«Quando sei per strada e sei avvilito perché non sai bene dove andare, e a un incrocio appare quella meravigliosa freccia che dice: Tutte le direzioni». Ormai è come se Francesco Piccolo li avesse brevettati, i momenti di cui è fatta la vita: c'è qualcosa, nella qualità del suo sguardo, che dilata il tempo delle nostre giornate, imprestandoci la sua leggerezza e la sua vitalità. Fino a farci chiedere se davvero è così trascurabile, tutto questo.
«Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova», sentenziava il grande Hercule Poirot. Nei racconti di Gabriele Pedullà una coincidenza è appena un'avvisaglia, due sono l'annuncio che qualcosa di inatteso sta per accadere, ma tre coincidenze non si dovrebbero augurare neanche al proprio peggior nemico. O forse neppure esistono più le coincidenze, per le donne e gli uomini seduti al tavolo da gioco di Pedullà. E nella curiosità che li spinge ad alzare ogni volta la posta - rimettendo in discussione verità e certezze - conviene riconoscere piuttosto l'opera di un genio maligno in vena di buffonerie. Giacomo avrebbe solo voglia di dormire; l'ingegner Luigi Bassetti cerca di fare carriera con la cucina cinese; Olindo ha nostalgia della nebbia; Eliana e G. rievocano la giovinezza leggendaria del loro amico Vale... A fare da innesco a queste storie c'è sempre un viaggio - sospirato, temuto, ricordato - che puntualmente si rovescia in smarrimento. Perché, come una foschia, un alito oscuro soffia in queste pagine dove nulla è prevedibile, e quando alla fine il pericolo si manifesta apertamente il primo a pagarne le conseguenze è proprio chi credeva di esserne al riparo. A cominciare dal lettore.
Nelle pagine di Franca Valeri autobiografia e pensiero, ironia e intelligenza, s'intrecciano per dare vita a un'analisi lucidissima e spietata del mondo in cui viviamo. Attraverso ricordi che spaziano dal teatro ai legami affettivi, e con un passo tutto suo, Franca Valeri ripercorre gli anni febbrili del secolo scorso e li confronta con il tempo presente. L'avvento del Terzo Millennio, atteso come una promessa, può rivelarsi in un certo senso una delusione. Il fil rouge è il tema della noia con le sue molteplici sfumature, declinazioni, cause ed effetti: «Non tutte le noie sono uguali: c'è quella in cui si sbadiglia aspettando la fine del giorno senza scopo e c'è, invece, quella più insopportabile in cui è lo scopo che si rivela noioso. La noia è un sentimento eroico, se ti afferra sulla tomba di un eroe o se lo vivi dietro un vetro in attesa di un amante ritardatario». "Il secolo della noia", divertendoci e facendoci riflettere, interroga ciascuno di noi: il presente corrisponde a quello che ci aspettavamo? E in quale direzione stiamo andando?
Pur diversissimi l'uno dall'altro, i sei racconti di "Presenza", tra gli ultimi lavori di Arthur Miller, sono accomunati da due temi in qualche modo contrapposti: sesso e morte. L'incontro dei corpi è infatti descritto come qualcosa che annebbia ma vivifica, come un rapimento estatico che seppure solo fugacemente dà l'illusione di poter beffare la dissoluzione fisica, e dunque può assumere una dimensione insieme bestiale e sacrale, come nel racconto che dà il titolo alla raccolta. Il punto di vista è sempre maschile, ma l'età e lo status sociale dei protagonisti variano. Il ragazzino che vuole adottare un cane in "Bulldog" viene sedotto da una donna appena conosciuta ed entra cosi nell'inebriante mondo degli adulti. In "Il manoscritto nudo" uno scrittore in crisi artistica e personale cerca di ritrovare l'ispirazione scrivendo sul corpo di una giovane reclutata con un annuncio su un giornale. E un volto sorridente sotto l'ampia tesa di un cappello di paglia nera è l'immagine della moglie che, a distanza di anni dalla sua morte, Mark Levin conserva impressa nella memoria. Quel giorno, mentre la guardava allontanandosi a bordo dell'auto di un conoscente, aveva deciso di amarla di più. E quella notte ne aveva riscoperto il corpo nella luce lunare che inondava la loro camera d'albergo a Haiti. C'è il dolore personale del lutto e della nostalgia in "La distillerìa di trementina", ma anche quello collettivo del naufragio delle speranze e degli slanci, come il tentativo nobile e al contempo sciocco di improvvisare un impianto di produzione in un'area già condannata dall'avidità dei potenti di turno.
Il Procedimento Penale Numero 1 ha inizio il1o gennaio davanti alla Corte suprema. L'ex Presidente di un innominato paese dell'Europa dell'Est arriva sotto scorta militare: una figura bassa, tarchiata, con indosso un impermeabile abbottonato e i suoi soliti occhiali spessi, con le lenti leggermente colorate. Scende dalla Cajka, si leva il cappello e mette in mostra ancora una volta una testa che la nazione non stenta a riconoscere, per via dei numerosi francobolli che l'hanno raffigurato. E Stoyo Petkanov, Presidente destituito e intransigente veterano del partito lealista, finalmente chiamato a rispondere dei propri reati. In aula deve scontrarsi con il Pubblico Ministero Peter Solinsky, figlio di un intellettuale del Partito e vittima del regime. In un paese abituato a nascondere e tacere, la diretta televisiva è una delle tante trovate della pubblica accusa. La popolazione vorrebbe vederlo inchiodato per reati gravissimi - omicidio di massa, tortura, rovina della nazione - ma finirà per essere condannato per reati minori e solo grazie a un sotterfugio. Ispirandosi al modello del romanzo politico, Julian Barnes offre un crudele affresco della transizione che l'Europa dell'Est intraprende con l'emergere di un ordine democratico, ma le differenze tra buona e cattiva ideologia, tra comunismo sovietico e capitalismo occidentale rimangono volutamente sfocate e sul palcoscenico della vicenda si manifesta il rovescio di un presunto mondo nuovo. Solinsky percorre un cammino destinato a condurlo a consapevolezze scomode sul sistema, sulla speranza democratica e, in ultima analisi, su di sé. D'altro canto le parole con le quali il deposto dittatore sfida «il lato banale della virtù» sono acute, taglienti e capaci di rivelare confini fumosi tra il mito stanco del passato e l'illusione fragile del domani, arando solchi di verità moleste anche nei semplici testimoni della Storia.
Recanati, 1813. In un austero palazzo nobiliare, il giovane Orazio Carlo tiene un diario nel quale riporta le parole e le azioni del fratello maggiore, Tardegardo Giacomo. Ad attirare l'attenzione del ragazzo è il comportamento misterioso di Tardegardo, che si diletta di poesia e ha tranquille abitudini da erudito, ma è anche roso da una sconvolgente irrequietezza. Nel frattempo, in paese, alcuni episodi cruenti turbano la serenità degli abitanti. Si alternano così la rivisitazione della vita e delle opere di un giovane poeta e gli elementi di un romanzo nero, come delitti efferati, coincidenze lunari e antiche vicende di sangue. Riprendendo i modi della prosa italiana dell'Ottocento, il romanzo è l'esecuzione musicale di un apocrifo leopardiano, ed è al contempo un'originale variazione sul tema del doppio.
Babasunde, che ha perso il suo nome. E quella ragazza intirizzita che cammina verso la stazione. Rrock Jakaj, violinista di Scutari. Jean-Claude Izzo, commosso dall'ascolto di una canzone di Murolo. E poi Tinochika detto Tino, che si è aggrappato con tutto se stesso allo sguardo di una donna. Gianmaria Testa ritorna - questa volta non nelle vesti di cantautore ma di scrittore sul tema delle migrazioni contemporanee. E lo fa senza retorica e con il solo sguardo sensato: raccontando storie di uomini con una lingua poetica e tagliente, insieme burbera ed emozionata. A dieci anni dall'uscita del disco "Da questa parte del mare", che ha ricevuto la Targa Tenco nel 2007 come migliore album dell'anno, quelle canzoni così vive e attuali generano qualcosa di nuovo: un altro tipo di scrittura e di voce. "Ho l'impressione che nei confronti del fenomeno delle migrazioni abbiamo avuto uno sguardo povero e impaurito che ha fatto emergere la parte meno nobile di noi tutti, - scrive. Bisogna avere occhi, cervello e coraggio da spendere". Prefazione di Erri De Luca.
Le interrogazioni, i compiti, il tempo che non passa mai, sono gli incubi di qualunque studente. Tranne che in questo libro, dove è il professore a non essere preparato. Nato su Facebook e diventato molto rapidamente un fenomeno virale, "Tranquillo prof, la richiamo io" racconta di un docente non autorevole, spaventato, in cerca di riconoscimento, alle prese con degli studenti straordinariamente precisi, attenti, consapevoli del proprio ruolo. Attraverso telefonate, mail, sms, appuntamenti in chat, si srotola una divertentissima quanto atipica e struggente storia d'amore: con tanto di innamorato respinto (il prof), amata sfuggente (la classe), attacchi di gelosia (per la supplente) e paura dell'abbandono (ogni volta che una vacanza si avvicina)... Sembra il mondo alla rovescia, invece è la rappresentazione clinica della crisi dei presunti adulti, personaggi fragili e alla deriva. Una tragicommedia surreale. Una buffissima operetta morale.
Zeta è un signore grassottello, vestito in modo antiquato (porta una bombetta marrone!), abituato a una vita di agi (di nuovo Epicuro?), che ogni pomeriggio prende posto sulla panchina di un parco e coinvolge i passanti in allegre discussioni. Sul suo conto il pubblico, e con esso anche i curatori che si sono presi la briga di annotare quanto andava dicendo, ha opinioni discordanti: alcuni lo considerano un saggio, altri uno sputasentenze, una "persona poco seria", un clown, un polemico filosofo. Molti scuotono la testa e tirano via, alcuni si fermano. Per quanto differenziati siano i giudizi, è comunque indubbio che si tratta di un oratore fuori dagli schemi, che può dire cose che altri preferiscono tenere per sé, mettere in discussione pregiudizi e verità acquisite. E così, pomeriggio dopo pomeriggio, questo insolito pensatore riflette sulla storia, sull'intelligenza umana, sulla scienza, ma anche sulla politica e gli uomini politici... Il tempo passa, inizia a fare freddo, arriva l'inverno e il signor Zeta si ritira, scompare dal microcosmo del parco. Di lui restano le briciole che ha lasciato cadere e che qualcuno ha raccolto.
Poche settimane separano Charles Highway dall'età adulta e molto resta da fare all'ipersolipsistico ed erotizzato protagonista prima che quel funesto traguardo, il ventesimo compleanno, segni irrimediabilmente la fine della libertà adolescenziale e l'inizio della responsabilità matura. Ci sono gli esami da preparare, il corpus di poesie giovanili da completare, c'è il padre da odiare e, sopra ogni cosa, c'è da aggiungere al carnet delle esperienze accumulate quella del sesso con una Donna Più Grande. Ed ecco Rachel: bella, elegante, inarrivabile, e di un intero mese più matura. I taccuini su cui registrare le fasi della conquista sono pronti. L'Approccio può cominciare...
Dopo "Momenti di trascurabile felicità", Francesco Piccolo torna a raccontare l'allegria degli istanti di cui è fatta la vita, ma questa volta prova a prenderli dalla parte sbagliata. Setacciando le giornate fino a scoprire come ogni contrattempo, anche il più seccante, nasconda qualcosa di impagabile: una scintilla folgorante di divertimento e di vitalità. Che si tratti di condividere l'ombrello con qualcuno, strappandoselo di mano per gentilezza fino a ritrovarsi entrambi bagnati fradici. O di ammettere che non ci ricordiamo più niente di quello che abbiamo imparato a scuola, che le recite dei bambini sono una noia mortale, e che non amiamo i nostri figli nello stesso modo, semplicemente perché sono diversi. Per non parlare dell'obbligo morale di farsi la doccia appena si arriva ospiti da un amico, che se ne abbia voglia o meno - in fondo soltanto per rassicurare l'altro sul fatto che ci si lava. Oppure delle persone troppo cortesi che ti tengono aperto il portone, costringendoti ad affrettare il passo. Ciascuno sperimenta ogni giorno mille forme trascurabili (e non irrilevanti) di infelicità. Ma sorge il dubbio che sia "come i bastoncini dello shangai: se tirassi via la cosa che meno mi piace della persona che amo, se ne verrebbe via anche quella che mi piace di più".
Sardegna 1978: mentre l'Italia intera è angosciata dalle notizie del sequestro Moro, a Sassari il giudice Valerio Garau, che sta bevendo un caffè insieme con la collega e amante Lauretta, cade riverso al suolo e muore fulminato da un grano di cianuro di potassio. Omicidio, suicidio o tragico errore? L'amante, l'ex moglie, qualcuno dei colleghi, il marito dell'amante, tutti avrebbero avuto buoni motivi per liberarsi di lui. E poi chi era davvero Valerio Garau? Un cinico, un seduttore, un bugiardo, un ragazzo malcresciuto, un ingenuo? Il giudice chiamato dal continente a far luce sull'impossibile caso si muove fra palazzi polverosi e villette in abbandono, fotografie ingiallite e reperti archeologici, furti di lettere e serrature violate, portando avanti un'istruttoria che risulta ogni giorno più enigmatica, dentro un ambiente giudiziario carico di gelosie, vigliaccherie, omertà. E, come ha scritto Natalia Ginzburg, alla fine il giudice lascerà l'isola "dove si è piegato a individuare il segreto d'un volto scomparso, avendo mescolato al destino di quel volto la propria infelicità". Da questo libro, che ha vinto il premio Viareggio nel 1989, è stato tratto il film "Un delitto impossibile" (2000), per la regia di Antonello Grimaldi, con Carlo Cecchi e Angela Molina.
A Napoli dopo la guerra non c'è rimasto nemmeno il tempo di pensare. I mesi si sono fatti polvere, polvere sono le case bombardate, polvere è il cibo liofilizzato che riempie i piatti, e i sogni pure sono "polvere di stelle", come canta per le strade un motivetto hollywoodiano. Però sotto la polvere la città è viva, anarchica, persino spudorata. Soprattutto se a raccontarla sono gli occhi di un ragazzino; soprattutto se il ragazzino è Roberto De Simone. La cronaca di un anno eccezionale, un romanzo di formazione fatto di episodi brevi e spesso ambigui, sempre acutissimi. I bombardamenti, l'amicizia, i bordelli e il contrabbando. E poi il conflitto fra cultura scritta e cultura orale. Ma anche la fede, i voti e i miracoli: il passaggio dalla religiosità popolare a quella stimolata dai media - i rotocalchi diffondono le immagini di "un bel frate con la barba nera" che risponde al nome di padre Pio. E infine, naturalmente, la musica: quella che il piccolo protagonista suona al pianoforte, ma anche le canzonette e i canti popolari. De Simone attinge alla memoria delle immagini e a quella delle parole per restituirci il ritratto fedele di una città grottesca e sublime, che anche "nel periodo della più calamitosa miseria" mantiene salda la consapevolezza di sé.
Parigi, Quartiere Latino. Nei pressi dell'Odèon c'era un tempo Le Condé, un piccolo caffè dove ogni sera erano soliti ritrovarsi per caso, per noia o per abitudine, giovani studenti, aspiranti scrittori e misteriosi avventori accomunati dal sospetto di un passato indicibile o dallo stesso sghembo destino. Ogni giorno uno di loro annotava su un quaderno i nomi e i soprannomi di tutti quelli che passavano di li, scrivendo a fianco anche la data, l'ora e il tempo che ciascuno restava nel locale. Le Condé è una calamita che attrae tutti quelli che passano nelle sue vicinanze. Al centro di tutto c'è una ragazza misteriosa, chiamata Louki dagli altri avventori del locale. Louki è una di quelle donne che non appena entrano in una stanza e si siedono in un angolo catturano subito lo sguardo e l'attenzione di tutti. Per quattro volte si indaga la sua vita e quattro sono le voci che raccontano la sua storia. Alcuni degli uomini che parlano di lei semplicemente la cercano, altri la amano: per tutti la giovane incarna una stagione della vita e un desiderio irraggiungibile. Louki, come quelli che la affiancano nel suo vagabondare in una Parigi ipnotica ed enigmatica, è uno straordinario personaggio senza radici che vive momento per momento, inventandosi diverse identità, rinascendo continuamente e fuggendo (fino alle più estreme conseguenze) per inseguire un presente perpetuo o, meglio, un Eterno Ritorno.
Nella folla dell'ora di punta, in una stazione della metropolitana parigina, una giovane donna crede di riconoscere la madre, che non vede da quando era piccola. Inizia a seguirla, attratta irresistibilmente dal suo cappotto giallo. Si apre così una delle indagini più incerte e commoventi che sia mai stata narrata. È la storia di un abbandono, della ricerca malinconica di un "paese natale" a cui far ritorno, di una solitudine che nessuna amicizia riesce a spezzare. La bambina che aveva recitato al fianco della madre, la piccola attrice cui era stato dato il nome d'arte di Bijou, è diventata adulta, apparentemente libera di vivere la propria vita.
Il passato è presente parla a ognuno di noi attraverso il dialogo che la scrittrice immagina con il compagno di tutta una vita, l'ispanista Cesare Acutis, che troppo presto l'ha lasciata sola. Fu un grande amore, burrascoso e complice. Ma il discorso intellettuale e sentimentale non si è mai interrotto e le consente di disegnare a tratti ora più leggeri ora più incisi momenti e tappe di una vita anche attraverso piccole vicende, "emozioni trascurate, sensazioni appena sfiorate", che adesso emergono suscitando riflessioni. Le tante persone e cose amate: i genitori, gli amici, le opere degli artisti e i capolavori della natura. Ma anche la passione per la scrittura e per la parola che può illuminare il vuoto delle assenze, "ombra del sole, refrigerio e conforto" anche nel momento della prova più difficile: una malattia che imprigiona nei movimenti, che priva della libertà. Perché "di tutti i nostri atti, consapevoli o meno, nessuno va perduto". Ed è nell'insperata influenza di un nostro gesto sulle vite degli altri che continuiamo - laicamente - a sopravvivere.
Quirina è un'anziana signora che vive in orgogliosa solitudine in un piccolo paese delle Alpi, dove accudisce un orto-giardino che è tutta la sua gioia, uno spazio armonioso che vuole opporsi all'insensato disordine del mondo. Finché una mattina di maggio fa una scoperta che la sconvolge: il prato è sconciato da serie di monticelli di terra che rivelano la presenza di una talpa. Comincia una guerra senza quartiere, in cui vecchi rimedi e credenze popolari si alternano con le nuove tecnologie, in un crescendo che troverà una conclusione inaspettata. L'intrusa scatena interrogativi e inquietudini, evoca memorie che sembravano perdute. Quirina arriva a scoprire con sorpresa che del "bravo minatore" hanno parlato in toni ammirati anche Shakespeare e Primo Levi... Abbandonando i territori prediletti del romanzo storico, Ernesto Ferrero ha scritto una favola lieve e profonda. La accompagnano i disegni di un'inedita Paola Mastrocola, che agli animali ha dedicato tante indimenticabili storie.
Il punto è quello in fondo alle cascate del Niagara dove galleggia il cadavere di una ragazza senza nome. Il punto è la stanza di un ospedale dove un padre attende la diagnosi del suo bambino. Il punto è l'orecchio di un uomo barricato nel suo appartamento, ossessionato dai suoni che provengono dal piano di sopra e dal crollo del suo matrimonio. Il punto è quell'istante nella vita di ognuno in cui il destino si rivela. "Il punto" sono tredici racconti di David Means, scrittore americano di storie brevi accostato a Sherwood Anderson e Flannery O'Connor: con loro condivide quella capacità di cogliere il sublime che si accende nelle quotidiane miserie. E di rivelare, oltre la superficie dell'azione, il senso profondo del mistero.
