latino - spesso uno scrittore di grandi qualità letterarie - aveva ultimato il proprio lavoro, il documento era riconosciuto come ufficiale dalla Chiesa e depositato nei suoi archivi. Lo si impiegava nella celebrazione dell'anniversario, sul luogo stesso del martirio. Oggi riconosciamo in questi "Atti e Passioni dei Martiri" alcuni dei grandi testi, in cui l'antichità - sia pagana che cristiana, persecutori e vittime - ci parla con voce più diretta e commovente. La passione del martire è una continuazione della passione di Cristo: Dio è sempre presente nella storia, e " mantiene le sue promesse in ogni tempo, come testimonianza per i non credenti, come grazia per i credenti ". Gli Atti e le Passioni sono elaborate opere letterarie, dove gli orrori e le crudeltà e gli strazi di gusto elisabettiano, le visioni oniriche che anticipano il martirio, la fedeltà, la fiducia, le estasi e il fanatismo dei credenti, la strana tolleranza dei persecutori, un grandioso senso teatrale e spettacolare, radiosi anticipi celesti si fondono in forme sovente perfette. Questo volume, curato da un gruppo di studiosi olandesi allievi di Christine Mohrmann, raccoglie tutti i testi più significativi: il "Martirio di san Policarpo", il "Martirio dei santi Carpo, Papilo e Agatonice", il "Martirio di san Giustino", gli "Atti dei Martiri di Lione", gli "Atti dei Martiri di Scili", la "Passione di Perpetua e Felicita", il Martirio di san Pionio, gli "Atti di Cipriano", gli "Atti di Massimiliano", gli "Atti di Filea", il "Testamento dei quaranta Martiri", la "Passione di Agnese".
Indice - Sommario
Introduzione
Bibliografia generale
TESTI E TRADUZIONI
- Martyrium Polycarpi
- Martyrium Carpi, Papyli et Agathonicae
- Acta Iustini
- Martyrium Lugdunensium
- Acta Martyrum Scilitanorum
- Passio Perpetuae et Felicitatis
- Martyrium Pionii
- Acta Cypriani
- Acta Maximiliani
- Acta Phileae
- Testamentum XL Martyrum
- Peristephanon Hymnus XIV - Passio Agnetis
COMMENTO
- Martyrium Polycarpi
- Martyrium Carpi, Papyli et Agathonicae
- Acta Iustini
- Martyrium Lugdunensium
- Acta Martyrum Scilitanorum
- Passio Perpetuae et Felicitatis
- Martyrium Pionii
- Acta Cypriani
- Acta Maximiliani
- Acta Phileae
- Testamentum XL Martyrum
- Peristephanon Hymnus XIV - Passio Agnetis
Indice dei passi della Sacra Scrittura
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
1. Questioni di terminologia
L'antichità cristiana ci ha trasmesso una serie di scritti di carattere assai particolare, comunemente denominati acta martyrum: gli atti dei martiri. Si tratta di resoconti di processi e di esecuzioni, inflitti a uno o più cristiani in ragione della loro fede in Cristo. Il termine acta, qui, non va inteso nel senso tecnico di procedimento verbale di una sessione giudiziaria, che condanna i cristiani. In nessun caso si tratta di un documento ufficiale proveniente dalla magistratura imperiale: tutt'al più, di uno scritto nel quale tale documento è stato utilizzato. Ma, poiché negli scritti in questione uno degli elementi importanti è il processo, il confronto col giudice terreno, davanti al quale il confessore pronuncia la sua testimonianza, il termine acta non è del tutto improprio. Del resto, fuori del gergo burocratico il termine latino acta sta anche a designare azioni coraggiose, gesta, e di qui può applicarsi senza difficoltà al comportamento eroico del martire, che sopporta azione giudiziaria, torture e morte in nome della sua fede. Quindi l'espressione acta martyrum, purché non la si prenda in un'accezione strettamente burocratica, ma in senso lato, a comprendere tutta la serie di afflizioni che il fedele di Cristo deve subire nel suo confrontarsi col potere temporale, è giustificabile, e non proviamo imbarazzo a utilizzarla. Si trova a volte, aggiungiamo, il termine gesta, che nella sua accezione e nel suo impiego coincide perfettamente con acta.
Esiste anche, per designare gli scritti relativi al martirio, il termine passiones, in uso fin dal principio della latinità cristiana nell'accezione di "passioni dei martiri"': lo si trova ad esempio in un canone del concilio d'Ippona del 393, il quale stabilisce che a fianco delle scritture canoniche si debbono anche leggere in chiesa le passiones martyrum. E evidente che in questo termine è sottolineata, da una parte, l'idea di sofferenza, e che, d'altra parte, è messo in evidenza il carattere narrativo: si tratta di una narrazione di lotte e di dolori, culminanti nella morte. La distinzione rispetto ad acta non è, a rigore di termini, che una distinzione di punto di vista. Ma l'impiego del termine passio s'impone là dove l'elemento narrativo è preponderante, come in quello scritto che, parzialmente redatto dalla sua propria mano, riferisce gli avvenimenti ai quali partecipava Perpetua durante i giorni di prigionia. Tuttavia, come si è detto, la parola acta come termine generico è da raccomandarsi, e ce ne serviremo regolarmente nelle pagine che seguono.
2. Influssi pagani all'origine degli acta martyrum?
Che cosa ha portato i cristiani a comporre gli acta dei loro martiri? La domanda ha suscitato risposte svariate, ciascuna delle quali merita la nostra attenzione. La prima di esse vi scorge forti connessioni pagane e affonda le sue radici nella pregiudiziale sin-cretistica che, all'inizio di questo secolo, permeava gli studi sulle origini del cristianesimo. Si dava grande importanza ai frammenti di papiro, scoperti in Egitto, che trattavano di processi e di morti subiti da alessandrini per mano delle autorità romane. I frammenti riflettevano il conflitto che non cessava di turbare i rapporti tra alessandrini e romani, poiché Alessandria, città ellenica per eccellenza e centro di cultura, non poteva che rassegnarsi difficilmente alla preponderanza politica dei latini, gente ai suoi occhi sprovvista di cultura. Durante i primi due secoli della nostra era questo conflitto si accendeva ad ogni istante; veniva complicato, a volte, da tratti di antisemitismo, fenomeno endemico ad Alessandria, che ospitava un gran numero di ebrei. Vi furono sommosse, processi a Roma, chiamate di testimonianza dinanzi agli imperatori, recriminazioni nei loro confronti, accuse di lesa maestà e, spesso, vi fu la pena capitale. I nostri papiri presentano gli alessandrini nel loro conflitto con lo stato romano quali protagonisti della cultura ellenica, difensori dei valori della patria, veri martiri, morti d'una morte gloriosa. Per stabilire la parentela con gli atti dei martiri cristiani, l'erudizione moderna si basava sull'aspetto giudiziario: i dibattiti fra giudici e accusati erano messi in luce, e si inventò il termine di acta martyrum paganorum, atti dei martiri pagani. Si cercava anche di stabilire rapporti fra questi acta e gli exitus virorum illustrium, le descrizioni della fine di personaggi eminenti vittime di imperatori tirannici, che, a quanto dice Plinio il Giovane, erano di mano di letterati del suo tempo. E sotto l'influsso delle tendenze sincretistiche del principio del secolo si pervenne alla tesi che gli acta martyrum christìanorum erano scritti di mano cristiana, imparentati a questi exitus virorum illustrium e, soprattutto, modellati su questi acta martyrum paganorum.
La tesi è insostenibile, poiché i punti di contatto che collegherebbero gli acta dei martiri pagani a quelli dei martiri cristiani fanno difetto. Indubbiamente, l'ammirazione dinanzi alla morte eroica di pagani non mancava da parte cristiana. Cosi, Clemente d'Alessandria e Tertulliano presentano, quale esempio per i loro correligionari, patrioti come Muzio Scevola e Attilio Regolo, filosofi intrepidi come Eraclito di Efeso, Socrate e Zenone d'Elea, donne coraggiose come Didone e Lucrezia. Ma non vi è alcuna menzione, nemmeno in Clemente, loro compatriota e, parzialmente, loro contemporaneo, né dei "martiri" alessandrini ne delle loro testimonianze davanti alle autorità, che dovrebbero essere i modelli delle testimonianze cristiane. Sembra proprio che la storia dei nostri alessandrini fosse troppo oscura per attirare l'attenzione cristiana. E non è immaginabile che ciò che era oscuro persino ad Alessandria potesse spingere i cristiani d'Asia Minore, d'Africa, di Spagna alla redazione degli atti dei loro martiri.
Dopo i primi due volumi, dedicati all'Attica, alla Corinzia e all'Argolide, la Guida della Grecia giunge al terzo volume, incentrato su Sparta. I capitoli iniziali possono deluderci. Pausania non ama la storia, e questo scorcio di storia laconica, diviso tra le due famiglie reali, sembra di un infimo compilatore. Ma, appena comincia a descrivere luoghi - un folto di querce o una spiaggia di ciottoli -, Pausania si trasforma: si rivolge al lettore, dicendo: "arriverai presso un tempio" o "vicinissimo ai sepolcri vedrai una stele" - ed ecco che una città quasi completamente scomparsa come Sparta risorge nitidamente davanti ai nostri occhi. In apparenza, Pausania è antilaconico: ma, in realtà, Sparta incarna quanto lo affascina di più: l'arcaico, il sacro, il crudele. Tutto ciò che egli racconta sulle gare violente degli efebi spartani, o sulle vecchie statue di legno, come quelle che Oreste e Ifigenia avrebbero trafugato dalla Tauride, ha un'intensità straordinaria. Tra le più belle pagine del libro c'è la minuziosa descrizione del trono di Batticle nel thesaurus di Amicle: questa vetta sperduta della scultura arcaica greca, attorno alla quale Pausania intreccia le sue storie mitiche. E il rapido scorcio su Achille, che dopo la morte sposa Elena nell'Isola Bianca: simbolo della candida e profonda venerazione che Pausania ha sempre nutrito per gli eroi.
Indice - Sommario
Nota introduttiva al Libro III
di Mario Torelli e Domenico Musti
Bibliografia
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
a cura di Domenico Musti
Sigla
Libro III: La Laconia
COMMENTO
a cura di Domenico Musti e Mario Torelli
Libro III: La Laconia
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La Laconia, argomento del III libro della "Guida della Grecia", è presentata da Pausania in tre fondamentali sezioni: l'area della Laconia vera e propria, centrata su Sparta, ma articolata in più itinerari (A-F), e l'area degli Eleuterolaconi, suddivisa per ovvie ragioni geografiche nelle due grandi penisole del Parnone e del Taigeto, che vengono entrambe visitate con propri itinerari (G-H e I). Da ciò discende la ripartizione dell'intero libro attorno ai seguenti nuclei di itinerari, la cui descrizione è preceduta dal poderoso insieme di capitoli (1-10,5) relativi alla storia della Laconia e di Sparta:
a) itinerario che reca a Sparta partendo dall'ingresso in Laconia dall'Argolide al passo delle Erme, con i siti di Carie, Sellasia e Tornace (10,6-11,1);
b) la città di Sparta (11,1-18,5);
e) itinerario per Amicle (18,6-19,6);
d) itinerario per Terapne e di lì per il Taigeto e la pianura centrale della Laconia con i siti di Terapne, Phoibaion, Fari, Brisee, Euora, Therai, Lapiteo, Dereo e Arplea (19,7-20,7);
e) itinerario per l'Arcadia, con i siti di Pellana e Belemina (20,8-21,3);
f) itinerario per Gizio, con i siti di Crocee ed Egie (21,4-5);
g) area degli Eleuterolaconi e primo itinerario della penisola del Parnone, con la parte marittima da Gizio ad Acrie, comprendente i siti di Gizio, l'isola di Cranae, il Migonion, Trinaso, Elo e Acrie e la parte montana da Acrie verso Gerontre e di li verso i siti di Palea Kome, Mario, Glippia e Selinunte (21,6-
22,8);
h) secondo itinerario, tutto costiero, della penisola del Parnone, da Acrie a Brasie, toccando i siti di Asopo, Paraciparissie, Hyperteleaton, la penisola di Onou Gnathos ("Mascella d'asino"), Boiai, Etide, Afrodisiade, Side, l'isola di Citerà, con l'omonima città e il porto di Scandea, Ninfeo, Epidelio, Epidauro Limera, Zarace, Cifanta e Brasie (22,9-24,5);
i) periplo della penisola del Taigeto, da Gizio ad Alagonia ai confini con la Messenia, toccando Las, Ipsi, Pirrico, Teutrone, il porto Achilleo, Psamatunte, il santuario di Posidone al capo Tenaro, Cenepoli, Tiride, Ippola, Messa, Etilo, Talame, Pefno, Leuttra, Cardamile, Gerenia e Alagonia (24,6-26,11).
A) Pausania riprende il cammino là dove aveva concluso il libro II, al triplice confine delle Erme, e la discesa in Laconia tocca il bosco di querce e il santuario ctonio di Zeus Skoritas, che da nome alla località, sede anche di un culto di Eracle legato al ricordo degli Ippocoontidi, mito che sta alla base del "ritorno degli Eraclidi"; prendendo poi la "terza strada sulla destra" si giunge a Carie, sito per noi di incerta identificazione, ma di notevole fama nell'antichità grazie al santuario di Artemide Karyatis e alle feste annuali con le celebri danze delle fanciulle spartane, mentre sulla via del ritorno si toccano le rovine di Sellasia, luogo della nota battaglia del 222 a.C. circa. Proseguendo il cammino verso Sparta, poco prima di toccarla, si arriva a Tornace, anche questo sito non sicuramente identificato e sede di un altro celebre santuario, quello di Apollo Pythaeus, che si lega nel culto e nella storia - soprattutto per il dono prezioso di Creso - all'ancor più noto Apollo di Amicle.
B) Giunto da Tornace a Sparta, Pausania organizza la visita della capitale della Laconia, "a forma di ruota", come afferma Polibio, con il consueto sistema che prevede prima il giro dell'agora, quindi otto ulteriori itinerari: tre partono dall'agora (l'Afetaide, l'" altra strada" e la "via verso occidente"), tre invece innervano la raggiera del tessuto urbano di Sparta (il Dromos, la "via dal Dromos a oriente" e la "via dal Chitone alle porte"), ma, a differenza dei precedenti, partono da un luogo diverso dall'agora. Il settimo itinerario infine concerne l'acropoli, mentre, partendo forse ancora una volta dall'agora e seguendo una strada ancor oggi ben individuabile che passa attraverso la porta settentrionale delle mura tardoantiche, l'ottavo percorso si dirige "verso l'Alpio", ossia verso nord-est. Ma vediamo analiticamente questi nove percorsi urbani.
1) L'agora. Pausania vede certamente un'agora interamente rifatta in epoca romana, al cui centro non a caso troneggiano i due templi di Cesare e di Augusto. Secondo la ricostruzione che se ne propone nella discussione analitica delle note al testo, l'agora va riconosciuta nel luogo dove ancor oggi è visibile la cosiddetta "stoa romana", in realtà terrazzamento monumentale atto a sostenere gli edifici pubblici, che nel testo di Pausania sembrano essere suddivisi in tre lati chiusi nel quarto dalla sostruzione: un lato (orientale?) conterrebbe tutti gli edifici politici del nuovo assetto ellenistico-romano, il bouleuterion della gerusia e gli uffici degli efori, dei nomofilaci, e dei Bidiei, un lato (settentrionale?) il "portico dei Persiani", e un lato (occidentale?) i vecchi edifici di culto e politici, il Choros e i santuari di Gea, di Zeus e Atena Agoraioi, di Posidone Asphalios, di Apollo, di Era e delle Moire; attorno a quest'ultimo santuario è riconoscibile un vero e proprio pritaneo, con un complesso di antichi luoghi sacri e pubblici - le tombe eroiche di Oreste e di Epimenide, gli "antichi uffici degli efori", i culti di Estia e di Zeus e Atena Xenioi -, assieme a statue aggiunte in età molto più tarda, il colosso del "Demos degli Spar-tiati", l'immagine del leggendario "buon re" Polidoro e la statua di Ermes Agoraios.
Questo volume e i quattro successivi sostituiscono la prima, grande edizione commentata delle "Confessioni" di Agostino. Ad essa hanno collaborato i maggiori studiosi francesi e italiani della sua opera: Jacques Fontaine, che ha scritto l'introduzione generale; Patrice Cambronne, Goulven Madec, Jean Pépin, Aimé Solignac, che hanno scritto parte dei commenti; Manlio Simonetti, che ha curato il testo, l'apparato biblico, e commentato l'ultimo libro; Gioacchino Chiarini, autore della bellissima traduzione; mentre gli altri commenti sono stati affidati a Marta Cristiani, Luigi F. Pizzolato e Paolo Siniscalco; e José Guirau ha allestito la bibliografia generale.
Se l'Occidente deve una metà del suo cuore all'Odissea, certo l'altra metà è riempita da questo libro tessuto in parti eguali di luce e di tenebra. Quale libro immenso! Lode e celebrazione di Dio; storia di una vita, di un'anima, di due culture; sublime testo filosofico e metafisico; saggio sulla memoria, sul tempo, sulla Bibbia; e tutto questo materiale disparato è disposto nelle linee di un'architettura rigorosa e complessa come le chiese che, per dodici secoli, sorsero sulla base di una testimonianza così appassionata. Petrarca adorava le "Confessioni", "questo libro gocciolante di lacrime". Come noi, ne amava la stupenda retorica: il gioco delle ripetizioni, dei ritornelli, dei parallelismi, delle opposizioni, l'inquietante stregoneria verbale, l'ansia dolcissima e drammatica delle interrogative, la mollezza a volte quasi estenuata - la quale suscitava, in lui che scriveva, e suscita in noi, che stiamo leggendo, lo stesso contagio e la stessa commozione.
