"Sono tanti i modi in cui possono essere accolte le giovanili lettere familiari di Andrea Camilleri. Uno però trascende tutti gli altri. È il modo di lettura di un oroscopo: di una osservabile configurazione astrale disegnata dai segni zodiacali e dai pianeti, metaforicamente trasposti nelle lettere che fanno sistema e determinano i pronostici sul maturo inventore del commissario Montalbano, sapiente lettore degli stessi libri preferiti dall'ancora inconsapevole scrittore di lettere; e di quell'irresistibile folletto chiamato Catarella, incarnazione di una plateale gestualità e teatrale comicità già portate in scena negli sketches improvvisati da Camilleri nelle sue carte messaggere. Il Camilleri dell'epistolario è un infervorato studente fuorisede. Vive a Roma. È un borsista dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica. Ha due insigni maestri, Silvio d'Amico e Orazio Costa. Fa subito amicizia con Vittorio Gassman, giovane attore del teatro di posa. Lui studia regia teatrale. È un moderno Robinson Crusoe, che di continuo deve inventarsi un alloggio sempre provvisorio, le suppellettili necessarie, tutti i gesti della giornata tra il lavaggio della biancheria e la ricerca di un ristorantino alla portata delle sue tasche semivuote, nonostante le sollecite sovvenzioni di una famiglia tutt'altro che ricca. In casi estremi può sempre contare su qualche generoso buffet da assaltare, magari in compagnia di una attricetta dell'Accademia e intonando «inni di guerra» condivisi dagli invitati più illustri: fra i più insospettabili, scrittori come Moravia o attori già affermati come Massimo Girotti. C'è qualcosa di picaresco nella narrazione epistolare, spesso autoironica e spettacolare: anche nel caso di quel convulso correre, qua e là, senza sosta, alla ricerca di un lavoretto. E intanto Camilleri studia, studia, studia. Pubblica poesie, racconti, articoli. Scrive soggetti per il cinema e per la radio. Si propone come regista. Riesce a collaborare con l'Enciclopedia dello spettacolo. E fa incontri strabilianti, come una volta accadeva ai cavalieri erranti. Conosce, insieme a Jean-Paul Sartre, il grandioso e canagliesco Jean Genet: scrittore e drammaturgo, ladro, cinico, generoso e argutamente spiritoso. Camilleri chiede il recapito all'ospite. Si sente rispondere che l'indirizzo più si- curo è, ovviamente, il carcere. Camilleri è giovane, giovanissimo. Ama il teatro. E come regista ha capacità anche rabdomantiche. Fa sgorgare l'acqua, dove tutti vedono solo cespugli secchi e pietrame. Annusa nell'aria, pure. Capta il vento che arriva. Anticipa i tempi, mettendo in scena autori ancora non sperimentati in Italia. Si chiamano Ionesco e Beckett. Sono gli anni 1957- 1958. Gli capita di cercare un attore all'altezza della parte. Non riesce a trovarlo. Gli piace azzardare. E decide di sostituire l'attore con un manichino. Il successo è strepitoso." (Salvatore Silvano Nigro)
Torna in una nuova edizione con una Nota inedita di Gianfranco Marrone il saggio divertente e arguto dell'antropologo francese Claude Lévi-Strauss che, a partire da un incredibile fatto di cronaca, ricostruisce le origini, i simboli e i rimandi che si celano dietro la figura di un personaggio quasi divino. «Babbo Natale è vestito di scarlatto: è un re. La sua barba bianca, le sue pellicce e i suoi stivali, la slitta sulla quale viaggia evocano l'inverno. Incarna l'aspetto benevolo dell'autorità degli anziani. Ma in quale categoria bisogna collocarlo dal punto di vista della tipologia religiosa? Non è un essere mitico, poiché non c'è mito che renda conto della sua origine e delle sue funzioni; e non è nemmeno un personaggio di leggenda, poiché non è collegato a nessun racconto semistorico. Appartiene piuttosto alla famiglia delle divinità. È la divinità di una sola fascia di età della nostra società e la sola differenza tra Babbo Natale e una vera divinità è che gli adulti non credono in lui, benché incoraggino i propri figli a crederci. Babbo Natale è dunque, anzitutto, l'espressione di un codice differenziale che distingue i bambini dagli adolescenti e dagli adulti». Nel Natale del 1951, sul sagrato della cattedrale di Digione, un fantoccio di Babbo Natale viene impiccato e poi bruciato, per manifestare agli occhi di tutti i bambini il rifiuto, da parte del clero, della «paganizzazione» della festa cristiana. Lévi-Strauss, fondatore dell'antropologia culturale e padre nobile dello Strutturalismo, trasse dalla notizia l'occasione per questo saggio, straordinario per intelligenza e ironia. Uno scritto intensamente divertente, perché fa rivolgere - divergere, appunto - lo sguardo da Babbo Natale, figura abituale e innocente, alle sue profondità di significato più recondite, arcaiche e perenni. Partendo dalle «coerenti illogicità» di questo culto - prima di tutto il fatto di essere forse l'unica credenza in cui gli adulti non credono pur spingendo i bambini a crederci - Lévi-Strauss scava in questa divinità dei non-iniziati, ovvero i bambini, che li demarca e li riunisce periodicamente agli iniziati. Perché cosa sono i bambini fin da sempre, e i loro riti di passaggio, e i morti, e i vivi-morti, nelle rappresentazioni incise nelle culture umane? L'episodio di Digione diventa così un momento di riflessione sulla categoria sociologica e antropologica che Gianfranco Marrone, nella sua Introduzione, chiama «natalizzazione». Categoria che, come mostra Antonino Buttitta nello scritto che chiude il volume, viene ricompresa all'interno delle tradizionali simbolizzazioni del «contratto sociale» iniziatico tra i vivi e i morti.
Chi si ricorda, oggi, che cos'era la Russia di Gorbaciov? Quando la glasnost, la trasparenza, dava improvvisamente voce al dissenso, quando si aprivano gli archivi e affiorava la memoria sepolta delle tragedie del passato, quando esisteva ancora l'Unione Sovietica e nell'immenso paese convivevano, senza sforzo apparente, russi e ucraini, azeri e armeni, e sotto la facciata del comunismo ortodosso ribolliva di tutto, dall'affarismo mafioso all'integralismo islamico. In quella Russia in bilico fra ingenue speranze e oscuri presentimenti si muovono la giovane storica Tanja, impegnata in una tesi su un argomento fino a poco tempo prima proibito; il giudice Nazar, che cerca di non perdere la sua umanità mentre indaga su crimini efferati; e l'attore Mark, ossessionato dal romanzo che sta scrivendo sullo sterminio degli ebrei di Odessa. Tre trame in apparenza separate che finiranno tutte per riunirsi, come in un intrigo di le Carré, svelando verità nascoste e lasciando intuire i torbidi che avanzano. Alessandro Barbero racconta questa storia con un ritmo e un modo di rivolgersi al lettore che ricorda volutamente i grandi russi, come Gogol' e Bulgakov. La firma del Barbero narratore di Storia e inventore di storie si legge nell'immersione dei fatti nel tessuto fitto dei tempi in cui sono ambientati. Con lo straordinario risultato di mostrare un'epoca attraverso il vissuto più quotidiano, i personaggi più svariati, i pensieri e le memorie, così consueti e diversi; attraverso lo spessore delle lenzuola dei letti, l'umidità delle pareti, le strategie amorose, il pigiarsi della folla in metropolitana, la congestione della novità delle riunioni aperte, gli sguardi scambiati nei giardini pubblici. Così Romanzo russo racconta l'ultimo ambiguo decennio dell'Unione Sovietica: dove alla conclusione delle storie di Tanja, del giudice Nazar Kallistratovic e di Mark Kaufman sarà inevitabile fiutare, come ammonisce un verso del poeta Mandel'stam, vittima di Stalin, «i futuri supplizi».
Quando viene chiamato su una strada di montagna, al vicequestore Rocco Schiavone basta uno sguardo per capire di trovarsi di fronte a una rottura del decimo livello della sua personalissima classifica. Un ciclista, infatti, è stato vittima di un incidente. Il morto si chiama Paolo Sanna, un cinquantenne che da un po' di tempo abita in zona ma che apparentemente nessuno conosce. Dai primi accertamenti risultano subito delle stranezze. Sanna era abbiente se non addirittura ricco, ma senza occupazione, nel tempo aveva cambiato periodicamente residenze in tutto il Nord Italia, sporadiche e superficiali amicizie, qualche amore senza conseguenze, parenti lontani e poco frequentati: insomma, «una specie di ectoplasma ai margini della società». A complicare le cose, c'è il rebus del taccuino trovato nella sua abitazione, una lista di nomi, sigle e numeri indecifrabili. Il quadro è quello di un uomo in fuga. Ma una fuga lunga, senza fine, se non fosse stato per quell'urto in montagna. Per vederci chiaro bisogna indagare nel passato, andando il più a fondo possibile, un passato che fa sprofondare il vicequestore di Aosta negli anni di gioventù di un gruppetto affiatato. Rocco vorrebbe procedere come al solito, pesante come un pugno e sottile come uno stiletto, ma è di sottigliezza che ha soprattutto bisogno, anche perché si fa sempre più drammatico il timore per la scomparsa inspiegabile di una persona, una donna, a cui qualcosa di intenso lo lega.
Saverio Lamanna deve lasciare il riposante mare di Màkari. Suo padre, il Professore, spinto dall'amico Mimì, è partito, in barba all'età, per un pellegrinaggio a piedi da Palermo ad Agrigento, seguendo le regie trazzere che datano fino dai tempi di Federico II. Saverio se ne va all'inseguimento dei due come Stanley fece con Livingstone, e sa che piomberà come «dentro a una commedia francese nella quale tutti sembrano felicemente matti». E infatti la spedizione si completa con la partecipazione dell'incauto Piccionello e la sua ghirlanda di infradito, e della saggia Suleima alla logistica. Nei paesini più interni che si vanno spopolando svuotati da una costante emigrazione, nel ventre della campagna di una Sicilia remota e arcaica - che è poi la Sicilia di cui «non sarei mai riuscito a liberarmi neanche fuggendo via» -, lontani dal mare, lontani dalle città, i personaggi e le situazioni offrono un'avventura on the road, che accarezza a ogni strano incontro la comicità e il mistero, per restare sempre ambiguamente sull'orlo di questo: quasi in un'immagine tremolante, di sogno. Perché, nell'evasione, nel divertimento, nell'impertinenza dei dialoghi e nel paradosso degli imprevisti, cresce il desiderio del protagonista Saverio Lamanna di andare a rivivere la sua infanzia e di recuperare, prima che sia troppo tardi, il vero rapporto con il padre.
Serena, mamma di due figlie, casalinga ultraindaffarata, chimica con il «superpotere» dell'olfatto formidabile e professionalmente coltivato nel suo ultimo lavoro da sommelier. E Corinna, sovrintendente di polizia, alta un metro e novanta e con un carattere ruvido, opposto a quello irruente e solare di Serena, ma con lei da subito in sintonia. A riunire l'irresistibile coppia è un caso che coinvolge il mondo vitivinicolo del borgo toscano di Bolgheri. È stato ritrovato il motocarro del marchese Crisante Olivieri Frangipane, patriarca di una antichissima famiglia di produttori di vino, scomparso anni fa in circostanze misteriose. Una sera di ottobre del 2013 il conte si allontana con il suo Ape coupé e non farà mai ritorno. Il ritrovamento del mezzo durante il drenaggio di un bacino artificiale della tenuta Tegolaia fa scattare immediatamente nuove indagini e riaccende vecchie scintille tra le due proprietà. La tenuta Tegolaia, passata dalla famiglia Colantoni ad una multinazionale olandese, era diventata bersaglio degli scherzi pungenti in perfetto stile toscanaccio del vecchio Crisante. A loro volta, attraverso il manager italiano, Walter Gori, gli olandesi si lanciavano in continue minacce di azioni legali o, peggio ancora, di azioni fisiche contro la persona. Quando all'interno della tenuta riaffiora anche il corpo del conte, alle due argute investigatrici appare chiaro che la risoluzione dell'enigma deve trovarsi all'interno di queste schermaglie. E nella memoria di Andrea Pace, ora nuovo proprietario della tenuta Tegolaia, nonché nel 2013 enologo della famiglia Olivieri Frangipane. L'umorismo, i colori, i profumi e i sapori della campagna toscana, in un intrigo giallo in cui emerge con forza la sensibilità femminile delle due protagoniste.
«Queste e tant'altre cose ebbero origine quasi settant'anni fa in una città siciliana di provincia, in una città distrutta, in una comunità traumatizzata e isolata dai grandi centri. Ma Palermo non era, come la Spagna nel suo torpore franchista, una casa di morti. Giuseppe Lampedusa o Lucio Piccolo erano dei dilettanti, ma rientravano anche nella categoria dei sapienti appartati, erano l'humus di un mondo civile». Poiché il principe che scrisse Il Gattopardo fu il creatore di un mito, di un modo di dire, di una concezione del mondo (gattopardesco, appunto), questo suo ritratto, che si allarga a una città vissuta e a una classe sociale al tramonto, cerca di introdurre nel suo modo di leggere i libri degli altri e di assimilarli a se stesso, nel suo modo di specchiare nelle proprie le altre immagini letterarie, nel suo modo di guardare con il massimo ingrandimento i meccanismi delle narrazioni. Gioacchino Lanza Tomasi, suo figlio adottivo, fu per anni anche l'allievo della piccola accademia di lettura che Tomasi di Lampedusa teneva per alcuni giovani; ed è stato anche nel tempo l'artefice di un'opera filologica che «ha così propiziato - spiega Silvano Nigro nella Nota al volume - la rilettura critica del Gattopardo». «Gioitto» - così era chiamato nelle lettere del principe - inizia i suoi ricordi, dettati poco prima di morire, dalla biblioteca della madre spagnola. Testi spagnoli classici di grandi narratori e poeti: Tomasi di Lampedusa vi poteva esercitare ariosamente la sua arte «di indagatore del comportamento umano e di narratologo». «Asciutto e fascinoso racconto critico. È il ritratto intimo della Palermo negli anni di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ma è anche il romanzo di formazione di un giovane che arriverà a guardarsi nello specchio delle pagine scritte dal padre adottivo» (Salvatore Silvano Nigro).
Nei mesi successivi alla pandemia, nella caratteristica plaza del Nord di Barcellona, si svolge la settimana gastronomica alla presenza di un certo numero di food truck, i camion ristorante che offrono cibo di strada o specialità culinarie delle più svariate regioni del mondo. Sull'evento piomba gelido un fattaccio di sangue. Christophe Dufour, cuoco francese nemmeno quarantenne che gestiva - con il suo socio spagnolo, Eduardo Castillo, detto Bob - un camion specializzato in gastronomia francese, è stato assassinato con due pugnalate. Petra Delicado, mentre sulla scena del delitto cerca di frenare il suo vice Fermín Garzón che accetta con entusiasmo tutti gli assaggi che gli vengono offerti dai possibili testimoni, prova a fiutare una possibile pista. Ma nulla, o poco, emerge del passato della vittima. I ragazzi del furgone accanto hanno visto la sera prima una bella donna francese dai capelli neri parlare con Christophe e fare molti acquisti. L'ispettrice si mette a caccia della donna misteriosa e scopre ben presto che la sua identità e quella dello chef sono false, i nomi veri riconducono a una rete di narcotraffico. Petra nel frattempo è tormentata dal sospetto di una crisi coniugale, ma non è il momento per mollare l'indagine. Percorrendo a ritroso le varie tappe del food truck di Bob e il suo socio, i due poliziotti si ritrovano nei paesi della Catalogna a rovistare nel sordido mondo degli stupefacenti tra bar squallidi, centri sociali loschi, negozi che funzionano da copertura. Con una tensione che non lascia il lettore fino all'ultima pagina, un doppio finale a sorpresa stravolgerà tutte le attese e lascerà letteralmente scossi.
Un sabato, con gli amici è il romanzo più sorprendente di Camilleri, pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 2009. Non è un giallo. Anche se l'ingombro di un cadavere non manca, con gli interrogativi che pone, in margine a un finto quanto torbido tentativo di ricatto. E neppure difetta, il non giallo, di una forte tensione narrativa: subito inaugurata in copertina da quel segnale d'allarme dato dalla virgola del titolo che rende quanto meno ambigua, se non micidiale, la qualifica di amicizia. Il romanzo è spietato. Per esso, Camilleri ha dismesso gli estri umoristici e i colori del vigatese. Il non riscattabile teatro degli orrori gli ha imposto un italiano asciutto: veloce, affilato e freddo; addirittura raggelante. Volutamente imprecisata è l'ubicazione della storia. La città non ha nome. È astratta da ogni referenza. È solo il luogo della composizione, in un variare di interni borghesi (completati da una garçonnière condivisa), di un susseguirsi di dialoghi come in scene di teatro: con scarne didascalie, che rendono agevole il transito al racconto. Sono sei gli amici: tre uomini e tre donne in carriera. Hanno trascorso insieme gli anni di liceo e università. Formano adesso una comitiva esclusiva, rinsaldata da un lussuriare sostenuto dal cinismo e dall'ipocrisia; oltre che da un convulso ricambio di letti, che disegna un puzzle da ricomporre e continuamente aggiornare. La viziosità ha derive di depravazione, profondamente segnata com'è da infanzie violate o da traumi mai seppelliti. Gli amici si danno un appuntamento settimanale. È la rimpatriata del sabato sera. Per una volta, coinvolgono nel rito un compagno da tempo dato per disperso. L'ospite è scomodo, socialmente diverso. È gay dichiarato e comunista. Non ha soldi. Deve arrangiarsi. E soprattutto detiene fotografie pesantemente compromettenti per un componente del sodalizio. Viene trovato morto. Era caduto accidentalmente, sporgendosi ubriaco dal parapetto del terrazzo, si convenne. Il provvido tonfo aveva liberato la trista brigata, chiusa e refrattaria che, indisturbata, poteva continuare a ravvolgersi su sé stessa. Ma chi aveva dato la spinta, se spinta c'era stata?
Un golfo dalla linea morbida, una lunga spiaggia di sabbia che corre parallela alla via Appia tra due colline, il Monte d'Oro e il Monte d'Argento. Un lungomare pieno di oleandri scandito da stabilimenti colorati e a volte sbiaditi, ognuno diverso dall'altro: la Tintarella, il Lido Delfini, il Lido del Pino, il Lido Maria, e molti altri. E poi la pizzeria Lu Rusticone, il bar Luccioletta, due chiese, una sola vera piazza. Poco più a sud scorre il fiume Garigliano e inizia la Campania. Subito a nord ci sono Formia, Gaeta, Sperlonga; in meno di due ore si arriva a Napoli e a Roma. Scauri, nel Lazio, sul Tirreno, seimila residenti nei mesi invernali e centomila nei mesi estivi. Un paese né bello né brutto, ma con una sua grazia scomposta. Qui ha scelto di vivere Vittoria, che è morta nella sua vasca da bagno. È stato uno stupido incidente. L'avvocato Lea Russo, un marito e due figlie, è sempre stata affascinata da Vittoria. Una donna distante ma curiosa, accogliente ed evasiva; nel parlare ha un fatalismo che lascia sgomenti. Era arrivata a Scauri con la sua risata che cominciava bassa e finiva acuta, aveva comprato una casa nella quale tutti potevano entrare e uscire, non aveva mai litigato con nessuno, non aveva mai cambiato taglio di capelli. Viveva con Mara, forse l'aveva adottata, forse l'aveva rapita, si dicevano tante cose. Ora Vittoria è morta per uno stupido incidente in una vasca da bagno, e Lea Russo non ne è convinta. Lea non vuole più accontentarsi di ciò che ha avuto sempre davanti agli occhi. Vuole capire come è morta Vittoria, e chi era davvero. Il primo romanzo per Sellerio di Chiara Valerio segna una traiettoria narrativa inedita. Storia nera di personaggi, indagine su una provincia insolita, ritratto di donne in costante mutazione. Niente è fermo, in "Chi dice e chi tace", le emozioni, gli amori, le verità e gli enigmi, i silenzi del presente e il frastuono della memoria: tutto si muove, tutto si trasforma, tutto può sempre cambiare.