L'umanità cantata da Tess Gallagher è quella che abita un quotidiano che all'improvviso si apre verso l'infinito. Vedove, uomini soli e annoiati, cittadine in cui non succede nulla, vite qualsiasi - e per questo uniche rivoluzionate dall'emergere di una crisi improvvisa, da uno scoppio di violenza rivelatrice, da un incontro con un amico o uno sconosciuto che diventa epifania. Come il racconto della visita di Norman, un amico cieco, che insegna alla coppia di protagonisti quanto da temere non sia la cecità fisica ma "la cecità al mondo dei sogni": lo stesso episodio alla base di "Cattedrale", il racconto del marito della Gallagher, Raymond Carver. "Viole nere" riunisce tutto il meglio della produzione narrativa e poetica di Tess Gallagher, restituendo al lettore italiano un'immagine completa del vasto universo creativo e sentimentale della poetessa statunitense. Le poesie presentano il testo inglese a fronte.
Il giorno in cui il maestro insegna ai bambini l'alfabeto è la fine e l'inizio di un mondo. La fine di un mondo in cui le cose succedevano e basta, e l'inizio di uno in cui possono essere messe in fila indiana in forma di parole. La vita intera passa attraverso le molteplici combinazioni di quelle ventuno lettere: sorprese, delusioni, imprevisti, nascita e crescita, persino la morte. Trentotto storie brevi, trascinanti e poetiche, piene di profonda leggerezza. Ciascuna di loro, una parola. Ciascuna di loro, il mondo. Sono epifanie scovate quasi per caso negli interstizi del quotidiano: lo smarrimento di una donna di fronte alla rottura di un braccialetto dei desideri, l'impossibilità di resistere dal prendere a calci un pallone che rotola per strada, il sollievo con cui si consegna a uno sconosciuto la propria storia sapendo che non lo si vedrà mai più, il piacere perverso di rimettere in circolazione una banconota falsa ricevuta chissà dove. Andrea Bajani compone una commedia umana in miniatura, in cui ogni piccolo gesto può diventare una chiave per capirsi, e rendersi conto che la felicità, alla fine, sta dentro la piega che di colpo prendono le cose.
Un fantasma degli anni Trenta più spaventato dei malcapitati a cui compare, un capitano dell'esercito di Napoleone durante la campagna di Russia, il protagonista de "L'uomo sentimentale" ritratto quando era ancora bambino, un maggiordomo bloccato in un ascensore, un caso di "doppio" a Barcellona che porterà alla rovina, un caso di "doppio" in Inghilterra che porterà all'orrore, un "ciccione schifoso" in adorante contemplazione di una donna dalla bellezza tanto ideale da apparire irreale... Sono solo alcuni dei personaggi di questi racconti scritti nell'arco di trent'anni che testimoniano un percorso narrativo in costante ascesa.
In un appartamento londinese, un uomo talmente privo di senso pratico da non saper aprire una latta di sardine osserva incredulo il suo rivale più accanito, impegnato nella preparazione di una frittata. Il primo è Vladimir Jabotinskij, leader della destra revisionista sionista, l'uomo ai fornelli invece è David Ben Gurion, ebreo socialista e futuro fondatore dello Stato d'Israele. È il 1934: mentre sull'Europa incombe lo spettro del nazismo, i due leader, solitamente divisi da un contrasto insanabile, si incontrano per cercare un terreno comune con cui affrontare il destino che li attende e costruire il futuro di Israele. Del resto è la Bibbia a insegnarlo: "Camminano forse due uomini insieme, se prima non si sono accordati?" Mettendo in scena il dramma di due uomini carismatici e tormentati, Abraham Yehoshua ci fa entrare in quelle stanze, solitamente inaccessibili, in cui la Storia si svela.
"'Il secolo' è un libro assai strano, con i suoi capitoli alterni in prima e in terza persona. Nella serie dispari (cinque capitoli), la voce narrante è quella del vecchio Casaldàliga, giudice in pensione da tempo agonizzante, che immobile di fronte al lago sulle cui sponde vive, ricorda il passato e descrive la sua situazione presente, che assume i caratteri di una farsa più che di nessun'altra cosa. Nella serie pari (quattro capitoli), si racconta la storia di quello stesso personaggio fino ai suoi trentanove anni, sottintendendo che sia nato col secolo, esattamente nel 1900. Nella sua ricerca di un destino 'nitido e inconfondibile' il protagonista tenta dapprima di farsi martire per amore, poi eroe di guerra, e infine decide di diventare delatore. Per quanto, più che tentare di mettere in atto i primi due destini, egli accarezzi piuttosto l'idea di esservi spinto, giacché questa è la storia di un abulico, di un vile, di un uomo passivo e indeciso, almeno fino al 1939, anno in cui finalmente passa ad avere parte attiva. Credo che se m'interessò questo argomento ciò si dovette in parte a una questione di famiglia. Mio padre fu denunciato nel 1939, poco dopo la fine della Guerra Civile, da quello che era stato il suo migliore amico, e per questo trascorse un periodo in carcere. Questa storia mi aveva sempre impressionato fin da bambino, come anche la rivelazione che uno dei nostri scrittori più famosi si fosse offerto come delatore, pare, al 'Corpo d'Indagine' franchista..." (Javier Marías)
Tra il 17 giugno 1939 e il 20 gennaio del 1940, Elsa Morante tenne la rubrica "Giardino d'infanzia" sul settimanale "Oggi", uno spazio in cui mosse i primi passi di scrittrice affinando il suo sguardo acuminato e la sua lingua corposa. Queste fantasie infantili (tra le sue prime prove di narratrice) affondano le radici nella memoria, nei primissimi anni di scuola, e lo fanno sempre con il sorriso, la civetteria, la capacità di giocare e di mantenersi, nel gioco, intelligenti e innocenti. Come quando, con l'amica Giacinta, Elsa organizza una recita scolastica di cui si fa regista, ma gli attori, venuto il momento, recalcitrano dirottando lo spettacolo verso il disastro; oppure quando scrive parole infuocate a Lindbergh l'aviatore, firmandosi "Velivola". Un campionario di immagini e personaggi vivacissimi, che abitano un mondo magistralmente disegnato.
Esiste un luogo in cui convergono le teorie più inaccessibili, i fenomeni e le ipotesi più difformi. È lì che - secondo quella che la fisica teorica chiama "teoria generale del tutto" - risiederebbe la spiegazione dell'universo. Per Alessandra e Marinella, gemelle di cinquant'anni cui la vita ha riservato strade molto diverse, quel luogo è la casa del padre che le ha abbandonate quando avevano otto anni, senza voler più sapere nulla di loro. Ora che lui è morto si ritrovano entrambe lì, circondate da quelle pareti a loro sconosciute che sembrano sussurrare ricordi e rievocare rancori mai sopiti. Per le sorelle quella vicinanza forzata si rivelerà una tortura col sorriso sulle labbra, una resa dei conti dagli esiti imprevedibili. Una storia universale sulla ferocia e sulla dolcezza dei legami familiari.
"To snuff" in italiano significa "spegnere" e, in termini più crudi, "tirare le cuoia", "morire". E gli snuff movies sono film che, fuori da ogni fiction, documentano la morte: inflitta però fra i tormenti, lentamente, a un essere umano. Questo romanzo s'intitola "Snuff" perché racconta la morte: la racconta senza eufemismi ma con assoluto rispetto, adombrando la necessità di Dio. È quindi, a modo suo, un libro religioso. Piero, vecchio professore d'anatomia in pensione, ritiene che ormai si viva troppo e che troppi siano in ogni caso gli anni della sua vita. Dice quasi scherzando che la sua storia, gremita di lutti e di dolori, assomiglia sempre più a una tragedia elisabettiana, come forse la storia di ogni vecchio. In realtà, minacciato dalle malattie, carico di memorie che non sopporta più, si sente attratto dall'idea del suicidio. Tuttavia, forse per il suo credo cristiano, o forse per qualcos'altro di più vago e tenace, non riesce a decidersi. Il suo antico allievo Toni, detto Beau, ha dissipato i non pochi talenti di cui era dotato e adesso, alle soglie della vecchiaia, sta girando uno snuff movie anomalo, con immagini di morte non provocata da lui. Al centro del film vuole mettere il suicidio del suo maestro e amico Piero. Dunque lo sollecita: più o meno diplomaticamente, lo costituisce in mora. Il romanzo vive di questa tensione, prolungata fino alle ultime pagine. E vive dei ricordi che perseguitano Piero: la scomparsa della figlia durante un viaggio in India...
"Tre novelle, un trittico, o meglio un retablo a tre ante sulle quali Anita Desai dipinge tre personaggi silenziosi, tre figure marginali alle prese con valori e disvalori dell'India contemporanea. Ambientate in luoghi dove si stende l'ombra lunga della storia, le tre novelle descrivono spazi fisici e mentali sui quali tuttora incombe il passato. Ne sono protagoniste figure indolenzite, un anziano custode, una traduttrice frustrata e un artista segreto, ognuno a suo modo maestro della cancellazione di sé. E che tuttavia proprio cancellandosi impongono la propria presenza, una sorta di corporeità dell'ombra. Nel 'Museo dei viaggi ultimi', anta sinistra del retablo, un funzionario governativo viene invitato in una scolorita dimora a visitare i tesori collezionati da un padrone nomade e assente. Gli fa da guida nelle innumerevoli stanze un anziano custode, mentore che nulla ha da invidiare al Virgilio che accompagna Dante dagli inferi alle porte del Paradiso. Porte custodite, qui, da una figura sorprendente quanto inattesa, l'incarnazione stessa della storia e della simbologia indiana. In 'Tradurre, tradursi', altra anta del retablo, un'insegnante di mezz'età si misura con il mestiere di traduttrice ma, incoraggiata dai primi risultati e da un inedito senso di autorealizzazione, comincia a confondere la linea di confine fra chi scrive e chi traduce, fra pagina bianca e pagina già zeppa di segni. Mettendo così a repentaglio i suoi risultati, annichilisce i propri desideri." (Anna Nadotti)
"Scrivere un romanzo vuol dire portare dentro di sé un segreto enorme. Provare a disfarsene parlandone non serve a niente. Il mondo diventa conoscibile solo dopo la scrittura. L'unico modo per liberarci del peso del segreto è scriverlo. Fino ad allora, è impossibile da condividere. Tutto ciò che non è il romanzo è incapace di comunicarlo. Mentre lavoravo a "Libro" dubitavo di me stesso, temevo che i personaggi non uscissero fuori, o la mia pelle assumesse la ruvidezza delle pietre del villaggio che riempiva i miei pensieri. Spesso, a metà di una conversazione, iniziavo a parlare con la voce di Galopim, di Cosme d'Ilídio mentre attende il ritorno della madre. A quell'epoca mi portavo addosso anni che non avevo mai vissuto ma che, durante la stesura del romanzo, respiravo in maniera assoluta, totale. Sono nato l'anno della Rivoluzione dei garofani, nel settembre 1974, ma le domeniche, durante gli interminabili pranzi di famiglia, i miei genitori e le mie sorelle ripetevano le storie di prima che io nascessi quando, durante la dittatura, erano emigrati in Francia. Esattamente come centinaia di migliaia di altri portoghesi. Un milione e mezzo di persone sono emigrate in Francia tra il 1960 e il 1974: circa il 15% di tutta la popolazione del paese. Questa era la dimensione del segreto che mi portavo addosso mentre scrivevo "Libro". I miei genitori sono tornati in patria pochi anni prima della mia nascita, stabilendosi nel piccolo borgo nell'entroterra di Alentejo..."
Centouno racconti brevi o brevissimi che giocano con i generi letterari - dal giallo al romanzo d'amore, dalla denuncia sociale alla fantascienza - ma soprattutto con il lettore. E che sposano appassionatamente la causa della parola contro quella del silenzio. Microromanzi che si muovono sul terreno della più ordinaria quotidianità: un amore sbagliato, un amore felice, un figlio che muore, uno che è all'ospedale, essere rapiti dagli alieni, un medico, un prete, una vedova, la mania degli autografi o quella degli anniversari, un terremoto, il ragazzo che si prostituisce, lo scrittore, il mafioso, una porta che sbatte, qualcuno che striscia, il basket, tornare a casa, addormentarsi, svegliarsi (a volte no). Le solite cose di tutti i giorni, appunto. Microromanzi ironici, autoironici, surreali, malinconici, spassosi, sempre folgoranti, che non sfidano il lettore, lo invitano piuttosto a una consapevole complicità pur riuscendo a stupirlo ogni volta, con quei colpi di scena che la vita (o sarà la scrittura?) regala in abbondanza. Microromanzi che intercettano la più grande rivoluzione scientifica di tutti i tempi, la fisica quantistica che ha già cambiato la filosofia, la religione e la nostra comprensione del mondo. Quella fisica quantistica che è la scienza degli universi paralleli, la scienza che riesce a raccontarci - con leggi via via più precise - come l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo, che i nostri sensi non percepiscono, esistono e determinano la nostra "realtà".
Certe scelte possono macchiare il destino di innocenti. È quello che accade ai figli del principe di Aquitania: dopo la morte dei genitori, fratello e sorella crescono in un'ambigua simbiosi che, con la pubertà, si trasforma in incesto. Quando la fanciulla si scopre incinta, il tutore dei ragazzi decide di separare i due giovani, nascondere la gravidanza e affidare il neonato al fiume, come Mose. Gregorio (questo è il nome del bambino) cresce ignaro di tutto con la famiglia del pescatore che lo ha salvato, fino a quando gli viene rivelato il segreto della sua nascita e decide di partire in cerca della madre. Affronta con coraggio e saggezza i pericoli del mondo, sempre illuminato dalla fede e dalla speranza di conoscere colei che gli ha dato la vita e della quale vuole alleviare la pena per la colpa commessa. Ma la sua vita è segnata dal peccato: lo aspetterà un altro tragico errore, un nuovo incesto, cui seguiranno un folle viaggio e una lunga penitenza (diciassette anni incatenato su uno scoglio, cibandosi solo di rugiada) che lo condurrà infine al soglio di san Pietro. Reinterpretando il "Gregorius" di Hartmann von Aue, Laura Mancinelli continua a raccontarci con passione il Medioevo. Storie di amori, cadute e redenzioni: sentimenti universali che attraversano le epoche ammaliando ogni volta i lettori.
I Taeger vivono a Pittsburgh, Pennsylvania, e sono una famiglia molto in vista: una volta al mese la loro ampia magione accoglie la migliore società. Ciascuno nel suo ambito, i quattro figli sembrano avviati verso brillanti carriere. Nel novembre del 1922, tuttavia, zia Mansfield, sorella della signora Taeger, durante un ricevimento, all'improvviso e per cause inspiegabili muore. E con la sua morte ha inizio anche la disgregazione della famiglia: Elaine, la figlia, si suicida per un amore infelice, nonno Rudolph commette un omicidio, la signora Taeger scappa con un altro uomo e Davison, il marito, si trasferisce a Saint Louis. Solo di Milton, Edward e Arthur, i tre figli maschi, a Pittsburgh si sentirà ancora parlare, perché tutti loro, in un modo o nell'altro, godranno ben presto di grande notorietà. La fulminea disgregazione della famiglia Taeger, dà il via a un vero e proprio fuoco d'artificio di avventure che dagli anni Venti e Trenta ci conducono alla seconda metà del XX secolo e poi di nuovo indietro verso la Guerra di Secessione. Opera prima di un autore diciassettenne, "Il territori del lupo", è un romanzo che attraversa una grande varietà di generi letterari e che non fa nulla per nascondere i propri debiti verso culture che all'epoca, in piena era franchista, erano ancora considerate minori, in primo luogo quella cinematografica e della musica di intrattenimento.
Diego De Silva fa un passo a lato, si allontana dalle irresistibili vicende di Vincenzo Malinconico e ci regala una semplice storia d'amore. Semplice per modo di dire, perché la scommessa è tutta qui: nel nascondere la profondità in superficie, nel tratteggiare desideri e dolori, speranze e rovine, con poche parole essenziali, dritte e soprattutto vere. Perché, come diceva Fanny Ardant ne La signora della porta accanto, solo i racconti scarni e le canzoni dicono la verità sull'amore: quanto fa male, quanto fa bene. Solo lí si cela l'assoluto. Cosí De Silva prende i suoi due personaggi e li osserva con pazienza, li pedina, chiedendoci di seguirlo - e di seguirli - senza fare domande.
La perfetta storia d'amore di due persone che si sfiorano senza incontrarsi mai.
Nicola e Irene sono fatti l'uno per l'altra, ma non lo sanno. Probabilmente se ne accorgerebbero, se s'incrociassero anche solo una volta. Non dovrebbe essere difficile, visto che frequentano regolarmente lo stesso bistrot...
Irene vuole essere felice, e quando il suo matrimonio inizia a zoppicare se ne va. Nicola è solo, confusamente addolorato dalla morte di una donna che aveva smesso di amare da tempo. Anche lui, come Irene, è mosso da un'assoluta urgenza di felicità. Anche lui vuole un amore e sa esattamente come vuole che sia fatto.
Sarebbero destinati a una grande storia, se solo s'incontrassero una volta nel bistrot che frequentano entrambi. Ma il caso vuole che ogni volta che Nicola arriva, Irene sia appena andata via.
Se le vite di Nicola e Irene non s'incontrano fino alla fine, le loro teste invece s'incontrano furiosamente nelle pagine di questo libro: i pensieri, le derive, il sentire - quell'impasto inconfondibile di toni alti e bassi, riflessivi e comici - si richiamano di continuo, sono ponti gettati verso il nulla o verso l'altro. Forse, verso l'attimo imprevisto in cui la felicità finalmente abbocca: perché se lo lasci passare, quell'attimo, te ne vai con la curiosa ma lucida impressione d'esserti appena giocato la vita.
Platone è un bassotto dal pelo lungo e la coda a pennello. Un cane da salotto, di quelli nati per fare compagnia agli uomini. A Yuri, per esempio, studente di filosofia "con gli occhiali sempre appannati". Ma durante le vacanze Yuri segue Ada su una nave da crociera, lasciando il bassotto alle cure del portiere. E proprio nella solitudine della notte di Natale avviene per Platone l'incontro che gli cambierà la vita. Nella cantina del palazzo, il Tatuato nasconde scatoloni pieni di animali di contrabbando: scimmie, iguane, serpenti a sonagli, una vecchia tartaruga leopardo di nome Leo, e lei, la Regina, un'elegante levriera afghana, giovanissima, "poco più che un gomitolo di neve". Per Platone è il colpo di fulmine. Ma il cuore della Regina è altezzoso, e neanche le canzoni che il bassotto intona giorno e notte per tenerle compagnia riescono a sedurla. A raccontarci questa storia tenera e profonda, dal suo osservatorio speciale tra le foglie di un albero, un pappagallo che conosce tutte le lingue del mondo, e tutte le pieghe dell'anima. Una favola per chi crede che niente è impossibile.