Indice - Sommario
Introduzione generale
Bibliografia generale
Nota al testo
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglorum
Libro I
Libro II
Libro III
COMMENTO
Abbreviazioni e sigle
Libro I
Libro II
Libro III
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione generale
Prologo
Il lettore del nostro secolo è tanto più sconcertato dalle "Confessioni" dal momento che le apre con una simpatia nutrita di illusioni molteplici. La discendenza dell'opera, ricca e diversa, può dargli l'impressione che gli basti risalire un certo filone delle letterature moderne per accostarsi con familiarità a un antenato comune di Jean-Jacques Rousseau, Alfred de Musset e André Gide; o anche, tra molti altri, di Michel de Montaigne, Ulric Guttinguer e Marcel Proust. Da questo punto di vista, è sufficiente il solo titolo dell'opera a risvegliare nel lettore echi ingannevoli. Non dimentico del dibattito tra Voltaire e Pascal sugli Essais di Montaigne, il lettore può accingersi a misurare con curiosità se anche chi scrisse le "Confessioni" meritasse già il giudizio di Pascal sullo "sciocco progetto, che egli ebbe di dipingersi", o la rettifica sarcastica di Voltaire, che lo riteneva da parte sua un "progetto affascinante". La memoria, intrisa di biografie e di autobiografie, può anche scoprire nella figura del vescovo d'Ippona un antenato di Nathanael, ubbidiente all'ultimo precetto delle Nourritures terrestres: "creato da tè... ah! il più insostituibile degli esseri". A meno che l'evocazione dell'adolescenza di Agostino non gli lasci sperare, sulle vicissitudini del giovane africano a Cartagine, dettagli piccanti come i ricordi del giovane Rousseau sulle sue avventure veneziane. Esistono infatti Confessioni e Confessioni. Qui non troveremo ne confidenze scabrose, ne l'apologia appassionata di un uomo di lettere assetato di giustificazioni, e neppure un'autobiografia intesa nel senso che i moderni (i quali del resto lo hanno inventato) danno al termine. Le Confessioni di Agostino sono prive di compiacimenti: sono lontane sia dal "culto di sé stesso", sia da un progetto letterario gratuito. Anzi esse sono solo parzialmente "autobiografichc"; quanto basta perché un'esperienza vissuta e individuale fornisca precisa materia e precisa illustrazione a una lode pubblica di Dio che fu misericordioso nei confronti del peccatore Agostino.
Le ultime parole fanno comprendere che non si entra in queste "Confessioni" con la tranquillità con cui si affrontano le confidenze troppo umane di un memorialista o di un romanziere moderno. L'universo interiore di Agostino e le forme del suo discorso possono, a prima vista, sembrarci ugualmente sorprendenti, o addirittura estranei. Non solo per il sentimento di estraneità ispirato dal racconto di ogni esperienza mistica, nel senso che diamo ancora a questa parola pensando a Teresa d'Avita o a Giovanni della Croce. Ma l'estremismo concertato della sensibilità religiosa di Agostino e della sua espressione non ci disturba meno di quanto ci imbarazzi, in alcune pagine, l'agilità sottile della sua ragione alle prese con le contraddizioni più delicate dell'animo umano. Le risonanze filosofiche e bibliche, sapientemente accordate o contrastate, sono difficili da cogliere a prima vista per un lettore che abbia scarsa familiarità con il tardo platonismo e spesso una familiarità appena maggiore con il Nuovo e soprattutto con l'Antico Testamento. Anche se iniziato discretamente alla complessità di una simile cultura classica e cristiana, il lettore talvolta faticherà nel seguire i meandri del pensiero di Agostino: si pensi alle pagine dove, sotto il riflesso cangiante e volutamente disparato delle metafore e delle astrazioni, si tesse un linguaggio adeguato con attenzione a esprimere il proprio oggetto: in questo linguaggio le perifrasi e le riprese si seguono a stento, come in un discorso esoterico.
Non è però meno vero che, a questo proposito, noi non siamo più prevenuti, come lo erano i nostri predecessori, dall'ossessione del "genio luminoso". Di fronte a uno stile talvolta più barocco che classico, l'apertura del gusto moderno ci mette al riparo da molti pregiudizi anche recenti, scusabili in lettori del secolo scorso che non avevano ancora letto A rebours, ne conosciuto i deliri verbali della poesia dopo Rimbaud. Nonostante qualche difficoltà formale, il lettore di buona volontà non può declinare l'invito al viaggio nell'universo interiore di Agostino. Se accetta di compierlo può constatare che, a prezzo di uno sforzo minimo di attenzione, "tutto lì parla all'anima, in segreto, la sua dolce lingua natale". Anche per il lettore di oggi le Confessioni conservano fascini immediati: il calore umano, la freschezza dell'anima, le sfumature delicate e multiple di un sentimento religioso e poetico in accordo con quello del salmista, ma anche la convinzione, la passione dell'assoluto e la penetrazione metafisica, l'accanimento paziente nel comprendere le ambiguità umane, la rivendicazione incessante dei diritti della ragione e del libero arbitrio (anche di fronte a un Assoluto personale che precorre sempre le decisioni dell'uomo). Le Confessioni non smettono di testimoniare con foga quella che chiamiamo, dopo i filosofi del diciottesimo secolo, la "caccia alla felicità". Agostino si appassiona a ciò che noi chiamiamo la ricerca del senso: senso dell'esistenza umana, del male e della morte, della colpa, e dell'equilibrio perduto e ritrovato. Come noi, diffida dei sistemi, esercitando nei loro confronti una critica esigente; vive tragicamente la tentazione dello scetticismo disperato; e, anche quando pensa di aver trovato, continua con passione a cercare di comprendere le debolezze dell'uomo, i limiti della ragione e le oscurità del nostro destino. Non c'è bisogno che il lettore sia un credente per trovare nelle "Confessioni" quel "nutrimento di verità" che Agostino si dichiara capace di trarre dalla poesia classica, anche da quella più lontana dal cristianesimo. Quand'anche non condivida le sue convinzioni religiose e filosofiche, il lettore di oggi non può non ammirare le qualità invidiabili di questa personalità così attraente: l'onestà intellettuale; il coraggio di continuare a cercare sempre; soprattutto, forse, il gusto di vivere nel fervore del cuore e dello spirito.
In questo senso cercheremo di indicare la via al lettore, prima che egli la percorra in compagnia di guide migliori. Esiste sulle "Confessioni", tanto più su Agostino, una bibliografia sempre rigogliosa, più considerevole che sulle altre grandi opere dell'antichità classica. Eccellenti e recenti edizioni, soprattutto in francese e in italiano, possiedono introduzioni la cui ampiezza è pari al valore. Actum ne agas: ci guarderemo dal ripeterle. Cercheremo anche di non sciupare le note preparate in questi volumi da specialisti eminenti sui particolari del testo e dei suoi problemi. Bisogna innanzitutto che il lettore si impegni di buon grado e prenda coscienza delle affinità tra Agostino e un uomo d'oggi.
Nato a Cividale tra il 720 e il 730, Paolo Diacono ebbe rapporti con la corte dei duchi friulani e poi con quella regia di Pavia. Studiò il greco, insegnò il latino: aveva un'ottima cultura classica, sia letteraria che storiografica. A Pavia si dedicò agli studi sacri, diventò monaco a Montecassino; e infine visse alla corte di Carlo Magno, che consigliò e per il quale scrisse. La sua "Storia dei Longobardi" è uno dei capolavori della storiografia d'ogni tempo. Nelle oscure popolazioni discese dal Nord, alle quali deve la sua origine. Paolo Diacono scorge una forza potenziale, quasi priva di contenuto, che si adatta alla tradizione romana, e la rinnova dall'interno. La sua fedeltà alla propria gente si concilia, in equilibrio perfetto, con l'amore per la storia romana e cristiana, la cultura e la lingua che ha appreso. Pochi altri libri realizzano così meravigliosamente l'ideale di una storiografia totale. La "Storia dei Longobardi" è, in primo luogo, una storia della natura europea: stupendi scorci geografici, paesaggi visti e immaginati, diluvi, incendi, notizie meteorologiche, prodigi. Su questo sfondo, si accampa la storia di un'emigrazione barbarica, un flusso furibondo di genti, episodi di passione e di ferocia, raccontati da uno scrittore posseduto da un forte senso del mito. L'ingenuità di un cronista medievale, l'intuizione acutissima dello storico politico, la fede del cristiano si fondono, nelle sue pagine, con il genio del grande narratore, che racchiude in un episodio minimo il senso della storia universale. La traduzione di Lidia Capo riproduce mirabilmente la mescolanza di cultura e di rozzezza, che è propria dello stile di Paolo Diacono. L'ampio e meticoloso commento lascia affiorare, attorno alla storia tragica dei Longobardi, l'ampio respiro della storia d'Europa e di Bisanzio. Il volume è completato da una suggestiva rassegna di immagini, che rivelano i vertici dell'arte longobarda.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
Nota al testo
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
COMMENTO
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Indice dei nomi di persona e di luogo
Indice delle fonti citate nell'introduzione e nel commento
Prefazione / Introduzione
Nell'Europa rivoluzionata dalle invasioni germaniche, nell'inaudita realtà di regni guidati da popoli "barbari", venuti a rompere e sostituire l'unità e la tradizione dell'impero di Roma, maturò presto il bisogno di integrare il passato e il presente in una prospettiva storica che riuscisse a conciliare vecchio e nuovo e a rendere accettabile culturalmente quello che era inevitabile sul piano politico. Si trattò di un vero e proprio tentativo di interpretazione e di riconversione delle tradizioni storiche germaniche nel linguaggio e negli schemi della storiografia mediterranea: un'opera compiuta ovviamente da Romani, e non da letterati o storici "puri", bensì da personaggi in qualche modo vicini al potere, disposti ad accettare la presenza e il predominio dei Germani. La prima fase della storiografia europea dopo la dissoluzione dell'impero in occidente - quella rappresentata da Cassiodoro, da Gregorio di Tours, da Isidoro di Siviglia - nacque appunto dalla volontà di collaborazione dell'elemento romano con lo strato politico germanico e dal suo conseguente sforzo di romanizzare, cioè rendere comprensibili per il pubblico romano perché omogenee alla sua cultura, le vicende e le tradizioni, in sé molto diverse, dei singoli popoli germanici: un'operazione compiuta partendo dalla storia, perché è la storia che, in un mondo dominato dall'intervento umano e dalla memoria scritta come quello romano, distingue e definisce gli uomini, e soprattutto li redime dalla barbarie. Per questo Gregorio di Tours ha tanto cercato nelle vicende dei Franchi la comparsa dei re - primo embrione di uno stato - ed ha esaltato nell'opera di Clodoveo (quintessenza di grande barbarie) le linee di forza di un futuro civile. E per questo Cassiodoro ha manipolato le tradizioni dei Goti, combinandole con quelle di altri popoli da più tempo noti al mondo classico, compiendo un lavoro di adeguamento ed equiparazione culturale (in realtà trasformazione), che egli stesso ha definito con assoluta precisione e consapevolezza: "Originem Gothicam historiam fecit esse Romanam".
Questa collaborazione dei Romani, che aveva in fondo lo scopo di adattare a sé le novità, mantenendole sotto il proprio controllo, ebbe un successo variabile (solo in Francia poté dare frutti duraturi), ma l'ingresso dei popoli germanici nella "storia romana", come protagonisti, era ormai una conquista definitiva. Nel VII-VIII secolo nell'ambito del regno franco, nella prima metà dell'VIII nell'Inghilterra anglosassone, nel VII e VIII nell'Italia longobarda altri scrittori si posero di fronte allo stesso problema, l'inserimento dei nuovi popoli e regni nella storia "civile". Nonostante il tempo intercorso e nonostante il fatto che fossero, stavolta, Germani (meno, forse, il cosiddetto Fredegario), anche questi scrittori utilizzarono gli schemi della storiografia romano-cristiana. Si trattò dunque di una vittoria della cultura latina: la storia che viene scritta (e ovunque, meno che in Inghilterra, la storia sarà ancora a lungo scritta solo in latino) non è concepibile che attraverso le strutture portanti - tempo, spazio, scansioni di regni e pontificati, forme di organizzazione stabile - datele dalla cultura antica, integrata e riveduta dalla Chiesa.
Ma la vittoria non fu completa, perché dietro queste opere non esisteva più la stessa cultura di prima. Il mondo romano non era più una realtà concreta e la sua capacità di unificare e di uniformare era ormai affidata solo alla Chiesa, che non era in grado di esercitarla ovunque con la stessa intensità. Gli storici quindi, anche quelli forniti di migliore scuola, non avevano più i mezzi per integrare passato e presente in una prospettiva realmente romana; potevano al massimo utilizzare l'immagine che della storia romana si erano creati sulla base delle proprie esperienze e della propria cultura: un'immagine, ovviamente, che con l'effettiva realtà romana poteva avere pochissimo in comune e che in ogni caso era sempre un'interpretazione. E la distanza con la fase storiografica di Cassiodoro era ancora maggiore, perché gli storici della seconda ondata - e soprattutto i più colti e consapevoli, come Beda e Paolo Diacono - non volevano affatto trasformare la propria realtà in senso romano, ma solo darle una leggibilità e una dignità storica, grazie a certi parametri ricavati dalla cultura antica. "L'historia Romana" non significava dunque più adeguamento dei nuovi popoli ai valori e alle forme culturali del mondo classico, bensì impiego, per scrivere la loro originale vicenda, del "reticolo latino", cioè delle coordinate di spazio, tempo e relazioni. Perciò, nonostante la forma latina che le accomuna, il carattere autonomo, germanico, è essenziale nelle opere del VII-VIII secolo: esse sono anzi un primo bilancio che i Germani stessi ricavano dal loro incontro con la grande storia.
Ma nemmeno questo germanesimo è più allo stato puro, un inalterato principio di spiegazione e rappresentazione, sebbene sotto una veste altrui. Al contrario anch'esso è storico: ha subito un processo di crescita e di modificazione a contatto con un mondo estraneo. I nostri testi non sono più la testimonianza di un primo passo nell'incontro tra popoli diversi, bensì il frutto di percorsi storici ormai lunghi, compiuti con apporti variabili degli uni e degli altri: documenti preziosi della travagliata costruzione di un mondo nuovo, che crea e rielabora sulla base delle esperienze di culture differenti, in utile anche se non sempre facile confronto.
E questa vicenda, particolare per ogni paese, che gli autori hanno alle spalle: essa li forma, determina in senso materiale e spirituale il loro rapporto con il proprio passato e con la cultura latina, influisce sulla loro coscienza di sé e sulla loro visione del mondo. Essi riflettono così la qualità e il senso di queste vicende, gli equilibri raggiunti o falliti, gli specifici problemi delle singole realtà, offrendo una sintesi culturale che è un prodotto e uno specchio della loro storia.
Di questi testi "L'Historia Langobardorum" di Paolo Diacono è probabilmente il più complesso: quello che nasce da più intricate motivazioni e da più irrisolte difficoltà, logico riflesso di una storia mai arrivata a sciogliere i nodi essenziali alla sua stessa sopravvivenza.
Con il quinto volume, la grande raccolta del Cristo, a cura di Claudio Leonardi, Antonio Orbe e Manlio Simonetti, trova il suo culmine e la sua fine, in questi testi che dal XIII conducono al XIV e al XV secolo. Qui si ripete e si acuisce il contrasto tra linguaggio metafisico e mistico. Da un lato, l'intelligenza indaga la natura di Dio, concepito come Essere: il discorso su Dio diventa una scienza - la teologia. Ma già Tommaso d'Aquino è consapevole della crisi della teologia: se - come raccontano i suoi biografi - voleva bruciare i suoi scritti, considerandoli senza valore per conoscere realmente Dio. Giovanni Duns Scoto giunge alle più sottili conseguenze dialettiche, mentre un metafisico come Guglielmo Ockham demolisce la metafisica.
D'altra parte la mistica rinnova il tentativo di raggiungere l'unione con Dio, e di cogliere l'eterno nel presente. Ora essa tende ad esprimersi direttamente attraverso documenti autobiografici. Con Francesco, il volto dell'uomo rivela il volto stesso di Dio. Con Meister Eckhart l'esperienza mistica costruisce una teologia che le corrisponde: «la nascita di Dio, nudo e senza veli», avviene nell'anima di ogni uomo. Intorno a lui, il coro della grande mistica femminile: Geltrude di Helfta, che vede Dio faccia contro faccia, cuore contro cuore, corpo contro corpo; Angela da Foligno, la più rozza e intensa testimonianza del tempo, che grida nella chiesa perché Cristo l'ha abbandonata; mentre Giuliana di Norwich rivela che «tutto è bene, tutto sarà bene», annunciando la fine del regno del peccato.
Con la sua drammatica forza luminosa, inebriata di Dio e del mondo, Ildegarde di Bingen vede la Trinità: «una specie di fuoco luminosissimo, illimitato, inestinguibile, tutto vivo, tutto vita: in sé aveva una fiamma azzurra, che bruciava ardentemente». Ildegarde ci rivela che tutte le parole che, in questi cinque volumi, abbiamo letto sul Cristo, sono anche parole pronunciate sul cosmo: perché nel cosmo - «questo grandissimo strumento a forma di uovo» - «si manifestano le cose invisibili ed eterne».
Sotto il titolo Il Cristo la Fondazione Valla raccoglie quanto gli uomini hanno sognato, fantasticato, discusso e pensato intorno alla figura del Cristo, dagli albori del Cristianesimo sino alla fine del Medioevo. L'antologia - un progetto editoriale senza precedenti, che colma una secolare lacuna della cultura occidentale - documenta, in cinque volumi indipendenti, dieci secoli di vita cristiana e di riflessione cristologica. I testi antologizzati provengono dalle fonti più disparate: trattati teologici, meditazioni spirituali, pagine mistiche, discussioni polemiche, atti dei concili, scritti ortodossi ed eterodossi spesso rari, sconosciuti o inediti.