È da una pagina del poeta Novalis - ricostruisce Vanessa Roghi in questa storia intellettuale (e sentimentale) di un libro rivoluzionario e del suo autore, e particolarmente della didattica dell'inventiva che ne è scaturita - che venne a Rodari l'idea della Grammatica della fantasia. Maestro di scuola, scrittore, poeta, utopista e creatore di una pedagogia poetica «per il mondo urbano e non per un'arcadia rurale che non esiste»: i capitoli su di lui di questo saggio lo ritraggono sullo sfondo delle profonde trasformazioni della società del dopoguerra e, soprattutto, nell'ottica delle grandi energie e speranze sprigionate dall'attivismo nella pedagogia internazionale. È necessario scoprire una «Fantastica» - così come esiste una logica -: una disciplina, cioè, che studi «l'arte di inventare storie», «il modo in cui le storie vengono al mondo». Il fine di questa disciplina non sarà una scienza astratta, ma principalmente il bambino e la bambina come persone attuali, presenti, né adulti futuri né generica infanzia; che sono cento capacità da non ridurre ad una; dotati di un senso della possibilità da affiancare non cancellare con il senso della realtà. Dalla lente d'ingrandimento dell'autrice emergono gli influssi culturali ricevuti e l'originalità di una formazione. Le idee vengono incrociate alle pratiche didattiche. Sono rintracciati i rimandi e i confronti con le scuole più vitali della pedagogia. Gli incontri con altri pensatori influenti. Ma è anche la qualità letteraria che viene fuori, l'instancabile lavoro sui giochi della lingua e della parola che può riferirsi a delle origini surrealiste dello scrittore in quanto tale. E poi Vanessa Roghi scova anche il Rodari più divagante: gli esercizi di allegria, le parole e il loro doppio, Pinocchio contrapposto, quanto a realismo, ai Garrone e ai Muratorino di De Amicis, le fiabe «archivio storico dei popoli», gli insiemi e la poesia, i fumetti. Un geniale, digressivo e trasgressivo fantasista che non è detto che non sia il Rodari più incantevole. «Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo».
Sarah Miles e Maurice Bendrix sono stati amanti durante la guerra. Il loro è un amore clandestino, rabbioso, quasi feroce. Una passione così assoluta che perfino i terribili bombardamenti tedeschi su Londra sembravano solo un sottofondo rumoroso. Il marito di lei, Henry, alto funzionario, non aveva mai dato segno di sospettare. Poi, Sarah aveva troncato di netto la relazione, improvvisamente e senza nessuna spiegazione. Dopo quasi due anni, finita la guerra, un incontro casuale tra Bendrix e Henry Miles riaccende la gelosia dell'ex amante: Bendrix non crede che Sarah sia semplicemente tornata dal marito; «l'odio, il sospetto e l'invidia», mai realmente sopiti, lo spingono ad assoldare un investigatore privato che pedini Sarah alla ricerca di un «terzo uomo». Ma che cosa ha capito Bendrix, che di mestiere scrive romanzi, ricordando il passato amore e inseguendo, attraverso i resoconti del detective, il presente di Sarah? Che cosa ha capito della «fine di una storia»? Il diario di Sarah svela un'altra verità. Non è solo l'ossessione, a volte selvaggia e spietata, di Bendrix che ha distorto la sua versione dei fatti. È anche che la storia di Sarah ha intrapreso una strada incommensurabile dove si incontra l'assurdo della fede, come desiderio di non essere soli nel deserto. Pubblicato nel 1951, Fine di una storia - da Greene definito il suo «Great Sex Novel» - è un romanzo lancinante, il resoconto di un amore carnale, immenso, crudele, in cui, per via dell'enormità della guerra, irrompe il divino. Ma è un divino diviso, tragicamente incerto, rischioso. Alla fine di questa storia, al di là dello scandalo e delle censure, resta - ha scritto Scott Spencer nella sua introduzione - la «convinzione che anche nelle circostanze più squallide ci sia qualcosa che non si vede, qualcosa che resiste e nobilita».
Per la prima volta insieme tre brevi gialli ambientati in Sicilia, tre storie da tempo introvabili, che confermano lo straordinario talento inventivo e di narratore di Andrea Camilleri. Delitti, intrighi e sospetti, e un carosello di personaggi memorabili. Le storie di Camilleri sono sempre seducenti, anche quando tralasciano la fascinazione sonora del vigatese per scavare dentro il rimestìo, sommesso ed elusivo, di un italiano parlato tra torsioni e tocchi dialettali: come accade nei tre racconti di questo volume. Conta, nell'un caso e nell'altro, la straordinaria esattezza della scrittura dell'autore. Nella terna, che qui fa libro, trovano assetto componimenti di diversa configurazione narrativa, di uguale qualità inventiva, e di godibilissima lettura. Due dei racconti sono datati 2005. L'altro è del 2011. Ora, dopo la dispersione, entrano nelle partizioni e nell'arcata di un libro unitario, collaborando vicendevolmente con i legami associativi suggeriti dagli ingegnosi giochi di quinte della regia di Camilleri. Sintomatico è il racconto Troppi equivoci con la sua costruzione severamente cinematografica. Sullo schermo delle pagine scorrono le didascalie come in un film d'antan. E la narrazione intreccia due trame parallele di contrapposta colorazione: una luminosa; l'altra torbidamente fosca, marcata dal corsivo. Bruno Costa, «tecnico della società dei telefoni», è portato da una «curiosità innata» a verificare le sue «supposizioni» partendo «da minimi indizi». È un dilettante dell'investigazione. Un futile scherzo telefonico, con conseguenti combinazioni di equivoci, fa precipitare lui e la donna di cui è innamorato nelle spire della trama oscura. La donna viene orrendamente uccisa. L'esercizio della «curiosità» consente a Bruno di venire a capo del giallo prima dello scrupoloso commissario Chimenti. Un monile di onerosi ricordi dà il titolo a Il medaglione. Il maresciallo Antonio Brancato comanda in Sicilia la Stazione dei Carabinieri di un paesino di montagna. Più che altro è un consulente per famiglie, un paciere. Può capitargli di doversi scontrare con un pericoloso latitante di passaggio. Ma lui sa come regolarsi. Risolve tutto con una furbata teatrale (in stile Montalbano). Ed è con una stupefacente furberia che salva dall'attonita disperazione e dalla angosciata autoreclusione un vedovo che, nella cassa del medaglione regalato alla moglie, al posto della sua fotografia ha trovato il ritratto di uno sconosciuto. Ambientato a Montelusa, nell'anno 1862, con propaggini nel biennio successivo, è Il giudice Surra. Il protagonista del racconto storico (un piemontese sceso in terra di Sicilia) è armato di un candore che disorienta la fratellanza, o mafia, e lo rende enigmatico, alieno all'intero paese; gli fa ignorare minacce, intimidazioni, e persino un attentato. È una corazza fantastica, l'in-nocenza, una sfida, sostenuta com'è da un'integrità morale e da un combattivo senso della giustizia che consentono al giudice di rintuzzare e umiliare la mafia, consegnandola all'irrisione. Salvatore Silvano Nigro
Dopo "Vecchie conoscenze" e "Le ossa parlano", il vicequestore Rocco Schiavone è in missione non ufficiale a migliaia di chilometri dalla sua odiata Aosta, con il vecchio amico Brizio. Vogliono ritrovare Furio, l'altro compagno di una vita, scomparso tra Buenos Aires, Messico e Costa Rica. Furio, da parte sua, si è lanciato a rotta di collo sulle tracce di Sebastiano, il quarto del gruppo, scappato in Sud America per sfuggire ad una colpa tremenda e alla conseguente punizione. L'antefatto è lontano nel tempo e ha squassato le vite di tutti loro. E adesso Rocco e Brizio devono impedire «la pazzia» di Furio, ma vogliono anche capire i perché di Seba, quali sono stati i motivi profondi di quel tradimento orribile con cui Rocco ha già provato a fare i conti, in modo da poter dare l'addio come si deve a un'amicizia vecchia quanto loro. La ricerca appare vana, perché il continente è immenso e chi scappa lascia solo labili indizi, sospeso in realtà tra scomparire e voglia di spiegarsi o di espiare. Il vicequestore, da fine investigatore, sa bene come armare una caccia spericolata, e Brizio è abbastanza svelto di mano da spalleggiarlo adeguatamente. In questo miscuglio di thriller e psicologia, è inevitabile che nella mente di Rocco si affollino i tanti ricordi di un'infanzia con la banda a Trastevere, quel piccolo mondo dove solo un fortunato caso ha deciso che Schiavone sia diventato un poliziotto e non un «bandito», una guardia e non un ladro, al pari dei suoi inseparabili compari, uniti in un'amicizia che non c'è più, distrutta dal tempo, dal destino o forse solo da appetiti personali. Ritrovare Sebastiano misteriosamente scomparso in Sud America sarà forse possibile. Impossibile ritrovare l'amico.
Quando faceva il giornalista, Dario Corbo cercava solo la verità che sarebbe piaciuta ai suoi lettori. Da quando non ha più un giornale, ha scoperto molte verità che non gli sono piaciute affatto. Per questo non ne vuol sapere di collaborare con i carabinieri nell'indagine che la ex moglie Giulia aveva intrapreso a costo della vita. Una necropoli etrusca devastata in anni di scavi notturni, un traffico andato ad arricchire la famiglia Currè, il patriarca Vincenzo, la figlia Maddalena che si sta accreditando come gallerista d'arte contemporanea, il suo enigmatico compagno Cosimo Roi, che quei soldi manovra al riparo di una finanziaria svizzera. Corbo ha altre priorità, un figlio di cui occuparsi, il suo amore impossibile per Nora Beckford. Il colonnello dei carabinieri lo richiama ai suoi doveri, e il clan Currè passa all'attacco della Fondazione Beckford e del prestigio che rappresenta. Il piano per entrare da padroni nella Scuda è diabolicamente congegnato, una trappola sottile in cui a cadere per prima sarà proprio Nora, con la sua determinazione, i suoi sogni e le sue fragilità. Ma soprattutto con l'amore per Dario, con cui sta finalmente rompendo le proprie catene interiori. Nel miglior romanzo della serie, come in una spy story, Corbo gioca su più tavoli, indaga e acquisisce informazioni, disinnesca pericoli, manipola amici e nemici, e a ogni interlocutore racconta la bugia adatta, tutto pur di proteggere suo figlio e salvare Nora e la Fondazione. La resa dei conti con il passato, suo e del nostro paese, non può essere rimandata.
La nuova edizione accresciuta con due capitoli inediti di un libro poetico in grado di narrare la realtà più cruda in pagine limpide che emozionano e commuovono. Storie di ragazzi che frequentano una scuola speciale nei quartieri popolari e popolosi di Napoli, e di chi se ne prende cura. «Si racconta qui l'apprendistato di un gruppo di insegnanti di media cultura ed umanità per conoscere le periferie della città e le periferie dell'animo degli adolescenti, cercando di stabilire con loro un dialogo educativo e di vita» (Carla Melazzini). Era dal tempo della Lettera a una professoressa che non leggevamo pagine così emozionanti. Come allora, si parla di ragazzi che frequentano una scuola speciale, e di chi se ne prende cura. Non siamo nell'esilio di una canonica del Mugello, qui, ma in quartieri popolari e popolosi di Napoli dov'è in vigore il Sistema; alle cronache piace chiamarli «il triangolo della morte». L'autrice, Carla Melazzini, è, nella scrittura come nella vita, del tutto aliena dalla retorica e dall'indulgenza facile. Così, commozione, intelligenza e poesia stanno in questo libro con la asciutta naturalezza con cui può sbucare un fiore meraviglioso dalla crepa di un muro in rovina. Senza compiacersi dell'idea che la rovina sia necessaria ai fiori, e ne venga riscattata. Ne troverete di fiori in queste pagine, e di ragazzini fiorai, e anche di rovine. Uno lo anticipiamo qui, è un tulipano finto, così come l'ha raccontato - salvo qualche errore di scrittura - una bambina che era stata bocciata in seconda elementare: «C'era una volta un fiore che non voleva essere un fiore, allora la fata dei fiori disse: "Se tu vuoi diventare un essere umano io ti accontenterò ma se non ti piace, ti dovrai rassegnare perché non potrai più essere un fiore". Il fiore accettò e la fata lo toccò con la bacchetta e lo trasformò in un essere umano. Il fiore si rese conto che la vita era difficile. La fata allora lo fece diventare un tulipano finto, per non farlo morire, poi scomparì per sempre». Carla ha chiesto a un compagno di classe: «Secondo te che cosa ha voluto dire Concetta con il suo racconto?». «Che il fiore non voleva morire e così la fata lo ha fatto diventare immortale». «Però l'ha trasformato in un tulipano finto! È meglio essere una persona umana e morire o essere un fiore finto e non morire mai?». «È meglio morire». In questa nuova edizione sono aggiunti, oltre alla Nota di Claudio Giunta, due capitoli dalle carte inedite dell'autrice: uno sul terrorismo visto con gli occhi dei bambini, l'altro sul «ventre di Napoli», con interviste e osservazioni dirette.
A Pineta è successo qualcosa che nessuno si aspettava, la destra ha vinto le elezioni amministrative, conquistando un feudo rosso più o meno dal 1946. Mentre i Vecchietti si dividono, anche Massimo ha i suoi problemi con la nuova amministrazione: infatti ha difficoltà ad ottenere l'autorizzazione per il suolo pubblico. La cosa però non gli toglie il sonno, dato che ormai, con la nascita di Matilde, la sua primogenita, non dorme da mesi. Per fortuna, anche in Comune hanno le loro gatte da pelare: il primo atto della nuova amministrazione è stata la vendita di un ampio terreno nell'entroterra a una ditta che intende realizzare un megaresort, contro il parere di varie associazioni locali (come gli ambientalisti e i cicloamatori) e con il favore di altre. Ma ben più grave è che nel parcheggio sul retro del Municipio viene rinvenuto un cadavere. È Stefano Mastromartino, studente di filologia della Scuola Normale, che ultimamente passava molto tempo a fare ricerche nella casa del conte Valdemaro Serra Catellani, nobile decaduto il cui antenato aveva intrecciato una corrispondenza con Giacomo Leopardi. Le lettere autografe del poeta, se ritrovate, sarebbero una vera e propria manna per il conte: pare che tra queste ci fosse anche una poesia di rara bellezza, rimasta inedita. Un bel rebus per il vicequestore Alice Martelli che potrà contare sulle pettegole deduzioni dei Vecchietti e su Massimo che, bazzicando in Comune, si rende conto che qualcuno entra un po' troppo spesso in uffici che in teoria non gli competono...
Venezia. Nel più rinomato caffè di San Marco una elegante anziana signora incontra l'avvocato Ridolfi, un giovane dal fare astuto, anche se alcuni dettagli del suo abbigliamento denunciano scarsa affermazione professionale. La signora è una vedova molto ricca e altrettanto cinica, indifferente alle sirene del conformismo. Tra i due si stringe un accordo. Rita, la nipote della vedova, ed Enrico, chirurgo in carriera, sono in viaggio di nozze a Rodi, allora italiana: siamo nel 1938, nei giorni del Trattato di Monaco. Li avvicina un sedicente generale di nome Costantini, che comunica a Rita l'improvvisa morte della nonna, dicendo di averla sposata poco prima che si spegnesse e consegnando alla nipote un testamento che la rende unica erede di una immensa fortuna. Ma il testamento include una clausola capestro, dove si insinua l'avvocato Ridolfi, che fa la sua comparsa a Rodi con una proposta tanto ambigua quanto minacciosa. Tra i quattro, sullo sfondo mondano e corrotto dell'isola levantina, inizia un carosello di mosse e contromosse, che include il ricatto e un incombente delitto: un gioco in cui uno solo potrebbe vincere tutto. Il mistero da Rodi ritorna infine a Venezia, dove i personaggi, messi in scena con piglio umoristico e a tratti satirico, lo condurranno a soluzione. Anche in questo libro Andrea Molesini - autore di Non tutti i bastardi sono di Vienna e di Il rogo della Repubblica - sceglie la via del romanzo storico per raccontare torbide relazioni familiari e intrecci criminali, invitando il lettore a esplorare il passato per interrogare il presente.
Il Solista del mitra prepara un colpo grosso, l'obiettivo sono i Frigoriferi Milanesi, l'intricato sistema di caveau a prova di furto, l'antica Fabbrica del Ghiaccio. Complici sono Il Piero, Faccia d'Angelo, La Miciona, La Piccerella, Il René, La Mantide. Il malloppo è qualcosa di estremamente prezioso, di losca provenienza, in ballo c'è anche una vendetta. Nel frattempo alla Casa di ringhiera la vita continua al solito, litigiosa, pettegola e malignetta. La falsa invalida, signorina Mattei-Ferri, ha deciso di cambiare atteggiamento e rendersi più amabile con i vicini, soprattutto i nuovi; il pensionato Amedeo Consonni si dedica al nipotino Enrico, dopo aver superato una profonda depressione; la professoressa Angela, dal buen retiro di Camogli, non perde di vista affetti e affari; il vecchio Luis De Angelis continua ad accudire paranoicamente la sua automobile, adesso una Maserati. E così via, tutti ostili tra loro, estranei, eppure legati gli uni agli altri come nella Finestra sul cortile. Però ci sono delle novità. Un gruppo allegro di studentesse di Fashion, venute dalla provincia più opulenta ad addentare la metropoli; e due nuove coppie di ricchi inquilini, a testimoniare che anche la Casa di ringhiera si gentrifica. E proprio da Camilla, la bella amante dell'architetto Sommariva, si viene a sapere qualcosa di Yutta, la venere tedesca che, dopo aver ammaliato tutti, era sparita con una fortuna e in barba al pensionato Consonni. La notizia fa ripiombare la Casa di ringhiera in una scalcagnata ed esagerata avventura. In questa nuova puntata della serie fortunata in cui un intero caseggiato assume personalità entro una cornice comico criminale, mosso da un'animazione farsesca, l'autore Francesco Recami sollecita il lettore a riflettere su cosa sia in realtà l'intrattenimento letterario. Un tema drammatico e surreale entra nella scena: che tipo di vita è quella dei personaggi di un romanzo?
Un capolavoro del Novecento, un romanzo che nella trama avventurosa si addentra nella morale, nella filosofia, nella religione. Il 20 luglio 1714 il più bel ponte del Perù lungo la strada tra Lima e Cuzco crolla senza alcun preavviso, trascinando nel baratro cinque persone che lo stavano percorrendo. Si salva un attimo prima Frate Ginepro che ossessionato dallo strano destino decide di indagare nella vita segreta dei cinque e trovare una traccia che spieghi il loro coinvolgimento nella sciagura. Scritto nel 1927 con «l'asciuttezza conseguita dagli autori consapevoli della consistenza del materiale narrativo» (come lo descrive Roberto Alajmo nella Prefazione) tanto che Indro Montanelli additava questa ricchezza di contenuti unita alla fresca agilità della lingua a modello di scrittura per i suoi giornalisti. L'idea che muove la trama è folgorante: un giorno d'inizio XVIII secolo, il ponte più bello di tutto il Perù sulla strada tra Lima e Cuzco, intrecciato dagli Incas con tralci di vimini, si ruppe. In quel momento vi transitavano cinque persone, tutte morte. Come tutti gli abitanti del mondo dei defunti, presto passarono nell'ordinario oblio, tranne che per il testimone oculare del disastro. Era un vecchio monaco ottimista, Fra' Ginepro, convinto della coincidenza e della identità tra la realtà e il bene, pronto a professare ai suoi fedeli che ogni cosa è a fin di bene. E quell'«atto puro di Dio», il taglio del ponte, poteva essere l'occasione di una «matematica» dimostrazione: «se c'è un disegno preciso alla base dell'universo, lo si può scoprire in quelle vite così repentinamente troncate». Così «nacque in lui la decisione che lo tenne occupato per sei anni»: indagare nelle vite di quelle cinque vittime, per dimostrare attraverso le loro esistenze la giustizia di Dio, «catalogando migliaia di episodi, aneddoti e testimonianze». E tanto folgorante è l'idea della trama, quanto la domanda che c'è sotto alla ricerca di Fra' Ginepro è davvero la domanda delle domande: «O viviamo per caso, e per caso moriamo; o viviamo secondo un piano e secondo un piano moriamo».