Jean Bosmans ha l'abitudine di annotare su un taccuino tutti i frammenti di memoria che si affacciano alla sua mente. Cosi, a partire da un nome di donna, ricorda l'incontro avvenuto a fine anni Sessanta con Margaret Le Coz, una ragazza ventenne frequentata a Parigi e amata intensamente per alcuni mesi. Con Margaret, Jean ha condiviso il sentimento di essere seguito, spiato, aspettato ogni giorno, o meglio braccato. Lei da un uomo dal viso magro, gli zigomi butterati e un abito sempre troppo stretto: un certo Boyaval, lui da una donna crudele dai capelli rossi, forse sua madre. Margaret è una giovane donna bella e misteriosa, vulnerabile, segreta, silenziosa. Di lei si sa soltanto che è nata a Berlino, che è arrivata in Francia con la madre, che non ha mai conosciuto il padre e che è cresciuta in vari collegi. È una donna che fugge. E durante una delle sue fughe incontra Boyaval che inizia a perseguitarla. Fugge ancora, ma l'uomo non le dà tregua, cosi come la incalzano alcuni misteri che provengono dal suo profondo passato, zone d'ombra che di punto in bianco la convincono a nascondersi, ad abbandonare tutto senza avvertire nessuno. Una sera Margaret non si sente più sicura, abbandona precipitosamente Parigi e parte per Berlino dove sparisce senza lasciare traccia. Quarant'anni dopo, Jean, diventato uno scrittore, decide di ritrovarla: parte per Berlino dove un ragazzo incontrato per caso gli conferma che una donna con quel nome possiede una libreria li vicino...
"Chiunque abbia lavorato in un hotel giurerà di avere a disposizione un'aneddotica pressoché sterminata sulla clientela", dice il protagonista di questa vicenda ipnotica. La sua aspirazione sarebbe quella di diventare "un virtuoso del pianoforte", ma per sbarcare il lunario si vede costretto a fare il portiere di notte in un albergo. Ed è li che conosce Mabel, una collega con "poco seno, pochi fianchi, nessuno slancio - capace di comunicare una morbidezza del tutto assente nelle sue forme". Il fascino e la complicità che sprigiona ogni suo gesto sono le armi più affilate di un personaggio disarmante e inafferrabile che - accettando "tutto quello che le viene incontro con arrendevolezza" - fa infuriare ogni donna e seduce ogni uomo. Sarà proprio Mabel a illuminare lo scorrere lento delle notti del protagonista - incapace di trovare il coraggio per mettere a fuoco la sua vera identità -, e a impartirgli un'inconsapevole lezione sulle qualità che deve possedere un artista.
L'"Antigone" di Valeria Parrella è la storia di una donna fiera e combattiva, che non ha paura di sfidare una legge che reputa ingiusta. Di fronte a un dolore che la sovrasta sceglie infatti di non sottostare all'editto del Legislatore, e per amore del fratello è pronta a pagare le terribili conseguenze che questa decisione comporterà. La tragedia di Sofocle rivive in un testo teatrale attualissimo e appassionato, che affronta temi caldi come il libero arbitrio, il confine tra legge della natura e legge dell'uomo, la lotta di un adolescente contro il padre tiranno, la detenzione nelle carceri, il suicidio come atto libero e consapevole. L'autrice de "Lo spazio bianco" ci restituisce un dramma universale e senza tempo che rivela in controluce le contraddizioni e le ingiustizie di Tebe, un paese spaventosamente vicino all'Italia di oggi.
Maurizio ha dieci anni e non vede l'ora che comincino le vacanze. Per lui l'estate significa stare dai nonni a Crabas: lì ogni anno ritrova Franco e Giulio, fratelli di biglie, di ginocchia sbucciate e caccia alle libellule, e domina con loro un piccolo universo retto da legami che sembrano destinati a durare per sempre. Ma nell'estate del 1986 qualcosa di imprevedibile incrinerà la loro infanzia e mostrerà a tutti, adulti e ragazzi, quanto possa essere fragile il granito delle identità collettive. Basta un prete venuto da fuori a fondare una nuova parrocchia per portare una scintilla di fanatico antagonismo dove prima c'erano solo fratellanze. In quella crepa della comunità l'estraneo può assumere qualunque volto, persino i capelli rossi di un inseparabile compagno di giochi. In questo racconto insieme comico e profondo, la penna inconfondibile di Michela Murgia ci regala una storia di formazione in cui il protagonista scopre - insieme al lettore - cosa significa dire "oi". "Non era un pronome come negli altri posti, ma la cittadinanza di una patria tacita dove tutto il tempo si declinava così, al presente plurale".
L'amore e la Storia. L'amore, magari breve, che tuttavia lascia un'impronta indelebile nell'esistenza di chi lo vive; e la Storia, che procede senza concedere tregue e lasciare scampo, seminando torti e ingiustizie. Otto capitoli e otto momenti della vita di un uomo, dall'infanzia passata in un orfanotrofio russo negli anni Sessanta, all'età adulta, quando il sistema in cui inizialmente aveva creduto si dissolve. E in ciascuna di queste narrazioni è l'amore di o per una donna a risvegliare un frammento di coscienza: la giovane senza nome che sulle tribune per il corteo dell'anniversario della Rivoluzione d'ottobre piange sommessamente il compagno morto in un sottomarino, incrina la fiducia del giovane in quelle meticolose e vacue messinscena; Maja, la nipote della "donna che ha visto Lenin", gli svela la brutalità del leader bolscevico; Vika, che vive con la madre accanto alla fabbrica in cui il padre è costretto ai lavori forzati, gli apre gli occhi sul carattere repressivo del regime; Leonora, con la quale il narratore ormai adulto vede un film occidentale in cui la chiave di una camera d'albergo strappa gli applausi; Jorka, il compagno di giochi mutilato dall'esplosione di una granata, che coglie dei fragili bucaneve da regalare "a qualcuno" e pochi giorni dopo si avvia verso il bosco ancora disseminato di mine; Kira, che in un enorme e improduttivo frutteto si sforza di spiegare gli alti ideali dell'arte e della lotta al regime. E infine quella donna grassa e volgare...
Parigi, 1991. Dopo la caduta del muro di Berlino, in piena dissoluzione dell'Unione Sovietica, Feliks Zhukovski, di origine polacca, solitario e abitudinario autore della "Guide jaune" si trova di fronte alla classica offerta "che non si può rifiutare": verrà ricompensato profumatamente se accetterà di cedere i diritti della sua guida nientemeno che a un editore americano. Per lui, convinto fautore delle magnifiche sorti dell'ormai ex Blocco sovietico e da sempre attivista e "uomo di sinistra", seppur fuoriuscito dal Partito comunista francese, il dilemma è serio. Ma più di ogni altra cosa, è l'inizio di un viaggio, fisico e interiore, che lo porterà a rivedere le sue certezze ideologiche fredde e razionali, astratte e assolute, alla luce degli incontri, delle emozioni, delle relazioni fondamentali rifiutate o perdute - della sua vita: suo fratello, la donna che ha amato e mai più rivisto, e soprattutto sua madre. Peregrinando tra la Polonia e la casa scomparsa dell'infanzia, il bar della Stasi a Berlino dove aveva conosciuto Kristin, e Columbus, Ohio, profonda provincia americana, dove il fratello Woody-Woodrow (chiamato così dalla madre in onore del presidente statunitense Wilson) in fuga dalla guerra è diventato agiato piccolo imprenditore, Feliks vedrà aprirsi, inaspettatamente, tra gioie e difficoltà, una nuova stagione della sua vita. E ce la racconterà con disincanto, ironia e autoironia a tratti tagliente, e con sempre maggiore coinvolgimento emotivo.
"Pensava soltanto a quello. Riportare la sua vita a quel punto. Nel punto dove si era interrotta. Si trattava di unire due lembi di terra, due lembi di tempo. In mezzo c'era il mare. Si metteva i fichi aperti sugli occhi per ricordarsi quel sapore di dolce e di grumi. Vedeva rosso attraverso quei semi. Cercava il cuore del suo mondo lasciato". Farid e Jamila fuggono da una guerra che corre più veloce di loro. Angelina insegna a Vito che ogni patria può essere terra di tempesta, lei che è stata araba fino a undici anni. Sono due figli, due madri, due mondi. A guardarlo dalla riva, il mare che li divide è un tappeto volante, oppure una lastra di cristallo che si richiude sopra le cose. Ma sulla terra resta l'impronta di ogni passaggio, partenza o ritorno che la scrittura, come argilla fresca, conserva e restituisce. Un romanzo di promesse e di abbandoni, forte e luminoso come una favola.
L'universo creato da Javier Marías per accogliere le vicende del suo narrare, in particolare del recente e fondamentale romanzo in tre volumi "li tuo volto domani", ospita spesso le attività di servizi segreti, la cui peculiarità più inquietante è saper interpretare le vite dei soggetti che ricadono sotto la loro attenzione, famosi o sconosciuti che siano. Qui sono riuniti tre di quei ritratti, che consentono di cogliere come le tecniche d'interpretazione siano diverse, ma lo scopo finale - conoscere, giudicare, prevedere per controllare e semmai coartare - sia pur sempre unico: un esercizio di stile che fa cogliere grandezze e miserie di tre personaggi molto noti come Silvio Berlusconi, Michael Caine e Lady Diana.
Sullo sfondo dell'Italia fascista, Maurizio vive la propria adolescenza a Villa Gradenigo, nella provincia veneta. La sua è una famiglia altolocata, con la quale il ragazzino ha minimi contatti: il padre è quasi sempre assente per affari, la madre lascia che siano le altre donne di casa (la governante, la cuoca, la tata appena ventenne) a prendersi cura di Maurizio e della sorella minore. Nelle stanze alte della villa e nell'enorme parco che la circonda il ragazzino si emanciperà gradualmente dal ruolo di figlio e di fratello sperimentando i primi turbamenti sessuali, e incontrerà la politica e la letteratura. Proprio confrontandosi con questi temi Maurizio potrà ridisegnare il suo percorso interiore in vista dell'età adulta. Un romanzo fortemente evocativo, costruito per piccole scene che s'inanellano le une alle altre, sorretto da una scrittura magnifica, capace di restituire l'atmosfera di un'epoca e le inquietudini di un'età cruciale della vita.
È l'estate del 1923 quando in due stanze in un sobborgo di Berlino una nuova coppia dà inizio al suo futuro comune. Lei si chiama Dora Dymant, lui Franz Kafka, e quello è l'ultimo anno della sua vita. Prima di allora ci sono state altre due brave ragazze ebree nella vita di Kafka, Felice e Julie, poi la passionale, anticonformista Milena. Ma lui è già "sposato con l'angoscia a Praga" e un altro matrimonio non ci sta. È solo con la giovane Dora che Kafka, avvicinandosi alla fine, riesce a svincolarsi dalla città nativa e a pensarsi, seppur per poco, libero di amare. E se fosse sopravvissuto alla tubercolosi che lo condusse a morte precoce? Se addirittura fosse scampato all'olocausto che si prese tutte le sue sorelle, rifugiandosi all'estero, magari in America, magari in un'accogliente comunità ebraica? Cosa sarebbe accaduto se il cantore di ogni forma di assoggettamento, vincolo, coercizione fosse riuscito a sfuggire? Quali inediti appagamenti il Nuovo Mondo delle mille possibilità avrebbe potuto riservargli? Philip Roth immagina per noi lo scenario e, incrociando quell'orizzonte letterario e umano al proprio, dà vita a una piccola gemma di lucidità critica e insieme di spassoso estro narrativo.
Dario è un uomo di mezza età, separato, insegnante in congedo perché sta per subire una delicata operazione chirurgica. I due figli, Leonardo e Betta, vanno spesso a trovarlo, distraendolo ogni volta con nuovi racconti, mentre lui si dedica volentieri alla cucina e tenta di dare i giusti consigli. Il padre anziano, affidato alle cure di una badante moldava, non fa altro che parlare di politica.
Sospeso in un limbo di attesa, Dario non vuole soccombere alla paura, un compito che chiama a raccolta tutto l'istinto. Inizia allora a ricercare il piacere a pagamento frequentando annunci su internet; ma ha bisogno di qualcosa di più e di diverso da una semplice prestazione sessuale: uno spazio e un tempo abitabili.
È così che incontra Gao. Lei ha i capelli «castano-rosso all'henné» e non parla italiano. In Cina ha lasciato un figlio adolescente e un marito violento e insoddisfatto che minaccia di raggiungerla al più presto per accampare diritti ormai scaduti.
Tra lei e Dario comincia una relazione che cresce giorno dopo giorno nello stare bene insieme, senza artifici, e senza quella fastidiosa «necessità di fare» che è un male comune a tante storie. Una relazione in cui apprendere una lingua per comunicare significa cimentarsi con i piccoli gesti quotidiani, con il silenzio, la condivisione e la cura. E significa soprattutto scoprire che la diversità non impedisce di provare gioia. Finché non arriva l'ultimo passaggio a rischio.
Raymond Queneau fa parte del gruppo surrealista parigino dal 1924 al 1929. Tra le molte passioni che condivide con André Breton e i suoi amici, ci sono i romanzi di Fantomas e certo anche la magistrale versione cinematografica realizzata da Louis Feuillade. Queneau si appassionerà a tal punto all'eroe nero creato da Jean Souvestre e Marcel Allain da accarezzare il progetto di scriverne una biografia. Il libro non vedrà mai la luce, ma l'autore degli Esercizi di stile non resisterà alla tentazione di giocare, nel suo inimitabile modo, con gli ingredienti del feuilleton: ecco dunque Hazard e Fissile, il primo esperimento narrativo di Raymond Queneau, ritrovato pochi anni fa tra le carte dello scrittore e finora assolutamente inedito.
Questo romanzo è un'esilarante parodia e una distorsione delle peripezie classiche del romanzo d'appendice: ci sono vilains dai nomi improbabili e dai modi bizzarri, ci sono donne nude e mascherate, pistole che scompaiono, eroi ed eroine senza macchia e senza cervello: e ci sono anche clown malinconici, omicidi, inseguimenti e agnizioni. E soprattutto c'è già tutto Raymond Queneau: gli esperimenti metaletterari, gli sberleffi al lettore, le visioni care all'immaginario surrealista, quasi provenissero dai dipinti di Delvaux o di Dalì (diciassette piovre addomesticate!); e ancora, un colpo di scena ad ogni pagina, una sorpresa ad ogni paragrafo.
I giochi di parole, che hanno travolto il traduttore, delizieranno i lettori; e chi ha amato Zazie nel metró, I fiori blu e gli Esercizi di stile non faticherà a ritrovare in questo breve testo incompiuto il primo incunabolo di quei capolavori.
Baldo è un cane tra gli altri, che attende il suo padrone. Ed ecco che in una frizzante mattina di settembre arrivano Uomo e Donna. E lo scelgono. È una scelta affidata al caso, frettolosa e superficiale, eppure in ballo c'è un'intera vita da trascorrere insieme.
Così Baldo inizia a fare esperienza del mondo umano, pieno di ossessioni e di meccanismi astrusi e lambiccati. Poco alla volta comprende che gli uomini sono prigionieri di catene invisibili che li riportano sempre al punto di partenza.
La dimensione da cui ci osserva, con occhio ironico e compassionevole, è quella di un presente assoluto, dei piccoli gesti che si ripetono, delle meravigliose scoperte legate alla semplicità dei sensi. Ma nella naturale accettazione del mondo per come è si nascondono considerazioni venate di profonda e involontaria saggezza che Baldo suggerisce al padrone, Uomo, invitandolo a disfarsi degli inutili fantasmi che accompagnano le sue giornate.
Col passare degli anni, la speciale sintonia che li unisce produce un desiderio di sconfinamento l'uno nell'altro, un rapporto privilegiato, fatto di silenzi e dialoghi che si affidano all'ambiguo «gioco degli occhi», e che si realizza in uno spazio nuovo, a mezza via: quello della «felice confusione tra specie diverse».
Un padre rievoca al figlio alcuni episodi della propria vita. Nel 1915 la sua famiglia, come tante altre, è migrata all’estero in cerca di fortuna. Il padre ricorda la morte del fratello Beniamino, la scoperta del mondo al di fuori delle mura domestiche (quando accompagnava il padre in giro per affari) e il lungo viaggio in nave che l’ha riportato a Genova. Dopo un anno passato in convento per mettere alla prova la vocazione religiosa che sente pulsare dentro di sé, l’uomo si immergerà nuovamente nel mondo, nella Storia: sono gli anni del fascismo e della resistenza. In seguito sarà un medico molto stimato. Alla morte del genitore, il figlio si ritrova con un’eredità di ricordi ed esperienze che cerca di mettere a frutto tenendo a bada il dolore per la perdita. Si rinchiude nella casa del padre e trova rifugio nella letteratura e nel mito, compiendo un immaginario viaggio catartico – in compagnia di Tristano e Lancillotto – che gli varrà come personalissima elaborazione del lutto.
A un anno dalla morte del padre, Siri Hustvedt tiene un discorso commemorativo nel college dove l’amato padre ha insegnato per anni. Ha da poco iniziato a parlare, quando si accorge di tremare: il suo corpo, dal collo in giù, è attraversato da spasmi così violenti e incontrollati che riesce a stento a proseguire la lettura o solo a stare in piedi. Il suo fisico è preda delle convulsioni nonostante la mente rimanga lucida: un contrasto che non fa che aumentare il panico per la sensazione di aver perso il controllo del proprio corpo. Utilizzando il racconto autobiografico come filo conduttore (le visite da dottori, neurologi, psichiatri e psicanalisti, le cure farmacologiche, l’auto-analisi...), Siri Hustvedt s’interroga con rigore e lucidità su quale sia il rapporto che ognuno di noi ha con la sofferenza e l’angoscia, con la memoria e l’Io. È costretta a fare i conti con la «Siri che trema», con ciò che quel doppio di sé vuole comunicarle con le sue convulsioni. Deve riuscire a riconoscersi anche nell’«altra» Siri. Un viaggio tutt’altro che scontato.
«L'ultimo colloquio al telefono dunque rovesciò le nostre vite: per accumulo, per eccesso, quasi che esse potessero cambiare solo traboccando. Zezi poi asserí, magari velleitariamente, che era stato come il sussulto piú luminoso d'una lampadina prima che si fulmini. A voler chiamare luce l'infelicità, o addirittura la violenza, e buio l'assestamento raggiunto fra noi».
Un racconto: l'insolito regalo di compleanno di un marito a una moglie che lo accusa di non amarla più. Quando scende la sera, e fa freddo fuori e dentro, alla luce blanda di una lampada un uomo «quasi vecchio» legge alla sua compagna una storia d'amore che ha appena finito di scrivere per lei, nel tentativo di ritrovare l'intesa d'un tempo.
Torna così un inverno lontano e insolitamente nevoso, quando un giovane magistrato all'inizio della sua carriera arriva dal continente su un'isola. Là, dentro una precaria camera d'affitto, gli tocca smaltire insieme alle carte processuali la noia della solitudine. Ma una sera la telefonata di una sconosciuta increspa la calma triste e piatta di quello scenario. Sembra un errore, uno scherzo, e invece è l'inizio di una relazione.