Le diverse sezioni individuano correnti di pensiero, problematiche o singoli autori. Ciascuna sezione è dotata di una propria introduzione e di una bibliografia specifica. Ogni volume comprende inoltre un'introduzione e una bibliografia generali, un dettagliato commento e un ricco apparato di indici.
Capolavoro di un genere letterario molto amato nell'antichità, la Guida della Grecia viene riproposta in Italia dopo centocinquant'anni di oblio, in una nuova edizione critica arricchita da un commento sia archeologico sia storico-religioso, e corredata di numerose cartine.
Cercare "l'antica madre", ossia inseguire di monumento in monumento le tracce di quello splendore che la Grecia aveva conosciuto in età arcaica, classica ed ellenistica: questo era lo scopo del viaggio che Pausania, originario dell'Asia Minore, intraprese intorno al 150 d.C. (dall'Attica sino alla Focide, attraverso il Peloponneso); e non diverso è l'approccio di ogni viaggiatore moderno che si accosti al mondo greco. Questa è la ragione del fascino della Guida della Grecia per chiunque progetti di muovere alla ricerca della Grecia perduta, con un viaggio reale o immaginario, affidandosi alla scrittura evocativa di Pausania.
Capolavoro di un genere letterario molto amato nell'antichità, la Guida della Grecia viene riproposta in Italia dopo centocinquant'anni di oblio, in una nuova edizione critica arricchita da un commento sia archeologico sia storico-religioso, e corredata di numerose cartine.
Il quarto libro della Guida ha un carattere che sembra distinguerlo da tutti gli altri. Da un lato, la storia della Messenia è, più di ogni altra, storia sacra: gli dei non sono mai stati così presenti nei fatti: l'arte degli uomini è se mai quella di correggere appena il destino; e, dall'altro, in nessun libro di Pausania la storia assume un carattere così fantastico e romanzesco.
Niente di più tremendo della guerra tra Spartani e Messenii agli albori della storia greca, come la racconta Pausania. Massacri, distruzioni, rovine, segni sinistri, annunci divini accompagnano la sconfitta della Messenia. Quale lutto intorno alla sua caduta, per tre secoli, sotto il giogo di Sparta. Il quarto libro della "Guida della Grecia", che segue di poco la pubblicazione del terzo, dedicato alla Laconia, ha un carattere che sembra distinguerlo da tutti gli altri. Da un lato, la storia della Messenia è, più di ogni altra, storia sacra: gli dei non sono mai stati così presenti nei fatti: l'arte degli uomini è se mai quella di correggere appena il destino; e, dall'altro, in nessun libro di Pausania la storia assume un aspetto così fantastico e romanzesco.
E probabile che i lettori moderni preferiscano la seconda parte del libro. Alla fine del lunghissimo dominio di Sparta, i Messenii ritornano in patria. Il passato riaffiora: i Messenii, che conservano la lingua e i costumi dei padri, celebrano sacrifici, recitano preghiere, costruiscono case e templi, invitano gli eroi a tornare ad abitare con loro, in un'atmosfera carica di attesa ed emozione religiosa. Nessun tema potrebbe essere più caro a Pausania, che sente così profondamente la fedeltà storica.
Indice - Sommario
Nota introduttiva al Libro IV
di Mario Torelli e Domenico Musti Bibliografia
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
a cura di Domenico Musti
Sigla
Libro IV: La Messenia
COMMENTO
a cura di Domenico Musti e Mario Torelli
Libro IV: La Messenia
INDICI
a cura di Umberto Bultrighini
Indice dei nomi propri di personaggi storici e mitici e di divinità
Indice dei nomi etnici e geografici
Indice di altri nomi propri (santuari, istituzioni, feste, monumenti, edifici, opere letterarie, ecc.)
La Vita di Antonio, scritta nel IV secolo da Atanasio, è il bestseller della letteratura cristiana: presente in centinaia di codici nelle nostre biblioteche, fu tradotta in latino, copto, etiopico, siriaco, armeno, georgiano, e ispirò un corteo di quadri e di libri, da Bosch a Grünewald fino a Flaubert.
I contemporanei, tra i quali Ovidio, vedevano in Tibullo - questo poeta dall'ingenium mite - un vicino e un fratello di Catullo e di Virgilio. I moderni lo hanno ingiustamente negletto. Ma basta prendere in mano questo libro di "Elegie", nella bellissima traduzione di Francesco Della Corte, per restare di nuovo avvinti da un incanto senza pari. Nella nuova Roma di Cesare, di Ottaviano e di Antonio, nella Roma che sta diventando una grande, tumultuosa e colorata capitale d'Oriente, ecco venirci incontro questo amabile e squisito figlio dell'antica, piccola, povera Roma repubblicana, che insegue un suo sogno arcadico, e si rifugia nella campagna di una volta, tra le pianure, i colli, i solchi arati, le viti, i buoi, i contadini devoti alla terra e agli dei, che conducono una vita immutata dai tempi di Saturnus rex. Tibullo sembra conoscere tutto: la nascita, la crescita, il tramonto, la morte di tutte le cose e di tutti i sentimenti degli uomini. Ma egli si limita a rivelarci solo un'ombra di quello che conosce e presente ; e nasconde quanto sa dietro un'eleganza malinconica, una dolcezza insinuante, una nitidezza delicata, una sublime monotonia, che rivelano a tratti, tanto più fraterna per noi, il segno di una profonda ossessione.
Indice - Sommario
Introduzione
Bibliografia
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro primo
Libro secondo
COMMENTO
Libro primo
Libro secondo
APPENDICE
Note al testo
Versificazione e metrica verbale
Indices
Addenda
Prefazione / Introduzione
Della vita di Albio Tibullo quasi nulla si conosce: né l'anno di nascita, né quello esatto di morte, né le date di pubblicazione delle sue opere, né tutte quelle notizie che ci illuminano sui fatti e le vicende degli altri poeti a lui contemporanei. Abbiamo, è vero, una "vita" riportata da alcuni codici, ma i dubbi sulla sua veridicità, recentemente sorti, sono di tal peso che ci impediscono di farne un uso indiscriminato.
Nella successione dei poeti elegiaci, Tibullo è presentato come il continuatore dell'opera di Catullo, di Licitilo Calvo e di Cornelio Gallo. Viene per solito posto innanzi a Properzio, unicamente perché morì prima di lui, anche se nacque presso a poco negli stessi anni, fra il 55 e il 50.
Il primo fatto storico, di cui si ode l'eco nelle sue elegie, è una guerra, che molto probabilmente non fu la modesta spedizione aquitanica, bensì la grande e impegnativa mobilitazione contro Antonio e Cleopatra. La situazione, che si delinea attraverso l'elegia I 10, è quella della vigilia di una guerra totale. È chiaro che Tibullo non ci va volontario, anzi ci va di mala voglia. A nostra conoscenza, solo l'occasione del "bellum Actiacum" contro Antonio e Cleopatra determinò una così massiccia chiamata di circa mezzo milione di cittadini alle armi. In tale circostanza, uno, che pure spirito militare non aveva e non mostrava alcun interesse alla vita delle armi, non poteva sottrarsi, nonostante la paura di restare sotto il ferro nemico e le implorazioni ai Lari perché lo salvassero.
Partito per la guerra, ebbe poi occasione di militare con Marco Valerio Messalla Corvino, alla cui cohors Tibullo dichiarava di appartenere; prima lo seguì nel 50 in Gallia, combattendo contro gli aquitani, e poi nel 28 in Siria. Ma una grave malattia, che lo colpì a Corfù, lo costrinse ad abbandonare la cohors di Messalla. Risanato, rientrò a Roma, dove potè assistere al trionfo di Messalla, celebrato il 25 settembre del 27.
Il contubernio con Messalla, noto come poeta bucolico in greco e "molto attento osservante della pura latinità", influì notevolmente sulla formazione poetica di Tibullo, che, pur avendo una vasta e profonda conoscenza della lingua e della letteratura greca, tuttavia nella sua pratica letteraria si ispira al più rigoroso monolinguismo, unitario e puristico, come si conveniva a uno che si vantava di discendere da un antico ceppo familiare radicato nel vetus Latium, e aveva la coscienza di far parte di un gruppo di parlanti che si atteneva costantemente all'uso della lingua patria, non accettando nulla che venisse dal di fuori se non filtrato attraverso le regole della lingua latina, escludendo ogni alternativa, anzi considerandola come deplorevole cedimento. La conservazione della purezza, proclamata e praticata da quella piccola élite culturale che caratterizzò, durante l'ultima repubblica, una prosa latina davvero esemplare, influì sulla lingua poetica di Tibullo, che si adeguò ai modelli prosastici proposti dalle scuole di grammatica e di retorica, in particolare da quella apollodorea cui aderiva l'amico Valgio. Lo aveva già fatto nelle "Bucoliche" Virgilio, e in grado minore Grazio negli "Epodi" e nelle "Satire"; delle quali Tibullo era candidus iudex, e ne dava, quindi, un giudizio positivo; ma l'elegia, pur più modesta dell'epica e della tragedia, era sì un genere medio, ma sempre più sostenuto della satira; e comportava l'uso esatto e appropriato delle parole e dei costrutti senza attingere a vocaboli stranieri, in primo luogo senza grecismi, per non dire poi di barbarismi e di influenze del sermo rusticus o di parlate settoriali. Nonostante la documentata presenza di Tibullo sotto le armi, le sue navigazioni e i suoi viaggi, non un elemento estraneo al puro eloquio latino è penetrato nelle sue elegie. Evitare tamquam scopulum la parola nuova o inaudita gli richiese qualche limitazione; dovette perciò rinunciare a indicare oggetti senza tradizione letteraria; e neppure tentò di dare una maggiore precisione espressiva a concetti che già si avevano; scartò ogni tecnicismo: in lui le parole onnicomprensive sono più frequenti di quelle specifiche.
La sua conclamata eleganza indica la caratteristica formale della sua opera, che non presenta mai, o quasi mai, espressioni di particolare e raffinata bellezza, il che suonerebbe come una nota fuori rigo nel pentagramma tibulliano; ma in compenso non cade mai nel piatto e nel volgare e offre una naturale e signorile spontaneità, priva di quell'erudizione di accatto che costituiva un pericolo, cui andava incontro la pedissequa imitazione degli alessandrini.
Terminati i viaggi e le spedizioni militari, dividendo la sua vita fra la città e la campagna, Tibullo strinse amicizia con Grazio, che gli dedicò due suoi componimenti, il carme I 33, pubblicato nel 23, e l'epistola I 4, pubblicata nel 20. Di una decina d'anni più anziano. Grazio aveva molto apprezzato il giudizio del suo giovane amico sui "Sermones", cioè sul primo e secondo libro delle "Satire". Dopo che le prime elegie, scritte alla spicciolata, furono, nel 26 circa, pubblicate nella raccolta del libro di Delia, Tibullo non era più uno sconosciuto nel mondo delle lettere. Grazio lo vedeva con simpatia: e, non comprendendone l'atteggiamento di innamorato infelice, gli indirizzò un'ode che è una consolatio. È giusto che Tibullo si dolga di Glicera, ma il dolore non deve essere smodato; se non può dimenticare la sua donna, se non riesce a scacciarne il ricordo, se Glicera è passata ad un altro amore, non è il caso di scrivere elegie eccessivamente piagnucolose:
Albio, tu non macerarti oltre misura nel ricordo
dell'implacabile Glicera; non insistere
con flebili elegie, perché uno più giovane di tè,
infrante le promesse, abbia avuto la meglio.
Poema di viaggi e d'avventure, di guerre e d'amore; celebrazione del regime augusteo e riaffermazione del mos maiorum come ideale modello di virtù civili e religiose, "l'Eneide" costituisce il testo fondamentale della civiltà classica dell'Occidente. Virgilio si prefigge l'imitazione di Omero e l'esaltazione di Angusto a partire dai leggendari antenati troiani e latini: un intreccio di motivi perfettamente fusi nel tessuto poetico scandito dall'esametro epico, flessibilissimo e ordinato. Un Omero capovolto: il peregrinare di Enea non è una ricerca della via del ritorno ma una navigazione verso l'ignoto; i combattimenti non sfociano nella distruzione di una città, ma nella fondazione della nuova capitale, Lavinio, da cui Alba Longa e la gloria di Roma. Il mondo augusteo è visto da un punto d'osservazione infinitamente lontano nel tempo: squarci profetici inseriscono nella trama narrativa schegge del presente in cui vive il poeta, così come certi flash-back riallacciano l'età repubblicana al passato mitico dell'epopea di Troia.
Con questo sesto volume, si conclude l'edizione "dell'Eneide" pubblicata per iniziativa della Fondazione Valla, col commento di Ettore Paratore e nella traduzione di Luca Canali. I libri XI e XII sono libri di guerra e di morte. Mai, come nella descrizione dello scontro di cavalieri e cavalli intorno a Camilla, Virgilio aveva rivelato la sua ferocia intellettuale, una ferocia quale non si trova mai in Omero: che orgia di sangue, che demoniaca torsione di membra, che meraviglioso manierismo michelangiolesco. Ma la morte lascia in noi un segno più profondo delle battaglie. Ecco il corpo di Pallante, disteso su un graticcio di corbezzoli e rami di quercia, simile a una viola o a un giacinto che, spiccato dalla mano di una fanciulla, non smarrisce la sua bellezza ma non è più nutrito dalla terra. Ecco i roghi dei cadaveri sulla spiaggia, i neri fuochi che nascondono il ciclo, i terribili ululati, il suolo che si bagna di lacrime. Ecco Camilla, incarnazione di tutto quanto vi può essere di selvaggio nella natura femminile, che muore: "a gradi si sciolse fredda da tutto il corpo e posò / il languido collo e il capo preso dalla morte". Ora che la fine incombe su di lui, Turno ci stringe il cuore. Avanza in silenzio, con lo sguardo immobile, le gote languenti e in volto un patetico pallore giovanile: la sua sicurezza si incrina: tutto gli sembra perduto. Guarda la città con follia mista a tormento e amore agitato dalla furia. Compie cinque giri di corsa, ripetendo i gesti di Ettore nell'Iliade. La sorella, la ninfa Giuturna, lo abbandona; una lugubre civetta lo atterrisce; e invano si sforza di scagliare, un macigno contro Enea: "E come in sogno, di notte, quando una languida quiete / grava sugli occhi, ci sembra di voler inutilmente intraprendere / avide corse, e durante il tentativo cadiamo sfiniti; / la lingua impotente, le forze consuete del corpo / svaniscono, e non escono voce o parole...". Non gli resta ormai che morire.
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro undicesimo
Libro dodicesimo
COMMENTO
Abbreviazioni bibliografiche usate nel Commento
Libro undicesimo
Libro dodicesimo
La caduta di Costantinopoli è uno degli eventi leggendari della storia universale : come l'assedio di Troia, la servitù babilonese, l'incendio di Gerusalemme, la conquista di Città del Messico. In un ristretto spazio di terra, abbiamo di fronte due eroi: il giovanissimo Maometto II, ora violento e avido di potere, ora consapevole della vanità di ogni gloria umana; e l'ultimo imperatore di Bisanzio, Costantino XII, malinconico e solitario, conscio che il suo destino e il destino della sua città sono ormai segnati. Intorno a loro, echeggia un fittissimo coro : il coro dei greci che stanno per perdere la loro patria, dei turchi che vanno all'assalto accompagnati da una musica furiosa di tamburi e trombe, dei mercanti europei che vedono minacciati i loro privilegi commerciali, e dei prelati cattolici che temono l'Islam ma continuano a scorgere nella Chiesa Ortodossa l'antica rivale.
La raccolta in due volumi, curata da Agostino Pertusi, non ha paralleli in alcun paese del mondo. Essa comprende racconti in ogni lingua e di ogni specie: i diari dei mercanti veneziani e genovesi, le epistole del cardinale Isidoro di Kiev, le memorie dei greci sopravvissuti alla catastrofe, dei giannizzeri serbi, del patriarca di Costantinopoli, il testamento di papa Nicolò V, le lettere degli umanisti occidentali che vedono in pericolo la rinata religione delle lettere cristiane. Tra tutti i testi emergono i racconti di tre scrittori grandissimi : Nestore Iskinder, il fosco e apocalittico storico russo, che considera la sua patria come l'erede di Bisanzio; Tursun Beg, lo scrittore turco che trasforma gli orrori della conquista in una colorata favola da "Mille e una notte", e Ducas, il greco che piange sulla città caduta, sull'imperatore scomparso, sui giovani morti, sulle donne violate, su santa Sofia profanata.
Quando chiudiamo il grande libro di Pertusi e tutte le testimonianze discordanti si combinano nella nostra me- o moria, abbiamo un'impressione indimenticabile. Crediamo di aver partecipato anche noi all'assedio: con tale minuzioso amore erudito il commento di Pertusi ricostruisce ogni particolare e ogni istante delle giornate terribili ; e tutti i difensori della città sembrano ancora fermi al loro posto, dietro le porte o sopra le mura, nei loro inutili gesti di eroi condannati.