Non si fa che parlare dell'ELP, l'Esercito di Liberazione del Pianeta. Il vicequestore Rocco Schiavone guarda con simpatia mista al solito scetticismo ai gesti clamorosi di questi disobbedienti che liberano eserciti di animali d'allevamento in autostrada. Semmai è incuriosito dal loro segno di riconoscimento che si diffonde come un contagio tra ragazze e ragazzi. La vera violenza sta però da un'altra parte e quando Rocco viene a sapere di una signora picchiata dal marito non si trattiene, «come una belva sfoga la sua rabbia incontenibile»: «un buon suggerimento» per comportamenti futuri. Solo che lo stesso uomo l'indomani viene trovato ucciso con un colpo di pistola alla fronte. Uno strano assassinio, su cui Schiavone deve aprire un'inchiesta da subito contorta da fatti personali (comici e tragici). Per quanto fortuna voglia che facciano squadra clandestinamente anche i vecchi amici senza tetto né legge di Trastevere, Brizio e Furio, che corrispondono al suo naturale sentimento contro il potere. Nel caso è implicata una società che sembra una pura copertura. Ma dietro questa copertura, qualcosa stride e fa attrito fino a bloccare completamente Rocco sull'orlo della soluzione del caso. Intanto crescono in aggressività gli atti dell'ELP fino a un attentato che provoca la morte di un imprenditore di una fabbrica di pellami. Indagando, Rocco si rende conto che forse, dal punto di vista della sensibilità ambientale, sullo stabilimento non c'è molto da ridire. Ma perché i «simpatici» ambientalisti sono giunti a tanto? ELP è particolarmente narrativa e mette sotto un unico segno due casi e due inchieste. Le riunisce lo sfondo di calda attualità sociale. Anche il brusco vicequestore è più ombroso e stanco, sente più acutamente quanto importante sia l'amicizia, e deve investire nell'indagine tutta la sua irruente e sincera passionalità, e tutta la tenerezza della sua invincibile malinconia.
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Camilleri è un maestro del racconto. Si presta sia alla misura minima della novella che a quella del romanzo breve. E, nella raccolta La paura di Montalbano (uscita in prima edizione, per Mondadori, nel 2002), alterna «ritmi» brevi e «ritmi» lunghi. Concerta il tutto nella forma compattamente ritmica di un libro di grande felicità narrativa e di sicuro diletto. Fa da preludio Giorno di febbre. Vi abita un Montalbano febbricitante, impegnato nella vana ricerca di un termometro. È quasi una comica. Eppure il commissario, che assiste a uno scippo e al ferimento di una bambina, ha modo di fiutare, nel segreto di un barbone che si prodiga a dare soccorso, l'inabissamento di un giallo. La ricerca investigativa irrompe nel romanzo breve Ferito a morte. Montalbano si incarica di dare di sé un ritratto a contrasto, un attestato di esistenza in vita in qualità di personaggio nel ruolo di sbirro: lui «è» in quanto esistono i delinquenti. Un colpo di pistola ha ucciso, nudo nel suo letto, uno spurcissimo strozzino, che tiene in casa come serva una nipote diciottenne e ha come esattore un pregiudicato. Entra in scena un altro morto ammazzato. Si tratta del fattorino Dindò, personaggio di lunare innocenza. Per risolvere il caso, Montalbano si atteggia a regista cinematografico. Prova e riprova sul set le ricostruzioni possibili. Si insinua veloce, nella trama del libro, Un cappello pieno di pioggia. Ed è un imprevedibile cappello, quello del titolo, che consente allo sbigottito Montalbano, in trasferta a Roma, di favorire la cattura di uno spacciatore. Il quarto segreto vede in azione un Montalbano inedito che segretamente collabora con i carabinieri; e, senza la sua squadra, ma con l'aiuto esclusivo di un Catarella «affelicitato», porta a termine l'indagine sulla morte di un misterioso muratore e sulle attività di un costruttore mafioso. Segue, con La paura di Montalbano, l'ultimo «movimento» corto. Nella luminosità gelida di una passeggiata in montagna, accade a Montalbano di salvare una donna sospesa su uno «sbalanco». E di rispondere mentalmente alla provocazione di Livia, che lo accusa di non spingersi oltre le «prove» nelle sue investigazioni, proibendosi di scendere negli «abissi dell'animo». Montalbano confessa di avere «scanto». Sapeva che, «raggiunto il fondo di uno qualsiasi di questi strapiombi, ci avrebbe immancabilmente trovato uno specchio». Conclude il libro Meglio lo scuro. Dapprima Montalbano è riluttante. Non vuole affrontare il caso. Gli sembra di dover entrare in un romanzo d'appendice da smorfiare in romanzo poliziesco. C'è una confessione in punto di morte: un veleno che non è veleno; un omicidio che non è omicidio. La storia è datata 1950. Le persone implicate sono già morte, o prossime a morire. Alla fine il commissario non si sottrae. Purtroppo la verità che scopre è diventata superflua. Anzi, la sua «luce» può risultare inutilmente ustionante.
Davidù è cresciuto a Palermo in una famiglia di pugili, accudito dalla madre e dai nonni paterni, allevato e allenato dallo zio Umbertino, un uomo irruente, eccessivo ma di una umanità profondissima. Per il nipote vuole il titolo che lui stesso ha sfiorato e il padre di Davidù non ha raggiunto perché morto troppo presto. In questo romanzo di formazione, crescita e caduta, il pugilato è metafora della vita e i pugni, dati e ricevuti, fanno sempre male e scrivono cinquant'anni di storia: dalla guerra in Africa combattuta da nonno Rosario alle bombe che sventrano la città durante la seconda guerra mondiale, fino a quelle delle stragi mafiose del '92 che ne cambiano il volto per sempre. Come se a Palermo, sporca feroce bellissima, il tempo fosse immobile e le sirene - della polizia o degli attacchi aerei - l'unica colonna sonora possibile. Dentro la Storia scivolano le storie dei tanti che formano il mondo affettivo di Davidù: il gigantesco Umbertino e la sua spalla il Maestro Franco, giovani spavaldi e orgogliosi degli anni Cinquanta; la nonna Provvidenza, portatrice di un senso civico fatto di saggezza antica; il taciturno nonno Rosario e il suo segreto risalente alla prigionia africana. E poi i coetanei che formano l'esperienza e la crescita: Nina, l'amore infinito; Gerruso il goffo, l'amicizia; i tanti ragazzi di strada e i loro codici brutali. Fino alla scena dell'ultimo incontro di boxe, che chiude il quadro di una città e di una formazione. Così in terra, pubblicato per la prima volta nel 2012, è un racconto epico e corale, dalla costruzione complessa e insieme leggera come la danza del pugile sul ring, capace di muovere al sorriso così come al pianto, alternando comico e tragico, crudo realismo e tenerezza, in una scrittura di vetro, dolce, tagliente e carnale.
"L'eterno rivale" è uno dei tre romanzi di Jane Gardam che compongono uno straordinario ciclo letterario. I protagonisti sono accomunati soprattutto dal fatto di essere «orfani dell'Impero Britannico», nati in paesi asiatici dall'ultima generazione dei funzionari coloniali. Un gruppo di (ciascuno a modo proprio) «sbandati», eccentrici: ricchi, privilegiati, segnati da qualcosa di profondo e oscuro, legati a doppio filo dalla competizione e dal disprezzo reciproco. Ogni volume è autonomo e non vi è una sequenza cronologica: la stessa vita collettiva è raccontata ogni volta partendo da un punto di vista diverso, e focalizzando non una ripeti-zione della stessa vicenda ma una vicenda nuova, la quale diventa la chiave per leggere nuovamente gli stessi personaggi. Al centro del gruppo c'è il ricco e affermato legale Sir Edward Feathers, il comune «amico» che collega tutti, soprannominato Old Filth («Vecchia Schifezza»), dalle iniziali di Failed In London Try Hong Kong. In questo romanzo, per la prima volta tradotto in italiano, sotto i riflettori c'è Sir Terence Veneering, Terry, l'eterno rivale, anch'egli avvocato di fama. Per entrambi, e per ragioni diverse, la lo-ro «patria non era mai stata l'Inghilterra». Tra di loro sessant'anni di competizione, «un'ostilità inesplicabile. Un intruglio da streghe. O una semplice avversione reciproca». Alla fine dei loro giorni per «una burla degli oziosi dèi dell'Olimpo» si sono trovati a vivere in lussuose dimore a poca distanza, nel ritiro dorato del Dorset. Ma una burla più feroce c'è stata sempre sotto il loro rapporto, riguardante la moglie di Filth, la magnifica Betty. Adesso che sono morti la storia è ricordata da due coetanei, la svanita Dulcie, «gran dame del villaggio», e il sempre snobbato avvocato Fiscal-Smith. I due «ultimi amici» consegnano inaspettati segreti, mentre trascinano anche loro gli ultimi passi e gli estremi ricordi personali. Una scrittura distaccata e dotata di un umorismo basato sulla distanza tra le intenzioni e la realtà consente all'autrice di esprimere il modo di vivere accanito e disarmato dei suoi personaggi e la situazione storica che hanno vissuto e che rende ancora oggi la Gran Bretagna un paese unico al mondo.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore del Gattopardo, e Alessandra Wolff von Stomersee, baronessa baltica e psicoanalista che contribuì a introdurre Freud in Italia, si sposarono nel 1932, trentottenne lei, di due anni di meno lui: si erano conosciuti grazie a complicati incroci di famiglia, frequenti tra gli aristocratici del tempo. Per una lunga fase della vita si spedirono lettere con molte notizie su come trascorrevano le giornate, su parenti, amici, pranzi e cani e, soprattutto, sulle reciproche letture. Rari i sentimenti. Scritte tra il 1932 e il 1943, quando, a causa delle vicende belliche, il loro matrimonio finì per assumere un «assetto più tradizionale», queste circa duecento lettere costituiscono una testimonianza estremamente significativa. Fino ad allora il loro era stato, infatti, quello che si potrebbe definire un «matrimonio epistolare»: basato su di una forte consonanza intellettuale ma di cui lo stare lontani per lunghi periodi costituiva «un elemento strutturale». Erano, i coniugi Lampedusa, fatalmente vincolati ai luoghi, alle case, ai miti fondanti della propria origine, tanto che lo scambio epistolare, il parlarsi rimanendo ognuno nel suo mondo, era divenuto, negli anni, uno dei codici primari della loro comunicazione. Giuseppe amava perdutamente la grande casa di Palermo: la casa dove era nato e si aspettava di morire. Licy (così veniva chiamata in famiglia Alessandra) non poteva, invece, restare separata a lungo dal castello avito di Stomersee in Lettonia e dalla «gente del Baltico», la «sua» gente. Sarà la guerra a scompigliare definitivamente assetti fino ad allora ritenuti immutabili: Palazzo Lampedusa viene bombardato e distrutto nel 1943, il castello di Stomersee confiscato tra l’avanzata dei tedeschi e la controffensiva sovietica. Nel commento che conclude il volume, Giorgio Manganelli caratterizza così i due personaggi: lei, «regina boreale che ha per reggia un castello tedesco in terra di Lettonia»; lui, «custode della propria infanzia»; e sottolinea quanta energia promani da lei e quanto più languido, infantile ed emotivo appaia lui. Caterina Cardona sulle lettere, attraverso le lettere e oltre le lettere di Giuseppe e Licy conduce la sua sottile indagine svelando «un gioco della psiche, una astuzia della intelligenza e degli affetti» (Manganelli) che cattura l’interesse del lettore conducendolo alla ricerca della chiave profonda di un matrimonio e alla genesi imprevista di un capolavoro: Il Gattopardo.
È l'anno fatidico 2001. A New York, Harvey Sonnenfeld, agente CIA messo un po' in disparte ma carico di esperienza, ha un'intuizione, una di quelle convinzioni tenaci che non si sa da dove vengano ma che possono essere più radicate di un ragionamento articolato: ci sarà un attentato. «New York conta un bel po' di milioni di abitanti, e nessuno può sapere esattamente quanti stanno preparando un attentato. Loro sono qui e io prima o poi li annuserò». Ingaggia allo scopo un gruppo di persone tanto assurdo quanto efficace. Bobby Fischer, l'unico americano della storia campione mondiale di scacchi, paranoico, ma capace di anticipare un migliaio di mosse; l'immigrato russo Kozlov, un ubriacone, proveniente dall'Afghanistan, ingegnere esperto di ogni tipo di attentato; il professor Koselleck, cacciato dall'università a causa di una condanna per stalkeraggio contro la moglie, il massimo studioso del pianeta di graffiti offensivi e scritte oscene. Intanto un'ombra si aggira, un altro gruppo affaccendato a tessere una rete di contatti; per loro non è il 2001 ma l'anno 1421 dall'Egira. L'improbabile squadra di Harvey Sonnenfeld da un labile indizio scovato in metropolitana e una conversazione captata per caso, dà l'avvio a una corsa contro un tempo immaginario, in cui si profilano minuziosamente terroristi costruiti sull'equivoco. Siamo arrivati a settembre. La fine è nota. Ma il racconto è pieno di tensione e di sorprese, e pervaso dall'ironia di chi, come Alessandro Barbero, sa guardare alla storia con disincanto. E il desiderio di complotti produce le sue conseguenze, mentre la realtà va pericolosamente, indisturbata, per conto suo.
Vince Corso, biblioterapeuta e detective di enigmi letterari, sul treno che dovrebbe portarlo a un appuntamento con la fidanzata si imbatte in un originale compagno di viaggio: un uomo colto, insinuante, che fisicamente gli ricorda il grande Léo Ferré, lo chansonnier anarchico di Avec le temps. Solo che Corso ha sbagliato direzione, doveva andare verso Sud invece che al Nord, e contrariato vorrebbe ripa-rare. Ma l'uomo, misteriosamente allusivo, lo invita a persistere nello sbaglio: «forse lei non lo sa ancora, ma potrebbe essere arrivato il momento di fare questo viaggio». Genova, la prima meta, gli darà un tuffo al cuore: da lì fino a Marsiglia era trascorsa la sua primissima infanzia. La madre cameriera lo aveva concepito con uno sconosciuto una notte di fine luglio del 1969. E sarà questa l'indagine più importante della sua vita: scoprire chi è suo padre. Per cinque anni Vince Corso gli ha spedito una cartolina al giorno, lasciando vuoto il nome del destinatario e indirizzandole all'unico luogo dove sapeva che almeno per una notte suo padre era transitato: l'Hotel Le Negresco a Nizza. La sua ricerca si svolgerà sui litorali della Costa Azzurra, tra povere pensioni e hotel liberty, dietro a versi di poeti e a vecchi personaggi carichi di storie vissute, seguendo l'indecifrabile mosaico dei destini individuali e delle coincidenze. Fino al riconoscimento che completa il cerchio: essere restituito dai libri alla vita, riavere indietro la possibilità di «amare senza misura». Notturno francese è in realtà un notturno pieno di luce. È una storia di errori, di appuntamenti che non si sa di avere, di labirinti e di orfani che cercano un porto. Un romanzo dove domina la malinconia del continuo lasciarsi dietro le spalle cose e persone, nel tempo e nello spazio. Ma anche la sconsideratezza di mettersi in viaggio per ritrovarle. O per farsi trovare.
Vita Castellá giace cadavere nella stanza di un lussuoso albergo di Madrid, avvelenata con un caffè al cianuro. È stata la presidente della Comunità Valenciana. Amata e detestata, benefattrice e prepotente, ha dominato la città e la regione in una stagione segnata da una corruzione pervasiva e quasi proverbiale. La rete di potere che da lei si è estesa ha lasciato al suo ritiro una schiera di scheletri in moltissimi armadi. Della sua morte, le autorità, il capo della polizia, il ministro, vogliono far passare una versione ufficiale meno compromettente, un infarto che eviti «un casino di dimensioni stratosferiche». L'inchiesta di polizia è però inevitabile. L'idea brillante è di affidarla a degli investigatori inesperti e malleabili. Come Berta e Marta, due sorelle giovanissime appena uscite dall'Accademia di Polizia. Diverse l'una dall'altra come due fiocchi di neve, sono acute, ambiziose e sono donne, cioè con una emergente avversione per i maschi al potere. Vanno così per la loro strada di poliziotte determinate. Con un po' di rimorso «tacendo e mentendo» ai loro capi come questi fanno con loro due. E s'inerpicano in un'inchiesta che si svolge in una fascinosa Valencia. Poteri e misteri, false apparenze, vendette e rancori, altri spietati omicidi debbono svelare a poco a poco, anche con l'aiuto dell'affezionato addetto stampa della presidente, «Boro» Badía, un giornalista a cui il «partito» ha spezzato la carriera e ferito la dignità a causa del-le scelte sessuali. Le due creature di Alicia Giménez-Bartlett, le sorelle Miralles, Berta e Marta, sfidano lo stereotipo del detective tradizionale. Le ubbie, le paturnie, e i sogni propri di ogni ragazza risaltano nei dialoghi, e danno al mistero poliziesco la stessa quotidiana leggerezza che ha reso famosa l'ispettrice di Barcellona Petra Delicado. Quell'umorismo d'ambiente che ha tra i suoi scopi, come sempre nei romanzi dell'autrice, anche quello di affermare i diritti.
«Ho deciso di selezionare, da un diario che conta più di ottocento pagine, cominciato nel 1965 e terminato nel 1989, delle scene tratte dal Mondo tutto mio», così Greene definiva il mondo dei suoi sogni. «In un certo senso è un'autobiografia, che inizia con la Felicità e termina con la Morte». Il taccuino sempre sul comodino accanto al letto, Graham Greene aveva l'abitudine di appuntarsi i sogni appena fatti (un'eredità di antiche sedute con lo psicanalista) per poi ricostruire la mattina dopo. Poco prima di morire, dall'enorme materiale, ne scelse alcuni, raggruppandoli in categorie. Il risultato, Un Mondo tutto mio, è l'ultimo suo libro. E non è soltanto la testimonianza, la memoria della sua vita onirica, con tutti i collegamenti che questa poteva avere con una vita da sveglio complicata e strabiliante quale la sua (tra viaggi, spionaggio, noia e depressione, amori, guerre, scommesse con la morte), e con tutti gli scambi con la creatività geniale di uno dei più originali scrittori del Novecento. Si legge come un libro estremamente avvincente prendendolo proprio come racconto, come pura narrativa. Vuoi perché dai suoi sogni Greene traeva continuamente contenuti: «I temi dei romanzi di Greene», scrive Vittorio Lingiardi nella sua Nota, «sono pura materia psichica. Certo, ci sono i conflitti sociali e politici che esplodono in tutto il mondo, ma con loro esplodono anche quelli personali: l'antagonismo, la lealtà e il diritto alla slealtà, il tradimento, il ritorno delle esperienze infantili, soprattutto del rapporto padre-figlio. Non c'è romanzo di Greene che non preveda soluzioni oniriche». Vuoi perché, raccontando sogni, era come se toccasse il punto ideale dello scrivere: descrivere una storia totalmente fantastica, inventata, del tutto separata dalla realtà, avendo però un ancoraggio oggettivo, una sua realtà al di là delle intenzioni di chi la scrive. Come si legge nella Postfazione di Domenico Scarpa: «Se esiste un libro lieve, brioso, energetico, se esiste un libro che esprima libertà allo stato puro, è proprio Un Mondo tutto mio. C'era in Greene il piacere di fare ciò che è la quintessenza del mestiere di scrittore: invitare il lettore a entrare in una intimità realmente accaduta in ogni dettaglio, ma inesistente nella realtà».