Chi lo chiama è Zezi, una diciassettenne buffa («una squaw bambina»), persino bella e a suo modo infelice: d'una «fragilità impudica ». Insiste a cercarlo, serenamente sfacciata, con la sua voce puerile ma di contralto; e presto il magistrato non riesce a fare a meno di quelle telefonate. S'imbatte allora in una realtà sconosciuta, che è già amore, anche se il nome gli verrà solo più tardi; una zona inesplorata di sé nella quale si perde, costretto a fare i conti con la propria vita, in bilico tra le rigidità della professione e le imprudenze frivole (le assennate follie?) della ragazza. Ma cosa cerca Zezi? Perché vanta amori di ogni genere e con indecenza soave si dà della puttana? Forse per recuperare qualcosa che ha perduto, che non ha mai avuto? Per mitomania? O soltanto per civetteria? Che si tratti di bisogno di protezione o di malizia, lei gli propone un fidanzamento, però condizionato. Così il giudice prende a frequentarne ogni giorno la villa, Villa Mimosa, imparando da un vecchio grammofono lo strazio dei tanghi argentini e la Pavane di Ravel; ma dopo non sta ai patti: come se d'improvviso si fossero scambiati innocenza e corruzione, in un gioco delle parti che è la dolorosa fine d'ogni gioco. Segue un anno di sospensione e silenzio, poi la storia si ripete: lo squillo di una telefonata sembra riaprire il ciclo. Ma l'emozione che ne deriva è una vertigine dissolta in un attimo, «come nei sogni di chi crede di stare su un precipizio e invece si ritrova sopra un qualsiasi gradino». Come se una nuova cognizione del dolore avesse d'un tratto cancellato quella strana passione, lasciando solo uno sconforto cocente degli altri e di sé.
Quella di Mannuzzu è una scrittura che s'impregna di dolore, malinconia, sbigottimento.
Un perimetro di tensioni e passioni, dove tutto procede per sottili trapassi, in una prosa fitta di dialoghi, stranita e colma di risonanze.
Il sogno di Crimilde è rilettura di un antichissimo mito germanico accolto nei Nibelunghi, poema anonimo composto per le corti nobiliari tra xii e xiii secolo. La scrittrice si rifà alla tradizione del mondo germanico meridionale, in cui una Crimilde ingenua e innamorata, dopo l'uccisione del suo Sigfrido, per vendicare il perduto amore provoca la distruzione di due interi popoli. La presenza dell'incombente tragedia non toglie nulla al fascino del racconto, anzi lo accresce.
La seconda storia, I tre volti di Isotta, è un'interpretazione del più affascinante e misterioso poema del Medioevo europeo: il Tristano, composto da Gottfried von Strassburg all'inizio del xiii secolo e rimasto incompiuto. Le figure delle tre Isotte, la Bionda, la Madre e la Bianca Mano, erano già presenti, con i loro significati simbolici, nella tradizione celtica, e a quella versione precristiana si attiene la scrittrice, prendendo le distanze dalla sovrapposizione religiosa di Gottfried. Le contrastate vicende di Isotta la Bionda e dell'eroico Tristano si intrecciano con la sanguinosa contesa tra Cornovaglia e Irlanda, tra sfide, congiure, brevi giorni felici e inganni. Avvalendosi della libertà concessa ai narratori di miti celebri, la Mancinelli attribuisce un ruolo insolito e centrale a re Marke, e al suo rapporto con i due amanti infelici.
Due storie immortali che la medievista e appassionata affabulatrice rievoca con rigore e leggerezza aprendo vividi squarci sul colorato mondo cortese.
Marsiglia 1942: una città meravigliosa e corrotta, dominata dalla violenza, pervasa da oscuri traffici, immersa in un clima allo stesso tempo di esaltazione e di paralisi, una città in cui confluiscono migliaia di ebrei provenienti da ogni parte d'Europa, nella speranza di trovare un modo per fuggire Oltreoceano, per sottrarsi alla mortale presa della Gestapo. Uno dei punti di raccolta dei fuoriusciti è il Baalbek, un albergo di infima categoria, nei cui corridoi si susseguono le voci: è vero che i tedeschi stanno occupando anche il resto della Francia? e che la Deventer, una nave piena di profughi, è affondata? Nel foyer si discute animatamente, si gesticola, si prendono coraggiose decisioni; nelle misere camere qualcuno si ama, altri si inventano un mestiere, altri ancora, ormai decisi a mettere fine alla loro vita, sistemano meticolosamente ogni pendenza.
Fra gli ospiti di questo straordinario e fatale caravanserraglio c'è un giovane timido, innamorato contemporaneamente di due bellissime donne, Katja e Lily, innamorato della vita che ancora non conosce davvero. È lui, uno dei pochi sopravvissuti, a raccontare decenni più tardi di queste esistenze sull'orlo dell'abisso, a narrare le vicende di Jablonsky, di Sascha, di Jossip, del musicologo David Stern e della sua bionda moglie, della piccola Judith, così giovane e così seducente. È lui a rievocare, con grande immediatezza, un mondo che allora non riusciva ancora a immaginare con quale violenza e crudeltà sarebbe stato investito dalla storia.
«Entro in un negozio di scarpe, perché ho visto delle scarpe che mi piacciono in vetrina. Le indico alla commessa, dico il mio numero, 46. Lei torna e dice: mi dispiace, non abbiamo il suo numero.
Poi aggiunge sempre: abbiamo il 41.
E mi guarda, in silenzio, perché vuole una risposta.
E io, una volta sola, vorrei dire: e va bene, mi dia il 41».
«Gli sms dopo le undici di sera che dicono: dove sei?, che significano molto di più di quello che dicono».
«Quando la donna con cui dormo ha capito che ognuno deve dormire dal suo lato. Che ci si può abbracciare prima, o quando ci svegliamo la mattina, ma quando si dorme bisogna stare ognuno per i fatti suoi. Dividendo il letto con la stessa meticolosità con cui si tracciava la linea di divisione del banco con il compagno di banco, a scuola».
Sei in coda al supermercato in attesa del tuo turno, magari sei bloccato nel traffico, oppure aspetti che la tua ragazza esca dal camerino di un negozio d'abbigliamento. Sei un po' distratto, insomma. Quando all'improvviso la realtà intorno a te sembra convergere in un solo punto, e lo fa brillare. E allora capisci di averne appena incontrato uno. I momenti di trascurabile felicità funzionano così: possono annidarsi ovunque, pronti a pioverti in testa e farti aprire gli occhi su qualcosa che fino a un attimo prima non avevi considerato.
Per farti scoprire, ad esempio, quant'è preziosa quella manciata di giorni d'agosto in cui tutti vanno in vacanza e tu rimani da solo in città. Quale interesse morboso ti spinge a chiuderti a chiave nei bagni delle case in cui non sei mai stato e curiosare su tutti i prodotti che usano. O la soddisfazione nel constatare che un amico ha ripreso in poco tempo tutti i chili persi con una dieta faticosissima che, per qualche giorno, sei stato tentato di fare anche tu.
A metà strada tra Mi ricordo di Perec e le implacabili leggi di Murphy - ma col gusto tutto italiano della divagazione - Francesco Piccolo mette a nudo con spietato umorismo i piaceri più inconfessabili, i tic, le debolezze con le quali prima o poi tutti noi dobbiamo fare i conti. Pagina dopo pagina, momento dopo momento, si finisce col venire travolti da un'inarrestabile ondata di divertimento, intelligenza e stupore.
Con la stessa sensibilità con cui ha perlustrato l'Italia «spensierata», Francesco Piccolo raccoglie, cataloga e fa sue le mille epifanie che sbocciano a ogni angolo di strada. Perché solo riducendo a spicchi la realtà si riesce ad afferrare per la coda - magari un attimo appena - il senso più profondo della vita.
I protagonisti di questi memorabili racconti vivono lontano da casa: spesso sono immigrati russi da poco in America, altri in Russia hanno fatto ritorno per trovarvi un paese che a malapena riconoscono. Quasi tutti sperano che l’amore possa dare un senso alle loro vite. E se l’amore non c’è, ci provano lo stesso con una sua pallida imitazione. Anya ha 22 anni e riesce a farsi aiutare dalla legge per proteggersi dalle violenze del marito americano, lui spera nel perdono, ma Anya capisce che un futuro con Ryan sarebbe come ritornare in Russia: un compromesso che sa di sconfitta. Un immigrato georgiano riceve la visita del figlio adolescente e tra i due le tensioni sono feroci e palpabili. Victor cerca di dialogare con la figlia, ormai perfettamente americanizzata, di un suo vecchio amore di quando viveva in Russia. Un uomo torna a Mosca dalla moglie e cerca di applicare sul mercato azionario russo alcuni trucchi che ha imparato a Wall Street... L’eccezionale debutto di una scrittrice che sa quanto nella vita sia necessario fare compromessi e sperare.
«Ezra Pound ha affermato che la letteratura è una notizia che rimane sempre fresca. Non c'è definizione migliore di questa per I girovaghi, lo straordinario nuovo romanzo di Yiyun Li. In questo libro, storia e memoria s'incontrano nel modo più crudo e riuscito».
Colum McCann
Il primo giorno di primavera del 1979 non segna un passaggio di stagione come tutti gli altri per Fiume Fangoso, una cittadina industriale nel cuore della Cina: ottantamila abitanti stipati in casette cubiche dalle pareti sottilissime, vicoli sterrati, minuscoli cortili tutti identici fra loro.
A incrociarsi, il mattino del giorno stabilito per l'esecuzione di una «controrivoluzionaria», sono i destini degli ultimi della città: maestro Gu e sua moglie, sfortunati genitori di Shan, la condannata, Tong, il ragazzino di campagna, vecchio Hua e sua moglie, raccoglitori girovaghi di rifiuti e neonate abbandonate; oppure Nini, undicenne deforme dallo sguardo penetrante, e l'imbelle Bashi, con la sua insaziata curiosità verso le ragazzine, o il solitario vecchio Kwen, incattivito come il cane nero che tiene alla catena.
Ma sarà un giorno decisivo anche per chi all'apparenza ha tutto ciò che si possa desiderare, come la bella Kai, annunciatrice del partito e moglie di Han, politico in ascesa. L'esecuzione della «controrivoluzionaria» porterà al pettine i nodi che aggrovigliano gli abitanti di Fiume Fangoso, i quali si ritroveranno dopo quindici giorni nella piazza principale, a testimoniare con un fiore bianco di carta velina la loro silenziosa ribellione. E dalla capitale giunge l'eco di un cambiamento, nel segno del Muro della democrazia...
Attingendo a episodi della sua infanzia e adolescenza, Yiyun Li, con una scrittura precisa e armonica, una compassione trattenuta e un sentito rigore anche nel narrare gli episodi più efferati della quotidianità nella Cina totalitaria, disegna un quadro plumbeo come le acque del fiume che bagna l'anonima città industriale. A tratti, però, in tanta tetraggine si aprono squarci di speranza: protagoniste, perlopiù, sono le donne, tenaci e coraggiose nel tenere alta la voce della vita e della giustizia. E pronte, come Nini, a ripartire girovagando, alla ricerca testarda di uno scorcio di libertà.
Una professoressa con i capelli a spazzola e un balordo che ce l'ha con il mondo intero. Una simpatica vecchietta in ciabatte, un povero Cristo e tre buffi giostrai. Che ci fanno tutti nello stesso posto? Al Monte dei Pegni ciascuno porta con sé la propria storia, ma a parlare è soprattutto «la roba» che passa di mano in mano: gioielli, argenti, tappeti e pellicce. Ma anche piatti decorati, spille e piastrine¿ Oggetti piccoli e grandi, «pezzetti di vita» che per necessità o per timore vengono lasciati lì, in attesa - si spera - di poterli un giorno riscattare.
Per scrivere questo libro Elena Loewenthal ha osservato con sguardo discreto la fila ordinata che ogni giorno, in attesa del miracolo, si snoda davanti agli sportelli del Monte dei Pegni: gli oggetti depositati si trasformano in banconote, le preoccupazioni lasciano spazio alle speranze.
L'autrice accompagna il lettore lungo un percorso fatto di memorie e di piccoli addii, raccontando il doloroso sollievo che ogni separazione porta con sé. Fino a scoprire che - malgrado i ricordi sembrino avvolgere tutto ciò che possediamo - in realtà «le cose tacciono, siamo noi che c'illudiamo di ascoltarle».
«A sedici anni, nei versi di Majakovskij, lessi una storia che mi segnò per sempre. La ditta Van Houten, che produceva dell'eccellente cacao, ebbe una trovata macabra e geniale: comprare l'ultimo desiderio di un condannato a morte per pubblicizzare la sua polvere scura. L'uomo davanti alla folla curiosa avrebbe dovuto gridare come ultimo desiderio lo slogan: Bevete cacao Van Houten! In compenso, la sua famiglia avrebbe ricevuto una somma di denaro sufficiente a vivere con tranquillità almeno per un paio d'anni.
L'uomo gridò. La mia anima di sedicenne anche».
Quando si nasce nella «prigione chiamata Albania», esistono solo due modi di orientare lo sguardo. C¿è quello del pittore Petraq, che cammina chino sull¿asfalto e sembra rimpicciolire ogni giorno di più: è lo sguardo basso della colpa, di chi si vergogna della propria vecchiaia, ma anche della propria bellezza, o di un marito che ha troppa voglia di fare l¿amore. E poi ci sono gli occhi puntati dritti verso formidabili orizzonti: è lo sguardo di Gazi che attraversa l¿Adriatico e sogna di portare la sua musica in Italia, in Francia, negli Stati Uniti. Sono gli occhi di Teuta mentre stropiccia il foglietto su cui è segnato l¿indirizzo che dovrebbe accoglierla a Roma, quelli di Sabrina inghiottita dal mare, e di Lumturi che si nutre delle pagine di Proust e Stendhal.
Complice un tempo che sembra eterno, l¿Albania smette di essere prigione per diventare limbo, uno stato transitorio nel quale si sopravvive coltivando «promesse d¿altrove», fino al giorno in cui si parte davvero. Ed eccolo, finalmente, «il paese dei miracoli», un luogo in cui la bellezza femminile non è più dannazione ma fortuna, il pesce non ha le lische e le scatole di tè racchiudono prodigi mai sentiti.
Ma l¿autrice di questi quattordici racconti, che ha lasciato Tirana a ventidue anni e ha scelto di scrivere in italiano, di sguardo ne ha inventato un altro: obliquo, che gioca a ribaltare le ovvietà della lingua e dell¿esistenza.
Coniugando crudeltà e tenerezza, Ornela Vorpsi riesce a ritrarre quell¿essere meraviglioso e fragile che è l¿umano, capace di vendersi al prezzo di un sogno, persino nel momento del respiro ultimo. Una scrittura spietata e intrisa di ironia, animata da una lingua unica, ricca di potenza simbolica, che fa dell¿assenza di radici la sua forza e trasforma lo spaesamento in strumento di conoscenza.
New England, intorno alla metà del XIX secolo. Cattolico tra i protestanti, orfano accolto appena nato nel convento di Saint Anthony, a undici anni Ren è ancora in attesa di qualcuno che lo adotti, risparmiandogli così l'arruolamento forzato nell'esercito. Ma come sperarci, con quella sua diversità tanto lampante? Ren, in compenso, ha già scoperto di possedere un innegabile talento: quello per il furto. Quando il misterioso Benjamin Nab, sedicente ex soldato e avventuriero dal sorriso irresistibile, viene a reclamarlo sostenendo di essere suo fratello, per Ren avrà inizio una serie di peripezie travolgenti in cui mettere a frutto il suo «dono». Benjamin, in compagnia di Tom, maestro in disgrazia e alcolizzato, lo coinvolgerà in una sfilza di affari loschi infarciti di tonici miracolosi, esibizioni pietose per abbindolare i gonzi, fino ad arrivare all'esumazione di cadaveri da rivendere agli ospedali per le autopsie. Sarà proprio in una di queste sortite che Ren farà amicizia con il gigantesco e «frankesteiniano» Dolly, assassino letteralmente risorto dalla tomba. E il ragazzo avrà bisogno di tutti loro per andare incontro al suo destino, nella città ferita di North Umbrage, sotto l'ombra dell'enorme e tetra ciminiera della fabbrica di trappole per topi del temibile contrabbandiere McGinty e dei suoi scagnozzi in cappello e guanti rossi.
Con una ricostruzione storica vivida e puntuale senza mai essere invasiva, tra echi di Dickens, Mark Twain e Stevenson, la storia di Ren ci porta alla scoperta di un mondo marginale e picaresco, dove ciascun individuo ha una storia inattesa alle spalle e dove un «piccolo ladrone» può davvero aver modo di dimostrare tutto il suo buon cuore. In un alternarsi di episodi commoventi e situazioni esilaranti, Ren andrà alla ricerca della famiglia che ha sempre desiderato e scoprirà - oltre alle storie edificanti delle Vite dei santi e alle avventure del Cacciatore di cervi - nei momenti in cui lui e Benjamin avranno bisogno di trarsi d'impaccio, il potere inarrestabile e il fascino irresistibile di una storia raccontata bene.
«Oscuro e trascinante... Nel Buon ladro il lettore trova un romanzo ricco di virtù tradizionali: struttura solida, estrema lucidità, un impeto viscerale e una totale assenza di manierismi stilistici. Hannah Tinti ambienta in America un racconto dickensiano con tratti di humour e fantasia alla Harry Potter, e un tocco macabro d'inquietante storia del New England».
The New York Times
«Davvero un bel libro... Ti fa ricordare perché ti sei innamorato della lettura tanto tempo fa... L'immaginazione fervida della Tinti... ci fa riscoprire la nostra. È un dono da tenere caro...».
Boston Globe
Supponiamo che tu voglia chiedere un aumento al tuo capo. Prima fermati e rifletti. Poi, prendi il coraggio a due mani e vai nel suo ufficio. Potresti trovarlo alla sua scrivania oppure trovare una sedia vuota. Delle due, l'una: non c'è. Del resto neanche tu sei nel tuo ufficio. Cosa fare? Non scoraggiarti e aspetta il suo ritorno. Ma il tuo capo potrebbe non tornare. Potrebbe essersi intossicato a mensa mangiando uova marce, o aver ingoiato una lisca di pesce, o aver preso il morbillo da una delle figlie. E se anche rientrasse, chi ti dice che sia di buon umore? Che ti sorrida e ti faccia accomodare quando bussi alla sua porta? Che sia questo il momento giusto? Se è venerdì potrebbe esser meglio aspettare il lunedì. Se è mattina tornare il pomeriggio. E se fosse in piena digestione...
Rilassati. Aspetta il giorno dopo e se sarà presente, se sarà disponibile, sforzati di nuovo di convincerlo.
«Dopo avere riflettuto a lungo dopo aver preso il coraggio a due mani ti decidi ad andare dal tuo capoufficio per chiedergli un aumento e così vai dal tuo capoufficio diciamo per semplificare perché bisogna sempre semplificare che si chiama monsieur xavier cioè monsieur o meglio mr x così vai da mr x e qui delle due l'una o mr x è in ufficio o mr x non è in ufficio se mr x fosse in ufficio apparentemente non ci sarebbe nessun problema ma ovviamente mr x non è in ufficio e così ti rimane solo una cosa da fare appostarti nel corridoio in attesa del suo ritorno...»
«Trovo magistralmente ben narrata la squallida storia, perfettamente collegati i movimenti psicologici. Gli ultimi tre capitoli sono i migliori: vi è una reale progressione drammatica, come dicevano gli antichi; e in tutta l'opera del resto, la sensazione "temporale" è eccellentemente resa. I capitoli finali sono avvolti in una luce di grigia poesia».
Così scrisse di questo libro, letto inedito in un abbozzo giovanile, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Per aggiungere, dopo una serie di osservazioni stilistiche costruttive: «Queste mende sono poche; il riferimento a loro occupa molta carta, ma il loro valore è minimo in confronto della salda bellezza dell'opera».
Il celebre critico e teorico letterario scrisse ventenne un romanzo idealmente suggerito dall'autore del Gattopardo, lo lasciò quarant'anni in un cassetto, l'ha riscritto dai 65 ai 75 anni. I decenni intercorsi trasformano oggi in un romanzo storico quello che non lo era nei primi anni Cinquanta.