Indice - Sommario
Introduzione
Nota bibliografica
Cronologia
Parte prima - I TESTIMONI DELLA CADUTA DI COSTANTINOPOLI
NICOLÒ BARBARO, Giornale dell'assedio di Costantinopoli
ANGELO GIOVANNI LOMELLINO, Lettera sulla distruzione di Costantinopoli
ISIDORO DI KIEV, lettere a Nicolò V, al cardinal Bessarione, ai fedeli di Cristo, al doge di Venezia, a Filippo di Borgogna
"FAMILIARIS" DI ISIDORO DI KIEV, Lettera al cardinal Capranica
LEONARDO DI CHIO, Lettera sulla presa di Costantinopoli
JACOPO TEDALDI, Informazioni sulla conquista di Costantinopoli
GIACOMO CAMPORA, Orazione al re Ladislao d'Ungheria
UBERTINO PUSCULO, Costantinopoli
GIORGIO SPHRANTZÈS, Memorie
SAMILE, Lettera a Osvaldo, borgomastro di Hermannstadt
TOMMASO EPARCHOS E GIOSUÈ DIPLOVATATZES (?), Relazione sulla presa di Costantinopoli
GENNADIO SCOLARIO, Lettera pastorale sulla presa di Costantinopoli
COSTANTINO DI OSTROVICA, Memorie di un giannizzero
NESTORE ISKINDER, Racconto di Costantinopoli
AQ SEMS ED-DIN, Lettera a Mehmed II
TURSUN BEG E IBN KEMÂL, Storia del signore della conquista
Cartine
COMMENTO
- Elenco delle abbreviazioni usate nel Commento
- Nicolo Barbaro
- Angelo Giovanni Lomellino
- Isidoro di Kiev
- "Familiaris" di Isidoro
- Leonardo di Chio
- Jacopo Tedaldi
- Giacomo Camperà
- Libertino Pusculo
- Giorgio Sphrantzès
- Samile
- Eparchos
- Gennadio Scolano
- Costantino di Ostrovica
- Nestore Iskinder
- Aq Sems ed-Din
- Tursun Beg
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. La grande paura del mondo
I turchi erano una vecchia conoscenza, sia dei bizantini sia degli occidentali, ma soprattutto dei bizantini. Dai tempi della prima espansione dei Seldjukidi in Asia Minore (c. 1065) alla grave sconfitta subita dai bizantini a Mantzikert (1071) e alla costituzione del Sultanato di Rûm (1080), fino e oltre i tempi delle crociate, le conquiste turche costituirono una fonte di grave preoccupazione per l'impero bizantino e per gli occidentali. Ma il problema si fece quanto mai pressante quando la forte dinastia degli Osmani si impossessò del potere. L'avanzata di Urkhan verso le regioni europee avvenne in poco più di un trentennio: 1331, assedio e caduta di Nicea; 1336-7, assedio e caduta di Nicomedia e di Pergamo; 1340, arrivo sulle coste del Bosforo; 1344-6, battuta d'arresto: alleanza di Urkhan con l'imperatore Giovanni VI Cantacuzeno, fidanzamento e matrimonio di Teodora, figlia di Giovanni VI, con lo stesso Urkhan; 1346-8, bande turche in Tracia e in Macedonia; 1352, nuova alleanza di Giovanni VI con Urkhan, il figlio del quale mette in fuga Giovanni V Paleologo ; 1352-4, i turchi saccheggiano la Tracia, si impossessano della fortezza di Tzimpé e poi, approfittando di un terremoto, conquistano Gallipoli, che domina lo stretto; 1358, Giovanni V Paleologo, fallita una dimostrazione navale davanti a Focea, è costretto a riconoscere al sultano osmano le città della Tracia da lui conquistate; 1359, i turchi giungono fin sotto le mura di Costantinopoli; 1361, occupano Tchorlu, Didimoteichos, Kir Kilisse, vincono la battaglia di Lulle Burgas, conquistano Andrinopoli; 1364-5, la capitale turca è trasportata da Brussa, in Asia Minore, a Didimoteichos e poi ad Andrinopoli (Edirne). L'impero bizantino - o meglio, quello che rimaneva ancora dell'impero bizantino - era ormai chiuso in una morsa di ferro. Demetrio Cidone, ministro di Giovanni V (dal 1356 al 1358), vede già a quell'epoca con molta chiarezza la situazione. Egli non riesce a comprendere l'atteggiamento degli occidentali, sordi all'appello del papa Urbano V. Scrivendo all'amico Simone Atumano nel 1364, lo ragguaglia sulle opinioni che corrono negli ambienti di Costantinopoli: nessuno spera nell'aiuto occidentale; le promesse del papa sono considerate parole vane; gli stessi turchi chiedono, facendosi beffe dei bizantini, se hanno qualche notizia della crociata; anche lui, Cidone, teme di doversi associare all'opinione generale. È profondamente angosciato, e con grande lungimiranza politica scrive:
"Sappi comunque che, se essi non pongono in atto ora le loro minacce contro gli infedeli e tutto l'anno se ne va in risoluzioni e in preparativi, la capitale sarà presa: questo insegnano i fatti, come se fossero dotati di parola. E una volta che la [nostra] città sarà presa, essi saranno costretti a fare la guerra contro i barbari [= i turchi in Italia e sul Reno, e non soltanto contro di questi, ma anche contro coloro che abitano la Meotide [= Mar d'Azov], il Bosforo [Cimmerio = stretto di Kertch] e tutta quanta l'Asia. Quando infatti l'impero [bizantino] sarà scomparso, tutti questi popoli diventeranno gli schiavi dei vincitori, e questi [= gli asiatici] non saranno contenti se, caduto l'Oriente in schiavitù, vedranno gli altri popoli che stanno in Occidente vivere felicemente; si vendicheranno assieme ai barbari contro coloro che, pur avendo avuto la possibilità, non vollero impedire la sciagura, e faranno di tutto perché anch'essi siano fatti schiavi assieme a loro..."
Le idee che Cidone esprime all'amico, perché se ne faccia interprete presso i latini, sono da lui largamente sostenute in patria contro le diffidenze dei suoi connazionali, sia nella "Esortazione ai bizantini" nell'autunno del 1366, alla vigilia della inconcludente spedizione di Amedeo VI di Savoia, sia nella "Esortazione a non restituire Gallipoli", nel 1371. Quando infine, tornato da Venezia, trova sul trono Manuele II, successo alla morte del padre (1391), Cidone è sempre più allarmato della situazione politica e sociale, e scrivendo a Teodoro Paleologo, despoto di Morea, dice:
"Tutto qui è sconvolto e difficilmente si troverebbe quaggiù in terra un esempio simile di caos: i barbari [= turchi] si sono impadroniti di tutto, fuorché le mura della città, sono per sé stessi la causa della sua miseria, impongono tributi così gravi che le entrate tutte insieme non sarebbero sufficienti a pagarle, per cui occorrerà colpire di tasse anche la povera gente, se vorremo soddisfare, almeno in parte, l'ingordigia dei nostri nemici. Tutti però pensano che ciò sia impossibile e che non riusciremo mai a porre un freno alla loro cupidigia; guardano ormai alla schiavitù come all'unica cosa che sia in grado di liberarli dai mali interni... Inoltre continua ad infierire l'antico male che tutto ha distrutto: la lotta tra gli imperatori per questo spettro di potere, e la necessità, per loro, proprio a causa di tale lotta, di porsi a servizio del barbaro, perché solo così hanno la possibilità di sopravvivere..."
In questi anni anche il rappresentante di Venezia a Costantinopoli informa il suo governo sulla possibilità che l'impero passi in mano turca e sul generale malcontento della popolazione della città che desidererebbe un aiuto concreto da parte dell'Occidente. In effetti, i tentativi di parte turca di impossessarsi della capitale bizantina non mancarono, sia nel 1397-9, quando Bajezid Ilderim, dopo la vittoria di Nicopoli, pose il blocco a Costantinopoli - e lo storico Ducas ci informa che la popolazione presa nella morsa della fame desiderava che la città fosse conquistata -, per fortuna senza gravi conseguenze; sia più tardi, nel 1422, quando Murad II, per vendicarsi dell'appoggio dato da Manuele II al pretendente Mustâfa, pose l'assedio attorno a Costantinopoli e cercò di impossessarsene dando l'assalto alle mura, con un esercito, per buona sorte dei bizantini, troppo esiguo. Un testimone oculare di quest'ultimo tentativo, Giovanni Canano, così descrive - dopo la vittoria - l'arrivo di Murad II davanti alle mura:
"Venne furibondo, selvaggio, smargiasso, superbo, altero, orgoglioso; sollevando sprezzantemente al cielo il sopracciglio, egli riteneva di stare al di sopra di tutti, presumeva che ogni cosa dipendesse da lui e che l'universo intero fosse soggetto al suo comando..."
Durante l'ultimo assedio di Costantinopoli, segni funesti prostrarono la resistenza dei difensori. La notte del 24 maggio 1453 un'eclisse di luna oscurò il ciclo per tre lunghe ore, così come per tre ore, il giorno in cui Cristo morì, "si fece buio su tutta la terra". Poi i segni nefasti si moltiplicarono: nel corso di una processione solenne, la sacra icona della Madonna scivolò a terra; una pioggia torrenziale allagò la città; una nebbia fittissima, mai vista in quella stagione, l'avvolse ; e una strana luce, interpretata come quella dello Spirito Santo, cominciò a scintillare sopra la cupola di santa Sofia, brillò e scomparve, come un fuoco fatuo, nelle campagne.
La mattina del 29 maggio 1453, Costantinopoli cadde nelle mani dei turchi. L'imperatore Costantino XII morì combattendo, e il suo corpo non fu mai ritrovato. La chiesa di santa Sofia, "il paradiso terrestre, il secondo firmamento, il Veicolo dei cherubini, il Trono della gloria di Dio", fu spogliata delle offerte dei secoli. I saccheggi, le uccisioni e i pianti degli schiavi risuonarono tra le mura della città. Bisanzio non esisteva più: quella straordinaria mescolanza di superba ostentazione terrena e di umile fede in Dio, quei palazzi e quei monasteri, la crudeltà atroce e la delicata pazienza, tanto genio ardente, tanta intelligenza squisita ed estenuata; tutto quello che aveva rallegrato lo sguardo dei secoli era morto per sempre. Per qualche anno l'umanità avvertì quel vuoto, quel brivido che si produce quando qualcosa di grande lascia la terra. I cantastorie ricordavano le parole di Geremia : "Colei che era una principessa tra i pagani e una regina tra le nazioni, ora deve servire". Il secondo volume della raccolta curata da Agostino Pertusi è diviso in due parti. La prima raccoglie i molteplici echi, racconti e testimonianze che la caduta di Costantinopoli risvegliò in tutto il mondo, dall'Occidente alla Grecia, dalla Turchia alla Russia. La seconda comprende i lamenti in prosa e in poesia che la scomparsa di Bisanzio ispirò ai poeti greci, veneti, francesi, tedeschi, slavi, armeni, e ai poeti popolari della Grecia e del Ponto.
Come la Bibbia, la "Poetica" di Aristotele è uno dei libri che gli uomini, nei secoli, hanno interrogato più intensamente. Dall'antichità classica al Rinascimento, dal Romanticismo al nostro tempo, le hanno chiesto cosa fosse la poesia: come purificasse l'animo, da quali passioni ci liberasse: cosa l'epica e la tragedia, quali i caratteri tragici, cosa il linguaggio e la metafora; quale lo spazio in cui deve muoversi la parola poetica.
Dopo tanti secoli, questo piccolo testo sta ancora davanti a noi come un enigma di densità quasi indecifrabile; e, a volte, abbiamo l'impressione di assistere ad un dialogo tra un maestro infinitamente maturo ed esperto e i suoi discepoli, che conoscono ogni piega del suo pensiero e ai quali egli può parlare con allusioni di una rapidità stenografica. Oggi, la "Poetica" è attuale quanto lo era per gli studiosi del Rinascimento. La descrizione fenomenologica, che Aristotele compie delle forme, delle strutture e della tecnica della poesia, può trovare una rinnovata attenzione in un tempo come il nostro che tanto interesse dedica alle forme della poesia. Alcune analisi restano insuperate. La spiegazione dell'eccellenza dell'Iliade e dell'Odisssa è, probabilmente, la più grande pagina di critica letteraria che sia mai stata scritta.
Il commento di Carlo Gallavotti muove da un dibattito continuo con la lettera e lo spirito della "Poetica". Propone molte nuove lezioni in luoghi fondamentali; e, partendo sempre dal testo, interpreta espressioni e passi, illumina rapporti insospettati, chiarisce problemi e situazioni culturali, illustra in modo inedito teorie, e, con rapide intuizioni, ci porta di colpo nel cuore del sistema filosofico di Aristotele. In questa edizione critica e in questo commento, gli studiosi troveranno moltissime novità: tutti i lettori colti saranno trascinati dalla drammatica freddezza scientifica con cui ogni problema viene affrontato ed esaurito.
Indice - Sommario
Introduzione
TESTO E TRADUZIONE
Commento
Appendici
Il piacere della mimesi catartica
Nota sulla costituzione del testo
Nota bibliografica
Indice di termini tecnici e vocaboli connessi
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Da "Lineamenti storici della "Poetica" di Aristotele"
Questo trattato di Aristotele sulla poesia costituisce la prima indagine sistematica, condotta con vigoroso spirito analitico, che sia stata dedicata all'arte poetica nell'antichità. È un'opera di estremo interesse nella storia della cultura e di forte originalità nella storia del pensiero; il suo influsso è stato notevole nella cultura antica, ma forse di più in quella moderna, a cominciare dal Cinquecento. Da allora ha dominato, come è noto, sul gusto e le teorie artistiche e sulla pratica dell'arte, per molto tempo. In parecchie intuizioni contenute nell'analisi aristotelica anche i sistemi filosofici recenti, dal positivismo all'idealismo e più ancora lo strutturalismo, possono ravvisare precedenti e anticipazioni fondamentali per una parte o per l'altra delle loro dottrine. Di qui l'attualità del pensiero aristotelico, e perciò si vuole qui riproporre l'opera ancora una volta alla considerazione del lettore moderno. In ciò consiste il suo fascino, per la storia del pensiero; d'altra parte, molte rapide annotazioni e giudizi sulle opere poetiche e alcuni accenni alle discussioni sull'arte, che si facevano al tempo dell'autore stesso, ci disvelano all'improvviso vivacemente quel fermento letterario che Atene riassumeva in sé verso la fine del quarto secolo a.C., quasi al termine di quella conquista umana nel campo artistico che era durata qualche secolo e che è rimasta paradigmatica ai nostri occhi ancor oggi.
È un'opera acroamatica, cioè dedicata da Aristotele al cerchio ristretto dei propri uditori, iniziati alla scuola peripatetica: acróama significa audizione; sono quasi appunti per un corso di lezioni, ma in una trama lungamente meditata e saldamente congegnata. La struttura dell'opera è chiara, nel suo schema essenziale, che si riflette all'ingrosso nella moderna ripartizione in capitoli:
1-3. Teoria generale delle forme della, mimesi poetica, ossia mezzi, oggetti, e modi dell'arte.
4-5. Giustificazione naturalistica della poesia come mimesi, e suo sviluppo storico nell'epica, nella commedia, e nella tragedia.
6. Definizione della tragedia e dei suoi elementi qualitativi rispetto alle forme dell'arte: racconto, carattere, pensiero (come oggetto della mimesi), lingua e musica (come mezzo), azione scenica (come modo).
7-12. Teoria del racconto come struttura di un'unica vicenda drammatica; gli elementi del racconto (peripezia, riconoscimento, sciagura) e le partizioni materiali della tragedia (prologo, episodi, esodo, e corali).
13-18. Qualità essenziali ed effetto della composizione tragica attraverso gli elementi del racconto e l'elemento del carattere e gli accorgimenti tecnici.
19-22. Teoria della lingua e particolarità del linguaggio poetico.
23-24. Aspetti dell'epopea in confronto alla composizione tragica.
25. Criteri di lettura e di giudizio delle opere poetiche.
26. Attualità della tragedia.
Nel complesso è un'analisi intensa e minuziosa, e assolutamente pragmatica, del fatto artistico o meglio della tecnica della composizione poetica, e in particolare della tragedia; l'analisi si sviluppa secondo una linea precisa e sicura, ma con frequenti rimandi interni e riprese e approfondimento di concetti, con indugi e poi con rapidi sviluppi, che hanno tutta la vivezza e le disuguaglianze del discorso parlato. Di qui derivano in buona parte le difficoltà che s'incontrano per l'esegesi generale dell'opera, e per l'esatta interpretazione di molti particolari. In parecchi punti la trattazione appare stringata nei concetti, quasi stenografica nella forma; restano sottintesi o appena accennati i riferimenti alle nozioni fondamentali dell'intero sistema filosofico di Aristotele, o i riferimenti a giudizi e discussioni che si facevano giornalmente nel cerchio degli iniziati. Restano impliciti anche tutti gli elementi di polemica antiplatonica, che si scoprono agevolmente nello scritto, quando si tengano presenti il dialogo sulle "Leggi" di Platone, e soprattutto i libri secondo e terzo della "Repubblica" e il decimo.
L'indagine di Aristotele è difatti, nel suo interno, una rivendicazione realistica della poesia contro la condanna platonica. Al motivo ontologico della condanna dell'arte come lontana di tre gradi dalla verità (idea dell'oggetto, oggetto sensibile, imitazione dell'oggetto) il sistema filosofico di Aristotele si trovava già ad avere risposto per la massima parte, poiché rifiutava la teoria metafisica delle idee iperuranie; per l'altra parte, cioè la poesia come opera di imitazione (mimesis), Aristotele non rifiuta l'antica e tradizionale concezione dell'arte come mimesi, ma rivaluta il concetto di mimesi sotto un duplice aspetto: sia come istruzione dell'uomo, e attività teoretica che supera la realtà, sia come un superiore diletto dell'animo ; e tale diletto (hedoné) non solo viene prodotto dalla considerazione dell'abilità artistica, ma s'identifica con l'effetto della poesia (ergon) sulle disposizioni psichiche dell'uomo. Nella tragedia tale effetto si produce attraverso vicende rappresentate (mimesi) che destano "commiserazione" e "terrore", nel senso tecnico che Aristotele ha spiegato anche "nell'Etica" e nella "Retorica"; ma tali vicende producono nell'animo umano, e sulla passionalità latente in ciascuno, quel sollievo liberatore della eccessiva passionalità, ossia quella kátharsis, che deriva dalla considerazione di sciagure altrui, quando sono reali, e tanto più quando sono soltanto rappresentate. Sui concetti fondamentali di mimesi e di catarsi, oltre le note di commento al testo, si veda l'Appendice.