Questo volume comprende i racconti inediti "La prova" e "La guerra privata di Samuele, detto Leli". Le altre storie sono state pubblicate in tempi diversi: "L'uomo è forte" in Articolo 1. "Racconti sul lavoro", Sellerio, 2009; "I quattro Natali di Tridicino" in Storie di Natale, Sellerio, 2016; "La tripla vita di Michele Sparacino" in allegato al «Corriere della Sera», 2008 e Rizzoli, 2009; "La targa" in allegato al «Corriere della Sera», 2011 e Rizzoli, 2015. Una rete di storie, ovvero una proliferazione di intrecci sorprendenti, è questo libro di racconti. La consueta concentrazione espressiva, la scrittura scenica di geniale lucidità, e il talento umoristico, consentono a Camilleri di tradurre con spigliatezza il ludico nel satirico, facendo giocare il tragico con il comico: senza però escludere momenti d'incanti emotivi, come nel racconto "I quattro Natali di Tridicino". La raccolta si apre con una «commedia» di equivoci e tradimenti, dai guizzi sornionamente maliziosi. Si chiude con un racconto di mare di potente nervatura verghiana, calato in un mondo soffuso di antica e dolorosa saggezza: «La vita è come la risacca: un jorno porta a riva un filo d'alga e il jorno appresso se lo ripiglia. [...] Ora che aviva portato 'sto gran rigalo, cosa si sarebbi ripigliata in cangio l'onda di risacca?». Nella montatura centrale, tra varie coloriture sarcastiche, si ingaglioffa nell'abnorme e nell'irragionevole. Ora è la vita da cane di un poveruomo, che si araldizza nel gesto finale, nella desolazione estrema di una autoironia catartica sorvegliata dalla moglie: «C'è luna piena, fa 'na luci che pare jorno. E allura vidi a sò marito, 'n mezzo allo spiazzo, mittuto a quattro zampi, che abbaia alla luna. Come un cani. "Sfogati, marito mè, sfogati" pensa. E torna a corcarisi». Ora è la stolidità ilarotragica del fascismo, in due episodi: sull'impostura di un falso eroe patriottico, al quale non si sa come dedicare una targa di pelosa commemorazione; e sulla discriminazione razziale, in un ginnasio, nei confronti di uno studente ebreo che sa però come boicottare e sbeffeggiare, fino alla allegra e fracassosa rivalsa, la persecuzione quotidiana di professori istupiditi dal regime. Si arriva al grottesco di un eccesso di esistenza. All'ignaro Michele Sparacino vengono cucite addosso più vite fasulle. I giornali lo raccontano come «sovversivo», «sobillatore», «agitatore» e infine «disfattista» durante la guerra. È sempre «scangiato per un altro». Ed è ricercato da tutte le autorità. Il vero Michele Sparacino morirà al fronte. Gli verrà dedicata, con tanti onori, una tomba monumentale al milite ignoto. E verrà «scangiato» anche da morto. Un giornalista scriverà infatti: «Avremmo voluto avere oggi davanti a noi i traditori, i vili, i rinnegati, i disertori come Michele Sparacino, per costringerli a inginocchiarsi davanti al sacro sacello...».
Serena, casalinga ultraindaffarata di un borgo vicino a Pisa, si imbatte casualmente in un cadavere. È quello del professor Caroselli, ottimo musicista e rigoroso insegnante nella scuola locale gestita dalle suore. Serena ha una solida formazione da chimica e un buon lavoro, ma ha scelto di licenziarsi stanca della discriminazione maschilista. Ma la sua identità non si esaurisce nel ruolo di madre di famiglia. Inoltre, la multitasking mamma di due figli e moglie di un distratto scienziato possiede quello che lei chiama «superpotere», un olfatto formidabile e professionalmente coltivato che le consente di distinguere perfino i singoli componenti chimici delle sostanze. Il passaggio da testimone in un caso di omicidio a investigatrice è così inevitabile. L'inchiesta ufficiale è invece condotta da Corinna Stelea, sovrintendente di polizia alta quanto un giocatore di pallacanestro. La coppia indirizza i sospetti verso i traffici del convento che gestisce la scuola. Molti pettegolezzi accompagnano l'indagine e molti segreti saranno svelati. Ma la soluzione sarà la più triste. Serena Martini e Corinna Stelea, i due nuovi personaggi creati dalla collaborazione di un affermato scrittore con una quasi esordiente, ma soprattutto dalla fusione di un punto di vista maschile e uno femminile, hanno giornate così complicate e vere che le loro più banali vicende quotidiane rischiano ogni momento di precipitare nell'acrobatico, nel paradosso, nell'avventura. Come già nella serie del BarLume, è l'affermazione del lato umoristico, o benevolmente assurdo, della vita che introduce nel poliziesco l'elemento comico, a cui in questo romanzo si aggiunge la capacità di rappresentare la sensibilità femminile.
Nella cameretta di Samantha spicca appeso al muro il poster di una donna lupo, «capelli lunghi, occhi gialli, un corpo da mozzare il fiato, gli artigli al posto delle unghie», una donna che non si arrende davanti a nulla e sa difendersi e tirare fuori i denti. Samantha invece, a 17 anni, ha raccolto nella vita solo tristezze e non ha un futuro davanti a sé. Non è solo la povertà della famiglia; è che la gente come lei non ha più un posto che possa chiamare suo nell'ordine dell'universo. Lo stesso vale per tutti gli abitanti di Colle San Martino: vite a perdere, individui che, pur gomito a gomito, trascinano le loro esistenze in solitudine totale, ognuno con i suoi sordidi segreti, senza mai un momento di vita collettiva, senza niente che sia una cosa comune. Sul paese dominano, rispettivamente dall'alto del palazzo padronale e dal campanile della chiesa, Cicci Bellè, «proprietario di tutto», e un prete reazionario, padre Graziano. I due si odiano e si combattono; opprimono e sfruttano, impongono ricatti e condizionamenti. Cicci Bellè prova un solo affetto, per il figlio Mariuccio, un ragazzone di 32 anni con il cervello di un bambino di 5; padre Graziano porta sempre con sé il nipote Faustino, bambino viziato, accudito da una russa silenziosa, Ljuba. Samantha non ha conforto nel ragazzo con cui è fidanzata, nemmeno nei conformisti compagni di scuola; riesce a comunicare solo con l'amica Nadia. Tra squallide vicende che si intrecciano dentro le mura delle case, le sfide dei due prepotenti e i capricci di un destino tragico prima abbattono la protagonista, dopo le permettono di vendicarsi della sua vita con un colpo spregiudicato, proprio come una vera donna lupo; un incidente, un grave lutto, un atto di follia, sono le ironie della vita di cui la piccola Samantha riesce ad approfittare. La penna di Antonio Manzini, che ha descritto un personaggio scolpito nella memoria dei lettori come Rocco Schiavone, raffigura individui e storie di vivido e impietoso realismo in un noir senza delitto, un romanzo di una ragazza sola e insieme il racconto corale di un piccolo paese. Una specie di lieto fine trasforma tutto in una fiaba acida. Ma dietro quest'apparenza, il ghigno finale della donna lupo fa capire che La mala erba è anche altro: è un romanzo sul cupio dissolvi di due uomini prepotenti, sulla vendetta che non ripristina giustizia, sul ciclo inesorabile e ripetitivo dell'oppressione di una provincia emarginata che non è altro che l'immensa, isolata provincia in cui tutti viviamo.
Delitti e intrighi da risolvere nel buio della notte, otto storie più nere che mai.
La notte in cui tutto accade – un delitto, l'enigma e il detective che lo svela – è una situazione tipica del noir. In questi otto racconti, lo specchio deformante della notte riflette lo stile di indagine proprio di ciascuno di questi noti investigatori, tra i personaggi più originali del giallo italiano.
Sono sei i racconti qui chiamati a raccolta, con un evidente cambio di scala rispetto ai romanzi. Storie riunite per la prima volta in volume, scritte in tempi diversi e non incluse nelle antologie che Camilleri ha pubblicato in vita. Le inquadrature brevi, la rapinosità del ritmo, la giustapposizione scorciata delle trame, la scrittura sghemba e senza incespichi, la cifratura del talento umoristico, sono a tutto vantaggio della resa aguzza dei testi e delle suggestioni che i lettori sono portati a raccogliere. I racconti conciliano un diverso modo di leggere, in una più stretta complicità con le malizie del narratore. Per altra via assicurano lo stesso godimento offerto dalle storie larghe dei romanzi di Montalbano. In un caso la giocosità narrativa di Camilleri, allusivamente codificando in una storia un'altra storia, apre al racconto giallo un più ampio spazio fatto di richiami e dissonanze. Accade nel terzo racconto che, già nel titolo, "La finestra sul cortile", riporta al film di Hitchcock; ma per raccontare, in totale autonomia narrativa, tutt'altra vicenda: la storia strana e misteriosa dell'«omo supra al terrazzo... d'infacci», sospettosamente provvisto di corda e binocolo; un caso tutto nuovo, e di imprevedibile soluzione, per il commissario in trasferta a Roma. I casi (anche umani; non solo delittuosi) che Montalbano si trova a dover sbrogliare offrono alle indagini indizi minimi, di problematica decifrazione, che impongono approcci di cautela o sottili giochi di contropiede: sia che si tratti di un corpo di donna barbaramente «macellata»; della scomparsa di un anello prezioso; del ritrovamento di un cadavere «arrotuliato dintra alla coperta», dopo i bagordi di una notte di Ferragosto; delle conseguenze pirotecniche (quasi come in un film americano, con tanto di colonna sonora) del fidanzamento sbagliato tra una studentessa di buona famiglia e un killer di mafia, latitante, sul quale gravava l'accusa di almeno quattro omicidi; del vinattiere diviso tra tasse e pizzo, mentre Montalbano soccorre con soluzioni che lo portano a giostrare (tra autoironici compiacimenti) con qualche «idea alla James Bond». Tutto è affidato all'intelligenza analitica del commissario che, indulgente quando necessita, sa sfogliare i palinsesti delle varie vite con le quali viene in contatto nel disordine quotidiano.
Dario Corbo è stato per vent'anni un cronista di nera. Da questo passato ha ereditato i modi spicci e la capacità di sentire odore di bruciato quando si presenta. Diventato da un paio d'anni il braccio destro di Nora Beckford, figlia di un grande artista che è stata l'imputata di un omicidio reso celebre anche dagli articoli dello stesso Corbo, riceve una notizia lancinante. La ex moglie Giulia è morta, travolta da un pirata della strada. Un colpo inaspettato che lo trova proprio nel giorno in cui il figlio Luca affronta la prima udienza di un brutto processo. Di fronte alla rabbia del figlio che non si dà pace e minaccia di vendicarsi sul compagno della madre che ritiene colpevole, decide di far luce su alcuni punti oscuri della faccenda. Lo incoraggia ad andare avanti l'indiscrezione del maresciallo che dirige le indagini, sua vecchia conoscenza: al comando non hanno nessuna intenzione di approfondire. Invece Dario scorge troppe ombre: tra l'altro, come mai è sparito il cellulare di Giulia con tutte le tracce elettroniche? Ma soprattutto: che ci faceva Giulia nel buio della campagna toscana più sperduta? A ogni tentativo di risposta altre domande man mano crescono di mistero: sui rapporti tra l'ex moglie e i suoi recenti datori di lavoro, la gallerista rampante Maddalena Currè e il suo compagno, broker di borsa, Cosimo Roi; sulle dubitabili expertise del noto professore di antichità archeologiche Bruno Weber; sui quadri di anonimi artisti venduti a peso d'oro. Ma il sospetto di una realtà delittuosa diventa certezza da una via traversa: lì accanto al luogo dell'incidente mortale, un cascinale abbandonato era stato anni prima il teatro della strage di una famiglia innocente; ai tempi era sembrato un caso risolto, ma adesso l'esperto cronista di nera ricorda e può collegare fatti vecchi e nuove risultanze. Le trame di Giampaolo Simi appaiono già dalle prime pagine ricchissime di situazioni articolate, svolte inattese e personaggi sfaccettati. Sono forse questa complessità di costruzione narrativa e la sapienza di intreccio logico a rendere fluido eppure misterioso l'andamento dei suoi romanzi e convincenti ma insieme sorprendenti gli esiti. E, grazie alla spesso insolente ironia del protagonista, l'autore svela il contrasto stridente tra la patina raffinata e alla moda di certi personaggi e le ombre oscure che proiettano.
Alla Sistemi Integrati - l'agenzia investigativa che Carlo Monterossi ha fondato per noia, per sfuggire alla tivù spazzatura che l'ha reso ricco, per «infilarsi nelle vite degli altri» - si presenta un ragazzo molto perbene, Stefano Dessì. Vuole che sia ritrovata una persona scomparsa, «la mia donna», dice. Una piccola questione di cuore, pensano Carlo e i suoi soci, il ruvido Oscar Falcone e l'ex poliziotta Cirrielli. Il ragazzo è molto giovane, ha solo ventidue anni, e il suo amore scomparso sfiora i quaranta, è rumena, bellissima, elegante, affermata, enigmatica. E nei guai. Che affari ha in corso Ana con un boss in giacca e cravatta, un re della zona grigia che lega denaro sporco e affari ufficialmente puliti? Perché è costretta a nascondersi? E soprattutto che cosa ha, o che cosa sa, Ana, da «barattare in cambio della sua vita»? Giorni dopo viene ucciso Federico Bastiani, «il nuovo fenomeno della finanza», giovane, rampante astro nascente del business, soldi e jet set. Lo trovano «con un buco in testa» in un piccolo appartamento affittato a giornata. Indagano, in modo semi-ufficiale, due poliziotti: Ghezzi, che si muove morbido come un gatto, e il ringhiante Carella. Scoprono in fretta che dietro la patina di brillante mondanità si nasconde molto altro, ma capiscono anche che la soluzione non è soltanto lì. A Ghezzi e Carella il delitto sembra «una cosa mezzo e mezzo», forse gli affari, certo, ma anche qualcosa di personale. Le due indagini finiscono per incrociarsi, Carlo Monterossi, Oscar Falcone, la Cirrielli, Ghezzi e Carella, formano un unico gruppo, tra battibecchi, divergenze e diverse visioni del mondo, tutti con le vite private perennemente in zona sismica, e tutti sorpresi di trovarsi a riflettere - ognuno a suo modo - su quella che Carlo chiama con un ghigno sarcastico «l'annosa questione dell'amore». A ogni romanzo della serie di Carlo Monterossi, la prosa rapida e precisa di Alessandro Robecchi (che sembra battere allo stesso ritmo del pensiero di chi lo legge) ci trascina dentro Milano, la grande protagonista delle sue storie. A volte amabile, a volte odiosa, «dinamica e turistica», città di grattacieli e periferie decorose con «un prato davanti, il centro commerciale a due passi, che volete di più dalla vita?», di milionari, di «ceto medio che scivola in basso» e di chi «si ammazza di lavoro». È la Milano Nera dello Scerbanenco del nostro tempo.
Il 12 settembre 1919 Gabriele D'Annunzio, alla testa di un gruppo di ribelli, granatieri, bersaglieri, cavalleggeri, arditi del Regio esercito italiano, occupa la città di Fiume. Dura poco più di un anno il governo retto dal Poeta, costretto alla resa nel Natale del 1920 dal Trattato di Rapallo che Giolitti firma con il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Alessandro Barbero, capace come pochi di trasformare la storia in un racconto entusiasmante, descrive, in questo romanzo, l'incredibile impresa del Poeta Soldato che sogna di vivere al di sopra di ogni immaginazione, come un grande d'altri tempi. Il «Comandante» è ritratto negli ultimi giorni della Reggenza del Carnaro attraverso gli occhi di Tom Antongini, amico e segretario di D'Annunzio a Fiume. Tom nel 1944 da Salò rievoca gli eventi vissuti in prima persona, sempre a fianco del Vate. Ed è una narrazione ironica, comprensiva, attraversata ora da ammirazione ora dal dubbio, che tratteggia un Gabriele stanco e malinconico per la vecchiaia che avanza, eppure sempre audace, donnaiolo, sperperatore, talvolta tanto preso da se stesso da apparire quasi inconsapevole delle concrete conseguenze della sua azione. Ma è soprattutto un D'Annunzio spiazzante che da un lato nutre i primi caratteri del fascismo - tra le file dei suoi ribelli si chiacchiera già di marciare su Roma -, dall'altro si circonda di socialisti, bolscevichi e sindacalisti. È il primo capo di Stato a riconoscere l'Unione Sovietica, e a sua volta guardato in questa impresa con simpatia da Lenin. A Fiume si realizzano non solo le manie estetizzanti del Vate, ma anche, a dispetto del personaggio, politiche volte a cercare di risolvere i contrasti sociali: la costituzione promulgata è libertaria, emancipata e anticipa molti valori della società contemporanea. Un romanzo pubblicato per la prima volta nel 2003, in cui Barbero dipinge un D'Annunzio nei suoi piccoli atti, non ultimi quelli legati alla seduzione che mostrano l'umanità più fragile di Gabriele: prima che scada il suo tempo a Fiume non restino impuniti alcuni feroci sfruttatori di donne. Con una scrittura in grado di strappare un sorriso per le irriverenze e stravaganze del poeta, il ritratto di un eroe decadente, triste e deluso davanti al grande peso della Storia.
Gli improbabili investigatori isolani immaginati da Gaetano Savatteri sempre dentro situazioni strane e incontri un po' paradossali eppure non insoliti in Sicilia, scivolano nella trama gialla quasi involontariamente, ma sempre spinti dalla curiosità di entrare nei segreti più profondi della loro terra. Al di là dell'indagine il vero scopo del raccontare è quello di disegnare una giostra di caratteri umani nella loro irripetibile originalità. E a sostegno di questo osservare, indagare e rappresentare la vita, Savatteri gioca la carta dell'ironia, campione senza pari di un sarcasmo che usa come antidoto contro i luoghi comuni sulla Sicilia e la retorica dell'isola. Saverio Lamanna, giornalista disoccupato e freddurista incallito, e Peppe Piccionello, siciliano di scoglio, quello di Màkari, infradito, mutande e maglietta con gli slogan made in Sicily. Accanto ai due, chiude un triangolo di segugi ficcanaso, Suleima, la cameriera di Marilù proveniente da Bassano del Grappa, fiamma di Saverio e ora tornata al Nord a lavorare come architetto. Investigazione dopo investigazione, Saverio Peppe e Suleima, con passo farsesco, risalgono il filo di quattro casi precedentemente usciti nelle antologie a tema e che qui, riuniti sotto la stessa copertina, si leggono quasi come un unico romanzo in cui si ride senza sosta, ci si commuove talvolta, e sempre sotto il velo comico va in scena mascherata la miseria umana.
Attraverso l’amicizia tra due ragazze il ritratto di una generazione sul finire degli anni Sessanta nel corso di tre anni di scuola. Una educazione sentimentale e politica, una scoperta del mondo visto dalla periferia della città industriale popolata di immigrati, un manifesto dell’adolescenza dove fra Kerouac e Dylan Thomas, Linus e Bob Dylan ironia e dolore si mescolano, e fa irruzione la vita vera. La compagna Natalia è un racconto lieve e insieme profondo che coinvolge e commuove. "Questo romanzo è e resterà unico. Perché è scritto con passione, profondità, ironia, rigore, dolcezza, e con uno sguardo sobrio e intenso, poetico e politico sul mondo." Lella Costa Fine degli anni Sessanta, periferia torinese, una ragazzina, terminate le scuole medie, viene iscritta dai genitori a una scuola sperimentale per segretarie d’azienda, ospitata in un più grande istituto per periti tecnici, esclusivamente maschile e maschilista. Ogni giorno quando arriva in classe trova seduta al suo banco, tranquilla e concentrata, una ragazza diversa dalle altre. È la compagna Natalia, perfetta, forse per questo lei e le compagne tendono "ad evitarla pur essendo, tutte, fortemente attratte dalla sua aura" – appena poteva leggeva un libro bianco con delle righe rosse e i titoli neri, quasi fosse un vessillo.