Prima liceo, 1947. Perché Mario, conquistatore di donne, è tenuto a distanza da Ferdinando che ama in segreto proprio ragazzi come lui? Lo si capirà solo alla fine. Ferdinando perde la testa per uno sportivo piú bello e piú sano ma totalmente incolto, Mario innamora la nipote di una duchessa in uno strambo salotto nobiliare e comunista. Quando il reciproco bisogno di confidenze li avvicina, l'affetto sincero degenera in una spirale sadica e masochistica di terribile violenza.
Entrambi ne escono annientati.
Una storia trascinante, che non nasconde i suoi debiti (il romanzo breve francese, Stendhal, la Carmen di Bizet), e dove l'ironia filtra le scene piú divertenti come le piú crudeli. Ci cattura per la rilucente bellezza e l'originale velocità dello stile, ci dà da riflettere sul fondo bisessuale di noi tutti quale lo vedeva Freud.
Quando Joachim, un economista di trent'anni con buone prospettive di carriera e dalla vita sentimentale travagliata, la salva da uno scippo e le restituisce la borsa ricamata di perline, l'anziana signora con la veletta bianca lo ringrazia solo con un cenno del capo. Poi però per sdebitarsi lo invita a prendere un tè e lui accetta di buon grado. La grande villa che lo attende al numero 12 della Kastanienallee ha visto tempi migliori: l'intonaco si sfalda, le persiane stanno su per miracolo, l'arredamento, ridotto all'essenziale, non può nascondere i segni dell'usura. La padrona di casa, Josefine K., però non intende assolutamente rinunciare a un certo decoro: all'epoca del nazismo è stata una cantante lirica molto famosa e ancora oggi è una grande dame piena di verve, che vive e pensa fuori dagli schemi, arrogante, sempre pronta a giudicare il prossimo, a mettere in discussione antiche certezze, a esprimere opinioni che si esiterebbe a definire politicamente corrette. Affascinato non da ultimo dal suo passato e dall'alone di mistero che la avvolge, per otto mesi Joachim passerà quasi ogni martedì pomeriggio in quel vetusto salotto discutendo - e molto spesso litigando - degli argomenti più disparati: dal femminismo alla recentissima riunificazione tedesca, dal Terzo Mondo all'Olocausto, dai difetti della democrazia alla deprecabile moda del fitness; ne nasce - temperato dal rispetto, dalla discrezione e dalla differenza di età - un sentimento di vicinanza che consente al giovane di penetrare i tanti segreti della sua interlocutrice e di registrarli meticolosamente in un diario.
Sedici anni di vita in Giappone. La storia d'amore tra una donna occidentale e un paese inconoscibile e affascinante, così radicalmente straniero.
È il racconto di uno smarrimento e di una seduzione. Per quadri, ritratti, storie intime, Antonietta Pastore ci porta con sé nel suo lungo viaggio di avvicinamento, rendendoci partecipi della bellezza e del mistero.
Per arrossire con lei nello scoprire, dopo molti anni e molti raffreddori, che soffiarsi il naso in pubblico è maleducazione. Per accorgersi che «dietro i volti serafici dei giapponesi, levigati come maschere del teatro no, si affollano le stesse emozioni che agitano l'animo umano sotto ogni cielo».
Il cricket può essere uno sport molto complicato, soprattutto se non ne conosci le regole. I cinque giorni in cui tutto il paese tiene il fiato sospeso davanti a un'interminabile partita tra India e Inghilterra possono essere il momento peggiore per far precipitare una crisi matrimoniale, cercare un sedicenne scappato di casa, o assecondare i desideri di un misterioso amante. Eppure è quello che deve fare la protagonista: tentando, nel frattempo, di imparare le regole. Se non del cricket, almeno della vita.
Autentico caso letterario in Inghilterra, 24 per 3 è stato accolto come una gemma di raffinata intelligenza, ironia e sottile erotismo.
Daniel, che tutti chiamano Yalo, ha trent'anni quando viene arrestato per rapina, stupro e detenzione di esplosivi. Prima di essere processato trascorre due anni nelle mani dei Servizi segreti libanesi che, usando ogni possibile forma di tortura psichica e fisica, lo costringono a ripercorrere la propria vita e a definire la propria identità.
Mentre le confessioni di Yalo si succedono, incontriamo gli altri membri della sua famiglia: il nonno, Padre Efrem Abyad, cresciuto in ambiente curdo e di religione musulmana e divenuto poi sacerdote della Chiesa Ortodossa Siriaca a Beirut, e la madre, Gaby, che la guerra civile ha obbligato a lasciare Beirut Ovest per rifugiarsi nella parte cristiana della città, facendole perdere non solo la casa ma anche l'amore di tutta una vita.
Da tutto questo, Yalo si emancipa entrando nelle milizie delle Forze Libanesi nelle cui fila combatte per un decennio; poi emigra in Francia assieme a un commilitone e infine rientra in Libano grazie all'intervento di un ricco compatriota che lo assume come guardiano della propria villa nei dintorni di Beirut. Nel bosco che circonda la casa, Yalo, per due anni, vive in solitudine facendo la posta alle macchine delle coppiette che si appartano sotto i pini: è in una di queste occasioni che il destino gli fa incontrare Chirine, di cui si innamora perdutamente e che è la causa del suo arresto e della sua redenzione.
Mescolando sapientemente le gioie della sensualità con l'orrore della violenza cieca, la passione con il sangue, il potere della memoria con le insidie dell'oblio, Elias Khuri ci conduce al cuore degli abusi di potere e fa di Yalo il simbolo di tutte le vicende individuali che la Storia vuole cancellare
Florindo Flores ha abbandonato per qualche giorno il suo amato orticello e il suo giardino sassarese, e si trova a Torino per questioni personali. Non immagina certo che sarà costretto, suo malgrado, a riprendere le tradizionali attività investigative. Tutto comincia con la scomparsa di un paio di occhiali, che si ritiene fossero appartenuti a Cavour. Il Bensi, proprietario di un ristorante, che ne ha denunciato la sparizione, non lo convince affatto, sembra una caricatura del Conte, con quel panciotto e i modi cerimoniosi e sfuggenti... Pare una faccenda trascurabile e Flores non vede l'ora di liquidarla per rifugiarsi nel calore dell'atmosfera famigliare, tra gli aromi della saporita cucina della moglie, ma sono invece le nebbie del Po a catturarlo: dalle acque torbide emergono indizi che potrebbero rivelare vicende sinistre: il vestito e la parrucca di una certa Loredana, ben conosciuta da Bensi. Tra i dipendenti del Ricetto del Conte, il locale che esibiva in una vetrinetta gli occhiali e altri cimeli del grande piemontese, manca all'appello Evaristo da Rio, un cameriere che serviva i clienti a passo di samba. Svaniti gli occhiali di Cavour, sparito l'ambiguo brasiliano, scompare anche il signor Bensi: dal suo armadio mancano solo la vestaglia, le pantofole e... una bombetta. Bisogna dipanare la matassa e forse il bandolo potrebbe essere nelle mani della signora Bensi...
Una donna veglia un uomo disteso in un letto. L'uomo è privo di conoscenza, ha una pallottola in testa, gli ha sparato qualcuno per un futile motivo. In un paese che assomiglia all'Afghanistan, in un tempo che potrebbe anche essere oggi. La donna parla senza interruzione, come non ha mai fatto prima. Racconta al marito, finalmente presente e muto, molte storie che fanno la loro storia e quella del loro paese. Prima sussurra, poi grida, si adira, ha paura. Piange. E ancora sussurra, piano, dolcemente. Si prende cura dell'uomo e insieme lo rimprovera. Lo rimprovera di aver voluto essere un eroe, di aver preferito le armi e la guerra a sua moglie e alle figlie. Di non avere mai parole per lei. A poco a poco, escono dalla bocca della donna parole proibite, parole ribelli. Una finestra coperta da una tenda con uccelli migratori affaccia sul mondo esterno. Tutto intorno infuria la guerra. In un crescendo serrato la donna inizia a svelare al marito piccole furbizie e grandi colpe. Menzogne necessarie per non essere ripudiata con ignominia. Forse, un limite c'è anche per la sang-e sabur, la pietra di pazienza. Quella pietra che nella mitologia persiana si tiene accanto per confidarle tutto quello che non si può rivelare a nessun altro. Riversando su di lei i propri malesseri, sofferenze, dolori, miserie. La pietra ascolta, assorbe come una spugna, tutte le parole, tutti i segreti finché un bel giorno non esplode. E quel giorno saremo liberati.
Prima di approdare alla narrativa, Soriano ha praticato due grandi passioni: quella del calcio e quella del giornalismo. La prima, vissuta sui campi come attaccante, dovette abbandonarla a causa di un incidente. La seconda, la praticò molto a lungo, e anzi non la abbandonò mai. Nel 1983 raccolse in volume, per la prima volta, gli articoli scritti per "La Opinión" di Buenos Aires che gli sembravano degni di rimanere sulla pagina anche dopo che la loro attualità era passata: nasce cosi "Artistas, locos y crìminales", un libro che ha avuto in Italia una storia editoriale complicata. Infatti, nella prima edizione, vennero tralasciati molti dei testi che il volume comprendeva. Quegli otto brani, qui riuniti, sono in pratica scritture di mezzo tra veri e propri reportage giornalistici e narrazioni di media lunghezza. Molti sono ispirati alla storia dell'Argentina. Tuttavia, Soriano sa guardare anche più indietro, nel passato, e ci da - per esempio - una lettura sfolgorante della storia di Johann Sutter, uno svizzero che sarà importante nella storia della California perché sulle terre da lui conquistate, a metà dell'Ottocento, si scatenerà la caccia all'oro che abbiamo visto raffigurata in innumerevoli film. Il testo che parla di lui, "La febbre dell'oro", è stato scelto per dare il titolo al volume.
Alcuni anni fa, mentre stava lavorando al progetto di un libro fotografico, Claudio Rigon ritrova in un museo della sua città alcune piccole fotografie di soldati insieme a carte, lettere, quaderni, documenti: tutto è intestato a un certo capitano Michel. Vi sono anche delle buste contenenti molti fogli ripiegati. Dicono di pattuglie in perlustrazione nella notte davano alle trincee austriache, dell'arrivo del rancio, di un bombardamento, di morti. Dicono che si è davanti al Monte Ortigara. Sono fonogrammi, i messaggi con cui alcuni reparti di un battaglione alpino si erano comunicati disposizioni e informazioni. Vanno dal 24 giugno al 24 luglio del 1916. Il capitano Michel, appena promosso, era giunto allora a prendere il comando di un battaglione decimato, rimasto senza ufficiali. Nella vita civile era insegnante di storia e filosofia. Dopo aver letto tutti quei fogli Claudio Rigon li ha incrociati, messi in ordine, ha inquadrato ogni dettaglio nel contesto. E soprattutto li ha fatti parlare, sfiorandoli con una voce calibrata, esatta, mai invadente e mai retorica, che da forza e collante al racconto.
La musica gioca un ruolo importante in molte delle opere di McEwan: a livello tematico, impegna e appassiona i suoi personaggi; come metodo formale, organizza e scandisce la sua scrittura. Ma nella piena commistione di partiture che è il libretto d'opera, McEwan, rinnovando la collaborazione con il compositore Michael Berkeley esplora inedite possibilità espressive e dilata i confini del genere. La trama di "For you" si inserisce nella vasta tradizione dell'opera buffa. Il celebre compositore e direttore d'orchestra Charles Frieth si appresta a dare nuovo lustro alla sua fama con la messa in scena della sua ultima creazione per orchestra, "Demonio Aubade", e intanto non rinuncia ad ampliare la propria collezione di conquiste femminili seducendo, in cambio di un assolo di 32 battute, la giovane suonatrice di corno Joan. Charles e la moglie Antonia, molto malata e in attesa d'intervento, si trovano così coinvolti in un vivace ménage a six che include anche il medico di Antonia, Si-mon, il segretario di Charles, Robin, e la cameriera polacca, Maria, in un girotondo teso e a tratti comico che sfocia in un epilogo sorprendentemente cupo. Si ritrovano dunque i temi da sempre cari a McEwan calati in una lingua che, pur nella specifica forma concisa e cadenzata, sa esprimere tutta la forza della contemporaneità perché, come osserva l'autore, "al giorno d'oggi un libretto deve avere un interesse intrinseco; non può essere solo la gruccia su cui appendere musica favolosa".
Agosto 1905. Un gruppo di ragazzi sale su una nave ad Auckland, in Nuova Zelanda, e inizia una lunga traversata alla volta dell'Inghilterra: prima tappa di una gloriosa tournée che toccherà paesi lontani e misteriosi. Città splendenti, moderne e caotiche. Tra di loro ci sono due calzolai, due fabbri, tre agricoltori, un caporeparto del mattatoio, due minatori, un impiegato statale e uno di banca, un ex fantino, due corridori professionisti e un maestro d'ascia. Sono i mitici Ali Blacks. Ma questi ragazzi ancora non sanno che il loro destino sarà quello di diventare una leggenda del rugby e di conquistare il mondo. Giocano la prima partita nel Devon ed è una sorprendente vittoria. È solo l'inizio. Da quel momento in poi mietono un successo dopo l'altro. Ognuno di loro possiede una buona dose di coraggio, ingenuità, elegante naturalezza e generosità senza pari. Un irrefrenabile piacere di giocare insieme e uno spirito di squadra ferreo e indiscutibile. A dicembre, a soli quattro mesi dalla partenza, sono già i "meravigliosi All Blacks" che nella classica divisa nera hanno battuto lo Yorkshire 40 a 0 e l'Inghilterra e l'Irlanda con un secco 15 a 0. Eppure questi ventisette ragazzi belli, forti, timidi e generosi, sembrano non abituarsi mai ad essere oggetto di così tante attenzioni e il loro sogno resterà fino alla fine "continuare a orbitare nel nostro piccolo mondo di calzolai e fonditori".
Mario Rigoni Stern racconta come ci si prepara ai rigori invernali in assenza degli agi messi a disposizione dal progresso. Prima di tutto, bisogna fare provviste, accumulare e conservare cibo: i prodotti dell'orto, le patate ammucchiate in cantina, la farina da polenta. E poi bisogna badare al freddo: la legna di faggio è la migliore perché non sporca il camino, e la temperatura si tiene d'occhio controllando che l'acqua lasciata in un secchio non geli. Non mancano neanche i consigli per restare in buona salute: la grappa scaccia l'influenza, il miele di salvia fa bene alle vie respiratorie. E ciò che emerge da tanti consigli pratici è il ritratto di un'esistenza vissuta secondo ritmi antichi, ritmi che permettono di vivere in armonia con la natura e di dedicarsi allo spirito perché resta il tempo per riflettere e per leggere. In attesa della primavera.
Dopo una gioventù on the road, Rossana è diventata una gatta "condominiale": ha trovato rifugio in un cortile torinese, insieme ai suoi cuccioli, coccolata dalla portinaia Aurora e dalla vedova Esposito. A scombussolare le sue giornate ci pensa Ramon lo sciupagatte, bellissimo e fiero, con il brillio dei suoi occhi verde-semaforo e il sorriso abbagliante a ventotto denti. Compagno infedele e padre decisamente assente, una mattina, prima di sparire del tutto, Ramon le confida il suo segreto: è un discendente del mitico gatto del Cheshire - lo Stregatto di "Alice nel paese delle meraviglie" - e ha ereditato il potere di rendersi invisibile, o quasi... Rossana dovrà scegliere tra i loro cuccioli l'erede giusto, trasmettergli il segreto e soprattutto imporgli di portare a termine il Compito. Inizia così l'avventura di Ruggine, catapultato verso il Nord contro la sua volontà, alla ricerca del luogo in cui dovrà assolvere l'importante missione. Tra mille peripezie e pericoli di ogni sorta, incontra Odradek, la strana creatura letteraria balzata fuori da un racconto di Kafka e, da quel momento, suo inseparabile compagno d'avventure. Attraverso l'esaltante scoperta della letteratura, e qualche incontro inaspettato, Ruggine e Odradek affronteranno un vero e proprio viaggio nella complessità del mondo, in cui il calore dell'amicizia sarà la vera rivelazione.
Una decina di anni fa, a Paul Auster venne chiesto di scrivere la sceneggiatura di un cortometraggio erotico che non venne poi realizzato. Rielaborato il materiale, lo scrittore lo inserì nella struttura narrativa del "Libro delle illusioni" (è uno dei film perduti di Hector Mann, il protagonista del romanzo). Qualche anno più tardi decise tuttavia di riprendere e ampliare la sceneggiatura, e di realizzare per conto proprio il progetto: il risultato è "La vita interiore di Martin Frost", suo secondo film come autore e regista. Uscito nelle sale nel 2007, ha come protagonisti David Thewlis, Irène Jacob, Michael Imperioli e Sophie Auster. Trama: dopo avere lavorato per tre anni alla stesura di un romanzo, Martin Frost decide di congedarsi per qualche tempo dalla letteratura e si ritira nella casa di campagna che due amici gli hanno messo a disposizione. Ma il suo periodo di riposo è di breve durata: è appena arrivato, che già alla sua mente si affaccia l'idea di un nuovo libro. Quando si sveglia la mattina successiva, al suo fianco nel letto dorme una giovane donna, Claire, Claire Martin per la precisione, a suo dire nipote dei padroni di casa. Lo scrittore è tutt'altro che contento di dover condividere la casa con un'altra persona, ma la bellezza e l'intelligenza della ragazza hanno presto la meglio sulle sue resistenze. Fra i due ha inizio un'intenso rapporto d'amore. Ma Claire è davvero la persona che sostiene di essere ?
Cinque racconti che sono innanzitutto una fenomenologia dell'amore. L'amore che si rivela inaspettato, quello che si fa giocando insieme, quello che si conquista nascondendosi dietro alle parole, quello che si consuma e si reinventa calandosi letteralmente nei panni altrui. Ma siccome ogni storia impone che ci si metta in gioco, e non c'è gioco che non sia pericoloso, ciascuno di noi dispone di un armamentario di difese per non lasciare che gli altri penetrino troppo facilmente nella nostra esistenza. Sono barriere linguistiche, reali o metaforiche, che frapponiamo come ostacoli ma spesso aprono nuove strade. Sono anche esercizi intorno a una mancanza, esorcismi per non dire il vuoto che ci spaventa portarci dentro. Miranda per esempio con gli occhi non ci vede, ma scorge con le mani colori e forme davvero imprevedibili: un giro per vetrine in sua compagnia può diventare un'avventura rischiosa ed eccitante. E quando Lele incontra Ulla, durante un'indolente vacanza a Stromboli, la trova fascinosa come una ninfa dei boschi, lievemente altera e irrimediabilmente tedesca: tra giochi erotici e giochi di parole, il non capirsi sarà soltanto un'altra forma del desiderio. Mentre Mara e Michele, una passione per i viaggi e per Polanski, niente figli e molti anni di vita in comune, credono di aver trovato la formula del matrimonio perfetto: fino a quando all'aeroporto non ritirano la valigia sbagliata...