Con ciò Aristotele ha risposto anche al secondo motivo della condanna platonica della poesia, e di tragedia e commedia in particolare, in quanto fomentatrici di violenti moti passionali. Ma a tale motivo di ordine etico Aristotele risponde anche, nel suo trattato, con tutte quelle indicazioni e avvertenze che si presentano come una precettistica, cioè come una regolamentazione del mestiere di poeta. Forse è questa la parte che risulta più ostica al lettore moderno; ma occorre notare fin d'ora che tale precettistica deriva anzitutto dalla concezione della poetica (arspoetica) come un mestiere.
Basilio di Cesarea, nato nel 330 e morto nel 379, pronunciò queste nove omelie sulla "Genesi" (conosciute sotto il nome di "Esamerone") in cinque giorni: dal 12 al 16 febbraio, durante la quaresima probabilmente del 377. Persone colte, ma per la maggior parte umili, convenivano "alla mensa serale della parola"; e alla fine di ogni omelia "il suono delle voci miste di uomini, di donne e di fanciulli, come quello dei flutti che si frangono sulla riva" s'innalzava nelle "preghiere rivolte a Dio". In apparenza, "Sulla Genesi" è un manuale di scienza patristica, che trasforma e cristianizza la scienza greca: come tale, ebbe un immenso successo fino al diciassettesimo secolo. Ma le ambizioni di Basilio erano ben altre: si proponeva di scrivere quella cosmogonia e quella cosmologia che il cristianesimo ancora non possedeva, interpretando e ampliando i rapidissimi cenni della "Genesi". Nell'universo, come fu creato fuori dal tempo e come è oggi, tutto è sapienza, ordine, armonia, bellezza, provvidenza divina: non c'è traccia di tenebra, come invece sostenevano i Manichei; né di caso e di disordine. Movendo dalla bellezza della realtà visibile, Basilio voleva da un lato risalire al Grande Artefice, a "Colui che supera ogni bellezza"; e dall'altro offrire ad ogni uomo un modello di ordine e di armonia. Come chi guida un forestiero in una città sconosciuta, così Basilio accompagna tutti noi a scoprire le "meraviglie nascoste di questa grande città" - l'universo: con quale stupenda eloquenza, con quale ricchezza di colori, con che affettuosa luminosità di immagini.
Indice - Sommario
Introduzione
Bibliografia generale
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Omelia I
Omelia II
Omelia III
Omelia IV
Omelia V
Omelia VI
Omelia VII
Omelia VIII
Omelia IX
COMMENTO
Omelia I
Omelia II
Omelia III
Omelia IV
Omelia V
Omelia VI
Omelia VII
Omelia VIII
Omelia IX
INDICI
Indice dei nomi
Indice dei passi biblici
Indice dei temi e delle cose notevoli
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Basilio e il suo tempo
Basilio nacque a Cesarea di Cappadocia intorno al 330, circa dieci anni prima che morisse Eusebio di Cesarea e poco dopo l'elezione di Atanasio a vescovo di Alessandria. Proprio nel 330, per volere dell'imperatore Costantino I, avvenne la dedicatio di Costantinopoli, l'antica Bisanzio rifondata come la "nuova Roma", con un misto di riti pagani e cristiani, probabile espressione dell'anima stessa di Costantino.
La "crisi ariana", sfociata in frange e derivazioni estremiste, continuava a interessare e a condizionare l'attività pastorale e teologica della Chiesa con i suoi intricati riflessi politici e sociali. Negli anni della gioventù e della maturità di Basilio, sedette sul soglio imperiale nella pars Orientis il figlio di Costantino, Costanzo II (337-361), della stessa tendenza arianeggiante seguita dal padre negli ultimi anni di vita. Dopo l'effimero ma convinto tentativo di Giuliano (361-363) per una completa restaurazione pagana, e il breve regno di Gioviano (363-364), favorevole ai cristiani ma non intollerante verso i pagani, l'imperatore Valente (364-378) aderì alla fede ariana secondo la formulazione imposta al concilio di Rimini (359), e contrastò duramente la politica religiosa del vescovo Basilio.
Dalla famiglia, sulla cui formazione spirituale aveva influito a fondo l'insegnamento di Gregorio Taumaturgo, fervido seguace di Origene e apostolo del Ponto, Basilio aveva ereditato natura aristocratica, sensibilità, passione per la cultura classica, e una fede cristiana radicata nella Scrittura e alimentata dalle cure della nonna paterna, Macrina. L'enorme ricchezza, costituita dalle vaste proprietà di famiglia disseminate nel Ponto e nell'Armenia, gli aprì le porte di centri culturali come Costantinopoli, dove ebbe contatti col retore Libanio, e Atene, dove fu condiscepolo del futuro imperatore Giuliano alla scuola di Imerio e di Proeresio. Ad Atene strinse profonda e duratura amicizia con Gregorio Nazianzeno. Ma la sua vocazione lo indirizzava alla vita ascetica e monastica. Tornato nella sua terra come "una nave carica di cultura", dopo la morte del padre, rinunziò alla prospettiva di una brillante e sicura carriera di retore e ricevette il battesimo; quindi si recò in Egitto, in Palestina, in Siria e in Mesopotamia, a conoscere da vicino l'esperienza dei monaci, di cui ammirò l'austerità di vita e la testimonianza di essere pellegrini su questa terra e insieme cittadini del ciclo. Di ritorno in patria, distribuì il patrimonio ai poveri e con la madre Emmelia e la sorella Macrina si ritirò ad Annesi, una proprietà di famiglia sull'Iris presso Neocesarea, un eremo aspro e incantevole, che, oltre i frutti genuini e i benefici di una natura intatta, procurava il più ambito dei doni, la quiete esteriore e interiore. Lo raggiunsero il fratello Gregorio, alcuni discepoli che si misero sotto la sua guida, e l'amico Gregorio Nazianzeno, con il quale compilò una preziosa antologia degli scritti di Origene, la Philocalia.
Ha cosi inizio quell'attività ascetico-monastica, espressa negli scritti e nelle istituzioni, che meritò a Basilio la paternità del monachesimo in Oriente e in Occidente e, ispirando ogni suo atteggiamento nell'esercizio pastorale e di governo, anticipò in lui l'esperienza agostiniana del contemplativo in azione.
Nell'eremo di Annosi era giunto anche Eustazio di Sebaste, fautore fino dal 340 di un movimento "evangelico radicale" e ispiratore autorevole dell'indirizzo ascetico dello stesso Basilio. Ma dinanzi alle tendenze dogmatiche antinicene di Eustazio e alla sua rigida ascesi di tendenza dualistica, Basilio prenderà le distanze fino a contrastare l'antico maestro e amico. Propugnatore di un'autentica confessione religiosa, egli si propose di realizzare il suo equilibrato ideale monastico in una vita svolta nella comunità, la cui forza è la preghiera, l'umile accettazione dei lavori manuali e soprattutto la generosa disponibilità verso i fratelli. Importante doveva essere fra i monaci l'attività intellettuale: lo studio della Bibbia, di san Paolo e dei Vangeli, senza trascurare l'interesse per i classici della letteratura e della filosofia pagana. Un'impostazione del genere esprimeva, nella teoria e nella pratica, un'esigenza che divenne retaggio permanente del cristianesimo orientale: il monaco non è chiuso ai valori e ai contributi della cultura. A questo tipo di ascesi comunitaria Basilio s'ispirò nella fondazione di quella "città nuova" che fu chiamata Basiliade, un complesso di istituzioni e di edifici per poveri, malati anche contagiosi, di chiese e di conventi, una città con una sua autonomia sotto la guida del vescovo, che suscitò critiche da parte dell'amministrazione statale e anticipò realtà medievali.
Nel 364 Basilio fu ordinato prete dal suo vescovo Eusebio, al quale diede piena collaborazione, ben presto interrotta a causa di contrasti personali e poi ripresa per iniziativa dello stesso Eusebio, che si era convinto di quanto fosse preziosa per la Chiesa l'opera dell'eccezionale collaboratore. Dopo la morte di Eusebio, nel 370, nonostante l'energica opposizione dell'episcopato e del clero, Basilio riuscì a far prevalere l'elettorato popolare a lui favorevole, con uno zelo che sconcertò Gregorio Nazianzeno, meno realista e più poeta, e venne eletto vescovo di Cesarea, destinato ad esercitare il ruolo di guida carismatica in Cappadocia e oltre. Nonostante la salute malferma e le gravi malattie che spesso ne fiaccarono l'organismo, svolse una grande e sagace attività. Nel complesso rapporto con l'episcopato, soprattutto in relazione alle vicende della fede nicena, si accostò ad Atanasio, che già ne stimava l'azione e il comportamento.
Questo terzo volume del Cristo, a cura di Claudio Leonardi, disegna, con i testi latini dal IV al XII secolo, un panorama forse filosoficamente più incerto ma anche più sconvolto, tragico e commovente.
Tramontati l'impero e la filosofia greca, Cristo diventa la figura centrale della mente occidentale, attorno alla quale precipitano tutti i pensieri e le immagini. La civiltà crolla, i barbari travolgono gli imperi, e i filosofi (e i barbari) non pensano che al Dio-uomo e al suo significato per noi. Se la filosofia greca aveva sottolineato la natura divina del Cristo e proposto all'uomo la divinizzazione, la cultura latina mette in rilievo la natura umana del Cristo, che soffre sulla croce, e propone all'uomo la redenzione.
Da Agostino ad Anselmo di Canterbury, un interrogativo drammatico percorre questi testi: Dio non aveva altro modo per liberare gli uomini dalla loro condizione mortale? Era necessario che il suo Figlio, Dio eterno come Lui, divenisse uomo e morisse? Terribile interrogativo, che mette in dubbio la necessità dell'incarnazione. Agostino risponde: «[Cristo] si è fatto mortale senza abbassare la dignità del Verbo, ma avendo assunto la debolezza della carne; non è però rimasto neppure mortale nella carne, ma anzi l'ha risuscitata dalla morte». Fulgenzio commenta: «La divinità di Cristo [...] sta dappertutto compiutamente, ma senza volume, in modo che nessun luogo sia senza divinità, e insieme nessun luogo possa tuttavia contenerla come in un luogo». Gregorio Magno legge il Cantico, Giobbe, Ezechiele, e dovunque scorge il Cristo, con un ardore interpretativo e visionario che rende folgoranti le sue immagini. Giovanni Scoto esprime la doppiezza del Verbo: incomprensibile ad ogni creatura visibile e invisibile; e figura infinitamente molteplice, che corre attraverso le cose e spinge l'uomo e la natura verso la divinizzazione totale. Guitmondo d'Aversa esalta la presenza fisica di Cristo nell'ostia, di cui il fedele si nutre in una specie di cannibalismo sacro. Infine Anselmo di Canterbury inneggia all'ordine dell'universo, di cui anche il peccato fa parte, e conclude la sua opera con una preghiera: «O Signore, fa' che io possa assaporare con l'amore quello che assaporo con la conoscenza; che io possa sentire con l'affetto ciò che sento con l'intelletto»: preghiera che racchiude il senso ultimo di questo libro e di qualsiasi libro umano.
Questo "Commento ai Salmi" è il cuore di un'opera sterminata, che Agostino compose per tutta la vita, e che contiene le sue pagine più luminose dopo le "Confessioni". Durante la celebrazione della Messa, al termine della lettura delle Scritture, i fedeli cantavano un salmo; e Agostino lo interpretava davanti al pubblico raccolto nella chiesa. Qualcuno stenografava l'omelia: Agostino rivedeva e trascriveva il testo; così che questo "Commento", sebbene stilisticamente sapientissimo, ci tramanda la viva voce di Agostino - le sue domande, le sue risposte, le sue pause, il ritmo ansioso di chi vuoi persuadere ed essere persuaso. Tutti i grandi temi di Agostino confluiscono in queste orazioni. Il mistero di Dio e del cuore umano: due abissi che si attraggono. Cristo come luce, che illumina gli angeli e l'uomo, e come corpo, come debolezza, come ferita. Il tempo che scorre e trascina via i nostri pensieri, i nostri sentimenti e tutte le cose. Il sogno di quando usciremo fuori dal tempo nel non-tempo, davanti al Cristo non-incarnato, di cui il Cristo incarnato è solo l'ombra. La mescolanza, nelle stesse persone, della città terrena e della città celeste. E - tema che si insinua in tutti gli altri e avvolge tutti gli altri - il desiderio di Dio, della dolcezza di Dio, del Dio onnipresente e introvabile : "Si arriva a Dio come seguendo qualcosa di dolce, non so quale diletto interno e nascosto, quasi che dalla Sua casa risonasse dolcemente uno strumento musicale".
Ciò che distingue questo "Commento", tra le opere di Agostino, è il ricamo delle citazioni bibliche e della prosa latina: mai l'arte della citazione e della tarsia giunse a questa sublimità. E la rappresentazione della corposità metaforica della vita dello spirito. È il principio che tutte le immagini possono significare Dio. È il procedimento mai rettilineo: il procedimento a onde, a variazioni, a domande, a ripetizioni, a echi, a risonanze infinite: una rete ansiosa, avvolgente, mobile di interrogazioni - verso un punto che ci sfugge e ci sfuggirà sempre, come, diceva Baudelaire, "cet ardent sanglot qui roule d'âge en âge / Et vient à mourir au bord de votre éternité!".
Indice - Sommario
Introduzione
TESTO E TRADUZIONE
- Conspectus siglorum
- Salmo 25
- Salmo 29
- Salmo 41
- Salmo 51
- Salmo 64
- Salmo 76
- Salmo 86
- Salmo 89
- Salmo 92
- Salmo 109
- Salmo 132
- Salmo 133
- Salmo 136
- Salmo 143
COMMENTO
Indice dei passi della Sacra Scrittura
Indice dei nomi e di alcune cose notevoli
Prefazione / Introduzione
Dall'Introduzione
I "Salmi" e la loro interpretazione nella chiesa antica
I. I "Salmi". Il libro dei "Salmi" è una collezione di poemi lirici, d'ispirazione religiosa, composti in epoche diverse della storia d'Israele, sia come formule ufficiali per le cerimonie del culto, sia anche per uso privato dei devoti di Jahweh, i quali ricevettero poi, presto o tardi, una destinazione liturgica. Uno dei tipi più comuni di salmo è l'inno, il canto di lode a Jahweh, in frequente connessione col tempio di Gerusalemme, dove la comunità esprime la sua gratitudine per i benefici di cui è stata oggetto da parte del suo Dio, dalla creazione alla liberazione dall'Egitto e dagli altri nemici. Altri salmi sono di lamentazione: sia privata da parte di chi, nel travaglio e nel dolore, chiede a Dio conforto e liberazione; sia pubblica da parte del popolo che, radunato nel santuario in occasione di qualche sciagura nazionale, cerca in Dio conforto e salvezza. Altri salmi esprimono la fiducia, addirittura la certezza che la preghiera del salmista a Dio sia stata esaudita.
I singoli salmi sono preceduti da una breve rubrica relativa all'autore del salmo, al genere letterario, all'uso liturgico, alle modalità dell'esecuzione, a fatti della vita di Davide. Si tratta d'indicazioni tutt'altro che sistematiche, sempre presenti, a volte in forma brevissima, nel testo greco, assenti in trentaquattro salmi nell'attuale testo ebraico, e con divergenze in gran numero fra testo ebraico e testo greco. Gli studiosi moderni non considerano affidabili i dati delle rubriche: soprattutto quelli relativi all'autore e a fatti della vita di Davide; in effetti la cronologia dei singoli salmi risulta, alla loro indagine, molto incerta: tuttora c'è chi considera parecchi salmi composti al tempo della monarchia; ma è preminente la proposta di considerare i salmi composti, tranne qualche eccezione, in età esiliaca e postesiliaca. Ma intorno all'era volgare in ambiente giudaico era opinione comune che Davide fosse stato l'autore almeno di buona parte dei salmi: il contrasto fra Gesù e i farisei sull'origine davidica del Messia è impostato sulla comune convinzione che il salmo 109 fosse stato composto da Davide.
In ambito cristiano, non solo l'origine davidica di molti salmi non è contestata, ma si dà anche, tranne poche eccezioni, la massima fiducia ai dati storici contenuti nelle rubriche, che perciò forniscono spesso all'interprete lo spunto di base su cui egli sviluppa la sua esegesi del testo.
2. I "Salmi" nel Nuovo Testamento. Intorno all'era volgare i "Salmi" erano parte importante della liturgia del tempio e della sinagoga e perciò fondamento della pietà del giudeo. Ciò spiega perché la loro conoscenza fosse incomparabilmente maggiore di quella degli altri libri poetici dell'Antico Testamento, anche e soprattutto a livello popolare, dove alcuni di essi, per esempio i salmi 2.44.109, contribuivano ad alimentare l'attesa messianica. Non meraviglia perciò incontrare alcuni passi di salmi nelle polemiche che, sin dai primordi della chiesa, si ebbero fra giudei e cristiani intorno alla messianicità di Gesù, mentre di essi faceva uso anche l'incipiente organizzazione liturgica della comunità cristiana.