Un medico in pensione scopre nel bosco delle ossa umane. È il cadavere di un bambino. Michela Gambino della scientifica di Aosta, nel privato tanto fantasiosamente paranoica da far sentire Rocco Schiavone spesso e volentieri in un reparto psichiatrico, ma straordinariamente competente, riesce a determinare i principali dettagli: circa dieci anni, morte per strangolamento, probabile violenza. L'esame dei reperti, un'indagine complessa e piena di ostacoli, permette infine di arrivare a un nome e a una data: Mirko, scomparso sei anni prima. La madre, una donna sola, non si era mai rassegnata. L'ultima volta era stato visto seduto su un muretto, vicino alla scuola dopo le lezioni, in attesa apparentemente di qualcuno. Un cold case per il vicequestore Schiavone, che lo prende non come la solita rottura di decimo livello, ma con dolente compassione, e con il disgusto di dover avere a che fare con i codici segreti di un mondo disumano. Un'indagine che lo costringe alla logica, a un procedere sistematico, a decifrare messaggi e indizi provenienti da ambienti sotterra-nei. E a collaborare strettamente con i colleghi e i sottoposti, dei quali conosce sempre più da vicino le vite private: gli amori spericolati di Antonio, il naufragio di Italo, le recenti sistemazioni senti-mentali di Casella e di Deruta, persino l'inattesa sensibilità di D'Intino, le fissazioni in fondo comiche dei due del laboratorio. Lo circondano gli echi del passato di cui il fantasma di Marina, la moglie uccisa, è il palpitante commento. Si accorge sempre più di essere inadeguato ad altri amori. È come se la solitudine stesse diventando l'esigente compagna di cui non si può fare a meno. Questa è l'indagine forse più crudele di Rocco Schiavone.
La settimana dei nostri investigatori si divide tra misteri da risolvere e i problemi e le soddisfazioni della vita privata. Una doppia traccia, tra crimine e quotidianità, che contrassegna le storie di questa antologia gialla. I protagonisti in gran parte sono arcinoti, in molti casi dalle loro avventure sono state tratte delle serie televisive. C'è l'ispettrice Petra Delicado della polizia di Barcellona che vorrebbe per una volta occuparsi di «un delitto glamour», e finisce invece in una storia «deprimente e squallida». Al glamour ci pensa il trio di Alessandro Robecchi: Carlo Monterossi, Oscar Falcone e Agatina Cirrielli, i quali tempo una settimana devono riuscire a ripescare da dove è affondato l'erede ignoto di un multimilionario. Il flâneur dei piaceri e dei misteri di Palermo, il La Marca di Santo Piazzese, intenta una beffa per salvare un amico da una grottesca situazione mafiosa. Lo psicobibliologo Vince Corso è condotto, dal suo creatore Fabio Stassi, sulle tracce di una strage fantastica: sono scomparsi gli eroi dei grandi romanzi. Lamanna e Piccionello sono nati dalla penna di Gaetano Savatteri e vivono nella ridente Màkari, ai due «non va giù quando i salvatori degli ultimi dimenticano i penultimi». Dove va a finire Alice Martelli, vicequestore e compagna di Massimo del BarLume, per svelare un buffo omicidio? Nell'Orrido di Botri, in Garfagnana, lì dove nidifica l'aquila reale. Gelosia, avidità, elusività, inganno: sono categorie psicologiche in cui Dario Corbo, l'acuto e nevrotico ex giornalista di Giampaolo Simi, si muove per tirare le fila di un caso freddo. Nella Casa di Ringhiera, il palcoscenico degli equivoci inventato da Francesco Recami, una spirale infernale travolge i brutti sporchi e cattivi di quel condominio: le scommesse clandestine. Il vicequestore più famoso d'Italia, Rocco Schiavone, trova un cadavere sul Monte Bianco, frontiera franco-italiana: vorrebbe appiopparlo alla collega transalpina ma... In questa antologia compaiono anche per la prima volta, dopo l'esordio in romanzi, personaggi nuovi ben adatti a un brillante primo piano. Sono: Viola, la giornalista curiosa di Simona Tanzini, che nell'esplorazione di verità scabrose si aiuta con la facoltà non voluta di associare i colori alle persone; e Acanfora, il poliziotto soggetto delle trame di Andrej Longo: la sua indagine, su un assassinio da tinello, fende un'atmosfera che affianca ferocia e pietà, che un po' ci ricorda Scerbanenco. Gli autori del volume: Alicia Giménez-Bartlett, Andrej Longo, Marco Malvaldi, Antonio Manzini, Santo Piazzese, Francesco Recami, Alessandro Robecchi, Gaetano Savatteri, Giampaolo Simi, Fabio Stassi, Simona Tanzini.
Rollo Martins, scrittore di western dozzinali, subito dopo la guerra va a Vienna, una città in condizioni disperate, divisa in zone sotto il controllo dei quattro Alleati. Lo ha invitato, perché scriva un servizio giornalistico, il suo miglior amico, Harry Lime. Solo che lo trova morto, o almeno partecipa al suo funerale. Qui incontra un funzionario di Scotland Yard, Calloway, il quale, con i suoi sospetti infamanti, sospinge Rollo a indagare sulla fine dell'amico. L'incontro con l'ex fidanzata di Harry complica la sua ricerca, e spunta un'ombra: un terzo uomo, la chiave di tutto. La storia è raccontata non dal protagonista ma dal disincantato colonnello Calloway. Così il punto di vista del desolato Rollo risulta bilanciato da quello distante dell'ufficiale di polizia: per lui Rollo, colpito nell'amicizia e nell'amore, è alla fin fine «un simpatico idiota». Graham Greene è attentissimo nell'esplorare le psicologie dei suoi personaggi, e li immerge in storie sinistre, che generano individui divisi tra il be-ne e il male, esseri colpevoli carichi di umanità. Ma il suo modo di narrare è sempre in bilico fra il tragico e il grottesco, tra la cronaca e la pietà: usa il distacco dell'ironia per suscitare partecipazione emotiva. Viaggiatore, inviato di guerra, agente segreto, le sue storie, variegate di noir, spionaggio, sospetto, hanno sempre l'aroma della realtà ben conosciuta. Ma il sigillo di Graham Greene sta nelle atmosfere che rievoca: e questa cupa Vienna disastrata, che si incarna nella disperazione di un uomo, mentre un altro uomo osserva senza battere ciglio, è rimasta una delle immagini che meglio rappresentano e raccontano il Novecento.
«Dopo vent'anni - è il rimpianto di Yasmina Khadra -, in cui il semplice ritorno alle cose naturali della vita ci sembrava una specie di miracolo, ma noi ci avevamo creduto, ecco che tutto è sparito in una voluta di fumo, eccoci rispediti alla casella di partenza». Questo romanzo dello scrittore algerino Mohamed Moulessehoul, che ha cominciato a scrivere con lo pseudonimo femminile di Yasmina Khadra - e dopo il successo ottenuto, lo ha mantenuto -, è stato pubblicato nel 2002, poco dopo l'intervento americano in Afghanistan. Attraverso le storie dei protagonisti, parla della vita quotidiana a Kabul sotto i talebani trionfanti, come sono trionfanti oggi vent'anni dopo. Il quadro di un'agghiacciante realtà pubblica, attraverso le scene private di due matrimoni. Mohsen e Zunaira, una coppia borghese ridotta in povertà: «Si erano conosciuti all'università. Lui studiava scienze politiche e aspirava alla carriera diplomatica; lei ambiva a diventare magistrato»; e Atiq e Mussarat, lui un carceriere, quindi un personaggio di un certo privilegio in mezzo a un popolo di prigionieri, lei una malata terminale, quindi ancor più emarginata nella sua condizione inferiore di donna. Tra queste due unioni, vive una colpa immensa e da nascondere assolutamente: l'amore. La bella Zunaira è per Mohsen l'amore di gioventù; Atiq è legato alla sofferente Mussarat di devozione e gratitudine per quello che lei aveva fatto anni prima. Che ne farà di loro «la città dannata», dove «la gioia viene annoverata fra i peccati capitali», e «le esecuzioni pubbliche tendono a diventare routine»? Oggi, «dopo vent'anni di guerra e di speranza», Kabul è ritornata la stessa città dannata. Nel libro c'è una frase che è un'espressione di ottimismo: «I talebani hanno approfittato di un attimo di confusione - dice Mohsen a Zunaira - per assestare un colpo terribile ai vinti. Ma non è il colpo di grazia». Rileggere questo romanzo e confrontarlo con quanto è successo significa prendere atto del colpo di grazia.
Sono i giorni del Covid. Per la prima volta nei loro ottant'anni suonati, i Vecchietti del BarLume si sentono tali. Sono isolati e dubitano di avere ancora un futuro. Il tempo gli svanisce spulciando «ogni tipo di statistica sul virus esistente al mondo». Il bancone di Massimo il Barrista, fino a ieri cabina della macchina del pettegolezzo investigativo, è vuoto di chiacchiere. Persino la mamma di Massimo, la Gigina, è ritornata a casa, un piccolo tormento in più nelle giornate di Massimo, e una voce spiritosa che si aggiunge al gruppo toscaneggiante; ingegnere geniale in giro per il mondo, con un intuito più acuto perfino del brillante figlio. Ma provvidenzialmente l'occasione «per non farsi i fatti loro» arriva. Alice, la vicequestora fidanzata del Barrista, bloccata in Calabria per un corso di aggiornamento per poliziotti, commette l'imprudenza di chiedere un'informazione innocua a uno dei vecchietti: quanto basta per insospettire la maldicenza e così scatenare i segugi venerandi. In Calabria c'è stata una strana doppia morte di due anziani coniugi. Lui, proprietario di una catena di pizzerie, è stato fulminato da una fucilata mentre era in coda al supermercato; forse criminalità organizzata. La moglie è morta per una ingestione di botulino. Anche se condannati a comunicare via computer e telefonini, per i vecchietti le coincidenze continuano a non esistere. Ritrovando il metodo confusionario che li ispira, il turpiloquio creativo, il dialogo immaginosamente sferzante, risolvono in smart working un intrigo a più piani. Ma usando anche tutta la pietà e la solidarietà sociale, che fu a lungo l'idea-forza di quella generazione. In questa nuova commedia gialla di Marco Malvaldi, ambientata in pieno lockdown, i Vecchietti del BarLume sono ancor più protagonisti e sottili risolutori, con tutte le balordaggini che si trascinano a ogni passo. E il loro sguardo, pur appannato, è più che mai penetrante nelle ingiustizie sociali e nelle diseguaglianze messe in risalto dal momento tremendo. Ma sarà Massimo, come al solito, a mettere la parola fine a tutta l'intricata indagine, con tanta capacità di entrare in sintonia col prossimo, e un'arguzia in più che sorprende tutti. Così, l'autore, avventurosamente, rappresenta in trasparenza la condizione di tutti gli anziani e ricorda la necessità dei valori che li animano.
Con lo scrittore Lu Xun (1881-1936) inizia, nei primi del Novecento, la letteratura cinese moderna. Autore di opere narrative e in più scritte nella «lingua piana», più comunemente parlata («il fondatore della lingua cinese moderna», lo presentava Dario Fo), completava, grazie a queste sue decisive innovazioni, due rivoluzioni nella tradizione. Nel Celeste Impero solo le opere poetiche avevano le doti per essere considerate vera letteratura, mentre ne era esclusa la narrativa, e per di più dovevano essere composte in lingua letteraria, cioè aulica, artificiale, poco comprensibile a chi era fuori dalle élite. Questa spinta al cambiamento è spesso evidente nelle situazioni e nei personaggi dei suoi racconti, che per lo più parlano di storie piccole, quotidiane, che dipingono in modo vivacissimo la vera vita nei villaggi e nei quartieri delle persone vere, incastrate nelle ironie, o nei paradossi, o nelle tragedie della loro esistenza. In uno stile ondeggiante tra il satirico e il grottesco. Opere che fra l'altro in generale mostrano la forza universale del genere racconto, capace di trasmettere in un lampo di immediatezza la colorazione emotiva di una condizione, per quanto lontana. Di farla sentire. Lu Xun fu introdotto in Italia fin dalla metà del secolo scorso, con rare anteprime precedenti. Interessava la varietà del suo lavoro, dal saggio al racconto; e probabilmente attirava che l'autore rappresentasse contemporaneamente due aspetti, gli sforzi di un enorme paese per entrare nella modernità e il peso e le permanenze di una civiltà antichissima e ammirevole. "Grida" è il primo dei tre volumi dell'edizione completa dei suoi racconti, in una nuova traduzione originale. Scrive nella Postfazione Nicoletta Pesaro che ha curato il volume: «Ma l'intuizione e la genialità dello scrittore, sicuramente il più significativo e influente di tutto il secolo scorso in Cina, non si manifestano soltanto nell'aver promosso la narrativa nel sistema letterario cinese; la forza e la passione riformista e rivoluzionaria, una straordinaria e suggestiva potenza artistica, il dualismo fra tradizione e modernità così come lo scarto tra volontà illuministica dell'intellettuale e la pessimistica constatazione dell'inerzia del popolo contadino, uno stile, infine, irregolare e a tratti spigoloso che coglie spunti sia dall'esperienza del racconto russo e dell'est europeo sia dalla tradizione lirica cinese: tutti questi elementi rendono irripetibile e artisticamente eccezionale la sua narrativa».
Rocco Schiavone indaga sull'omicidio di una professoressa in pensione. E intanto l'ombra del passato si fa pressante: la pena per Sebastiano, l'amico fraterno che non ha mai smesso di dare la caccia a Enzo Baiocchi, che gli ha assassinato la moglie, lo rende inquieto e gli ruba il sonno. Antonio Manzini continua il suo romanzo sul vicequestore scontroso, malinconico, ruvido e pieno di contraddizioni che i lettori ormai conoscono e apprezzano; lo fa con una capacità di invenzione e con una passione per il personaggio, per tutti i personaggi, che difficilmente possiamo riscontrare in altri scrittori di oggi.
Sui sentieri della storia, tra cospirazioni, intrighi e colpi di scena, un affascinante giallo con Aristotele nei panni di Sherlock Holmes e il suo fido Stefanos in quelli di Watson. Alla Morte di Alessandro Magno il filosofo e il suo discepolo sono chiamati in Macedonia e lì si trovano a barcamenarsi tra morti misteriose, personaggi ambigui e strategie ambiziose legate al nuovo assetto dell'Impero.
Nel 1480, in un piccolo paese del trevigiano, un bambino sparisce nel nulla. L'archisinagogo Servadio e altri due ebrei vengono accusati di averlo ucciso per impastare col suo sangue le focaccine pasquali. Torturati e condannati a morte per infanticidio rituale, fanno ricorso e il processo si riapre davanti al Senato di Venezia. Boris da Candia, spia della Repubblica di San Marco, uomo di «inganno e di rapina», avventuriero levantino e violento, ma anche colto umanista, è investito di una missione segreta. Venezia è appena uscita da una guerra contro i turchi e dalla peste. Il malcontento si diffonde. Il francescano Bernardino da Feltre, con le sue prediche infuocate, fomenta nel popolo l'odio contro gli ebrei, perché il suo ordine religioso vuole sostituire i loro banchi dei pegni con quelli del Monte di Pietà. Il doge Giovanni Mocenigo, per motivi economici e di ordine pubblico, emana una bolla che proclama la tolleranza e impone il rispetto degli ebrei, cittadini laboriosi e fedeli alla legge, ma ciò non basta a moderare il livore plebeo istigato dal feroce predicatore. Boris da Candia, un Corto Maltese arguto e a tratti brutale, che frequenta palazzi e bordelli, nel corso delle sue indagini incrocia una maga, donna dalle grazie misteriose, che gli rivela particolari ignoti a tutti: «Il dettaglio è il crocevia dove il visibile e l'invisibile s'incontrano». Giovanni, un monello di strada, lo aiuta a districarsi. Ma è il dialogo con Servadio quello che lo segna più di ogni altro, perché l'archisinagogo, sapiente e mite, si rivela uomo di tale travolgente spiritualità da far vacillare il miscredente avventuriero, e questo genera in Boris una inaspettata sete di giustizia: «I popoli, non sapendo fare forte il giusto, chiamano giusto il forte». Ma che spazio hanno le ragioni dello spirito nella cieca inerzia della Storia? La scrittura musicale di Andrea Molesini scolpisce con maestria l'amara intensità emotiva della vicenda. Boris è un personaggio che scopre di essere, a dispetto del proprio passato, la porta che mette in comunicazione due mondi, la commedia e la tragedia, che si intrecciano e fondono nel sempiterno spettacolo dell'azione, dove da sempre il male pubblico giunge alla casa di ognuno.
All'inizio è tutto un gioco innocente dell'immaginazione. Nenè ha undici anni. La cugina Angela ne ha tredici. Sperimentano insieme le prurigini di una recita a turno, ora da medico ora da infermiera. Interviene il confessore a rivelare a Nenè l'impudicizia del peccato. Il racconto è di una levità che non porta scandalo ai sensi. E prepara da lontano, mitologicamente, dopo la verifica a quattordici anni del corpo nudo dell'Angelica ariostesca illustrato da Doré su quello palpabile di Angela, l'«imbarco» di Nenè per Citera: per l'isola di Afrodite, dea della sensualità. Lo svezzamento, la «prima crociera», è opera di una vedova. Questa carta di navigazione, questa progressiva iniziazione sessuale, porta Nenè a baciare finalmente «la terra promissa». Nonostante non abbia ancora compiuto i diciotto anni, con uno stratagemma, lui, insieme a due compagni di liceo, nel 1942, mentre infuria la guerra, è ammesso a frequentare per un giorno la settimana, di lunedì che è giorno di riposo e di chiusura al pubblico, la Pensione Eva: una villetta, una casa di piacere. La Pensione Eva sorge a Vigàta in un luogo archeologicamente mitico, là dove in tempi lontani si erano succeduti un tempio greco, un tempio romano, una «chiesuzza per i marinari e i navicanti». E da questo «loco eletto» un giorno le ospiti della Pensione salgono a bordo (a loro volta, fuor di metafora e come in controcanto) di una nave militare tedesca per portare consolazione, conforto e caritatevole lenimento contro l'«orrore», ai soldati talmente sconciati dalle ferite che le dame in divisa fascista, prese dallo «scuncertu», si sono rifiutate di visitare. Nascono storie d'amore nella Pensione, che è una finestra aperta sul mondo. Fa «capire qualichi cosa di lu munnu». Educa alla vita. Ed è piacevolmente visitata da una prodigalità di racconti stupefacenti: visionari talvolta, e anche ilaro-cavallereschi su base ariostesca o comunque toccati dalla corda pazza. I racconti germinano prodigiosi, ingolosiscono, e sono subito incorporati nella costruzione del romanzo. Arriva il 1943. Sbarcano gli alleati. La Pensione Eva è ridotta a un mucchio di macerie. Nenè è in compagnia dell'amico Ciccio. I due si accomodano in mezzo ai detriti. Nenè chiede a Ciccio una sigaretta, che è la prima della sua vita. Sta festeggiando i suoi diciott'anni. Chiude così una stagione, con un nuovo rito di passaggio. La Pensione Eva è un amarcord: «una vacanza narrativa», che Camilleri ha regalato a se stesso e ai propri lettori «nell'imminenza» dei suoi «ottanta anni».
Alcuni anni fa, nei suoi percorsi e studi da storico, Barbero ha incontrato una storia che non poteva essere racchiusa in un saggio. Ed è quella di Alabama, che pur non essendo nato come reazione alla storia recente ne anticipa i motivi profondi, scandagliandone l'oscurità delle viscere. È la vicenda di un eccidio di neri, di «negri», durante la Guerra di Secessione, la prima grande lacerazione nazionale che divide il paese tra chi vuole bandire la schiavitù e chi non ne ha nessuna intenzione. Ed è la storia di bianchi pulciosi e affamati che vanno in guerra per pochi spiccioli e che sentono il diritto naturale di fare dei negri quello che vogliono. Tutto questo diventa il racconto fluviale, trascinante, inarrestabile, dell'unico testimone sopravvissuto, Dick Stanton, soldato dell'esercito del Sud, stanato e pungolato in fin di vita da una giovane studentessa che vuole ricostruire la verità. Verità storica e romanzesca, perché Barbero inventa una voce indimenticabile, comica e inaffidabile, logorroica e irritante, dolente e angosciosa, che trascina il lettore in quegli abissi che ancora una volta si sono riaperti. Il nuovo romanzo di Barbero va davvero a toccare i tratti del carattere americano che sono deflagrati negli eventi dell'ultimo anno e degli ultimi mesi: la questione del suprematismo bianco, il razzismo profondo che innerva persino le istituzioni, la mentalità paranoica, l'orgoglio e la presunzione di farsi giustizia da sé, la violenza che scaturisce dalla povertà, dalla rabbia, da ciò che si vive come ingiusto sulla propria pelle e che si rovescia su chi è ancora più debole.