Si raccolgono qui tutti i racconti di Anita Desai, ventuno racconti in ordine cronologico inverso, dall'inedito "II pianerottolo" del 2007, ai primi racconti scritti per vari periodici indiani negli anni Sessanta. Quasi mezzo secolo di meticolosa ricerca di senso che l'autrice compie attraverso una scrittura che ha nel dettaglio il suo motivo ispiratore e il suo punto di forza. "La scrittura è per me un atto assolutamente privato, un gesto segreto", dice Anita Desai, e con pacata segretezza coglie immagini, episodi minimi, indizi che a un tratto si connettono dando vita a un racconto. Indagati con uno sguardo acuto e inquieto, non solo gli individui ma anche gli spazi e gli oggetti diventano personaggi di queste storie, che si sviluppano come esplorazioni narrative di universi intimi, di luoghi fisici e mentali: un pianerottolo, una veranda stipata di mobili, un lungo corridoio, un capanno per gli attrezzi in giardino, la superficie scabra di un frutto, l'ispessirsi di un silenzio. Difficile a volte distinguere fra un'eco e un passo, tra una presenza e un pensiero. A volte il pensiero fa più rumore, i passi si perdono al di là di una siepe. Ognuno di questi racconti è storia di un cambiamento, di una transizione, di un passaggio talora impalpabile tra un prima e un dopo, un dentro e un fuori, tra vita interiore ed esistenza quotidiana.
Il passato raccontato da Michele Mari è quello mitico e irrecuperabile dell'infanzia, eroso negli anni da una diaspora di oggetti e sentimenti il cui ricordo continua a sanguinare. Ma in questi racconti non c'è mai il rimpianto di una perduta età dell'oro, perché la violenza immaginifica dell'autore opera un recupero altissimo di emozioni infantili legate a un universo in cui le sole figure amiche sono quelle dei propri personali mostri e di pochi, semplici ma "fatidici" giocattoli. Ogni pagina spalanca abissi di malinconia dove fanno irruzione visioni fantastiche e terrificanti, in cui riecheggiano nitide le voci degli autori più amati, Stevenson, London, Poe, Melville. Così i giardinetti che accolgono gli svaghi pomeridiani dei bambini diventano lande inospitali, dove s'aggirano tremende creature mitologiche come le Antiche Madri; così un puzzle segna l'iniziazione a un'ascesi quasi monastica, così le copertine di Urania o le canzoni degli alpini diventano la palestra di ossessive elucubrazioni mentali, e tutto è tanto più feticisticamente inventariato quanto più la vita sembra cosa riservata ad altri. Una narrazione di trasalimenti e precoci nevrosi, condotta con commozione ma anche con feroce umorismo dalla voce inconfondibile di Michele Mari. Il ritorno di un libro uscito da Mondadori nel 1997, e già considerato da molti un piccolo, imprescindibile classico.
"L'azzurro del cielo" fu scritto da Georges Bataille nel 1935 ma non fu pubblicato perché ritenuto dall'autore troppo limitatamente personale (uscì nel 1957 grazie al consiglio di alcuni amici dell'autore). Il romanzo porta i "segni premonitori" di una tragedia storica imminente, rappresentando i mali che sarebbero dilagati con la guerra. Predominano il colore nero del lutto dei paramenti funebri per la morte di Dolfuss e il rosso delle bandiere con la svastica di Hitler. Ma è da un tormento privato che la vicenda prende avvio, ispirandosi a incontenibili pulsioni scandite in "mostruose anomalie". Londra, Parigi, Barcellona disegnano una topografia della perdizione, una cornice nella quale il protagonista Troppman, attraverso sbronze, notti in bianco e strani riti, si avvicina a una nuova forma di purezza, alla comunione con la morte grazie allo scoperta illuminante del sordido.
Il "piacere di narrare storie, e storie su altre storie" spinge A. S. Byatt a scrivere fiabe, a inserire fiabe nei suoi romanzi, a costruire lunghi racconti fiabeschi come "II genio nell'occhio d'usignolo". Soddisfacendo cosi il bisogno primario di tradurre i sogni in esperienza quotidiana tangibile seppure evanescente. Come sopravvivere altrimenti al senso di perdita che ognuno sperimenta col trascorrere del tempo? Al passato che si accumula alle nostre spalle, al futuro oscurato dal fiato incendiario dei draghi, Byatt reagisce non spezzando artificiosamente il tempo reale, bensì inventando una fantasiosa opportunità, quella di muoversi in compagnia dei propri fantasmi, di dar loro un corpo, per quanto stravagante, indiscreto e inusuale esso possa sembrare. Tre "storie fantastiche" narrate nel più classico dei modi, ma i cui protagonisti "fuori del tempo" risultano assolutamente contemporanei.
Don DeLillo sceglie una prospettiva inusuale per parlare con la consueta lucidità di temi a lui da sempre cari: la vita dell'artista, la natura solitaria del processo di creazione, il carattere ossessivo e perciò incontrollato dell'arte in divenire. Lo fa accostando prodotti di diversi linguaggi espressivi - quello cinematografico, quello letterario e quello iconografico - e lasciando che dialoghino fra loro. I tre film ("Atanarjuat", "Trentadue piccoli film su Glenn Gould" e "Thelonious Monk: Straight No Chaser") disegnano così una costellazione che include il libro ("Il soccombente" di Thomas Bernhard) e la fotografia (un vecchio scatto che ritrae Thelonious Monk, Charles Mingus, Roy Haynes e Charlie Parker) e si accende di significato grazie alla lettura che DeLillo ne offre.
Quando perde la madre, alla minorenne Jamie Hall non restano altri affetti del cane meticcio e senza nome con cui si accompagna. Per evitare di finire in un istituto che la separerebbe anche da lui, Jamie fa rotta verso la tetra cittadina industriale di Dyers Corners. L'atmosfera di degrado e privazione del luogo si riflette ora nei suoi abitanti. Nell'abiezione del rigattiere Jake e nella scelleratezza del bracconiere Harlan, nel rimpianto paralizzante del direttore dell'ufficio postale da sempre innamorato della nonna di Jamie. Jamie prende servizio come custode presso la casa estiva di Margaret, un'anziana fotografa segnata dal dolore ma ancora capace di uno sguardo lucido e solidale, e là conosce Galen, cacciatore di pelli reduce del Vietnam che ha scontato in carcere una lunga condanna per una colpa mai commessa, rifugiandosi poi in una solitudine sconfitta e rassegnata. Con loro, con lui, Jamie sembrerebbe finalmente avviata a una nuova serenità, ma ancora una volta il destino non accenna a distrarsi. Ha le fattezze di un ragazzino, un essere arcano e insensato, più animalesco che umano. Jamie, di ritorno a casa insieme al cane, lo trova legato a un albero come una bestia, e senza starci a pensare lo slega. E il primo atto di una catastrofe imminente che la costringerà presto a una fuga all'ultimo respiro.
Gaetano è un giovane di un remoto paese della Sicilia degradato dall'abusivismo, una sorta di paese fantasma con un passato di miseria e un futuro di disintegrazione sociale e culturale. Molti sono emigrati in Germania, tra questi anche il padre di Gaetano che vorrebbe tirar fuori il figlio da quella palude: è tornato in paese per questo, vuole aprire un bar in Germania, vuole che Gaetano l'aiuti. Il figlio però non intende seguirlo. Lì ha i suoi amici, la prospettiva di una laurea, una zia che ama moltissimo, la memoria della madre e un timore, quello di finire come i tanti immigrati che arrivano sulle spiagge del suo paese: "morti di fame" che hanno perduto, insieme alla terra, la loro dignità e qualsiasi prospettiva di vero riscatto. Come Alì, un nordafricano che, espulso dalla propria terra, ha scelto la clandestinità e l'anonimato, alla disperata ricerca di un qualche futuro. Ed è in un'azienda agricola gestita da un boss della zona, tra quelle serre che "come un mare finto" dilagano nel paesaggio, che s'incrociano, rispecchiandosi l'uno nell'altro, i destini di Gaetano e Alì.
Lena vive da anni all'ombra del marito gravemente malato: ha dovuto mettere da parte la sua vita e la carriera accademica, votandosi alla cura di quest'uomo che lentamente muore. Il giorno dell'inaugurazione della stazione faunistica che lei avrebbe dovuto dirigere, è costretta ad affrontare, insieme a Matteo, un imprevisto weekend di vacanza. Silvana e Carmen hanno lo stesso padre, ma non potrebbero essere più diverse: sottomessa e rispettosa la prima, estroversa e calcolatrice la seconda. Fin da bambina Silvana ha vissuto all'ombra della sorella, e rivederla dopo tanti anni risveglierà in entrambe un rancore sordo. Nice è intontita da una vita che le sembra una perdita di tempo, da un marito capitatole quasi per caso e poi accantonato in un angolo. Quando il vecchio padre si risposa con la signorina Teresa, Nice si sente tradita: accettare la felicità altrui le sembra un compito impossibile. Tre storie, tre destini, tre donne: ciascuna di loro è fotografata nel momento esatto in cui l'amore, la solitudine, il coraggio e il dolore, convergono in un unico punto.
I racconti de "Il migliore dei mondi" descrivono le geometrie delle relazioni famigliari, o di personaggi in conflitto con sé stessi o con il mondo. Nel racconto intitolato "Mamma" un bambino crede che gli insulti dell'amico vogliano realmente suggerire che sua madre è una prostituta... La famiglia di "Mio fratello" non accetta la morte di un figlio e così, il fratello rimasto, per evitare che i genitori soffrano, continua a fare come se fosse ancora vivo: lo sveste, lo mette a letto e lo porta a scuola... In "Vacanze estive" un padre vaga per Barcellona nei luoghi della sua infanzia con nella borsa del supermecato il feto del figlio nato morto. Al centro della raccolta sta il lungo racconto intitolato "Davanti al re di Svezia", la storia di un poeta catalano ossessionato dal Premio Nobel e che vive un oscuro complotto.
Nella prima conversazione, vediamo i tedeschi reduci da Stalingrado sfilare nel centro di Mosca il 17 luglio del 1944, sono 57.000 "soldati banalmente vinti, non partecipi di un qualsiasi mito, massa informe, sospesi durante quella giornata in un vuoto di abominio": l'autrice ricompone letterariamente un avvenimento che va dritto al cuore delle contraddizioni intrinseche alla guerra. Nella seconda, la morte di un cane amato riporta alla memoria i deserti dei distacchi che nella vita si provano: il primo amore, la vedovanza, ma anche gli animali, le piante e, proiettati nel futuro, i figli e i nipoti, che saremo noi a dover lasciare. Un amore di quasi sessant'anni ha legato Gino Moretti alla moglie Anita. Mentre marciava in Ucrania, nell'estate del '42, le scriveva quasi una lettera al giorno. Rileggere oggi quelle lettere significa riflettere sulla vita intera. Sui momenti eroici, sulla durata, sulla passione, sulla caducità. Sui piccoli fili segreti che stanno tesi dentro ogni matrimonio.
Un giovane prete impaziente viene mandato a trascorrere i mesi invernali di praticantato a Chiavalle, dove lo attende un parroco più anziano. Il tempo scorre monotono tra svogliate confessioni dei fedeli, malati da visitare, partite a poker e chiacchiere con la gente del posto; solo una cosa sembra appassionare il giovane prete: la squadra di calcio del paese. È attratto in particolare dal talento di un ragazzo che si favoleggia non abbia mai sbagliato un rigore. Lo tormenta un desiderio meschino, dettato dall'invidia: vedere il giovane sbagliare almeno una volta un rigore. Ma un evento drammatico scuote la sonnolenta vita della comunità: la morte, apparentemente accidentale, di un chierichetto di dodici anni; un maresciallo in pensione indaga, e fra i sospettati sembra esserci proprio il giovane prete.
Il 15 aprile 1987, Federico Caffè esce di casa all'alba. Di lui non si saprà piú nulla, nonostante le minuziose ricerche di parenti, allievi e amici. Suicidio o ritiro in convento? Ma chi era Federico Caffè? Economista "disubbidiente"; teorico scontroso e problematico di un welfare state senza cedimenti a compromessi e clientele; "seduttore intellettuale" tutto dedito all'insegnamento e alla formazione dei propri allievi, fu il creatore di un laboratorio teorico da cui uscirono uomini capaci di pensare l'economia non come aggressività di un mercato senza controlli, ma come sistema razionale in grado di garantire anche i piú deboli. Ma il 15 aprile 1987 Federico Caffè era soprattutto un uomo solo. Ermanno Rea offre un romanzo-ritratto che ricostruisce con immediatezza e verità il contesto di una vicenda personale avvolta nel mistero, ma anche un pezzo della storia italiana in cui l'economia ha provato a pensare a un paese diverso. Al testo, pubblicato per la prima volta nel 1992, si aggiunge una nota dell'autore del febbraio 2008, "L'economista che visse due volte".
Un romanzo che comincia con il peggiore incubo di ogni genitore: la scomparsa di un figlio. Il protagonista, e narratore, si chiama Roman ed è un famoso giornalista televisivo. La scomparsa dell'adorato figlioletto finisce su tutti i giornali, la polizia indaga, ma Simon non viene piú ritrovato. Per Roman comincia cosí una rapida deriva che in breve tempo lo porta alla separazione dalla moglie e alla perdita del lavoro; ma sono eventi che non gli importano: il suo unico pensiero resta Simon e la certezza che sia ancora vivo. Ne avverte la presenza, gli parla di continuo; quando si addormenta, lo vede davanti a sé, calmo e sereno e per nulla disposto a ritornare con lui nel mondo reale. Decide quindi di andare a ritrovarlo nell'isola dei sogni, a Grenada, l'isola in cui Roman ha vissuto da bambino...
Venne il tempo in cui Zeus per vendicarsi degli uomini decise di far loro dono di un male meraviglioso a vedersi ma di cui non avrebbero potuto più liberarsi. Chiama Efesto e gli ordina di fabbricare un manichino con le sembianze di una dea cui dona seduzione, bellezza e voce umana ma nello stesso tempo anche "un'indole cagnesca" e spirito bugiardo. Bella a vedersi, ma perfida, la sua apparenza esteriore è il contrario della sua intima realtà. Viene chiamata Pandora: perché è il dono che tutti gli dei vogliono fare agli umani. Pandora è l'antenata di tutte le donne. Insieme a lei manda sulla terra un vaso chiuso, e quando le ordina di aprirlo ne escono tutti i mali fino ad allora sconosciuti e che da allora non lasceranno più il mondo degli uomini. Da quel momento esisterà la fatica, la sofferenza, il dolore, la morte. Con Pandora ha inizio la condizione umana. Ma nello stesso tempo sarà proprio Pandora la prima donna a portare nel suo ventre la vita. La speranza per l'uomo. Con dieci tavole di Valente Taddei.
Città di pietra e di luce, Firenze nasconde nel suo ventre un luogo di pura tenebra, dove la sera del 2 ottobre 1981 un uomo in sedia a rotelle viene condotto. Di lui si sa poco, molto invece delle sue ossessioni. Per il mondo strangolato dai suoi abitanti e dalla follia che li domina. Per la sua vita che corre senza senso verso la fine. Per il tempo che non c'è più. È uno come tanti, Venturino Filisdei, dunque non è nessuno, o comunque uno che, non avendo più nulla da esplorare nel mondo di sopra, scende nel mondo di sotto, dove rigurgitano acque malsane e fioriscono incubi. Terrore chiama terrore, e lui si prepara a morire. Ma benché sappia che c'è anche di peggio della morte, non sospetta quanto possa essere penoso quel che sta per capitargli. Ad attirarlo nella trappola è un'improbabile banda armata. Trappola ? In realtà è lui a muovere verso di loro, anime perse come lui, e a lui affini più di quanto si possa pensare. Loro sono Max Penitenti, un povero diavolo che la sa anche troppo lunga. Dolores Entierro, brigatista malinconica e indecifrabile. Confiteor, equivoco comandante transgenere. E poi quel ragazzo cupo e disperato, che si rivela suo figlio. Un patto di sangue li impegna ad amare e a uccidere gli stessi compagni. Lui lo rispetta. Non perché lo voglia, ma perché costretto da una tragica necessità. E dire che la vita era là fuori, libera, dolcissima, con quanto di non vissuto e desiderabile aveva da offrire. Bastava abbandonarsi al suo incanto. Ma ormai non c'è più tempo.
Nella vita di una vedova insoddisfatta e della bella figlia adolescente, in una torpida cittadina americana senza nome e senza tempo, fa irruzione l'eccentrico e affascinante erpetologo Mitchell Flach. Porta con sé una passione insolita, un irridente anticonformismo, e un piccolo serpente selvatico. E ogni equilibrio minaccia di esplodere. Partito dagli Stati Uniti per l'Europa, T. M. Rives ha viaggiato tra Francia, Spagna, Romania e Danimarca, imparando molti mestieri e molte lingue, non ha più fatto ritorno in America e questo suo primo romanzo è stato pubblicato per la prima volta in Francia.
Nel 1973, nella città argentina di Trelew, il giornale locale compie cinquant'anni. Per celebrare l'evento ogni responsabile del giornale deve scegliere un fatto di cronaca avvenuto nel settembre 1923 da inserire in un supplemento speciale. Il giornalista sportivo non ci pensa un attimo: il "furto" di una legittima vittoria sarà il suo argomento, un combattimento storico di boxe, Dempsey contro Firpo. Anche il responsabile della cultura non esita: sempre nel settembre 1923 Richard Strauss aveva diretto a Buenos Aires i Wiener Philarmoniker eseguendo, tra l'altro, la Prima di Mahler. Fra questi due avvenimenti se ne insinua uno minore, misterioso e passato sotto silenzio all'epoca: uno dei musicisti dell'orchestra viene trovato impiccato in una camera del migliore hotel di Buenos Aires. E all'improvviso i tre fatti confluiscono e trasformano radicalmente l'anno 1923.
Il 13 aprile 1980, nel centro di Beirut, viene rinvenuto tra le immondizie il cadavere di un uomo sulla cinquantina. Il corpo presenta segni di torture. Il narratore - un laureato in scienze politiche costretto dall'immanenza della guerra civile a riciclarsi in impiegato presso un'agenzia di viaggi - si improvvisa giornalista e decide di scoprire chi ha ucciso Khalil Ahmad Jàbir, un cittadino qualsiasi, e perché. Ognuno dei sei capitoli centrali dà voce a un personaggio diverso tra quanti hanno conosciuto o anche solo incontrato la vittima, ed è attraverso le loro parole che l'autore cerca di ricostruirne la personalità e le traversie (sono la moglie, la figlia, un vicino, la portiera, un miliziano e un netturbino). Ed è nell'incessante accumulo di storie che partono o si concludono con morti violente che l'assassinio di Khalil Jàbir perde di significato, da eccezionalità diventa quotidianità.
Laura e Julio sono una coppia madrilena che vive in un appartamento accanto a quello di Manuel, un grande amico col quale passano la maggior parte del tempo libero. Un giorno Manuel ha un incidente che lo inchioda a un letto d'ospedale. Da quel momento la convivenza tra Laura e Julio diviene sempre più difficile. L'assenza dell'amico genera una crepa nel loro rapporto, tanto che Laura un giorno chiede a Julio di lasciare la casa. Julio accetta la separazione ma, all'insaputa della donna, va a occupare l'appartamento di Manuel. E qui Julio comincia, lentamente, ad assumere la personalità dell'amico: veste i suoi vestiti, prende le sue abitudini, legge i suoi libri, e parte per un inquietante viaggio alla ricerca di se stesso, della sua vita, della sua identità, del suo passato e di quello di Laura.