Per inquadrare adeguatamente la più antica interpretazione cristiana dei "Salmi", dobbiamo rifarci proprio a queste prime polemiche. La messianicità di Gesù, che i cristiani sostenevano contro i giudei, doveva essere suffragata dall'autorità dei testi veterotestamentari considerati d'indiscusso significato profetico e messianico, la cui applicazione a Gesù i cristiani appunto difendevano contro il rifiuto degli avversari. In questo più antico dossier di passi veterotestamentari, i "Salmi" erano ben rappresentati: basti rilevare il molteplice impiego di passi dei salmi 2 e 109 nei più arcaici testi cristiani. Ma passione morte risurrezione di Cristo si situavano al di fuori dell'usuale modulo messianico: se ne cercò pertanto il fondamento scritturistico in testi fino allora non considerati messianici e che ora invece si caricavano di nuovi insospettati significati alla luce dell'evento pasquale. Nell'ambito dei salmi basti pensare al 21 e al 68.
Questa rilettura in chiave cristologica dei vecchi testi si allargò ben presto oltre l'ambito specifico della polemica con i giudei riguardo alla realizzazione, o meno, delle profezie messianiche nella persona e nell'opera di Cristo: gli occhi della fede ormai scoprivano l'annuncio profetico di Cristo nell'Antico Testamento anche là dove il giudeo scettico non era disposto a riconoscerlo. E infatti difficile pensare che costui abbia potuto accettare Ps. 15,10 "Non abbandonerai nell'inferno l'anima mia né permetterai che il tuo santo veda la corruzione" come profezia della risurrezione, com'è invece in Act. Ap. 2,31; o Ps. 40,10 "Uno che mangia il mio pane ha levato contro di me il suo calcagno" come profezia del tradimento di Giuda (cfr. Ev. Matth. 26,23; Ev. Io. 13,18). Ne erano invece ben convinti i cristiani, perché ormai per loro Cristo era diventato la chiave di lettura dell'Antico Testamento: la chiave finalmente capace di rimuovere il velo che offuscava la vista dei giudei (2 Ep. Cor. 3,13), e perciò di aprire alla loro mente il significato più autentico del libro sacro, rimasto fino allora incompreso.
Giovanni Scoto Eriugena, un irlandese, fu tra 1'846 e 1'870 al centro della vita intellettuale alla corte di Carlo il Calvo, "l'imperatore filosofo". Tradusse dal greco il corpus di Dionigi l'Areopagita, Gregorio di Nissa e Massimo il Confessore; rinnovando la terminologia filosofica d'Occidente. Scrisse il de divina praedestinatione e il Periphyseon. Fuse la tradizione platonica col cristianesimo, così che il platonismo diventò, in lui, la forma naturale della rivelazione cristiana; e incarnò gli sviluppi più arditi della teologia negativa. Egli ricerca il Primo Principio, che fonda l'Essere e sta al di sopra dell'Essere: tenebra che irradia luce. "Tutto ciò che si comprende e si sente non è altro che apparizione del non apparente, manifestazione dell'occulto, affermazione della negazione, comprensione dell'incomprensibile, parola dell'ineffabile, accesso dell'inaccessibile." Il mondo nel quale viviamo è un paradosso vivente. Da un lato, è divino: "questa pietra e questo legno per me sono luce"; non c'è frammento di realtà, per quanto umile e insignificante, che non partecipi dell'eterno raggio divino. Al tempo stesso, il mondo è radicalmente altro da Dio: opacità, caduta, ombra, separazione. Quanto all'umanità, il suo rappresentante più alto, Giovanni evangelista, è superiore alle gerarchie angeliche: come un'aquila spirituale vola con le ah veloci della più inaccessibile teologia, sollevandosi sopra ciò che può essere compreso dall'intelligenza, fino a spingersi all'interno di ciò che trascende ogni significato. Scritta probabilmente tra 1'805 e l'870 e molto diffusa nel Medioevo, L'Omelia sul Prologo di Giovanni è uno dei capolavori della lingua latina: un testo filosofico-poetico che ha la concentrazione degli scritti presocratici e taoisti; una piccola gemma radiosa, che raccoglie in sé i misteri della teologia trinitaria, della creazione, della natura, dell'eterno e del tempo, e della via mistica a Dio.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
TESTO E TRADUZIONE
Nota al testo
Omelia di Giovanni Scoto
COMMENTO
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La civiltà carolingia. Restaurazione politica e restaurazione culturale.
"Dopo che Gesù Cristo, Dio e signore nostro [...] è tornato gloriosamente e trionfalmente alla sede della maestà paterna, per sconfiggere in tutta la terra le cupe tenebre dell'ignoranza, ha ripartito per tutto il mondo i luminari innumerevoli dei santi dottori, risplendenti della luce della predicazione evangelica: affinché, come il cielo si orna di stelle fulgenti, che però sono illuminate tutte da un unico sole, così anche i vasti spazi terrestri risplendessero di santi dottori, illuminati tuttavia dall'eterno sole, destinati, per la preveggenza della divina grazia, a rischiarare le cieche tenebre dell'ignoranza con lo splendore della vera fede e con il glorioso nome di Cristo."*
In questa luce di cosmica Aufklärung, in cui l'ignoranza e l'orrore delle sue tenebre sono il nemico più potente della parola evangelica, il maestro e creatore della nuova civiltà carolingia, Alcuino di York, colloca l'incontro storicamente decisivo del sovrano franco Clodoveo e del santo Vedasto. Al di là del valore topico di certe immagini, le ricorrenti metafore della luce, che nell'opera di Alcuino annunciano le speranze di una spirituale rinascita, affidata al magistero dei santi, esprimono forse la consapevolezza storica che il mondo cristiano, e quindi - nella prospettiva altomedievale - l'umanità intera, hanno attraversato un oscuro passaggio, una zona di rischio. A questa oscurità Alcuino contrappone, con sincero entusiasmo, i valori infine recuperati della eruditio e della sapientia cristiana, quella continuità di linguaggio che soltanto la scrittura può trasmettere: nella costruzione del regno di Dio nel mondo, come si esprime un autore contemporaneo, il liturgista Amalario di Metz, le strutture sono costituite dai maestri e dagli allievi, come una pietra sull'altra, in ordine ascendente.
Se, come è stato osservato, la caratteristica più peculiare dell'alto Medioevo è quella di essere un'età senza scuola, il rischio che l'Occidente romano-barbarico sembra aver corso fra il VII e l'VIII secolo è soprattutto quello della perdita della scrittura, di quelle arti della parola e del discorso che erano state uno dei fondamenti della civiltà antica. Mentre l'aspirazione più profonda e radicale della tradizione cristiana, quella di costruire un uomo totalmente nuovo, libero dai condizionamenti della cultura profana, aveva finito per coincidere con il più affascinante e solenne dei fenomeni storici, la progressiva degradazione di un grande insieme come l'Impero d'Occidente, il rischio era stato quello di una non rimediabile perdita della stessa parola divina, del verbo cristiano consegnato per sempre a una scrittura sacralizzata, e all'ormai ricchissimo patrimonio esegetico, che ne aveva elaborato i complessi strumenti di interpretazione.
La volontà di continuità sarà espressa però dalla cultura ecclesiastica nella forma storicamente più decisiva, attraverso quella restaurazione dell'istituzione imperiale, che condizionerà comunque lo sviluppo dell'Europa del Medioevo. Restaurazione determinata e condizionata a sua volta da un insieme complesso di fenomeni: in primo luogo dal fenomeno macroscopico della ricostituzione, ad opera della dinastia dei Pipinidi, di un grande dominio territoriale al centro dell'Europa, dall'interesse della Chiesa e della cristianità occidentale di conservare quella unità, che in effetti solo l'eccezionale personalità politica di Carlo sarà
in grado di garantire, con le sue conquiste militari, con la sua geniale e tenace opera di recupero culturale. Oggetto di questo recupero, attraverso precise disposizioni legislative, è prima di tutto il fondamentale strumento intellettuale della lingua latina, chiave d'accesso a tutto il patrimonio della cultura scritta, il cui apprendimento e uso appare indispensabile per formare una gerarchia ecclesiastica in grado di svolgere le sue funzioni. I formulari delle Interrogationes responsionis, che ci tramandano lo schema di una sorta di esame annuale, a cui i vescovi avrebbero dovuto sottoporre i primi elementi della gerarchia, i parroci, costituiscono lo strumento attraverso il quale l'autorità sovrana si preoccupa di controllare la conoscenza della pratica liturgica, e possibilmente la comprensione del suo significato. Le formule ricorrenti, legere et intelligere, scire et intelligere, nascere et intelligere, sembrano, quasi paradossalmente, ricalcare il linguaggio della corrispondenza di una raffinata personalità intellettuale come Alcuino, che si adopera a diffondere, nella sua vasta cerchia di amici e di allievi, la pratica di un cristianesimo colto, nutrito di lettura e di meditazione.
Se resta ancora problematica la definizione in termini di "rinascita" di questo decisivo momento storico-culturale, caratterizzato piuttosto da un'evidente volontà di restaurazione, di continuità con il passato "costantiniano", cristiano-imperiale, evidente e determinante appare il consapevole disegno dei sovrani, soprattutto di Carlo Magno, di organizzare le strutture amministrative del regnum utilizzando le istituzioni ecclesiastiche, valendosi di quel contributo dell'episcopato e della sua grande tradizione, che aveva costituito uno degli elementi di forza del potere dei Franchi.
Con questo nuovo grande commento alle Storie di Erodoto, al quale hanno partecipato studiosi inglesi, israeliani e italiani, la Fondazione Lorenzo Valla vuole rendere omaggio al padre della storiografia europea: all'uomo che simboleggia la passione dell'Occidente per tutto ciò che non gli appartiene. Quante cose aveva contemplato Erodoto! Mentre leggiamo le Storie, lo vediamo ancora, animato da una curiosità insaziabile verso la totalità dell'esistenza, entrare nei templi e "osservare, conversare, porre domande, ascoltare, riflettere, paragonare, sollevare problemi, ragionare, talvolta concludere". Egli considera con attenzione e rispetto tutto ciò che fa l'uomo - tutte le nostre imprese gli sembrano degne di interesse o memorabili. E, insieme, sparge un'onnipresente ironia sugli orgogli, le vanità, le pretese, le follie, la hybris dell'uomo. "Nulla è sicuro tra le cose umane". "Tutto nell'uomo è caso e circostanza". Nella nostra vita si fondono l'iridescente imprevedibilità del caso, la ferrea necessità del destino, la strana partecipazione degli dèi - verso i quali egli prova un'ellenica mescolanza di venerazione e diffidenza. Prima o dopo di lui, nessuno ha mai saputo orchestrare così perfettamente una storia totale: i fatti politici, economici, militari, i costumi, le leggende, le favole, il folclore, la geografia, i monumenti si equilibrano in quest'opera che respira l'immensità e la libertà degli spazi aperti. La mente di Erodoto è complessa, molteplice, intrecciata, polimorfa. Quando egli insinua un tema dentro l'altro, e poi ancora un altro, e poi un altro ancora, quando procede a inserti e parentesi successive e scatole cinesi, come a mimare "l'infinito labirinto di concatenazioni" nel quale consiste l'universo, - noi pensiamo ai lontanissimi intarsi, alle ramificazioni di Henry James. Ma poi, se egli vuole, riesce a sembrarci semplicissimo: candido come un barbaro o un bambino. Molto spesso fatichiamo a capire cosa pensi e quale sia il suo punto di vista. Forse è inutile chiedergli un giudizio. Forse dobbiamo soltanto abbandonarci al suo talento di narratore : al senso prodigioso che egli ha della fluidità del tempo - allo scorrere del mondo e del racconto come, diceva Cicerone, "un fiume quieto", che muove da un punto ignoto e si perde chissà dove, oltre ogni limite.
Indice - Sommario
Introduzione generale
Bibliografia generale
Il testo delle Storie
Abbreviazioni bibliografiche
Introduzione al Libro I
Tavola genealogica
Nota al testo del Libro I
Sommario del Libro I
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Il Libro I delle Storie
Scoli
Lessico
COMMENTO
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione generale
1. "Questa è l'esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso..,": con queste parole famose si apre il primo libro. Non esiste certezza assoluta sull'autenticità di questa frase. Uno scrittore del primo secolo d.C., Tolemeo Hephaistion o Chennos ("quaglia") l'attribuiva ad un innografo tessalo, un certo Plesirrhoos, amato da Erodoto e suo erede. E una testimonianza alla quale nessuno da più peso, da quando la dichiarazione di questo Tolemeo venne catalogata come Schwindelphilologie ("filologia truffaldina"); tuttavia, poiché non è mancato chi catalogasse, anche di recente, l'opera dello stesso Erodoto in una simile categoria, la Schwindlerei letteraria greca sembra divenire una nozione piuttosto relativa. E possibile che l'autenticità della frase iniziale fosse discussa già in antico e che Tolemeo avesse cercato di risolvere il problema in maniera piccante. In ogni caso, questa frase è un'intitolazione. Figurava probabilmente all'inizio e alla fine dell'opera (come nella copia posseduta da Dionisio d'Alicarnasso) oppure sul sillybos o index sporgente dal rotolo nelle biblioteche di Alessandria e di Pergamo. Autentica o no, questa frase famosa ci dice poco o nulla sulla personalità dello scrittore: appena il nome e l'etnico. Ci informa di più sul tema e sullo scopo dell'opera: ma di questo si parlerà in seguito.
E buona regola ricercare i dati biografici di uno scrittore antico nelle opere di quello stesso scrittore, e non servirsi di ricostruzioni apocrife. Purtroppo, a parte le notizie sui viaggi, Erodoto ci dice ben poco di sé. Era convenzione dell'epica greca arcaica, passata poi alla storiografia, che lo scrittore non dovesse parlare di sé quando l'argomento non lo richiedeva. Erodoto, però, è costantemente presente: leggerlo è come sentirlo parlare. Io, me, mio, a me, noi al pluralis maiestatis, ricorrono centinaia di volte in riferimento alla sua persona. Erodoto ci fa ripetutamente partecipi di ciò che pensa, di ciò che ha visto o udito, di cosa si propone di raccontare, con chi ha conversato; esprime dubbi, ragionamenti ed opinioni, invoca persino gli dei. Tuttavia, di sé da pochissime notizie concrete. Dice di esser stato in Egitto, a Tiro, in Arabia; di aver conversato con l'agente di un re scitico, e - se non parla ironicamente - ci fa capire che la sua famiglia possedeva una genealogia (II 143,1), ma non forse un capostipite divino, elemento in base al quale può essere messa in dubbio una sua origine aristocratica. Gli ultimi eventi ricordati da Erodoto appartengono ai due primi anni della guerra del Peloponneso (431/30 a.C.): quindi, sembrerebbe legittimo concludere che la sua attività di scrittore sia terminata non molto dopo quegli anni. Questo è tutto quanto si possa ricavare direttamente dall'opera sulla vita del suo autore. Indirettamente, si possono aggiungere i paragoni che egli fa talvolta con misure e distanze attiche, delie, ioniche e magnogreche: se ne deduce che voleva farsi comprendere dal pubblico di queste regioni.
Per altre informazioni biografiche è necessario volgersi ad altre fonti, lontane anche di secoli e di ambienti culturali diversi. La breve biografia riportata sotto la voce "Erodoto" nel lessico bizantino Suida dice così: "Erodoto: figlio di Lyxes e Dryo, di Alicarnasso, uno degli illustri (locali). Aveva un fratello: Theodoros. Si trasferì a Samo per via di Ligdami, colui che, a partire da Artemisia, fu il terzo tiranno d'Alicarnasso... A Samo si impratichì del linguaggio ionico e scrisse storia in nove libri, a cominciare da Ciro e Candaule re dei Lidi. Dopo essere ritornato ad Alicarnasso ed aver espulso il tiranno, si vide più tardi odiato dai cittadini, ed andò volontariamente a Turi, che era colonizzata dagli Ateniesi. Là morì e fu sepolto nell'agoni: alcuni però dicono che morì a Pella...". A questi si possono aggiungere i dati riferiti nello stesso lessico sotto altre voci: che Erodoto era il nipote o il cugino del poeta e divinatore Paniassi, messo a morte dal tiranno Ligdami; che soggiornò con lo storico di Lesbo Ellianico alla corte macedone di Pella; che dopo una lettura pubblica delle Storie, durante la quale il fanciullo Tucidide versò molte lacrime, Erodoto confortò Oloro, il padre di Tucidide.
Dall'introduzione al libro I
Il primo libro delle Storie prefigura l'intera opera di Erodoto e ne costituisce in un certo senso la quintessenza. Tutti gli elementi caratteristici di contenuto e di forma, di pensiero e di stile, si presentano subito e distintamente al lettore. Si estende immediatamente la panoramica universale della storia erodotea: l'umanità del sesto secolo a.C., Oriente e Occidente, civiltà e conflitti, continuità e mutamenti, i popoli e i grandi protagonisti. Lo spazio geografico si apre a Sardi, Mileto, Efeso nell'Asia minore occidentale, con salti in Grecia, a Corinto, a Delfi, ad Atene e a Sparta; si passa in Media, da Ecbatana e da Ninive al Caucaso, nella Filistia, in Persia; si ritorna in Asia minore, in Lidia, nella Ionia e nelle isole, in Caria e in Licia, con punte ad Occidente, in Corsica, Etruria, Lucania; la scena si trasferisce a Babilonia e si chiude nel paese dei Massageti, ad oriente del mar Caspio. È un giro del mondo arcaico in duecentosedici capitoli, grazie al quale si visitano anche i centri maggiori del dramma storico che si svolgerà nei libri successivi: la Persia, la Ionia, Atene, Sparta. Lo spazio cronologico del nucleo principale del racconto è il trentennio che va dall'inizio del regno di Creso alla morte di Ciro il Grande (560-30 a.C.), con punte digressive nel passato remoto dei Lidi e degli Assiri sino al tredicesimo secolo a.C., dei Medi sino all'ottavo, degli Ateniesi e degli Spartani sino all'alto sesto secolo. Sui due grandi protagonisti, Creso e Ciro, si fonda l'intera struttura del libro, che anche in questo prefigura il resto dell'opera, tutta articolata intorno alla serie dinastica dei re achemenidi, da Ciro a Serse.