Un inconsueto e inedito legame familiare unisce un grande direttore del Corriere della Sera, un drammaturgo che ha scritto la Tosca e una talentuosa attrice nipote di Lev Tolstoj. Questo è il romanzo di quelle vite, di quegli intrecci, che coprono molti decenni tra '800 e '900, in una saga storica e letteraria che racconta per la prima volta una famiglia che ha cambiato l'Italia.
"Il lato fragile", "Il fatto viene dopo", "La regola dello svantaggio", "È solo un gioco". Sono le prime storie dell'irresistibile coppia di investigatori dilettanti siciliani Saverio Lamanna e Peppe Piccionello, nati e cresciuti nei racconti gialli inclusi nelle antologie a tema e riproposti in questa raccolta in occasione dell'imminente debutto in TV che li vedrà protagonisti su Rai 1 di una nuova serie con Claudio Gioè diretta da Michele Soavi. Quattro casi delittuosi in cui inciampano un po' per caso, un po' tuffandosi dentro come veri segugi. Conosciamo così Saverio, giornalista disilluso che rimasto senza lavoro è costretto, dalla Roma dei flirt occasionali e dei locali alla moda, a tornare nel suo scoglio siciliano e a rifugiarsi nella villetta di famiglia sul mare di Màkari. Qui Lamanna ritrova Peppe Piccionello, esemplare locale in mutande e infradito, carico di una saggezza pratica e antica, e conosce Suleima, laureanda in architettura che, durante la stagione estiva, lavora come cameriera nella locanda di Marilù. Per sostenersi inizia a scrivere gialli e accetta qualche lavoro atipico. Cominciano così le avventure investigative, i due compari sperimentano un metodo infallibile fatto di analisi irriverenti e schermaglie ironiche e affilate attraverso cui vivisezionano società e caratteri umani: Saverio, sarcastico e realista, e Peppe, spalla al suo umorismo senza sosta, fatto di battute dissacranti, allusioni e controsensi. E insieme, a fustigare tutti i luoghi comuni più pop e i pregiudizi che ruotano attorno alla Sicilia che in queste storie si fa metafora, specchio di un mondo di disuguaglianze e miserie.
Rosa ha trent'anni, vive da sola in un appartamento, ad un passo dalla laurea in Filosofia decide di mollare ed entrare in polizia. Da bambina credeva di avere i superpoteri, di essere diversa, speciale. Ma ora si trova davanti al suo primo incarico importante: proteggere un giovanissimo boss della camorra accusato di un triplice omicidio che coinvolge anche due bambine. Un intrigo mozzafiato raccontato in prima persona da una donna che in un incastro sorprendente riesce con la sua voce a mescolare tensione e sorpresa, tenerezza e sentimento.
Nei romanzi gialli di Alicia Giménez-Bartlett, la protagonista Petra Delicado della polizia di Barcellona non è solo l'ispettrice, brusca, franca e femminista, che risolve i delitti consumando le suole delle scarpe. È anche altro: la determinazione a essere riconosciuta in quanto donna, la rivendicazione di indipendenza rispetto al passato politico del suo paese e, assieme, la voglia di capire la società in cui vive, passando per gli angoli bui, dentro le abitudini mentali, i costumi e le differenze sociali (e magari, facendo leva su questi dati di fondo per scoprire l'assassino). Così inchiesta dopo inchiesta il personaggio Petra si è mostrato al lettore sempre più ricco di aspetti umani, di vicende personali, di pieghe psicologiche. Secondo un progetto che adesso sembra essere stato chiaro fin dall'inizio, cioè scrivere la storia di una donna dei nostri tempi che per mestiere risolve avvincenti enigmi criminali, sullo sfondo di una società complessa e piena di ingiustizie. È così nata l'esigenza, dopo i tanti romanzi che ne raccontano le avventure, del Romanzo di Petra: che ne riveli il prima delle imprese, la famiglia in cui è nata, la formazione, i primi amori, le scelte vitali, il modellarsi della personalità per l'azione degli incontri fatti ma anche dei cambiamenti della Storia. Figlia di repubblicani, contraddittoriamente frequenta una scuola di suore, le cui aule sono intrise di un oppressivo senso del peccato. È la Spagna clerico fascista del dittatore Franco al suo tramonto: lei ne esce quando scoppiano le grandi proteste studentesche. Con la scoperta del sesso e i primi amori germoglia in Petra l'orgoglio femminile. Ma il vero squarcio nell'esistenza è il matrimonio «borghese»: la vita da «signora» le inocula quello scetticismo, quasi il nichilismo che, nel corso delle indagini, oppone ai valori per bene (che sono per lei il contrario della pietà che prova verso il vero dolore delle vittime). La scuola di polizia le offre il primo spaccato sociale a tutto tondo che si presenti ai suoi occhi. E se si guarda al panorama letterario, non costituisce un evento comune un autore che scrive l'autobiografia del suo personaggio; lo si può fare solo quando questo personaggio ha una personalità così forte che vogliamo sapere tutto della sua vita.
Irriverenti, appassionati e dissacranti ritornano con una nuova avventura i due investigatori involontari, Saverio Lamanna, giornalista senza lavoro, sarcastico e realista, e Peppe Piccionello, sua spalla, confidente e mentore. Tra ironia e sarcasmo un giallo carico di riflessioni sociali e umane.
L'ultima avventura del commissario Montalbano. Anno 2005: Camilleri ha appena pubblicato La luna di carta. Sta lavorando alla successiva avventura della serie, ma in estate consegna a Elvira Sellerio un altro romanzo con protagonista il commissario Montalbano. Si intitola Riccardino. L'accordo è che verrà pubblicato poi, un domani indefinito, si sa solo che sarà l'ultimo romanzo della saga Montalbano. Anno 2016. Sono passati 11 anni durante i quali sono usciti 15 libri di Montalbano. Andrea Camilleri sente l'urgenza di riprendere quel romanzo, che è venuta l'ora di «sistemarlo». Nulla cambia nella trama ma solo nella lingua che nel frattempo si è evoluta. Né muta il titolo che allora considerava provvisorio ma al quale ormai si è affezionato e che nel 2016 decide essere definitivo. Un titolo così diverso da quelli essenziali ed evocativi e pieni di significato ai quali siamo abituati, in cui risuonano echi letterari: La forma dell'acqua, Il giro di boa, Il ladro di merendine, L'altro capo del filo. Ma Riccardino segna quasi una cesura, una fine, ed è giusto marcare la differenza sin dal titolo. Ma come è nata l'idea, e soprattutto perché? Racconta Andrea Camilleri in una vecchia intervista che a un certo punto si era posto il problema della «serialità» dei suoi romanzi, dilemma comune a molti scrittori di noir, che aveva risolto decidendo di fare invecchiare il suo commissario insieme al calendario, con tutti i mutamenti che ciò avrebbe comportato, del personaggio e dei tempi che man mano avrebbe vissuto. Ma poi, aggiunge, «mi sono pure posto un problema scaramantico». I suoi due amici scrittori di gialli, Izzo e Manuel Vázquez Montálban, che volevano liberarsi dei loro personaggi, alla fine erano morti prima di loro. Allora «mi sono fatto venire un'altra idea trovando in un certo senso la soluzione». Ecco: la soluzione la scopriranno i suoi tantissimi affezionati lettori di questo Riccardino che pubblichiamo ricordando Andrea Camilleri con gratitudine grandissima.
A cinque anni di distanza dal suo primo, fortuito, caso criminale, Pellegrino Artusi è ospite di un antico castello che un agrario capitalista ha acquisito con tutta la servitù, trasformando il podere in una azienda agricola d'avanguardia. È stato invitato perché è un florido mercante, nonché famoso autore della Scienza in cucina e l'arte di mangiar bene. Oltre al proprietario, Secondo Gazzolo, con la moglie, completano il gruppo altri illustri signori. Il professor Mantegazza, amico di Artusi, fisiologo di fama internazionale; il banchiere Viterbo, tanto ricco quanto ingenuo divoratore di vivande; il dottor D'Ancona, delegato del Consiglio di Amministrazione del Debito Pubblico della Turchia; Reza Kemal Aliyan, giovane turco, funzionario dello stesso consiglio; il ragionier Bonci, assicuratore con le mani in pasta; sua figlia Delia che cerca marito ma ancor più avventure. Riunisce tutti non solo il fine conviviale, ma anche un affare in fieri. Sono infatti gli anni d'inizio secolo in cui la finanza europea si andava impadronendo del commercio internazionale del decadente Impero Ottomano. Accade che, tra un pranzo, un felpato attrito di opinioni e interessi, un colloquio discreto, viene trovato morto un ospite; è chiuso a chiave in camera da letto ma il professor Mantegazza è sicuro: è stato soffocato da mani umane. Circostanze che non collimano, passaggi segreti, colombi viaggiatori, tresche clandestine, fanno entrare ed uscire dalla scena, o agire coralmente, i personaggi, con la vivacità di un teatro brillante. E si adatta al luogo una sfumatura di gotico, in ironico contrasto con l'atteggiamento scientista all'epoca di gran voga. Marco Malvaldi, l'autore, si sente a proprio agio nell'ambiente fiduciosamente positivistico dell'epoca, rappresentato con allusiva esattezza (nell'epilogo del romanzo si spiega come tutto il contorno è storicamente vero). D'accordo con il suo eroe Pellegrino Artusi considera la buona cucina una branca della chimica, una scienza complessa, rigorosa e stuzzicante quanto la sublime arte dell'investigazione.
Viola, romana trapiantata a Palermo per un combinarsi di caso e di scelta, è un «volto televisivo», una giornalista tv. Ha un disturbo della percezione (lei preferisce «una particolarità»), la sinestesia: ogni cosa, ogni luogo, ogni persona che guarda si unisce, per lei, a una musica e la musica a un colore; ma non tutti, alcuni non hanno musica e quindi colore, «meglio tenersi lontani». A questo si accompagna una più grave malattia degenerativa, «neuroni bucati» che, senza disabilitarla, determinano il suo modo di muoversi e l'approccio alla realtà. Nel pieno di un'ondata di scirocco è morta strangolata Romina, una ventenne di buona famiglia. È immediatamente sospettato Zefir, un popolarissimo cantautore. Viola vaga per tutti i luoghi coinvolti dal crimine, conducendo la sua vita movimentata, curiosando nelle case e nelle giornate di ogni tipo di gente. Santo, l'ex caporedattore, trincerato dietro tenaci silenzi la mette in contatto con un suo amico, un poliziotto che lei chiama Zelig perché cangiante di colore, il quale sembra sfruttare le sue intuizioni, le sue visioni, l'abilità di profittare del caso. L'inchiesta diventa una storia in una prima persona insolita, né flusso di coscienza né descrizione; un registrare emozioni, eventi e coincidenze lontani, mischiati a pensieri contemporanei su se stessa, sulla città, su fatti e persone, con spirito ironia sarcasmo pena cinismo amore, sentimenti tutti orientati all'obiettivo di rubare la verità a una realtà frammentaria. "Conosci l'estate?" scandaglia senza trovare fondo il tema della colpa e dell'innocenza. E dietro la vicenda gialla traspare il vero cuore del romanzo: il ritratto commovente, quasi un diario, di una donna che avverte che in lei «si sta allargando il buio», che è lei «quella diversa» e perciò attraversa la vita in modo totale con tristezza e divertimento, malinconia ed entusiasmo, dolore e godimento. Di queste contraddizioni Palermo è il simbolo oltre che il luogo, «città ossimoro»: i suoi odori, la sua compassione e ferocia; e l'Altra Palermo disillusa, «più ipocrita e indifferente di prima». Ma è a Viola che non si può non voler bene.
Dopo anni di cinema Di Gregorio arriva finalmente alla letteratura con tre novelle, che confermano il suo talento e sorprendono per la naturalezza, come se dietro il regista da sempre si fosse celato lo scrittore. Sono storie di famiglie indolenti e camminate solitarie, di italiani medi che pensano soprattutto a se stessi, di romani che tirano a campare, di madri amatissime e ingombranti. Personaggi e situazioni che mai cadono nello stereotipo, tratteggiati in una lingua ricca e originale, in apparenza senza tempo e che invece affonda nella contemporaneità, nei suoi problemi, nei suoi paradossi.
"Nell'estate del 1995 trovai, tra vecchie carte di casa, un decreto ministeriale (che riproduco nel romanzo) per la concessione di una linea telefonica privata. Il documento presupponeva una così fitta rete di più o meno deliranti adempimenti burocratico-amministrativi da farmi venir subito voglia di scriverci sopra una storia di fantasia (l'ho terminata nel marzo del 1997). La concessione risale al 1892... Nei limiti del possibile, essendo questa storia esattamente datata, ho fedelmente citato ministri, alti funzionari dello stato e rivoluzionari col loro vero nome (e anche gli avvenimenti di cui furono protagonisti sono autentici). Tutti gli altri nomi e gli altri fatti sono invece inventati di sana pianta." A. C.
«La macchina puzza di fumo vecchio e cane bagnato, ogni tanto Carella pensa che quello sia l’odore della polizia». Si è messo a caccia. Da solo, senza dirlo a nessuno. Ferie arretrate, un po’ di soldi da parte, una vecchia faccenda da sistemare. Una di quelle per cui Carella - lo sbirro, il segugio che contesta gli ordini e fa sempre di testa sua - può perderci il sonno. Si è appostato con la macchina di fronte al carcere di Bollate, a osservare il suo uomo mentre esce dalla galera dopo cinque anni di reclusione. Carella chiude gli occhi, si sente calmo, freddo e calmo. «Ti prendo», si dice. «Sono la Franca, Ghezzi, si ricorda?». Il sovrintendente Ghezzi se la ricorda bene. Era l’inizio della sua carriera, sono passati trent’anni, un’indagine che l’aveva portato al suo primo arresto. Per il giovane Ghezzi quella donna era stata bellissima. Le fossette scavate nelle guance, il mistero e l’erotismo di una che faceva le marchette, simpatica e innamorata del suo uomo. Erano una bella coppia. E ora l’uomo è scomparso, e la donna è tornata, davanti casa addirittura, e vuole l’aiuto di Ghezzi. Come fa a tirarsi indietro? Persino la Rosa, la moglie, l’ha capito subito. «Tu fai il difficile, ma domani mattina sei già lì che fai domande, ti conosco».
«Si nasce per caso in un luogo, che può diventare scelta, destino. E destino di scrittura è stata per me Caltagirone, l’immaginaria Calacte della maggior parte di questi racconti. Storie soprattutto di donne – ribelli non rassegnate – di cui spesso resta solo un gesto, un dettaglio, impigliato in vecchi libri o nelle scritture di cronisti locali: frammenti dell’immemore genealogia delle madri, che arrivano a me, si insediano in me, fino a quando non restituisco loro parola e identità. Ricostruendo, tra immaginario storico e tracce documentali, il pensare e l’operare di Catarina, Francisca, Annarcangela, Ignazia, ma anche delle protagoniste degli altri racconti, la mia vita si è fusa con la loro in una sorta di transfert, di autobiografia traslata nel tempo dell’esclusione dal linguaggio che ha caratterizzato l’identità di genere; dove però è possibile ritrovare sorprendenti storie di coraggio e di resistenza alla discriminazione e all’ingiustizia» (Maria Attanasio, dalla Nota introduttiva).
Raccogliere in un unico volume questi racconti, variamente editi tra il 1994 e il 2014, corrisponde alla necessità di dare più completa conoscenza ai lettori di una scrittrice appartata ma la cui opera è accompagnata oggi da una crescente attenzione, da una continua curiosità. Il volume mette assieme: la lunga novella, quasi un breve romanzo, Correva l’anno 1698, che dissotterra la vicenda di Francisca, uomo-femmina, «masculu fora e fimmina intra»; la bellissima Lo splendore del niente – storia di potenza flaubertiana di Ignazia Perremuto, di superba e nobile famiglia, che a lussi, amori e doveri propri del suo stato preferisce contemplare il nulla, prefigurando le ribellioni alla sottomissione femminile –, oltre a più rapide escursioni attraverso destini di donne del Settecento. Recuperati, tutti, dalle antiche cronache e riportati in vita da una scrittura che suscita immagini a ogni rigo.
Dopo aver risolto brillantemente il caso della parruccaia (Stella o croce), Angela Mazzola, poliziotta dell’Antirapine a Palermo, viene convocata alla Sezione omicidi. C’è un lavoro per lei, si tratta di infiltrarsi in una delle zone più animate del centro storico e raccogliere informazioni su un omicidio avvenuto qualche giorno prima. Il morto è Ernesto Altavilla, rampollo di una famiglia dell’alta borghesia: nessuna pista, niente testimoni. Inizia così una indagine che porta Angela a Ballarò, quartiere composito: mercato storico di giorno, taverna di sera, luogo di spaccio e di riciclaggio di merce rubata la notte, locali di ogni tipo e tantissimi quelli etnici, grazie anche alla accoglienza che Ballarò ha riservato agli stranieri. È in questi vicoli che Angela si conquista la fiducia di Jamal, un ragazzo nigeriano che lavora nel locale dove Ernesto è stato freddato da un colpo di pistola, e di Shamira, la donna di cui la vittima si era innamorato. Angela viene così a conoscere la realtà della comunità nigeriana grazie proprio a Jamal, che le racconta le storie del suo paese, e quelle dell’Ascia nera, l’organizzazione composta di stranieri che è diventata a tutti gli effetti una mafia e pare avere contatti con la criminalità locale. Da Ballarò l’indagine si va spostando nelle zone della Palermo bene e anche nei salotti della famiglia della vittima, che qualche segreto nasconde. Qualche tempo prima infatti gli Altavilla hanno subito un furto di opere d’arte, ma si sono ben guardati dall’avvertire la polizia, preoccupandosi semmai di recuperare la merce rubata con metodi discutibili. Angela si sente messa alla prova, è la sua grande occasione per fare il salto di qualità all’interno della polizia e non trascura nulla, né si lascia intimidire dalla baronessa e dalla figlia. L’intuizione, i metodi non proprio ortodossi, una buona dose di sfacciataggine e di fantasia saranno le doti giuste per questa sbirra allegra e credibile, né eroina, né votata solo alla professione, che si è fatta da sé e alla sua autonomia ci tiene, come al bicchiere di vino nella sua terrazza all’Arenella, e all’inseparabile labrador Stella. Tutt’intorno la Palermo di oggi, multietnica e accogliente sì, ma anche violenta e dura.
Questo libro è stato pubblicato nel 1937, due anni prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Racconta una storia che era ancora tutta da scrivere proiettandoci in un mondo in cui i nazisti hanno vinto e creato un impero, dove le donne sono considerate alla stregua degli animali e vengono tenute in cattività, nell'abbrutimento fisico e morale. La loro sola funzione sociale è quella della riproduzione e per questo vengono ripetutamente stuprate per dare alla luce i figli del nuovo impero. Siamo nel 720 dopo Hitler, il meccanico inglese Alfred si reca in pellegrinaggio in Germania per visitare i luoghi sacri dell'hitlerismo, che è diventata una vera e propria religione, officiata dalla casta amministrativo-sacerdotale dei Cavalieri. In questa occasione conosce il contadino tedesco Hermann e ne diventa amico. Alfred è più che scettico rispetto al Credo nazista e immagina una rivolta non-violenta che possa cambiare un mondo retrocesso all'economia feudale, in cui Hitler è visto come un Dio alto sette piedi, dai lunghi capelli biondi e dagli occhi azzurri. I dubbi di Alfred trovano conferma da parte del Cavaliere che amministra la terra lavorata da Hermann, un vecchio di nome Friedrich von Hess. Il Cavaliere rivela ad Alfred come da secoli i nazisti abbiano operato una distorsione storiografica talmente sistematica da esigere la distruzione dapprima di tutti i libri che contraddicevano la loro «versione dei fatti», poi dello stesso Urtext del nazismo, infine di tutto il resto: al punto che i tedeschi sono ormai analfabeti (si permette invece agli «eccentrici» inglesi di leggiucchiare qualche manuale tecnico). Ma von Hess custodisce anche un segreto che si tramanda di padre in figlio, e conserva addirittura una fotografia del vero Adolf Hitler... Un romanzo preveggente, che ci riporta al "1984" di Orwell, ma che anticipa altri celebri romanzi ucronici come "Fatherland" di Robert Harris, "La svastica sul sole" di Philip K. Dick, "Il racconto dell'ancella" di Margaret Atwood.