"Il ragazzo dagli occhi neri" è il figlio, nato orfano, di un principe egiziano portato come prigioniero di guerra dalle terre delle crociate a Zurigo e ucciso dai servi del crudele usurpatore Mangolt. Di quel ragazzo Laura Mancinelli racconta l'intera formazione sentimentale, che culmina nella decisione di partire dalle montagne zurighesi verso la Terra Santa e i luoghi dove viveva suo padre. Ha cosi inizio una grande avventura sul mare e in terre favolose e ignote, alla ricerca delle proprie radici e di una possibile giustizia.
Miguel Barnet apre la sua raccolta di racconti con Fatima e Miosvatis. Miosvatis è narrata attraverso le persone che la conoscono: il fidanzato tedesco, la vecchia vicina chiacchierona e la sorella. Fatima è invece un travestito che in prima persona si racconta mescolando i propri ricordi a quelli della città e in particolare quelli della Cuba rivoluzionaria, tra turisti e spettacoll en travesti. La seconda parte del volume è dedicata alle "Regine" dei tempi passati, mediante brevi ma folgoranti ritratti: Rachel la corista; zia Sunsita, vitale, amante della propria libertà e nemica delle convenzioni; la vecchia domestica nera Petrona che, non accettando il trasloco dal quartiere del Cerro alla morte del capofamiglia, decide di perdersi nelle strade della capitale; Agata, amante della poesia; la triste Milagros, sconfitta dalla vita e infine la vecchia Elvira, che vive accompagnata dalle statuine della Miracolosa e di Santa Barbara.
Un uomo e una donna si danno appuntamento su una panchina dei Jardins du Luxembourg a Parigi. È un giorno piovoso di fine estate, e poco dopo i due si ritrovano in un albergo vicino e trascorrono il pomeriggio intero a fare l'amore. Quali fantasie abitano la mente e il corpo di due esseri che vogliono dimenticare il loro passato e che sanno d'essere senza avvenire? Véronique Olmi racconta ogni dettaglio, ogni emozione ed eccitazione con una prosa intensa e lancinante. Vengono in mente certe pagine di Marguerite Duras, ma l'autrice, esperta drammaturga, aggiunge qui i segreti del proprio mestiere. Il risultato è un racconto erotico in cui l'intreccio prevedibile si carica di suspense e i gesti del desiderio assumono una gravita piena di pudore.
Tutte le mattine un padre accompagna la figlia a scuola, e quando passano davanti all'orologio lei fa "Den" e vuole che lui le racconti una storia. Le favole che il padre s'inventa sono piene di fantasia, delicate e divertenti: sono il commento fantastico alle piccole avventure di ogni giorno. La bambina e l'adulto si incontrano in un momento difficile e irripetibile delle loro vite. La piccola Maria sta uscendo dall'infanzia e si prepara a entrare nell'adolescenza, suo padre sta uscendo da un periodo cruciale della sua vita, e dissimula le sue amarezze dietro la comicità e la delicatezza per non gravare o ferire la persona più piccola e indifesa. Insieme sviluppano un piccolo romanzo, con la storia della loro relazione e delle reciproche difficoltà che risuona attraverso le vicende del principe Cagaquattro e della strega Orecchiamolla, le peripezie della lettera Y, le tecniche per mangiarsi la scuola...
Nel gennaio del 1945 Primo Levi fu liberato dal campo di Auschwitz e iniziò il suo lungo viaggio di ritorno a Torino attraverso l'Europa occupata dai russi e dagli americani. Vent'anni dopo raccontò questa esperienza picaresca in un libro diventato ben presto famoso, "La tregua". Tra l'ottobre del 2004 e l'estate del 2005 lo scrittore Marco Belpoliti e il regista Davide Ferrario hanno rifatto a tappe il percorso di Levi per trarne un film, "La strada di Levi". Hanno visitato i luoghi in cui l'ex-deportato è transitato, hanno incontrato persone, storie, vicende di quel tempo e del nostro. Ne è scaturito un taccuino di viaggio, un racconto attraverso parole, fotografie e disegni, dalla Polonia di Andrej Wajda e Stanislaw Lem all'Ucraina della centrale di Cernobyl, dalla Bielorussia dei kolchoz alla Moldavia dell'emigrazione, passando per la Romania delle imprese italiane, l'Ungheria dei cinesi, l'Austria e la Germania dei neonazisti, l'Italia di Mario Rigoni Stern.
In un futuro imprecisato ma spaventosamente vicino, gli uomini hanno costruito rifugi sotto l'oceano per ripararsi dalla forza assassina della luce del sole. E negli abissi hanno scoperto una specie nuova, cosi favolosa e leggendaria da volerla subito imprigionare. Le sirene sono feroci e bellissime donne del mare: hanno capelli azzurro vivo, capezzoli verdecupo, il muscolo della coda capace di spezzare in un istante la schiena del maschio. Scoprono piccoli denti perlati e affilatissimi quando schiudono le labbra per emettere il loro richiamo, un canto che fa impazzire i cani - e forse anche gli uomini. Un'atmosfera sospesa e sensuale domina questa favola nera: la scrittura di Laura Pugno ha una potenza incantatrice, capace di coniugare visioni apocalittiche e inquietudini del nostro presente in un unico, ipnotico racconto di amore e di morte.
"Gli antichi cinesi ritenevano che il tempo non fosse una scala che si sale verso il futuro bensì una scala che si scende verso il passato". Per il protagonista di questo nuovo romanzo di Anita Desai, un viaggio intrapreso per caso in un momento di crisi esistenziale diventa un meticoloso percorso alla scoperta di sé e delle proprie origini. La scrittrice indiana, con la sua scrittura sensuale ed esatta, compone una partitura in quattro movimenti, ognuno dei quali corrisponde a un momento del viaggio di Eric in uno spazio che trova nella memoria il suo unico confine. E proprio per progressivi aggiustamenti della memoria il protagonista si fa strada da Cambridge, Massachusetts, dove vive, al Messico, alla Cornovaglia degli antenati paterni e di nuovo al Messico, in un percorso dove la nozione di spazio si confonde con quella di tempo. Scanditi, l'uno e l'altro, da chilometri di ricordi, e interrotti, l'uno e l'altro, dalle lacerazioni che la storia provoca sul fragile tessuto delle storie individuali, Anita Desai ripropone in questo libro un tema che ritorna in tutta la sua opera, quello del rapporto con il passato, con gli antenati, con la storia he condiziona e plasma i destini dei singoli. Qui, dando la parola ai defunti, sfida le amnesie del nostro tempo, riporta in superficie i sotterranei percorsi a zigzag su cui è fondata la modernità e restituisce colore alle cancellature apportate sulla mappa del mondo." (Anna Nadotti)
Con la consueta verve di scrittura che lo contraddistingue, e come sempre accompagnato da un generoso pizzico di erotismo, Antonio Skármeta mette in scena questa volta una serie di personaggi sempre al confine tra reale e surreale, che teoricamente vorrebbero rispondere tutti a un'unica domanda: cosa faremmo se ci trovassimo nei panni di un altro? E infatti. Cosa può succedere a un tizio che avendo deciso di partire da Buenos Aires per andare a trovare un vecchio amico residente in Francia, si trova invece a dover condividere non solo il suo appartamento parigino ma anche la sua giovane e disinibita fidanzata? E in quali guai ci si può cacciare accettando di dare un passaggio a un'elegante, fascinosa signora che pare essere appena fuggita dalla casa delle vacanze? E ancora, se veniste arrestati per sbaglio assieme a un famoso guerrigliero di un paese del Centroamerica, e se poi - una volta rilasciato dopo aver constatato la vostra estraneità ai fatti - doveste portare un misterioso messaggio alla sua bellissima e rovente amante, come vi comportereste?
Un'originale e personalissima indagine sul buio, per cercare una spiegazione al fascino che da sempre le tenebre hanno esercitato suglu uomini.
Ritroviamo in questi cinque racconti l'immaginosa narratologa del "Genio nell'occhio d'usignolo", con il suo sguardo disincantato e saggio e la sua penna sottile che, immersa questa volta in calamai d'inchiostri scuri, mette sulla pagina storie di fantasmi e di mostri. Creature misteriose affiorano dall'inconscio dei personaggi: "C'erano una volta due bambine che videro, o credettero di vedere, una Cosa in una foresta". Opere d'arte di terrificante bellezza nascono dalle mani di una donna che stenta a maneggiare la propria vita; una creatura viva si pietrifica in una lenta e fiabesca metamorfosi; misteriose portavoce danno corpo ai ricordi di esistenze segrete, di traumi bellici mai guariti, di complicati amori. A. S. Byatt domina la materia narrativa di questi racconti brevi con la stessa fermezza ed energia con cui il protagonista dell'ultimo racconto spazzola e intreccia la massa di capelli lunghi, ispidi, grigio ferro della "matto Mado", vittima dell'Alzheimer (non è difficile ravvisare nel personaggio la scrittrice Iris Murdoch, alla cui turbinosa esistenza intellettuale e personale Byatt rende qui un esplicito omaggio).
Yiyun Li aveva sedici anni quando, nella primavera del 1989, migliaia di studenti scesero in piazza Tian An Men a manifestare. Dopo aver represso la protesta, il governo cinese obbligò tutti i giovani che volevano iscriversi all'università di Pechino a un anno di ferma nell'esercito. Proprio durante una lezione di dottrina di Partito, Yiyun Li fu trovata a leggere Hemingway di nascosto. Un ufficiale le requisì il libro e lo strappò sotto i suoi occhi. Sembra quasi uno dei racconti che quella stessa ragazza scriverà molti anni dopo, una volta in America e imparata una lingua che finalmente potesse dare forma alla sofferenza, al desiderio, al senso di abbandono, alla speranza che provava allora: anche i personaggi di queste storie vivono sulla loro pelle la lacerante contraddizione tra un'umana volontà di realizzazione individuale e il destino collettivo che il potere, la famiglia, la tradizione, l'economia di volta in volta impongono loro. Un uomo e una donna innamorati di un bellissimo attore dell'Opera di Pechino; un bambino dai lineamenti troppo simili a quelli di Mao; un militare amante delle speculazioni capitaliste; una ragazza tradita che imparerà quanto può essere angoscioso mantenere le promesse: ambientati in una Cina allo stesso tempo quotidiana e mitica, i racconti di Yiyun Li non solo offrono un ritratto spiazzante di un paese e di un popoio travolti dai cambiamenti, ma anche riflessioni sull'universale aspirazione alla felicità e sul dolore attraverso cui questa ricerca inevitabilmente passa.
Esiste una lingua per raccontare lo spaesamento? Tutto parte da un viaggio a Sarajevo: un tuffo nel cuore dei Balcani, generoso e polveroso come nei ricordi d'infanzia. Qui la pioggia bagna la pelle più in profondità che altrove. La morte è più sorprendente e ha più sapore. Come un assedio, ad ogni passo risuona "l'esperanto balcanico", quel linguaggio inudibile e perentorio che non è possibile lasciarsi alle spalle. Un romanzo vivo, caustico, una scrittura apolide leggera e penetrante come le emozioni di cui si nutre. Ornela Vorpsi è nata a Tirana, dove ha vissuto fino a 22 anni. Ha studiato Belle Arti in Albania, poi, dal 1991, all'Accademia di Brera. Scrive in italiano. Il suo primo romanzo, "Il paese dove non si muore mai", ha vinto cinque premi ed è stato tradotto in dieci paesi.
Sopravvissuto a numerosi campi di concentramento, Fred Wander dà voce ai suoi compagni di detenzione - in prevalenza ebrei provenienti da ogni parte d'Europa - con i loro momenti di grandezza ma anche con le loro meschinerie e limitatezze. Vediamo così entrare in scena Cukran, l'incolto ebreo turco che ha sposato una donna francese di rango, o de Groot, il famoso sarto di Amsterdam, il viveur che passava il suo tempo nei caffè della città, o Lubitsch, rampollo di una famiglia patrizia slovacca, o Tadeusz Moll, il giovane di buona famiglia costretto a lavorare nei forni crematori. Riprendendo la tradizione dei narratori ebraici e facendo propria la lezione di Mendel Teichmann, il cantore dell'universo chassidico che all'inizio del romanzo spiega all'autore "come si narra una storia", Fred Wander restituisce un volto alle tante anonime vittime, rievocando l'esistenza del singolo prima del lager, e più in generale tracciando un quadro vivissimo di quel mondo dell'ebraismo europeo destinato a scomparire nel più tragico dei modi.
Un banale incidente costringe Alfredo Traps, rappresentante di articoli tessili, a fermarsi in un paese. La panne non gli spiace, una notte fuori casa può sempre offrire un'avventura. Ma la casa che lo ospita, quella di un vecchio giudice a riposo, non è quanto si aspettava. Infatti, invece di qualche compagnia femminile, il rappresentante trova quattro vecchietti, tutti ex uomini di legge, che gli spiegano il loro unico passatempo: rifare dei famosi processi storici come quello a Socrate, a Gesù, a Giovanna d'Arco. Ma il gioco, aggiungono, diventa più bello con del materiale vivente. E cosi Traps, tra una bottiglia di vino e l'altra, si ritrova in veste di imputato. In un'atmosfera sempre più inquietante, il gioco scivola nella realtà per poi tornare gioco, in uno sfasamento continuo abilmente orchestrato dai quattro amici: Traps parla, si confessa, la sua vita banale sembra acquistare improvvisamente risvolti cruenti; sognava un'avventura ma si sente scoperto e si svela attraverso un esercizio di raffinate sevizie mentali, dove la posta finale può sciogliersi in una risata generale o in una condanna senza possibilità di appello.
In gioventù, lo chiamavano Doctor Ironicus per la sua intelligenza sottile; ormai sessantenne, il protagonista di "Casa d'altri" non è che un "prete da sagre", confinato in un paesino della provincia emiliana dove non succede mai niente e dove "appaiono strane anche le cose più ovvie". Zelinda, però, una vecchia che passa le sue giornate a lavare i panni al fiume, senza avere alcun contatto con la gente, così ovvia non è; e non è ovvio neppure il tentativo di comunicazione che cerca d'instaurare con il prete, interrogandolo vagamente sulla legittimità di derogare a una "regola" della Chiesa cattolica. Quale sia questa regola, lo si scoprirà soltanto alla fine: quando il Doctor Ironicus, "così goffamente da provare vergogna di tutte le parole del mondo", non saprà dare alla vecchia che una risposta convenzionale e inadeguata. Intanto il lettore si trova coinvolto in una vicenda dal ritmo sempre più serrato, in un intreccio di tensioni e conflitti, in una lingua densa insieme di concretezza e di lirismo. Lo stesso clima di attesa incalzante si ritrova negli altri racconti: da "Elegia alla signora Nodier", dove la protagonista, morto il marito, si chiude in una quieta infelicità, ai "Due vecchi" la cui serenità coniugale è turbata dal ricatto di uno studente.
Sulle orme di Mozart nel ventre di Napoli. Gli echi del Don Giovanni fra i teschi delle Fontanelle, Papageno e la ciaramella di 'zi Rocco, il principe di Sansevero e l'enigma di un magico anello. E ancora, la voce di Sylvie Vartan e i tamburi ipnotici dei fujenti; lettere segrete e misteri del Conservatorio; tra cadenze e scadenze, lo show e i business del Commendator Salieri. Storie, emozioni e ricordi si intrecciano in queste sette novelle del maestro indiscusso della cultura musicale napoletana: un De Simone intenso e graffiante che sembra volersi calare sotto la pelle della sua città, dove il tempo si confonde in impressioni e sovrimpressioni, dove il quotidiano, il sublime e il grottesco si mescolano e si scontrano sprigionando scintille sulfuree.
Questo libro è il percorso di una vita. Nato da un profondo rispetto della natura, del suo equilibrio e della sua grazia, rievoca grandi avvenimenti della storia e piccole vicende personali, in un flusso scandito dall'alternarsi delle stagioni. Nella memoria dell'autore ogni cosa ha lo stesso spazio, la stessa dignità; ogni frammento trova la giusta collocazione all'interno di un quadro che Rigoni Stern, "uomo di montagna", dipinge dei colori più vivi. Accanto alla campagna di Russia e alla drammatica esperienza del Lager riemergono così episodi apparentemente marginali, che tuttavia danno il senso di una vita: dai suoi giochi di ragazzo alle prime battute di caccia, da una visita alla Reggia di Versailles al "bel gallo" regalato all'amico Vittorini, che però, a mangiarlo, si rivela "selvatico e coriaceo". E poi ancora antichi riti e vecchie tradizioni, uomini e affetti di altre epoche, alberi e animali destinati ad annunciare il nuovo clima e la nuova stagione, luoghi e paesaggi forse dimenticati ma sempre carichi di storia e di ricordi: su tutto lo sguardo, a volte divertito a volte malinconico, dell'autore, testimone del suo tempo e di un passato che continua a riaffiorare.
Il Gerbido Vecchio, da tempo immemore patria dei pacifici gerbilli, deve essere abbandonato: al suo posto sorgerà infatti un canile di lusso, e le ruspe sono già pronte a scavare e distruggere. Su consiglio dell'amico Gongolo, saggio nano da giardino, le piccole creature si mettono quindi in cammino per il Gerbido Nuovo, un luogo distante ma ospitale presidiato da Golem, spaventapasseri un po' burbero costruito e poi abbandonato da un bambino deluso di non aver vinto il primo premio in un concorso truccato. Ma quando, dopo mille avventure e non pochi contrattempi, raggiungeranno la terra promessa, per i coraggiosi gerbilli la sfida più grande sarà appena cominciata. Una storia fitta di echi letterari e di giochi di parole ma in superficie liscia e spensierata.
Russia, anni Novanta: in un angolo remoto degli Urali un televisore continua a trasmettere immagini di un'altra storia, in cui il comunismo non è mai finito e ancora si celebrano i congressi del Pcus. Il destinatario di queste immagini è Aleksej, un veterano della seconda guerra mondiale, che un ictus ha trasformato in "un articolo difettoso della morte", un essere chiuso senza via d'uscita nel proprio corpo. Decise a conservare "la sostanza dell'epoca", Nina, la moglie, e Marina, la figlioccia, vivono in bilico tra l'ipocrisia e l'arrivismo della nuova Russia, e il sicuro, immobile tempo che ristagna nella camera da letto del veterano. Aleksej diventa cosi il centro di una dimensione in cui il presente non accade e il passato non passa più. Eppure, sembra dire il protagonista dal chiuso della sua prigione, forse la realtà, quella esterna, bisogna alla fine affrontarla come è. Al punto da reclamare anche il proprio diritto alla morte, che avendo lasciato l'opera a metà lo ha reso un immortale per caso. Da una delle più promettenti scrittrici della Russia contemporanea, un'esplorazione del tempo e della morte, una riflessione, condita di gogoliana ironia, sulle contraddizioni della Russia moderna, e una ricerca della sua "autenticità" perduta.
I mariti e le mogli che popolano questi racconti vivono una tranquilla vita di coppia, che include una casa, alle volte un figlio e spesso un'amante. I loro gesti e riti quotidiani sono fotografati con sguardo distaccato, ma inquietudini e presentimenti sono ben visibili sotto la limpida lastra di ghiaccio delle relazioni. A volte sono gli oggetti a raccontare le ipocrisie, i silenzi, i tragicomici inganni della vita di tutti i giorni; altre volte l'esistenza dei personaggi tende a sdoppiarsi, riflettendo le trame oscure dei loro desideri.