A parte i capitoli introduttivi (1-5), il primo libro può infatti suddividersi facilmente in due logoi principali: il logos di Creso (6-94) e il logos di Ciro (95-216). L'ipotesi che originariamente esso fosse composto di tre logoi (1-94; 95-140; 141-216), corrispondenti a tre rotoli di papiro, va incontro alla banale difficoltà che la lunghezza di queste tre parti è sensibilmente diversa, mentre il rotolo di papiro andrebbe inteso proprio come unità di lunghezza. Nulla si oppone invece all'ipotesi che il primo libro occupasse originariamente due rotoli di circa sette metri ciascuno, corrispondenti in questo caso ai due logoi suddetti. Il "primo logos" (così lo chiama lo stesso Erodoto) è dedicato alla Lidia, con al centro il suo ultimo re. Erodoto riassume in brevi frasi introduttive le notizie essenziali su Creso, "colui che io so essere stato il primo ad aver fatto torto ai Greci", per giustificare il punto di partenza della sua ricerca: la "causa", per cui Greci e barbari si fecero guerra, è dopo tutto un proposito deliberatamente espresso dall'autore nella frase iniziale dell'opera. Erodoto passa quindi ad un breve prologo sui re lidi anteriori a Creso: i re autoctoni ed eraclidi sino a Candaule, ed i primi quattro Mermnadi (tre dei quali ebbero per primi rapporti ostiti con i Greci d'Asia minore); il quinto è Creso, il cui regno termina con la caduta di Sardi nelle mani di Ciro (546 a.C.). In questo prologo, che essenzialmente presenta una lista cronologica di regni, alcuni eventi bellici con aneddoti e le prime offerte lidie al tempio di Delfi, spiccano due racconti famosi: la storia di Candaule e Gige e la favola di Arione. Dal cap. 26 al cap. 94 il tema principale è il regno di Creso. Formalmente fedele all'impegno dichiarato, Erodoto apre con una breve rassegna delle ostilità e dei progetti espansionistici di Creso verso la costa ionica e le isole adiacenti; in seguito, però, non si parla più di questi rapporti ostili: anzi, il re lidio emerge come un benefattore filelleno in stretti rapporti con Delfi, che cerca l'alleanza dei Greci contro il pericolo persiano: c'è un divario evidente fra proemio e primo logos. Prima di passare alle vicende storiche del conflitto lidio-persiano, Erodoto inserisce due altri famosi brani novellistici: il dialogo di Creso e di Solone sulla felicità umana con le storie anch'esse ben note di Tello d'Atene e degli argivi Cleobi e Bitone, e la tragica storia di Atys e Adrasto. La morale di questi racconti, chiaramente premonitoria, deve tratteggiare la figura tragica di Creso, che dall'arroganza ingiustificata passa alla perplessità e al dolore. Si perviene quindi al tema principale: la minaccia persiana ed il ricorso di Creso all'appoggio dei Greci, dei loro oracoli, lautamente ricompensati con ricche offerte, e delle loro milizie. Creso vorrebbe l'appoggio delle due città-stato più importanti, Atene e Sparta. Ciò giustifica l'inserimento di due coppie di digressioni: una, più breve, sugli Ateniesi discendenti dei Pelasgi e sui Dori del Peloponneso discendenti di Elleno, ed una su Atene al tempo di Pisistrato e su Sparta intorno alla metà del sesto secolo. Solo Sparta a quel tempo era in grado di promettere l'appoggio richiesto; Creso, quindi, incoraggiato dall'oracolo delfico e dalle promesse spartane, traversa con le sue truppe il fiume Halys ed invade la Cappadocia. Dopo una battaglia non decisiva, Creso si ritira, Ciro invade la Lidia, sgomina l'esercito di Creso nella piana dell'Ermo ed assedia Sardi. Creso chiede allora l'aiuto che gli Spartani avevano promesso, ma gli Spartani proprio in quel periodo sono impegnati in un guerra contro Argo per il possesso della Tireatide: Sardi cade in mano ai Persiani dopo appena quattordici giorni di assedio, Creso è fatto prigioniero, posto sul rogo e poi graziato, cominciando così la sua carriera di consigliere del re persiano. Con ulteriori notizie sulle offerte di Creso agli oracoli greci e due capitoli storico-etnografici sulla Lidia, si conclude il "primo logos" di Erodoto.
La Vita di Cipriano, di Ponzio, ci fa conoscere l'Africa quando la Chiesa nascente era ancora perseguitata, la Vita di Ambrogio, di Paolino, è la storia della città di Milano nel IV secolo. Nella Vita di Agostino, opera di Possidio, che comincia nel punto in cui le Confessioni si arrestano, la maturità e la vecchiaia del più grande scrittore cristiano sono raccontate da chi per anni gli fu vicino.
Per Plutarco, il mito è qualcosa di infinitamente complesso : i suoi cultori dovrebbero indossare le vesti variopinte di Iside per simboleggiare ciò che vi è in esso di molteplice, di ondeggiante, di contraddittorio. Di una sola cosa Plutarco sembra certissimo: non possiamo tradurre il mito in una realtà storica umana, o in un semplice fatto naturale, come se la sua sostanza si esaurisse completamente in queste equivalenze. Quello che caratterizza ogni mito è la straordinaria ricchezza degli accostamenti che ci consente. Noi possiamo trascriverlo in termini demoniaci, matematici, alfabetici, naturali, religiosi ; e mentre lo interpretiamo, ci accorgiamo che ogni segno può avere valori contrastanti, può significare insieme il sole e l'acqua, la materia e la conoscenza. Pensare miticamente significa giungere nel luogo dove il " principio di non contraddizione " è caduto.
Le "Vite di Teseo e di Romolo", commentate con grande erudizione e finezza da Carmine Ampolo in questo volume, riguardano eventi che si collocano prima dei fatti storici, nell'oscurità mitica. Come nelle carte geografiche, oltre le terre conosciute, gli antichi geografi disponevano segni per indicare "deserti" o "zone infestate da belve" o "paludi inesplorate" o "ghiaccio scitico", così Plutarco avanza nei territori favolosi che appartenevano di solito ai poeti tragici e ai mitografi. Il suo procedimento è molteplice. Da un lato egli, che venera l'elemento divino puro e incontaminato, non vuole vederlo troppo mescolato all'elemento umano; e dunque nega o razionalizza le leggende mitiche. Ma, d'altro lato, quando è convinto che il sacro si è calato tra noi, ne riconosce con commossa venerazione il passaggio sulla terra. Invece di abbandonarsi alla sua vocazione di grande ritrattista, evita di chiudere la materia mitica in un profilo psicologico. Non c'è un " personaggio " Teseo o un " personaggio " Romolo - come esistono, invece, l'Antonio o il Cesare di altre Vite. Qui Plutarco racconta incarnazioni celesti, descrive con amore istituzioni religiose e riti, tradizioni strane e curiose, oppure, con una specie di brivido, si inoltra nello spessore barbarico, fosco e brigantesco, che avvolge e nasconde i miti greci e romani.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Teseo
La vita di Romolo
Confronto fra Teseo e Romolo
Scolî
COMMENTO
La vita di Teseo
La vita di Romolo
Confronto fra Teseo e Romolo
APPENDICE
Nota al testo
Addenda
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Plutarco nel territorio del mito. Nelle pagine iniziali della "Vita di Teseo" (1-2) Plutarco chiarisce i motivi della scelta della coppia Teseo-Romolo, ma giustifica soprattutto la sua decisione di occuparsi dell'età delle origini di Atene e di Roma, un'epoca ai confini della storia. Spiega il suo atteggiamento con un parallelo felice ed efficace con la cartografia: come nelle carte inserite nei libri di storia si mettevano nelle zone marginali indicazioni su terre inesplorate e invivibili, cosi egli, che ha già trattato in altre Vite l'età dei fatti accertabili o verosimili, potrebbe affermare ora che tocca i territori dove abitano poeti e mitografi, terre in cui non esiste certezza storica.
Il campo della storia viene delimitato con chiarezza e distinto dal campo della poesia e del mito, secondo una tendenza ben attestata e diffusa, anche se molto contrastata e spesso ignorata volutamente da parte dell'erudizione antica. Com'è noto, esisteva un'antica discussione sulla legittimità, l'opportunità e la possibilità stessa trattare l'età più antica, l'epoca delle origini di popoli e di città, di cui molti si dilettavano e di cui soprattutto si teneva conto nella vita politica interna e internazionale. In genere la storiografia locale si interessò sempre delle origini; basti pensare agli attidografi (da Ellanico in poi), benché la grande storiografia greca, prima del quarto secolo, avesse seguito vie sostanzialmente diverse: sono note le gravi riserve espresse da Tucidide (I 1,3 e 20,1), che pure aveva saputo scrivere pagine di storia antichissima (la cosiddetta "archeologia" del primo libro e la "archeologia siciliana" del libro sesto).
Un buon esempio della discussione sull'opportunità di scrivere delle origini oppure di storia recente o contemporanea è offerto dal primo libro del de legibus di Cicerone. Qui, discutendo appunto di verità poetica e di verità storica, della storiografia romana in confronto a quella greca, Attico, in polemica con Quinto Cicerone, preferisce nettamente la storia contemporanea al sentir parlare de Remo et Romulo (I 3,8). A loro volta, due storici ben noti a Plutarco, come Dionisio d'Alicarnasso e Tito Livio, pur cosi diversi, sentono entrambi il bisogno di giustificare la propria trattazione delle epoche più antiche. Malgrado le difficoltà e l'ampiezza del lavoro di ricerca, Dionisio d'Alicarnasso risale con decisione a tempi remoti; deve premettere tuttavia una sorta di autodifesa dalle critiche, che gli sarebbero state rivolte per essersi occupato delle oscure origini di Roma, e deve sostenere che i primordi della città potevano essere ricostruiti in modo veritiero e che essi avevano un carattere greco e illustre (I, 4-5; cfr. I 8). Livio invece si diceva sicuro che i lettori avrebbero apprezzato poco la sua trattazione dell'età delle origini, mentre si sarebbero affrettati a leggere la storia più recente (praefatio 4); specificava inoltre come le tradizioni relative all'età che precedette la fondazione di Roma fossero più abbellite da leggende poetiche di quanto fossero documentate: così, da parte sua, non intendeva ne accettarle ne respingerle. Ancora in tempi più vicini a quelli di Plutarco, Flavio Giuseppe nell'introduzione alla Guerra giudaica (5-6) dichiarava la sua preferenza per la storia contemporanea, criticando chi "riscriveva" la storia antica.
L'atteggiamento di Plutarco e le sue spiegazioni sono condizionate - com'è chiaro - da questa antica discussione. Il dilemma, storia antica o storia contemporanea, imponeva una scelta tanto di campo storico quanto di fonti. In tal modo, come nella Vita di Nicia (1,5) Plutarco aveva chiarito che da biografo intendeva solo integrare la grande storiografia con la ricerca di altri elementi trascurati, servendosi di fonti documentarie (iscrizioni votive, decreti)', così affrontando le origini di Atene e Roma spiega come abbia dovuto dare ascolto all'elemento leggendario, ma cercando sempre di razionalizzarlo e di renderlo verosimile. Aveva già espresso il suo scetticismo con forti perplessità a proposito di Licurgo (Lyc. i) e della stessa cronologia di Numa Pompilio, quando aveva riportato il giudizio negativo dello storico romano Clodio sulle genealogie. Non gli restava dunque che seguire il razionalismo della storiografia greca, passato anche a storici e antiquari romani, facendo appello alla comprensione dei lettori, come Livio aveva già fatto (praefatio 7). Per giustificare, ancora una volta, il carattere poco credibile del racconto dell'infanzia di Romolo e Remo (Rom. 8,9) ricorre a un argomento estremo, anch'esso forse una reminiscenza liviana (cfr. praefatio 7): si può credere alle origini divine di Roma se si pensa al grado di potenza che essa ha raggiunto.
Vediamo quali sono le caratteristiche del razionalismo di Plutarco. Come Plutarco abbia considerato il mito e la conoscenza mitica, è problema che esula da questa Introduzione: andrebbe affrontato in un esame globale della sua figura e della grandiosa attività di documentazione e di interpretazione mitologica attestata dai Moralia. Qui, vogliamo soltanto affrontare un problema più limitato: la sua interpretazione dei miti arcaici greci e romani.
Le "Vite di Arato e di Artasers"e sono tra le Vite meno note agli studiosi e al pubblico. In quella di Arato, Plutarco studia l'ultimo riflesso dell'epoca eroica dell'Ellade : il momento in cui parve che fosse ancora possibile la libertà della Grecia, la concordia tra le città in un disegno comune. In quella di Artaserse, Plutarco svela la propria passione per l'immensità dell'Oriente: una sacralità, una sfrenatezza, un delirio di grandezza, un desiderio dell'illimitato, che egli sentiva opposti alla "misura" della tradizione greca. Le informazioni che ne traiamo costituiscono la nostra fonte più preziosa sulla regalità sacra nell'Iran: il nome del sovrano persiano, associato al sole; il re dal volto così sfolgorante, che i mortali non riescono a sopportarne la vista; lo splendore luminoso che attraversa i mondi e si concentra sul capo di Dario e di Serse... Domenica Paola Orsi ha commentato questi testi con una sicura competenza, senza arretrare davanti ai difficili problemi posti dalla civiltà persiana.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Arato
La vite di Artaserse
COMMENTO
La vita di Arato
La vite di Artaserse
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. La "Vita di Arato", I. Fonti. Plutarco ne nomina tre: Arato, autore di Memorie, Filarco e Polibio, autori di Storie. E opinione comune che la Vita di Arato derivi in grandissima parte dalle Memorie di Arato fino al capitolo 46; Plutarco ha poi utilizzato come fonte Polibio per gli ultimi capitoli della Vita.
a) Arato. Delle Memorie è rimasto molto poco: Felix Jacoby registra solo sei frammenti, tratti dalle Vite plutarchee di Agide, di Cleomene e di Arato. Polibio fornisce utili notizie; dichiara di voler continuare le Memorie e da inizio alla narrazione delle vicende di Grecia con il libro IV, illustrando gli eventi del 221 a.C. che provocarono lo scoppio della "guerra degli alleati" (220-217 a.C.). Le Memorie di Arato, dunque, giungevano sino alla conclusione della guerra cleomenica (battaglia di Sellasia nel 222 a.C.). Polibio informa pure di aver scelto, come fonte per gli eventi precedenti il 221, proprio le Memorie di Arato perché le giudica veritiere e, in particolare, di averle utilizzate per il racconto della guerra cleomenica: "poiché fra gli scrittori contemporanei ad Arato gode di credito presso taluni Filarco, il quale in molti punti è di opinione contraria rispetto ad Arato e lo contraddice, sarebbe utile, o piuttosto necessario, "a noi che abbiamo deciso di seguire Arato per la narrazione della guerra cleomenica", spiegare questa scelta, affinché non si consenta che il falso abbia forza uguale alla verità nelle opere storiche". E proprio mentre sta narrando la guerra cleomenica, Polibio fornisce un'altra informazione preziosa. Arato decide di avviare trattative con Antigono Dosone in vista di una alleanza fra Achei e Macedoni contro Sparta, ma ritiene opportuno agire di nascosto; egli "era costretto a dire e a fare in pubblico molte cose contrarie alla sua opinione... per questo non ha trascritto taluni di questi fatti neppure nelle Memorie". Le Memorie di Arato, dunque, se da un lato erano, a giudizio di Polibio, veritiere (e per questo Polibio le preferiva alle Storie di Filarco), dall'altro erano volutamente incomplete e Polibio integra ciò che in esse mancava.
Nella Vita di Arato la prima menzione delle Memorie figura a 3,3: è opera non rifinita perché Arato l'ha scritta in fretta e con le prime parole che capitavano. Sebbene sia opinione comune che la "Vita di Arato" fino al capitolo 46 (cioè, fino alla fine della guerra cleomenica) derivi in larga parte dalle Memorie, sono in realtà scarsissimi i frammenti che possono con sicurezza essere loro attribuiti. Per quanto siano pochissimi e facciano riferimento ad eventi diversi, è possibile individuare una tendenza che li accomuna. Procediamo ad un rapido esame.
1. Poiché gli Etoli si accingono ad invadere il Peloponneso (241 a.C.), si riuniscono contro di loro gli eserciti acheo e spartano. Agide, re di Sparta, esorta alla lotta, ma Arato impedisce lo scontro e consente agli Etoli di passare; per questo è fatto segno di ingiurie e di biasimo. Nella "Vita di Agide" Plutarco racconta il medesimo episodio, ma riferisce l'opinione di Batone di Sinope secondo il quale non fu Arato ma Agide ad impedire lo scontro. Plutarco smentisce Batone che non ha letto quanto lo stesso Arato ha scritto in proposito "difendendo" l'opportunità della sua scelta (cioè di non combattere).
2. Arato si impegnò a lungo nella liberazione di Atene; una volta assalì il Pireo mentre erano in vigore accordi di pace e venne accusato dagli Achei. Nelle Memorie, nega la sua personale responsabilità e accusa Ergine, ma, aggiunge Plutarco, la sua difesa non pare convincente.
3. Plutarco biasima la decisione di Arato di chiamare in aiuto contro Cleomene il re di Macedonia Antigono Dosone e non accetta la sua giustificazione (evidentemente nelle Memorie). Arato - scrive Plutarco - non risparmia parole "difendendo" la necessità del ricorso ad Antigono.