Nell’ultima pagina di rien ne va plus abbiamo lasciato Rocco Schiavone ferito in un lago di sangue. Ora è in ospedale dopo intervento di nefroctomia che ha subito, la stessa operazione che ha portato alla morte uno dei ricoverati del reparto, a quanto pare a causa di un errore di trasfusione. Così costretto all’immobilità, di malumore, Rocco comincia ad interessarsi a quel decesso in sala operatoria che ha tutta l'aria di essere l'ennesimo episodio di ma la San it a. Ma fa presto a capire che non può trattarsi di un errore umano anche perché si è fatto spiegare bene dal primario Filippo Negri le procedure in casi del genere. Per andare a fondo della questione sguinzaglia dal suo letto tutta la squadra, e segue l'andamento delle indagini, a partire dalle informazioni sul morto, Renato sirchia, un facoltoso imprenditore di salumi della zona, casa sfarzosa, abitudini da ricco, gran lavoratore. Dietro il lusso però si cela una realtà economica disastrosa, la fabbrica è piena di debiti e salta anche fuori una consistente assicurazione sulla vita. Rocco non riesce a stare a guardare e uscito di nascosto dall’ospedale incontra la moglie e il figlio di sirchia, Lorenzo, fresco di studi aziendali e con idee di conduzione assai diverse da quelle del padre. Le cose però non sono così semplici come appaiono e Schiavone non si fa incantare dalla soluzione più facile. Attorno a lui, le luci del Natale, i neon del reparto (non si sa quali lo de prima no di più), i pantaloncini, unico cibo commestibile, gli infermieri comprensivi, il vicino di letto intollerabile e soprattutto i suoi che vanno e vengono incessantemente, lo coprono nelle sue fughe, lo assecondano e non aspettano altro che il vicequestore ritorni in servizio. Soprattutto Antonio scipioni, che sta sostituendo Rocco ma che è alle prese con situazioni amorose da commedia degli equivoci, le tre donne con cui ha intrecciato relazioni amorose e che era riuscito a non fare mai incontrare, ora rischiano di ritrovarsi tutte e tre ad Aosta. L’unico a potergli dispensare dei consigli è proprio Schiavone.
Come nasce un libro; come si forgia un linguaggio che sembra così personale da non essere comunicativo ma che si rivela un mezzo di coinvolgimento irresistibile; come persuadere il lettore a guardare il mondo con gli occhi di un personaggio. Questo libro è un'inchiesta in forma di dialogo su un caso letterario straordinario come quello di Andrea Camilleri. L'intervista che parte dall'analisi del segreto di un successo si articola e si dirama via via nell'universo creativo di Camilleri, senza trascurare aneddoti e ricordi personali.
Tre racconti scritti negli anni Ottanta dall’inventore della «commedia all’italiana». I personaggi, poveracci come tanti, vittime e artefici di situazioni un po’ paradossali, ma capaci di sentimenti e di una straordinaria arte di arrangiarsi, appartengono a un umorismo colto e popolare, sensibile socialmente e divertito, empatico verso i tipi umani e un po’ pessimista, che affonda in una grande tradizione tutta letteraria. Tutti ricordano i film di cui Furio Scarpelli (assieme al socio Age o da solo) è stato sceneggiatore. Molti dei migliori titoli della Commedia all’italiana e di quell’epoca in cui in questa confluiva il Neorealismo, da La Grande Guerra a L’armata Brancaleone, da I soliti ignoti a C’eravamo tanto amati a Il postino, portano la sua firma. A differenza di altri paesi, in Italia lo sceneggiatore è anche il più delle volte lo scrittore della storia – si chiama «trattamento» – che diventerà pellicola. Dunque Scarpelli era naturalmente uno scrittore, ma era in più un narratore per vocazione e per scelta in racconti che non sarebbero stati destinati al cinema ma erano letteratura pura. Così è in questi tre racconti. Ivano, geometra nullafacente, tanto amato dalla madre e dalle sorelle e dalla concorrente fidanzata; Bastiano, il pescivendolo burino, buono e arricchito, che rivela una ferocia beffarda quando viene gabbato; Anna e i due compari balordi e suonati delle notti romane: sono tutti personaggi su cui istintivamente sovrapponiamo il volto degli attori che fecero grande il cinema italiano. Ma dopo un poco leggendo, dalla piega malinconica dalla sonda psicologica dall’attenzione verso le ironie della vita, capiamo che appartengono a un umorismo colto e popolare, sensibile socialmente e divertito, empatico verso i tipi umani e un po’ pessimista, che affonda in una grande tradizione tutta letteraria.
Un maestro siciliano, di solida fede fascista, va a insegnare nella scuola di un paesino sloveno vicino a Gorizia, annesso all'Italia dopo la carneficina della Grande guerra. Ha una giovane moglie, cinque figli e un sesto in arrivo. È uno dei molti convocati a realizzare la «bonifica etnica», l'italianizzazione forzata di una minoranza renitente. Una sera, all'inizio dell'anno scolastico del 1930, il maestro Sottosanti viene ucciso in un agguato. L'Italia fascista commemora il suo martire. Ma da oltre confine si accusa: infieriva contro i bambini, sputava in bocca a chi si lasciasse sfuggire una parola nella sua lingua madre, lo sloveno. Ed era tisico. Il rumore si spegne presto. Le autorità fasciste sanno che i maltrattamenti raccapriccianti avvenivano davvero, ma l'autore era un altro, il più vicino all'ucciso. I militanti antifascisti sloveni si accorgono di aver commesso un incredibile scambio di persona. Adriano Sofri ha ricostruito questa cronaca del 1930, cui lo legano imprevisti fili personali, andando su e giù dai confini. Niente è bello come un confine abolito. Soprattutto quando c'è chi lo rimpiange, e investe in fili spinati.
«Sembra impossibile che siano passati davvero cinquant’anni dalla primavera del ’69 in cui con un minimo investimento di capitale Enzo ed Elvira Sellerio coinvolsero Leonardo Sciascia e Nino Buttitta in quello che poteva sembrare un classico sogno da intellettuali di provincia, raffinati ma non sempre in contatto con il reale... Invece la Sellerio durerà e crescerà. Con quel programma semplice definito da Sciascia: tornare a una cultura "amena", a un impegno "implicito" e non "esplicito"».
Marcello Sorgi, LA STAMPA
Ritornano in questo 2019 in cui si festeggiano i cinquant’anni della casa editrice i racconti ispirati al suo catalogo. Questa volta non di racconti gialli si tratta ma di storie non di genere, narrazioni che si sono fatte affascinare da altri libri, in un richiamo ininterrotto. Una antologia esemplare, e per gli autori, e per i titoli dai quali essi sono stati attratti, libri che rappresentano tappe importanti di una storia editoriale che in mezzo secolo non ha smesso di coltivare una cultura delle idee. Così i dieci autori chiamati a comporre la raccolta hanno scelto dei capisaldi del catalogo, non a caso molti si sono ispirati a titoli che riconducono in qualche modo a Leonardo Sciascia, basti citare la Storia della Colonna Infame che è una roccaforte della letteratura italiana e civile, e L’affaire Moro, vicenda e libro che hanno cambiato per sempre la storia italiana. La scelta di qualcuno è caduta su L’imperfezione, del semiologo francese Greimas pubblicato nella «Civiltà perfezionata», la prima collana della casa editrice. E poi tre titoli «storici» della memoria, tra i primi cento numeri e fra i libri blu più amati: La scacchiera davanti allo specchio di Massimo Bontempelli, i Delitti esemplari di Max Aub, L’ultima provincia di Luisa Adorno, dei classici senza tempo rivissuti dalle scritture sensibili e potenti delle autrici e degli autori di questa antologia.
Una ballerina, un medico, un uomo d’affari, una giornalista, un ladro; da uno scompartimento all’altro si intravedono i segreti che ciascuno di loro nasconde in un giallo ad altissima tensione. Ognuno è salito sul treno per un motivo diverso, la giovane Coral è diretta a Costantinopoli per un nuovo lavoro, ma ha un malore e il medico le prescrive assoluto riposo, solo che la donna non ha neanche una cuccetta, così è il ricco Carleton Myatt a cederle il suo posto. Correndo attraverso l’Europa il treno giunge a Colonia, dove salgono due nuovi viaggiatori, poi il convoglio si ferma in Jugoslavia, una sosta per qualcuno dalle conseguenze fatali. Il treno per Istanbul appartiene a quelli che Greene chiamava «divertimenti». Pubblicato nel 1932, fu il primo vero successo per lo scrittore britannico, quello che gli dette fama e notorietà; ma il romanzo è molto di più di un giallo raffinatissimo: è una fotografia dell’Europa tra le due guerre con le sue contraddizioni e drammi e dove aleggia il presentimento di quello che sarebbe accaduto di lì a poco. È anche un romanzo moderno per i tanti temi trattati, la razza, la povertà, la frustrazione sessuale, il fallimento politico. A dominare su tutto l’Orient Express (così doveva intitolarsi il romanzo), un treno che è diventato mito grazie a scrittori come Agatha Christie e Ian Fleming e che ha avuto nel cinema la sua consacrazione definitiva. Il romanzo viene pubblicato in una nuova traduzione.
La professoressa Angela Mattioli ha fatto presto a consolarsi dopo la dipartita del pensionato Amedeo Consonni, crivellato di colpi sul ballatoio di casa come i lettori di Morte di un ex tappezziere ricorderanno. Se ne è andata sulla riviera ligure e lì vive in una villetta da un milione di euro con vista sul porticciolo di Camogli. La vita di Angela e di Alberto Scevola, così si chiama il suo nuovo uomo, trascorre fin troppo tranquilla. Lei fa brevi incursioni a Milano, così Alberto si concede lunghe passeggiate e annoiati pomeriggi in casa; un giorno quasi per caso forando un muro scopre una intercapedine, una specie di nascondiglio, e dentro 160 lingotti d’oro, per un valore approssimativo di 124 milioni di euro. Troppo per non perdere la testa e ammalarsi seriamente. Questo è solo l’inizio del grande affresco finale della Casa di ringhiera, e se la scena si sposta a Camogli è solo per poco perché presto ritroviamo nel condominio milanese tutti gli inquilini, ognuno alle prese con le sue fissazioni e miserie; la signorina Mattei-Ferri, l’anziana invalida che vuol vendicarsi del badante Claudio usando i suoi figli, gli smaliziati adolescenti Gianmarco e Margherita, l’ottuagenario De Angelis ossessionato non più dalla BMW 16 valvole ma da presenze luciferine, i peruviani che spariscono uno a uno, l’architetto Du Vivier in versione seduttore… e poi ci sono nuove figure in palcoscenico: il giornalista ficcanaso, l’avvenente Yutta, di cui tutti si innamorano, un’antica fiamma della Mattioli. Ed Enrico? Sì, anche lui vivrà un momento decisivo. A dispetto dei suoi 5 anni il più saggio di tutti.
Ida è Dora. La Dora di quello che è forse il più famoso caso clinico di Freud, fondamento della psicoanalisi e, in se stesso, testo narrativo eccelso, che segnò un fallimento che il dottore di Vienna non dimenticherà. Perché Ida dopo qualche mese aveva interrotto la terapia, rifiutando radicalmente la spiegazione fornita della sua «isteria».
Questo è il romanzo di una vita tra Belle Époque e Seconda guerra mondiale, frutto di ricerche storiche e ricordi familiari, che segue Ida dalla fanciullezza fino alla morte nel 1945.
La prima metà del secolo breve vista attraverso la storia tra «Dora» e lo scopritore dell’inconscio; ma anche la vita quotidiana e mondana di una ricca e laica famiglia ebraica dell’Austria felix; la lunga vicenda di resistenza e battaglia del fratello di Ida, Otto Bauer, leader della Socialdemocrazia austriaca e teorico del cosiddetto austromarxismo; e ancora, le avventure della fuga di una signora sola.
Ma questo è soprattutto il racconto della versione di Dora: una diciottenne la cui volontà di emancipazione femminile inizia ribellandosi a Sigmund Freud; il ritratto di una donna «né isterica né eroina» (così l’autrice) che va verso la sua indipendenza.
Questa volta Giampaolo Simi lascia a casa Dario Corbo, ma la tensione, l’indagine, lo scavo nella coscienza di fronte al delitto, l’angolo nero che ciascuno nasconde dentro di sé, la forza della scrittura sono quelli del grande inventore di storie che i lettori già conoscono.
La sera del 23 luglio nella tenuta della Falconaia, vicino Lucca, viene trucidata Esther Bonarrigo, 42 anni, moglie dell’imprenditore Daniel; insieme hanno creato la catena di italian food «Il Magnifico», 127 ristoranti in tutto il mondo. Una coltellata alla gola, una sola, precisa e mortale come in un’esecuzione. La villa deserta, il personale in libertà. Una serata ideale per un appuntamento tra due amanti, questo è quello che si sospetta quando poco lontano dal corpo della donna viene rinvenuto il cadavere di Jacopo Corti, un giovane che lavorava nella tenuta da poco licenziato. Unico sospettato il marito della vittima che si protesta innocente, ma le prove sono più che sufficienti per portare l’uomo a processo. Ed è la giuria la vera protagonista del romanzo di Simi, con i giurati popolari che in Corte d’Assise sono chiamati a decidere insieme ai due giudici togati. Sono cittadini comuni scelti dalla sorte, persone diverse, ognuno con mille domande e timori; curiosi, spaesati, intimoriti, alcuni già con una loro idea sul caso di cui giornali e TV hanno rivelato ogni particolare. Si assiste così al dibattimento, udienza dopo udienza, ognuna vissuta però dal punto di vista di un giurato diverso, di cui veniamo a conoscere anche la vita privata. Emma, sulla soglia dei cinquant’anni, sicura di sé e dell’innocenza dell’imputato, Serena, irrisolta e solitaria, Terenzio, con qualcosa di ingombrante nel suo passato, e poi Iris, Ahmed, Aldo. Sei persone qualsiasi, ignare di come si amministra veramente la giustizia e che ora toccano con mano cosa vuol dire decidere delle vite degli altri. Durante le udienze accusa e difesa si danno battaglia, i colpi di scena si susseguono, facendo oscillare di volta in volta la bilancia della giustizia da una parte e dall’altra.
«Nel mondo di Giampaolo Simi non c’è spazio per gli eroi a tutto tondo senza macchia e senza paura. È più interessato, lo scrittore, a sviscerare le contraddizioni dell’essere umano perennemente scisso tra miserie e nobiltà» - Gigi Riva, L’Espresso
«Un narratore di talento, a cui da tempo i canoni dei generi stanno stretti. E che ha la giusta ambizione di scrivere un vero romanzo» - Ranieri Polese, La Lettura
La storia avventurosa del colonnello Thomas Edward Lawrence, agente segreto al servizio di Sua Maestà britannica e contemporaneamente amico inseparabile dello sceriffo beduino che guidava la rivolta araba contro i turchi. Fu egli un traditore o un eroe della causa per la quale combatteva? E per quale causa in realtà lavorava, quella di re Giorgio V oppure quella dei beduini arabi della cui ribellione era diventato simbolo? Un enigma al quale la storia non trova risposta e che Cardini indaga, tenendo presente che un traditore è sempre un traduttore, colui che si sforza di trovare un ponte di comunicazione tra due visioni e due interessi diversi, e che la causa degli arabi era stato il frutto dell’inventiva dello stesso Lawrence, mancando in quelle aree l’idea propria di nazione. Aveva conosciuto il mondo arabo grazie agli studi di archeologia a Oxford; il suo professore era un agente dell’intelligence britannica per le questioni del Medioriente e dal 1914 Lawrence venne «arruolato» nel servizio segreto. Sognava di creare una grande nazione per tutti gli arabi e benché vittorioso sul campo fu poi sconfitto da quel che progettarono le potenze europee tracciando le varie zone di influenza. Lo visse come un inganno. Al di là della leggenda Lawrence d’Arabia si ritrova al centro di una vicenda storica che ha portato alla nascita di stati come il Libano, l’Iraq, la Siria, la Giordania, nazioni all’origine dell’instabilità del Medioriente che permane sino a oggi.
Martin Bora – il detective-agente segreto della Wehrmacht – è qui alle prime armi. Tenente appena nominato è destinato in Spagna, nel 1937, nel pieno della guerra civile.
Con la serie dedicata al tormentato e contraddittorio eroe, Ben Pastor ha conquistato gli affezionati del giallo storico. Descrive con minuziosa aderenza la realtà del tempo, però ad essa aggiunge un elemento di invenzione, un «mutante» inatteso. E questo dà ai romanzi il loro marchio originale. Nella Canzone del cavaliere il mutante è Federico García Lorca, l’amico di Buñuel e di Salvador Dalí, che fu l’anima poetica del Novecento spagnolo. Lorca non è stato ucciso dai falangisti a Granada nel 1936, come dice la storia e come fino a un certo momento tutti credono nel romanzo. Si trova l’anno dopo clandestino in Aragona ed è qui che, nonostante la scorta che doveva proteggerlo, un proiettile alla nuca spegne per sempre la sua voce. Un mistero dentro un mistero. Entrambe le parti combattenti, fascisti e repubblicani, tengono nascosta la notizia, in attesa di poter strumentalizzare l’assassinio. Intanto cercano di capire chi è stato e perché: c’è qualcosa negli ultimi versi del poeta, nell’ultimo suo canto? Dell’inchiesta è incaricato il giovane Bora. Dall’altra parte, indaga Philip «Felipe» Walton, americano, maggiore delle Brigate Internazionali. In una folla di personaggi ambigui e di eventi di sangue, dentro l’aridità torrida o fredda degli altipiani della Spagna profonda, tra i due si apre una corsa a risolvere il mistero, che diventa sempre meno una lotta tra nemici e sempre più una disinteressata ricerca della verità.
I romanzi di questa scrittrice, che costruisce la saga di un personaggio ispirato al modello reale nell’attentatore di Hitler, colonnello von Stauffenberg, sono nutriti di una vena tragica che lancia in modo originale un ponte tra il giallo storico e il giallo etico. Il ponte è il personaggio di Martin Bora, tedesco e scozzese di nobili natali, intellettuale raffinato, di profondo sentire umano, amante sfortunato di una donna splendida più conformista di lui, fedele al giuramento e istintivamente antinazista.
Così Martin Bora rappresenta il dramma del singolo posto di fronte alla Storia.
Una nuova detective Mina Settembre. L'assistente sociale che indaga nei Quartieri Spagnoli di Napoli affronterà il misterioso Assassino delle Rose.
«Mi chiamo Flor, ho undici anni, e sono qui perché penso che mio padre ammazzerà mia madre».
Gelsomina Settembre detta Mina, assistente sociale di un consultorio sottofinanziato nei Quartieri Spagnoli di Napoli, è costretta a occuparsi di casi senza giustizia.
La affiancano alcuni tipi caratteristici con cui forma un improvvisato, e un po’ buffo, gruppo di intervento in ambienti dominati da regole diverse dall’ordine ufficiale. Domenico Gammardella «chiamami Mimmo», bello come Robert Redford, con un fascino del tutto involontario e una buona volontà spesso frustrata; «Rudy» Trapanese, il portiere dello stabile che si sente irresistibile e quando parla sembra rivolgersi con lo sguardo solo alle belle forme di Mina; e, più di lato, il magistrato De Carolis, antipatico presuntuoso ma quello che alla fine prova a conciliare le leggi con la giustizia.
Vengono trascinati in due corse contro il tempo più o meno parallele. Ma di una sola di esse sono consapevoli. Mentre Mina, a cui non mancano i problemi personali, si dedica a una rischiosa avventura per salvare due vite, un vendicatore, che segue uno schema incomprensibile, stringe intorno a lei una spirale di sangue. La causa è qualcosa di sepolto nel passato remoto.