Sulle tracce del manoscritto inedito di un martire di lingua Yiddish, lo scrittore americano Nathan Zuckerman a metà degli anni Settanta si reca nella Praga dell'occupazione sovietica. Lì, in una nazione strangolata dal totalitarismo comunista, scopre una dimensione letteraria che non gli appartiene, segnata come dalla prevaricazione istituzionalizzata. E lì, fra gli scrittori oppressi insieme ai quali si trova ben presto invischiato in una serie di avventure bizzarre e struggenti, scopre anche una forma intrigante e perversa di eroismo. "L'orgia di Praga", che riproduce le pagine dei taccuini sui quali Zuckerman annota il suo soggiorno fra quegli artisti proscritti, funge da epilogo alla trilogia composta da "Lo scrittore fantasma", "Zuckerman scatenato" e "La lezione di anatomia", e appone un sigillo sensazionale all'intricata struttura dell'opera magna di Roth sulle conseguenze impreviste dell'arte.
Un bicchiere di vino rosso gettato in pieno viso durante una festa - un'onta immotivata eppure avvertita come ineluttabile - è la scintilla che innesca un viaggio a ritroso nella vita di Stefan Vogel. Nato e cresciuto nella Germania Est pre-perestrojka, Stefan accetta di avvallare e perpetrare la bugia materna di sé come poeta d'avangurdia sperando di farne uno strumento di riscatto sociale e di fuga verso il luogo che solo incarna ogni aspettativa e ambizione: gli Stati Uniti d'America. La via imboccata, che dal plagio quasi naif giunge fino al vile tradimento, in un percorso di costante autodregadazione, sembrerebbe condurlo alla meta. Ma non basta un oceano a fermare le menzogne ormai sbrigliate. Né una vita a espiarle. Il sogno americano e il suo fallimento acquisiscono in questa rivisitazione inedita lucentezza, grazie a una scrittura elegante e misurata idonea a esprimere tanto i dissidi interiori di un antieroe ambiguo e fragile, quanto il ritmo incalzante di un plot fitto e ben congeniato.
A Belgrado un professore di lettere ebreo indaga negli archivi della seconda guerra mondiale per capire come mai l'albero genealogico della sua famiglia sia ridotto a un unico ramo, quasi secco. Nel corso delle sue ricerche trova traccia di Götz e Meyer, due giovani delle S.S. che furono mandati nell'estate del 1942 da Berlino a Belgrado con un compito preciso: trasportare gli ebrei dentro un camion ermeticamente sigillato, uccidendoli durante il tragitto tramite i gas di scarico. Sterminarono così 5000 ebrei serbi. Un romanzo di evidente matrice autobiografica che cerca di ricostruire un passato indicibile, di far fronte alla necessità di dare una figura, un corpo, agli esecutori del Male.
Dopo un'esistenza spesa al servizio della famiglia, con tanti figli e nipoti, ma piena di delusioni, Nanda Kaul si è ritirata in scontrosa solitudine sulle pendici dell'Himalaya, in una casa con giardino circondata da una boscaglia perennemente minacciata dal fuoco. L'arrivo indesiderato di una bisnipote e la visita di una vecchia amica d'infanzia infrangono la cortina del suo risentimento e la costringono, forse per la prima volta, a riconsiderare se stessa. A poco a poco una sottile fascinazione avvolge l'anziana e disincantata vedova e la stramba adolescente. Fuori, il paesaggio, osservato da Nanda ed esplorato dalla nipote, e la sensazione di una una catastrofe imminente che sovrasta tutti dall'inizio.
Florindo Flores deve precipitosamente tornare a Torino per scoprire chi sta ordendo delle truffe con al centro delle copie "originali" del manoscritto dei Nibelunghi. Una è già stata venduta a Milano per due milioni di euro; e uno studioso di letteratura tedesca fallito, Herr Null, viene ucciso mentre cerca di piazzarne un'altra, momentaneamente nelle mani della sprovveduta contessa Roxilda. A capo dell'organizzazione c'è un criminale che vive in una villa fuori Milano, circondato da una squadra di stupidi gorilla dal grilletto facile.
È il Natale 1944: la piccola Helga, suo fratello e alcuni "perfetti bambini ariani" sono ospiti per tre giorni nel bunker di Hitler. In una Berlino ormai distrutta e in fiamme, emerge lo smarrimento e l'inconsapevole leggerezza dei bambini in gita nell'epicentro del terremoto. Un racconto bruciante, dove al valore della testimonianza si aggiunge l'intensità del ricordo d'infanzia. Helga Schneider è nata in Polonia e cresciuta in Germania e in Austria, paese d'origine dei genitori. Vive a Bologna dal 1963 dove ha svolto attività di giornalista. Scrive in italiano ed è autrice di romanzi.
Nel ristretto spazio di tempo (dal 19 gennaio al 30 luglio 1938) in cui viene redatto, il diario registra gli alti e i bassi della tormentata relazione della ventiseienne Elsa con Alberto Moravia. Sotto forma di lettere a un illusorio Antonio, queste pagine giovanili presentano già quello sguardo meticoloso e insieme fantastico che sarà proprio della Morante matura. Il diario è stato pubblicato nella collana "Saggi brevi" nel 1989.
In "Bambiland" si parla dell'intervento americano in Irak, si parla di come giunge a noi veicolato dai mezzi di comunicazione, si parla, infine e soprattutto, dei meccanismi con cui il conflitto, tutti i conflitti, agiscono nelle nostre teste. In questa opera destinata al teatro - per la quale è difficile trovare una definizione precisa - Elfriede Jelinek combina "I persiani" di Eschilo (il più antico dramma sul tema della guerra) a reportage trasmessi dalla televisione americana, in particolare la Cnn, informazioni sugli armamenti Usa e propri commenti. Con continui cambi di prospettiva, il premio Nobel mescola Eschilo con la lingua di tutti i giorni, impiegando ora l'ironia ora il sarcasmo.
"È il paese dove non si muore mai. Fortificati da interminabili ore passate a tavola, annaffiati dal raki, disinfettati dal peperoncino delle immancabili olive untuose, qui i corpi raggiungono una robustezza che sfida tutte le prove. Siamo in Albania, qui non si scherza". Una bambina intelligente e curiosa, la sua scoperta del mondo in un paese che ha spento l'utopia nella barbarie e che non tollera dubbi né domande. Il racconto tagliente e irresistibile delle sue diatribe con Madre-Partito, delle sue esercitazioni militari, dei suoi giochi innocenti e sinistri; l'impertinenza del corpo che cambia sotto gli sguardi avidi dei maschi, il desiderio di fuggire come amara morale di un'acuminata "favola della dittatura".
Per ragioni incomprensibili, il professore David Alan Kepesh si ritrova trasformato in un enorme seno. Cieco ma provvisto di udito e soprattutto di sensibilità cutanea, riceve le visite del padre, che gli racconta le vicende del suo piccolo mondo ebraico, dell'affettuosa e banalissima fidanzata, del rettore, che fugge travolto da un riso incontenibile, e del suo psicanalista. Ma soprattutto viene lavato da miss Clark, l'infermiera che gli procura un piacere immenso. Da una situazione surreale, simile a un incubo kafkiano o a un quadro di Dalì, Philip Roth fa scaturire situazioni comiche (e oscene). Prima edizione Bompiani, 1973.
Chi è il capitano Kerrigan, che imbarca su un veliero scrittori, scienziati e donne misteriose per un viaggio verso il polo Sud? Sembra un personaggio alla Corto Maltese, affascinante, malinconico, con un amore infelice alle spalle e una ricchezza dalle origini incerte. In questa avventura d'altri tempi, l'enigma della sua vita si intreccia con altri enigmi (vi sono pure degli omicidi), e non tutti verranno risolti. In un ironico e beffardo gioco di realtà e finzioni, di curiosità e frustrazioni, un giovanissimo Marías - qui al secondo romanzo - ha ripercorso con divertimento contagioso le atmosfere dei suoi maestri d'elezione: James, Conrad, Conan Doyle.
Nel giorno della Liberazione di Roma un padre e un bambino avanzano contromano nella folla da Porta Pia verso il Quadraro: nel loro racconto i fatti salienti della guerra a Roma si mescolano al libero scorrere della fantasia narrativa. Il testo nasce da una storia vera raccontata all'autore dal padre, Gaetano Celestini detto Nino. Lo spettacolo "Scemo di guerra" ha esordito alla Biennale di Venezia e questo libro, a differenza degli altri volumi di Celestini pubblicati da Donzelli, non è il testo dello spettacolo ma una versione romanzesca dello stesso spunto.
Un nobile malvagio cerca di uccidere il fratello buono a cui ha usurpato il feudo. La catena della violenza e del potere sarà interrotta da un ragazzo che alla vendetta preferisce l'arte e l'amore per una donna. Laura Mancinelli sceglie nuovamente l'età medievale come ambientazione per un suo romanzo, affascinante percorso di avventure, amori e intrighi in cui si approda a una visione fantastica e affettuosamente ironica della società medievale.
Jon Scripcaru, il Biondo, è uno straniero, un immigrato, giunto da un indefinito paese dell'Est europeo in un'altrettanto indefinita terra del Sud d'Europa (la Sicilia?). Ha un passato fatto di affetti devastati per le ritorsioni di un regime che il padre ha provato a combattere, una galleria di immagini dure acquattate in fondo al cervello, conduce una vita modesta, da manovale che si accontenta e sta zitto. Come casa ha un garage occupato abusivamente, e dentro questo garage tiene al riparo da sguardi indiscreti "un segreto".
L'esercitazione di un plotone di riservisti sperduto nel deserto, nelle mani di un comandante paralizzato dal ricordo di una vecchia battaglia. Un padre a cui viene data la notizia della morte del figlio al fronte. Un professore universitario chiamato a tenere una conferenza in una base missilistica. La vita militare descritta in questi tre racconti ha qualcosa di banale, di burocratico, di inefficiente. È del tutto anti-eroica. Il tempo sembra immobile, bloccato da qualcosa che ha a che fare con un'angoscia non definita, forse indefinibile. Pur nelle circostanze realistiche degli avvenimenti, c'è qualcosa di onirico in queste vicende, qualcosa di sospeso e di sfuggente.
Nel 1938 Federico Fellini approda a Roma, in cerca di lavoro. Lo trova al "Marc'Aurelio", un giornale umoristico che esce due volte alla settimana e che vende circa mezzo milione di copie. Un vero fenomeno di massa, paragonabile, oggi, a quello della trasmissione televisiva Zelig e al successo dei suoi comici e dei loro tormentoni. In questo volume, Claudio Carabba raccoglie una scelta dei pezzi scritti dal futuro regista per il giornale: molti della rubrica "Ma tu mi stai a sentire?", diventata presto una frase ricorrente nel linguaggio dell'epoca, ma anche brevi storielle, barzellette, la maggior parte firmate e altre non firmate ma altrettanto riconoscibili per stile e tipo di umorismo.
Quando gli muore la madre, un giovane giunge a Comala, un paese dell'infuocato altopiano messicano, per incontrare il padre che non ha mai conosciuto, il misterioso Pedro Páramo. Gli abitanti del villaggio sembrano sapere tutto sull'uomo, morto da molti anni, ma sono essi stessi dei fantasmi. In continui flashback, l'intreccio delle loro voci restituisce al villaggio la sua reale, sanguigna vita di un tempo e soprattutto concorre a delineare la figura di Páramo, il tirannico, capriccioso patriarca. Pubblicato per la prima volta nel 1955, poi tradotto in molte lingue, questo libro - considerato tra i romanzi più originali della letteratura messicana del novecento - è qui riproposto in una nuova traduzione condotta sull'edizione critica.
Una madre sola con i due figli di cinque e nove anni. Un giorno, improvvisa, la decisione di portarli per la prima volta in vacanza al mare. I bambini, stupiti, sono eccitati dalla novità. Viaggiano di notte sotto una pioggia battente, mentre la donna cerca di scacciare le lacrime e i pensieri angoscianti. Le spiagge invernali sono spoglie e abbandonate, l'albergo di cemento non ha nemmeno la vista sul mare. Ma questo viaggio l'ha deciso lei che in genere non decide mai nulla: vedranno il mare e andranno alla sagra del paese. I ragazzi inquieti fiutano l'inevitabile. Non è una madre "normale", è scossa dai tumulti interiori, non ha più coraggio. È una donna alla deriva in viaggio nel cuore della disperazione. Un viaggio senza ritorno.
Sono passati cinquant'anni da quando è stato scritto, ma continuiamo a vederlo, Holden Caufield, con quell'aria scocciata, insofferente alle ipocrisie e al conformismo, lui e la sua "infanzia schifa" e le "cose da matti che gli sono capitate sotto Natale", dal giorno in cui lasciò l'Istituto Pencey con una bocciatura in tasca e nessuna voglia di farlo sapere ai suoi. La trama è tutta qui, narrata da quella voce spiccia e senza fronzoli. Ma sono i suoi pensieri, il suo umore rabbioso, ad andare in scena. Perché è arrabbiato Holden? Poiché non lo si sa con precisione, ciascuno vi ha letto la propria rabbia, ha assunto il protagonista a "exemplum vitae", e ciò ne ha decretato l'immenso successo che dura tuttora. È fuor di dubbio, infatti, che Salinger abbia sconvolto il corso della letteratura contemporanea influenzando l'immaginario collettivo e stilistico del Novecento, diventando un autore imprescindibile per la comprensione del nostro tempo. Holden come lo conosciamo noi non potrebbe scrollarsi di dosso i suoi "e tutto quanto", "e compagnia bella", "e quel che segue" per tradurre sempre e soltanto l'espressione "and all". Né chi lo ha letto potrebbe pensarlo denudato del suo slang fatto di "una cosa da lasciarti secco" o "la vecchia Phoebe". Uno dei grandi libri del Novecento che ha ancora tanto da dire negli anni Duemila.
Pubblicate nel 1936 a Zurigo, queste pagine scritte a volte anche vent'anni prima, sono l'ultima opera data alle stampe da Musil. Il titolo ironicamente contraddittorio richiama in prima istanza la sua particolare condizione di scrittore che, conosciuta una certa notorietà negli anni Venti, si sentiva ormai completamente isolato. Una condizione che però è tipica dello "scrittore tedesco" in generale: un sopravvissuto a se stesso che vive in una "profonda separazione dalla vita". Il nazismo, ma anche la standardizzazione dell'uomo e la crisi dei valori sono responsabili di questo processo. Da questo rapporto negativo dello scrittore con il proprio tempo, la tendenza a raccontare di "quisquilie", di immagini, riflessioni e storie che non sono storie.
Jorge Amado nel 1937, a venticinque anni, è scrittore già noto sia in patria sia negli altri paesi dell'America Latina. Questo libro - che è la raccolta delle sue impressioni di viaggio - sembra quasi la prova generale che prelude alla scelta del cammino letterario da percorrere. Tra descrizioni di luoghi visitati e improvvisi lirismi, balza fuori lo scrittore a venire: spiritoso, ironico, impareggiabile descrittore di personaggi e di caratteri. Attraverso le impressioni di questo lungo viaggio compiuto nelle Americhe veniamo a conoscere anche l'uomo che Jorge Amado è stato, con le sue manie, le sue paure, gli entusiasmi, le avversioni, la passione politica, l'amore per la sua terra, la disponibilità verso il prossimo, la curiosità per ogni cosa o persona.
Un romanzo in cui le invenzioni sui temi medievali si coniugano con quelle poliziesche. Il commissario Flores si trova in un castello abbandonato dove la contessa Roxilda lo ha attirato e rinchiuso in una torre. Il tentativo di liberarsi lo porterà nei meandri del castello dove sarà sfidato dalla contessa a scoprire l'assassino di un uomo il cui teschio è conservato dentro uno scrigno. Grazie all'aiuto di due studiosi, ad alcune filastrocche popolari e al parere della medievalista Laura Mancinelli - che diviene dunque personaggio attivo sulla scena romanzesca - il commissario riuscirà a risolvere il mistero.
Nel microcosmo di un cortile, personaggi indicati con le lettere dell'alfabeto intrecciano le loro vite in quella che si presenta come una paradigmatica normalità, ma genera invece una catena di morti bizzarre, quasi rituali. Il figlio di un cavaliere errante parte in una sorta di viaggio iniziatico alla ricerca degli assassini del padre; una coppia stanca, un rapporto che dura da anni nella routine e nella prevedibilità, trova nel racconto dell'episodio più cruciale della sua storia, l'unica forza emotiva che la tiene unita. A cavallo fra realtà e irrealtà, vita e morte, presente e passato, Yu Hua scompone e reinterpreta il racconto della tradizione cinese, trasportando il lettore in un nuovo tipo di percezione e di esperienza estetica.
Cosa succede se uno scrittore scrive una lettera erotica alla propria amata e invece di spedirla la pubblica su "Le Monde"? Questo libro è una lettera pornografica indirizzata a seicentomila persone, un dispositivo erotico che non vuole lasciare nulla al caso e detta le regole del gioco a chi lo sta leggendo, una storia d'amore "interattiva" scritta per essere letta in treno. Carrère manipola il potere seduttivo della scrittura e approfitta dell'intimità che si crea tra scrittore e lettore, ma può succedere che il caso si intrometta e che il piacere solitario della lettura diventi un viaggio nel piacere tout court e il treno che ci trasporta un'alcova smisurata.
Se le avventure di Holden hanno avuto per l'America un valore emblematico, è in questi racconti che lo humor, la spietatezza, le grazia e la tragica amarezza di Salinger trovano la loro perfetta espressione. Il loro punto di partenza è il "parlato" più colloquiale e modulato sulle effimere cadenze della moda. Per Salinger solo i bambini e chi ha vissuto l'orrore della guerra è vicino alla verità. Il dialogo dei bambini è una finestra su una realtà diversa e vertiginosa. Ma anche una conversazione pomeridiana tra amiche o la telefonata di un uomo che è a letto con una donna non sua diventano occasioni di poesia, nutrita di grande pietà umana.
Nel 1939 è attiva in Svizzera l'Opera bambini della strada, un'organizzazione che, col pretesto di svolgere un'opera umanitaria a favore dell'infanzia derelitta, mira a sradicare il fenomeno del nomadismo. I bambini nomadi vengono strappati alle famiglie e rinchiusi in istituti o dati in adozione. Quando Lubo Reinhardt, zingaro naturalizzato, riceve la notizia che i suoi figli sono stati presi dalla polizia e che la moglie, tentando di opporsi, è stata uccisa, decide di vendicarsi. Si appropria di una nuova identità e diventa un Don Giovanni involontario e involontariamente politico. Il suo piano è inseminare il maggior numero di donne svizzere. Dal seme di quel primo sopruso germina altra violenza, che dura nel tempo, con una tenacia oscura.
Negli anni Ottanta Álvaro Mutis crea il personaggio di Maqroll il Gabbiere, protagonista di una serie di romanzi che sono valsi all'autore numerosi premi internazionali. Ed è proprio Maqroll, accanto al diplomatico portoghese di «I testi di Alvar de Mattos» o allo stratega dell'imperatrice Irene di «La morte dello stratega», uno dei personaggi che il lettore può incontrare in questa raccolta di racconti.
"Il personaggio principale, almeno in quei momenti di lucidità in cui riuscirò ad impormi una linea di condotta, sarà il mio defunto fratello maggiore Seymour Glass che (preferisco dir tutto in un'unica frase da necrologio) nel 1948, all'età di trentun anni, mentre era in vacanza in Florida con sua moglie, si tolse la vita. Egli ebbe un grande significato per moltissime persone con cui venne a contatto e per noi, suoi fratelli e sue sorelle, egli fu tutto. Tutto quel che è realtà, egli fu, per noi: il nostro unicorno striato di blu, il nostro specchio ustorio, il genio di famiglia che dà consigli a tutti, la nostra coscienza portatile, il nostro commissario di bordo, il nostro unico poeta..."