Un aspetto che caratterizzava le Memorie era, dunque, la tendenza (o, forse, la necessità) da parte di Arato a "difendersi" da accuse che gli venivano rivolte; la sua difesa era, a volte, una accusa. Lo si è visto: si difende dall'accusa di aver assalito il Pireo in tempo di pace, accusando Ergine; l'accusa più grave che rivolgeva a Cleomene era di volere l'eliminazione della ricchezza e il risanamento della povertà; possiamo ritenere con una certa sicurezza che Arato rivolgeva a Cleomene l'accusa di agire nell'illegalità e da tiranno. Sembra, perciò, che le Memorie non fossero opera dal tono neutrale e distaccato: pare che fossero piuttosto un'opera nella quale vi era un intreccio di accuse e di difese, e si rifletteva la vivacità della vita politica del loro autore. Esse appaiono politicamente orientale, velinamente incomplete e strumento di autogiustificazione.
"La vita di Mosè di Gregorio di Nissa, primo di una serie di testi teologici che la Fondazione Lorenzo Valla intende presentare al pubblico italiano, è uno dei massimi libri mistici d'ogni epoca e paese: il lettore d'oggi potrà disporlo nella sua biblioteca accanto a Rûmî o a san Giovanni della Croce. È stato scritto verso la fine del quarto secolo, in quel periodo straordinario in cui le nude verità dell'Antico e del Nuovo Testamento si avvolgevano negli splendidi colori, già lambiti da un'aura di tramonto, della fiorita retorica classica. La prima parte è un racconto, come desidererebbe averlo composto qualsiasi grande artista: la storia dell'Esodo viene trascritta con le immagini di Platone; Mosè diventa un visionario, accecato dalla Luce; i fenomeni naturali assumono un meraviglioso risalto, sconosciuto alle pagine della Bibbia. La seconda parte è un'interpretazione simbolica della vita di Mosè: dove l'eredità di Filone e di Origene rivive in una mente profonda e sottilissima, capace di tutti i raffronti, dotata di un potere analogico che non finisce mai di stupirci. Da questo testo discenderanno tutti i mistici cristiani: Dio come tenebra. Dio come inconoscibile, Dio come illimitato e infinito; e se Dio è infinito e illimitato, ugualmente infinito e illimitato è il nostro desiderio di Lui, che non può appagarsi di nessuna meta, giacché vogliamo conoscere Dio non attraverso specchi e riflessi ma faccia a faccia - e questo volto, luminoso e oscuro, ci è celato. Musil non lesse mai Gregorio di Nissa; ma avrebbe ammirato in lui quello che sognava, e non fu in grado, di fondare: non una mistica della stasi, ma una mistica dell'ininterrotto movimento.
Indice - Sommario
Introduzione
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglomm
Libro primo
Libro secondo
COMMENTO
Elenco delle abbreviazioni
Libro primo
Libri secondo
Indice dei passi della Sacra Scrittura
Indice dei nomi e dei termini tecnici
Indice delle cose notevoli
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. L'autore e il suo ambiente. La Cappadocia, regione interna della penisola anatolica, sebbene percorsa per tempo dai missionari cristiani e aperta largamente all'evangelizzazione, fu sempre nell'antichità cristiana, come del resto anche classica, un ambiente marginale rispetto ai centri culturalmente più vivi, quali Alessandria, Antiochia, la provincia d'Asia. Ma nel quarto secolo, dopo essersi illustrata come luogo d'origine di vari capiparte ariani, da Gregorio il Cappadoce ad Eunomio, ebbe negli ultimi decenni il suo grande momento di splendore grazie a Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, che per l'appunto vengono usualmente denominati come i Cappadoci. Legati l'uno all'altro da vincoli di parentela e di amicizia - Gregorio di Nissa fu fratello di Basilio, Gregorio di Nazianzo amico di entrambi -, dotati di personalità molto diverse fra loro, costituirono tutti insieme un possente blocco di energie e capacità che in ambito sia politico sia soprattutto culturale esercitò profonda influenza nelle tormentate vicende della vita cristiana del tempo, molto al di là del ristretto limite della loro regione natia, sia nel contrastare l'arianesimo e altre sette eretiche, sia nel propagandare e promuovere la diffusione del monachesimo, sia nell'elevare tono e spessore della cultura cristiana a livelli mai raggiunti prima d'allora e subito assurti a valore paradigmatico per i secoli a venire in tutta la cristianità orientale.
Basilio fu di questo trio il leader indiscusso. Unico fra i tre ad essere dotato anche di attitudini politiche, geniale nella riflessione teologica e ricco di doti di autentico scrittore, capeggiò in Oriente la lotta contro l'arianesimo e movimenti affini negli anni cruciali 370-8, imponendo in ambito sia politico sia teologico le soluzioni che, due anni dopo la sua morte prematura, avrebbero trionfato nel concilio di Costantinopoli del 381. Gregorio di Nazianzo, inabile luogotenente di Basilio nella lotta politica, eccelse per gli splendori della sua asiana eloquenza facendo assurgere la controversia teologica ai massimi livelli letterari. Inabile come il Nazianzeno in campo politico, meno geniale del fratello, meno dotato sia dell'uno sia dell'altro quanto a capacità di oratore e scrittore, Gregorio di Nissa trovò la sua specifica collocazione nella ricerca teologica, nella interpretazione delle Scritture, nella riflessione d'argomento ascetico e mistico.
Tutti e tre insieme, grazie all'omogeneità di una formazione culturale particolarmente approfondita anche in campo classico, rappresentarono nel variegato panorama culturale della cristianità orientale del loro tempo l'ala più aperta all'influsso delle lettere profane, ch'essi ritennero indispensabili per un efficace avviamento propedeutico all'istruzione specificamente cristiana, fondata sullo studio della sacra Scrittura. Tale ideale, che incontrava ostilità da più parti ad opera di chi era abituato a considerare incompatibile la presenza di una componente profana nella formazione cristiana, essi propugnarono sul piano teorico e realizzarono anche praticamente con la loro opera letteraria. Questa loro iniziativa assunse speciale rilievo in quanto tutti e tre i nostri personaggi ebbero tortissimo interesse per la vita monastica, che tutti e tre praticarono per vario tempo e il cui ideale rimase in loro vivissimo anche quando diverse esigenze li costrinsero ad assumere altri uffici. Usualmente, infatti, l'ideale della vita monastica veniva sentito come incompatibile con gl'ideali della cultura classica, e di fatto la grande maggioranza dei monaci del tempo era quasi del tutto illetterata e programmaticamente ostile ad ogni apertura alla paideia greca. Di contro, i Cappadoci avvertirono la possibilità di conciliare le contrastanti esigenze, e pur in una scalarità di valori che ovviamente privilegiava lo studio della sacra Scrittura rispetto a quello di Omero e Platone, riuscirono a dimostrare in teoria e in pratica che essere monaco non significava necessariamente essere rozzo e ignorante. Questa loro convinzione fu conquista perenne della cristianità orientale.
Gregorio di Nissa nacque in Cappadocia in data incerta che si colloca intorno al 355, da famiglia di condizione molto elevata la cui origine cristiana si faceva risalire all'azione missionaria di Gregorio Taumaturgo, l'evangelizzatore del Ponto allievo di Origene. Tra parecchi fratelli e sorelle, Gregorio fu legato soprattutto a Macrina e a Basilio, maggiore di lui di circa cinque anni e cui fu sempre devotissimo. Ricevuta accurata istruzione, come si conveniva a persona del suo rango, anche se non consta che abbia perfezionato la sua istruzione ad Atene, come aveva fatto Basilio, in un primo tempo si dedicò alla vita civile in qualità di maestro di retorica e si sposò. Ma successivamente, per influsso del fratello, abbandonò il mondo e si ritirò nel monastero che Basilio aveva fondato in un'amena località presso il fiume Iris.
Ma Gregorio non potè godere a lungo dei suoi ozi contemplativi, perché le esigenze della lotta contro gli ariani spinsero Basilio a richiedere l'impegno attivo anche di lui, sebbene avesse già avuto occasione di lamentarsi della sua imperizia nella vita pratica. Infatti, diventato vescovo di Cesarea di Cappadocia e metropolitano della Cappadocia, Basilio ritenne opportuno far occupare alcune sedi episcopali vacanti da persone di sua assoluta fiducia, per impedire manovre a suo danno da parte degli avversari. Nel contesto di tale politica, nell'autunno del 371 Gregorio fu consacrato vescovo di Nissa; ma l'importante ufficio portò in piena luce la sua inettitudine pratica, che il fratello ebbe occasione di rimproverargli più volte. Senza gran successo, dobbiamo pensare, se nel 576 un concilio di vescovi filoariani, riunito proprio a Nissa, lo mise sotto accusa a causa di irregolarità amministrative e lo depose. Gregorio fu perfino arrestato, ma il fratello provvide a farlo fuggire e a nasconderlo in un luogo sicuro.
Opera di Sulpicio Severo, la "Vita di Martino" ci trasporta nell'ambiente militare della Gallia del IV secolo. La "Vita di Ilarione" è un divertentissimo racconto di avventure, di viaggi, di fughe in luoghi sempre più lontani e di miracoli quasi umoristici. "In memoria di Paola" è la storia - narrata da Girolamo come la precedente vita - di una grande aristocratica romana, che abbandonò la sua città per vivere nei luoghi dove Cristo aveva vissuto. Edizione con testo a fronte.
Con le "Vite di Temistocle e di Camillo", a cura di Carlo Carena, Mario Manfredini e Luigi Piccirilli, la Fondazione Valla prosegue l'edizione di tutte le Vite di Plutarco, in un nuovo testo critico e con un ampio commento scientifico.
In Temistocle, Tucidide scorse un supremo leader politico, capace di trasformare Atene da piccola città agricola in impero marinaro; mentre i nemici videro in lui il simbolo di ogni vizio. Ai nostri occhi, Temistocle incarna nella sua figura tre singolari qualità umane: un'ambizione divorante, una bruciante passione per il potere e la gloria, che lo spinse a violare la "misura" raccomandata dai moralisti antichi; un'intelligenza astuta, duttile, tortuosa e labirintica, come quella di Ulisse (i Persiani lo definivano "una serpe greca dal dorso screziato") ; e un carisma visionario, che gli apportava le rivelazioni decisive in sogno. Raccontandone la vita, come sempre gli accade quando si tratta di eroi della "dismisura", Plutarco esibisce le sue eccelse doti narrative: nessun lettore di questo volume potrà facilmente dimenticare episodi come l'abbandono di Atene, l'invasione persiana, la battaglia di Salamina, gli ultimi anni di Temistocle.
Con la "Vita di Camillo", Plutarco compie un altro dei suoi scavi nell'enigma di Roma arcaica. Camillo dedica un tempio a Mater Matuta, dea dell'aurora: egli è colui che trionfa all'alba; e come Mercurio, di cui porta il nome, si serve del fuoco e del "furto" per avere il sopravvento sui nemici. Attorno a lui, una Roma tutta immersa nel prodigioso e nel sacro: laghi che straripano a causa di sacrilegi, statue che parlano e sudano, oracoli da interpretare, i segreti delle Vestali. Compaiono i Galli, minacciando Roma di irreparabile rovina: e Plutarco rappresenta la loro invasione come la storia della migrazione di gente del nord da luoghi ricchi d'ombra verso il caldo di un paese pianeggiante e insalubre.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Temistocle
La vita di Camillo
Scoli
COMMENTO
La vita di Temistocle
La vita di Camillo
APPENDICE
Nota al testo
Addenda
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La "Vita di Temistocle". Generalmente si ritiene che Temistocle sia un personaggio caratterizzato storicamente meglio di Solone; tuttavia, la cronologia degli avvenimenti della sua vita è quanto mai incerta e costituisce oggetto di discussione da parte degli studiosi moderni. Neppure del suo tradimento fu addotta mai una prova decisiva, nonostante le accuse dei suoi avversari. Per le sue non comuni doti di abilità e di scaltrezza, per la sua capacità di trarre profitto da ogni situazione, per il suo programma marittimo volto sia verso l'Oriente sia verso l'Occidente, Temistocle appare per un verso la prefigurazione di Alcibiade e per un altro quella di Pericle. Non è tutto : egli è stato definito a ragione "un type d'homme a métis"; e infatti, più d'ogni altro, pare incarnare quella forma d'intelligenza pratica, chiamata dai Greci metis e contraddistinta dall'inganno, dalla sorpresa e soprattutto dall'astuzia, che implica una permanente minaccia per ogni tipo di ordine costituito. E ciò in quanto la metis - si sa - opera nel dominio del mutevole e dell'imprevisto per meglio capovolgere situazioni e gerarchie già costituite, ricorrendo ad armi particolari, come reti, nasse, esche, lacci, trappole, trabocchetti, insomma a tutto ciò che è intessuto, ordito, macchinato. Temistocle presenta appunto una mente equivoca, tortuosa e complicata come i labirinti; è dotato d'intelligenza pratica; possiede la saggezza (sophia), cioè l'abilità politica (deinotes politike), e l'intelligenza che presiede all'azione (drasterios synesis: 2,6). Secondo la tradizione (2,6 sg.), egli aveva appreso tali qualità da Mnesifilo (una specie di "doppio" dell'intelligenza temistoclea), che gli suggerì un piano estremamente astuto, a cui Temistocle dovrà la sua fama: la trappola di Salamina, grazie alla quale i Greci riuscirono a mutare a proprio vantaggio una situazione di netta inferiorità. Lo stratagemma, seguito o ideato da Temistocle, pare ispirarsi a un procedimento in uso presso i pescatori, vale a dire all'accerchiamento con cui essi catturano alcuni pesci. A Salamina, il greco Temistocle manovrò come alla pesca del tonno: attirata con l'inganno (lo stratagemma di Sicinno: 12,5 sgg.) la flotta nemica, chiuse la rete e i Persiani si trovarono intrappolati come tonni. Proprio per tali qualità (raggiro, astuzia, dolo, ecc.), che gli valsero presso gli antichi e i moderni l'appellativo di Odisseo, Temistocle divenne oggetto di critiche e di lodi. Già il suo maestro - narra Plutarco (2,2) - soleva dirgli che sarebbe diventato grande in tutto, nel bene come nel male; e infatti il suo operato diede origine ben presto a due tradizioni storiografiche, l'una ostile e l'altra elogiativa.
La prima, che tendeva a metterne in rilievo l'astuzia, l'avidità e la corruttibilità, è testimoniata da Timocreonte ed Erodoto. Mentre, però, la polemica di Timocreonte, che rappresentò Temistocle come un uomo facile alla corruzione, privo di scrupoli e ambizioso (21,5 sgg.), ebbe carattere soprattutto personale senza alcuna (o con attenuata) implicazione politica, il ritratto erodoteo, poco lusinghiero, fu frutto dell'avversione nei confronti di Temistocle delle fonti d'informazione da cui attinse lo storico. Un esame, anche superficiale, dei passi di Erodoto rivela che Temistocle è sì la figura che domina la narrazione della guerra contro Serse, ma che la sua personalità viene presentata sotto una luce ambigua: è esaltata l'astuzia, mai la genialità; non è lui l'artefice del successo di Salamina, ma Mnesifilo (VIII 57 sg.); per soddisfare l'insaziabile pleonexia ("avidità"), si procura ricchezze all'insaputa degli altri comandanti, estorcendo denaro agli abitanti di Paro e di Caristo (VIII 112); sfruttando ogni occasione per il proprio tornaconto, cerca di cattivarsi le empatie dei Persiani (VIII 109 sg.). La descrizione erodotea evoca subito alla mente l'erma-ritratto di Temistocle, rinvenuta a Ostia nel 1959 e dalla quale pare sprigionarsi una forza fisica rattenuta, una violenza e un'ostinazione che può mutarsi in qualsiasi momento in furore. Il ritratto sembra adattarsi perfettamente a quel Temistocle che, esigendo denaro dagli Andri, affermava di essere giunto presso di loro in compagnia di due dee, la Persuasione e la Necessità (Erodoto, VIII 111). Gli elogi sono pochissimi (VII 144; VIII 110): solo una volta Erodoto, parlando di lui, afferma che "ebbe voce e fama" di essere di gran lunga il più saggio di tutti i Greci (VIII 124); ma questa connotazione di Temistocle quale sophotatos appare essere piuttosto opinione degli altri che dello storico, quasi egli intendesse scindere, in tale giudizio, la propria valutazione dalla communis opinio, La palese partigianeria, che evidenzia soprattutto i difetti di Temistocle, pare provenire a Erodoto dalla sua simpatia nei confronti degli Alcrneonidi (V 62-71; VI 121-51) e dei Cerici (gli "Araldi" dei misteri eleusini): ai primi apparteneva quel Leobote che presentò l'accusa di tradimento contro Temistocle (25,1; Mar, 605 e), ai secondi il suo avversario politico, Aristide (Arisi. 25,4 e 6), legato pure agli Alcrneonidi {Arisi. 2,1 ; Mor. 790 f; 805 f). E questo spiega anche la lode erodotea tributata ad Aristide, definito "l'uomo migliore e il più giusto di Atene" (Vili 79). Tuttavia, al tempo in cui Erodoto scriveva le Storie (450-20 circa), la "leggenda" di Temistocle s'era già formata, e il contrasto fra lui tutto scaltrezza (sophotatos) e Aristide tutto giustizia (dikaiotatos) difficilmente poteva passare in secondo piano: la disonestà dell'uno risultava evidente dalle accuse di Timocreonte, l'onestà dell'altro veniva esaltata quasi polemicamente dagli alleati di Atene, i quali, sottoposti dopo il 478/7 a contribuzioni sempre più gravose, provavano nostalgia per le fasi iniziali della lega delio-attica e vedevano in Aristide il realizzatore di un sistema più equanime di quello attuato da Pericle.