Il magistrato De Carolis deve capire tutto prima che arrivi l’ultima delle dodici rose rosse che, un giorno dopo l’altro, uno sconosciuto invia.
Mina Settembre e gli altri sono figure che Maurizio de Giovanni ha già messo alla prova in un paio di racconti. In Dodici rose a Settembre compaiono per la prima volta in un romanzo. Sono maschere farsesche sullo sfondo chiassoso di una città amara e stanca di tragedie. Un mondo di fatica del vivere che de Giovanni riesce a far immaginare, oltre all’intreccio delle storie, già solo con il linguaggio parlato dai vari personaggi di ogni strato sociale: ironico, idiomatico, paradossale, immaginoso.
Nuda, imbavagliata, con le manette ai polsi, una donna viene ritrovata cadavere nella camera da letto della sua villa nei dintorni di Oxford. Era una signora, ricca, infermiera di ottima reputazione professionale, il marito banchiere, due giovani figli con buoni lavori. Di lei, nel villaggio pittoresco dove abitava, si parla, con sentimenti variabili dal desiderio allo scandalo, come di una donna seducente e dalle molte avventure. In realtà è un cold case, archiviato un anno prima, che il sovrintendente Strange vuole riaprire per via di due telefonate anonime appena ricevute. E strana l'ambigua insistenza di Strange che, da un lato, preme per riavviare la macchina investigativa e, dall'altro, pur avendo tutto il peso dell'autorità, esita a obbligare l'ispettore capo Morse a fare il suo dovere. Altrettanto strano è il contegno di Morse: non ubbidisce al capo però, in segreto, conduce una sua indagine. Quando poi altre morti si aggiungono a quella della bella signora, Morse - con il fedele Lewis che da tempo scalpita e si interroga su quello che sta succedendo - finalmente si mette al lavoro. Vari errori e false piste: il metodo di Morse non è trovare l'indizio e farlo diventare una prova schiacciante; lui cerca l'incrocio giusto, come nell'enigmistica di cui è infallibile cultore. Ma le verdi colline attorno alla città dell'Università più rinomata, i paesini d'incanto, i pub secolari, le eleganti dimore, gli anziani eccentrici, che popolano la vecchia Inghilterra, non vogliono aprire gli scrigni dei loro segreti. Preferiscono che i loro odi, così come i loro amori, restino sepolti nella monotona tranquillità.
Per i cinquant’anni dalla fondazione della casa editrice Sellerio, otto «giallisti», compagni in tempi diversi della nostra storia, hanno ricordato un libro scelto tra gli oltre tremila del catalogo, quello che ha colpito ciascuno di essi per un qualunque motivo personale (non necessariamente l’essergli piaciuto di più), e ne hanno fatto l’elemento determinante di una nuova trama. Hanno scritto un racconto con un libro: dove questo è di volta in volta o una specie di movente per una morte (così nel racconto di Marco Malvaldi La fine è nota del misterioso autore Holiday Hall); oppure è lo strumento per una metamorfosi nella vita di una persona (nel racconto di Santo Piazzese, il poema di Ignazio Buttitta La vera storia di Salvatore Giuliano); o è assunto come schematico modello di uno scambio di equivoci, scheletro narrativo di una rischiosa vicenda (è il caso, nel racconto di Francesco Recami, del volumetto della Louise de Vilmorin I gioielli di Madame de***); o il nutrimento morale che dà la forza del dubbio necessario a chi indaga (come è, per i due «investigatori Stanlio e Ollio» di Gaetano Savatteri, l’apologo scettico del Procuratore della Giudea di Anatole France); una pura ispirazione (è quello che conduce Giampaolo Simi a scegliere di Vázquez Montalbán Assassinio al Comitato Centrale come guida alla sua storia di terrorismo); l’atmosfera persistente di una nera Palermo sotterranea (che è quello che vuole in comune con il suo intrigo nero Gian Mauro Costa in una vicenda truce e romantica da Storie e cronache della città sotterranea dell’indimenticabile cronista poetico e teatrante Salvo Licata); una medicina per un caso orrendo di isolitudine (lo è La luce e il lutto di Gesualdo Bufalino per il biblioterapeuta Vince Corso di Fabio Stassi); infine, un libro che suscita angoscia che diventa l’idea per risolvere il caso (come accade a Carlo Monterossi, il dilettante di Alessandro Robecchi che si trova a indagare su delle cartoline minacciose, mentre legge di quelle dei due piccoli eroi antinazisti di Hans Fallada in Ognuno muore solo).
Gli autori di questi racconti, nel trarre dallo scaffale un libro Sellerio, per commemorare il cinquantesimo anno della casa editrice, non hanno voluto ideare un «racconto su un libro», ma hanno tentato di ricreare per mezzo di una finzione la loro comunque più vivida esperienza di lettura con Sellerio.
Autori
Gian Mauro Costa
Gian Mauro Costa è nato e vive a Palermo, dove lavora. Giornalista de «L’Ora» e adesso della Rai, ha pubblicato con Sellerio Yesterday (2001), Il libro di legno (finalista al Premio Scerbanenco 2010), primo romanzo con protagonista Enzo Baiamonte, cui sono seguiti Festa di piazza (2012) e L'ultima scommessa (2014), e Stella o croce (2018).
Marco Malvaldi
Marco Malvaldi (Pisa, 1974), di professione chimico, ha pubblicato con questa casa editrice la serie dei vecchietti del BarLume (La briscola in cinque, 2007; Il gioco delle tre carte, 2008; Il re dei giochi, 2010; La carta più alta, 2012; Il telefono senza fili, 2014; La battaglia navale, 2016, Sei casi al BarLume 2016, A bocce ferme, 2018), salutati da un grande successo di lettori. Ha pubblicato anche Odore di chiuso (2011, Premio Castiglioncello e Isola d’Elba-Raffaello Brignetti), giallo a sfondo storico, con il personaggio di Pellegrino Artusi, Milioni di milioni (2012), Argento vivo (2013), Buchi nella sabbia (2015), Negli occhi di chi guarda (2017) e, con Glay Ghammouri Vento in scatola (2019).
Santo Piazzese
Santo Piazzese, biologo, è nato a Palermo, dove vive e lavora. Con questa casa editrice ha pubblicato I delitti di via Medina-Sidonia (1996), La doppia vita di M. Laurent (1998) e Il soffio della valanga (2002), tutti raccolti anche nel volume della collana «Galleria» Trilogia di Palermo (2009), e Blues di mezz'autunno (2013).
Premio Lama e Trama 2011 alla Carriera.
Francesco Recami
Francesco Recami (Firenze, 1956) con questa casa editrice ha pubblicato L’errore di Platini (2006, 2017), Il correttore di bozze (2007), Il superstizioso (2008, finalista al Premio Campiello 2009), Il ragazzo che leggeva Maigret (2009), Prenditi cura di me (2010, Premio Castiglioncello e Premio Capalbio), La casa di ringhiera (2011), Gli scheletri nell’armadio (2012), Il segreto di Angela (2013), Il caso Kakoiannis-Sforza (2014), Piccola enciclopedia delle ossessioni (2015), L'uomo con la valigia (2015), Morte di un ex tappezziere (2016), Commedia nera n. 1 (2017), Sei storie della casa di ringhiera (2017), La clinica Riposo & Pace. Commedia nera n. 2, Il diario segreto del cuore (2018) e L'atroce delitti di via Lurcini. Commedia nera n. 3 (2019).
Alessandro Robecchi
Alessandro Robecchi è stato editorialista de Il manifesto e una delle firme di Cuore. È tra gli autori degli spettacoli di Maurizio Crozza. È stato critico musicale per L’Unità e per Il Mucchio Selvaggio. In radio è stato direttore dei programmi di Radio Popolare, firmando per cinque anni la striscia satirica Piovono pietre (Premio Viareggio per la satira politica 2001). Ha fondato e diretto il mensile gratuito Urban. Attualmente scrive su Il Fatto Quotidiano, Pagina99 e Micromega. Ha scritto due libri: Manu Chao, musica y libertad (Sperling & Kupfer, 2001) tradotto in cinque lingue, e Piovono pietre. Cronache marziane da un paese assurdo (Laterza, 2011).
Con questa casa editrice ha pubblicato Questa non è una canzone d’amore (2014), Dove sei stanotte (2015), Di rabbia e di vento (2016), Torto marcio (2017), Follia maggiore (2018) e I tempi nuovi (2019).
Gaetano Savatteri
Gaetano Savatteri (Milano, 1964), cresciuto in Sicilia, vive e lavora a Roma. Con questa casa editrice ha pubblicato: La congiura dei loquaci (2000, 2017) La ferita di Vishinskij (2003), Gli uomini che non si voltano (2006), Uno per tutti (2008), La volata di Calò (2008) e La fabbrica delle stelle (2016).
Giampaolo Simi
Giampaolo Simi ha pubblicato Il corpo dell’inglese (2004) e Rosa elettrica (2007). I suoi libri hanno ricevuto vari premi e sono stati tradotti in Francia (nella «Série noire» di Gallimard e presso Sonatine) e in Germania (Bertelsmann). Ha collaborato come soggettista e sceneggiatore alle fiction «RIS», «RIS Roma» e «Crimini». Con questa casa editrice ha pubblicato Cosa resta di noi (Premio Scerbanenco 2015), La ragazza sbagliata (Premio Chianti 2018) e Come una famiglia (2018).
Fabio Stassi
Fabio Stassi (Roma 1962) ha pubblicato con Sellerio: L’ultimo ballo di Charlot, tradotto in diciannove lingue (2012, Premio Selezione Campiello 2013, Premio Sciascia Racalmare, Premio Caffè Corretto Città di Cave, Premio Alassio Centolibri), Come un respiro interrotto (2014), un contributo nell’antologia Articolo 1. Racconti sul lavoro (2009), Fumisteria (2015, già Premio Vittorini per il miglior esordio), La lettrice scomparsa (2016), Angelica e le comete (2017) e Ogni coincidenza ha un'anima (2018). Ha inoltre curato l’edizione italiana di Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno (2013).
"Tutto è indecidibile, sogno e realtà, vero e falso, maschera e volto, farsa e tragedia, allucinazione e organizzata teatralità di mosse e contromosse beffarde, in questo thriller che impone al lettore, tallonato dal dubbio e portato per mano dentro la luce fosca e i gomiti angustiosi dell'orrore, una lettura lenta del ritmo accanito dell'azione. Tutti si acconciano a recitare, nel romanzo: che si apre drammaticamente con i licenziamenti degli impiegati e degli operai di una fabbrica di scafi gestita da un padroncino vizioso e senza ritegno, detto Giogiò; e con il suicidio, nello squallore di un capannone, di un padre di famiglia disperato. Da qui partono e si inanellano le trame macchinose e la madornalità di una vicenda che comprende, per «stazioni», lo smantellamento del commissariato di Vigàta, la solitudine scontrosa e iraconda del sopraffatto Montalbano, lo sgomento di Augello e di Fazio (e persino dello sgangherato Catarella), l'inspiegabile complotto del Federal Bureau of Investigation, l'apparizione nebbiosa di «'na granni navi a vela», Alcyon, una goletta, un vascello fantasma, che non si sa cosa nasconda nel suo ventre di cetaceo (una bisca? Un postribolo animato da escort procaci? Un segreto più inquietante?) e che evoca tutta una letteratura e una cinematografia di bucanieri dietro ai quali incalza la mente gelida di un corsaro, ovvero di un più aggiornato capufficio dell'inferno e gestore del delitto e del disgusto. «L'Alcyon (...) aviva la bella bitudini di ristari dintra a un porto il minimo 'ndispensabili e po' scompariri». Il romanzo ha, nella suggestione di un sogno, una sinistra eclisse di luna che incombe (detto alla Bernanos) su «grandi cimiteri». La tortuosità della narrazione è febbrile. Prende il lettore alla gola. Lo disorienta con le angolazioni laterali; e, soprattutto, con il tragicomico dei mascheramenti e degli equivoci tra furibondi mimi truccati da un mago della manipolazione facciale. Sorprendente è il duo Montalbano-Fazio. Il commissario e l'ispettore capo recitano come due «comici» esperti. «Contami quello che capitò», dice a un certo punto Montalbano a Fazio. E in quel «contami» si sente risuonare un antico ed epico «cantami»: «Cantami, o Diva, del pelide Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei (...)». Il cuoco dell'Alcyon è «una Iliade di guai»." (Salvatore Silvano Nigro)
Marco Malvaldi senza abbandonare l’ironia, il gusto del paradosso, l’esuberante inventiva che ne hanno fatto uno dei più originali scrittori di oggi, questa volta ha voluto cogliere una occasione regalandoci insieme a Glay Ghammouri l’opportunità di guardare al carcere in modo né convenzionale né caritatevole, ma davvero dall’altro lato delle sbarre.
«Ho conosciuto Glay Ghammouri durante il corso di scrittura creativa tenuto nella Casa Circondariale Don Bosco di Pisa nel 2012-2013. In seguito, Ghammouri - che sta scontando una condanna all’ergastolo per omicidio - mi ha detto di aver pensato a una storia, una specie di romanzo di formazione ambientato in carcere, e me l’ha raccontata. Mi è sembrato un ottimo spunto e abbiamo cominciato a lavorarci; l’idea era quella di narrare il mondo del carcere con lo spirito della commedia all’italiana: parlare in tono lieve di cose serissime. Forse, il modo migliore nel nostro Paese di farsi udire, ascoltare e comprendere»
Protagonista di questo romanzo a quattro mani è Salim Mohammed Salah. Ha 29 anni, una laurea in economia e più di centomila euro in contanti, ottenuti tramite una truffa. In fuga dalla Tunisia si è rifugiato in Italia, ma qui viene arrestato per detenzione di stupefacenti (che non gli appartengono). I soldi, però, sono al sicuro, nascosti in un posto che lui solo conosce. In carcere, Mohammed conosce Cattaneo, un impiegato amministrativo con il quale stringe un accordo: Mohammed gli rivelerà dove sono i soldi, indirizzandolo sugli investimenti; i profitti saranno divisi a metà. E così i due, nel giro di alcuni mesi, cominciano a vedere dei soldi. Di questo intrigo finanziario dietro le sbarre si accorge Gaetano Quarello, un boss al 41 bis che decide di affidare a Mohammed la gestione dei suoi risparmi, un’offerta che non si può rifiutare considerato da chi proviene... Gli affari finanziari vanno bene fino a quando uno dei compagni di cella, Buscaino, non rivela a Mohammed di essere un agente sotto copertura infiltrato in carcere per distruggere la rete di Quarello; con l’aiuto di Mohammed, potrebbe riuscire a seguire il flusso di denaro del boss e sgominare l’organizzazione. Mohammed si trova così di fronte a un dilemma: perdere tutti i suoi soldi e guadagnare la libertà in quanto collaboratore di giustizia, oppure rimanere in galera. Marco Malvaldi senza abbandonare l’ironia, il gusto del paradosso, l’esuberante inventiva che ne hanno fatto uno dei più originali scrittori di oggi, questa volta ha voluto cogliere una occasione regalandoci insieme a Glay Ghammouri l’opportunità di guardare al carcere in modo né convenzionale né caritatevole, ma davvero dall’altro lato delle sbarre, per quanto per noi che ne siamo fuori sia possibile immaginarlo. La sua scelta narrativa richiama le parole di Elvio Fassone in Fine pena: ora che rimane fra le cose più alte, umane e vere scritte sul carcere: «Non intendo disegnare il ritratto dell’ergastolano modello, né fare l’eco di certe prediche pietiste sulla nobiltà della rieducazione. So che S. ha commesso crimini orrendi. So tutto questo. Ma qui mi importa attestare alcune cose sulla vita di un ergastolano che normalmente non emergono».
Charles Fortnum è il «console onorario» di Sua Maestà in un paese senza nome ai confini del Paraguay. La sua è una carica del tutto irrilevante, come insignificante è l'uomo, alcolizzato e un po' imbroglione. Rapito da un gruppo di ribelli, a negoziare per la sua libertà è un dottore del luogo che scopre quanto la corruzione abbia travolto politici, rivoluzionari, religiosi, in un sistema senza morale. Introduzione di Alessandro Baricco.
Consigli sul regime alimentare da seguire; osservazioni sull’esercizio e sui benefici del sonno, sull’emicrania, sullo sbadiglio, e anche sull’oppressione della mente e sulla malinconia; fluidi e umori; lacrime e problemi femminili; il piacere della donna, i dolori del parto, l’allattamento. Un ricettario naturale che esplora il mondo delle piante, dei frutti, degli animali al fine di trarne rimedi utili per l’uomo.
Il ritratto di Ildegarda di Bingen (1098-1179) finisce per riassumersi nei termini di una contraddizione inevitabile, scrive Angelo Morino nell’introduzione al volume, «da un lato – dalla parte della santa – la trasmettitrice di parola divina celebrata da papi e imperatori e dall’altro – dalla parte della strega – la studiosa di un mondo dalle luci prossime alla notte più scura o, meglio, ritenute tali se ad avventurarvisi era una donna».
Ildegarda fu colta da visioni fin dai primi anni dell’infanzia, ma visse a lungo senza renderle pubbliche e, tanto meno, fissarle per iscritto. Fu solo nel 1136, all’età di trentotto anni, che la religiosa benedettina – diventata badessa del convento di Disibodenberg, sulle rive del Reno – decise di offrirsi allo sguardo dei suoi contemporanei nei tratti di una profetessa in contatto con l’aldilà celeste. Allora, le sue pagine furono sottoposte al giudizio del pontefice Eugenio III e, ottenuto l’avallo papale, cominciarono ben presto a diffondersi nel mondo cristiano. Ildegarda divenne consigliera di uomini fra i più noti e potenti di quegli anni – al punto che Federico Barbarossa la invitò nel suo palazzo di Ingelheim per consultarla – e predicò in chiese e cattedrali di molte città, fra cui Treviri, Magonza e Colonia. Tuttavia, non è Ildegarda visionaria e profetessa quella rimasta a noi più vicina; bensì quell’altra Ildegarda i cui libri, all’epoca, furono sottratti dalla raccolta delle sue opere inviate a Roma per il processo di canonizzazione. Erano libri che – come nel caso illustre di Cause e cure delle infermità – racchiudevano testimonianza di un’attività più terrena: quella di erborista e medica, che, per la sua familiarità col corpo e con gli elementi della natura, aveva ben motivo di suscitare inquietudine, tanto sembrava avvicinarsi a un sapere sotterraneo, confinato fra le tenebre.
Un bravo ragazzo, università, fidanzata, famiglia, i soliti lavoretti per raggranellare i soldi per un viaggio di piacere, viene trovato morto dentro la sua utilitaria. Le mani legate al volante, un colpo in testa e un foro di proiettile preciso alla tempia, i calzoni abbassati. Del caso si occupano i sovrintendenti Ghezzi e Carella, ed è un’indagine che si presenta lunga e complessa, dove gli indizi, anziché mancare, sembrano troppi.
Intanto, Gloria Grechi, impiegata di media condizione, donna dal fascino e dall’atteggiamento elusivi, si presenta presso la neonata agenzia investigativa di Oscar Falcone, non specchiatissimo amico e compare di guai di Carlo Monterossi: vuole che le ritrovino il marito improvvisamente scomparso. Ma la cliente non dice tutto, non spiega perché non si rivolge alla polizia, non chiarisce i suoi misteriosi comportamenti. Carlo Monterossi, autore televisivo di una trasmissione di enorme successo, che gli ha dato fama e soldi, ma che lui odia per quello che è diventata, spazzatura, cinismo, speculazione, simbolo dei simboli dei tempi nuovi, partecipa e osserva, investigatore per caso, acuto e ingenuo.
Presto piste, indizi e vicende convergono in un intreccio in cui le vite si mischiano: gli inseguiti possono diventare inseguitori, i giocatori pedine, i traditori traditi a loro volta.
Alessandro Robecchi ha costruito un noir d’alta scuola; un intreccio che è come un meccanismo perfetto in cui ogni ingranaggio porta il lettore con totale naturalezza dove è più sorprendente ritrovarsi.
Emozionante, ribelle, sarcastico e paradossale, disperatamente romantico, il suo personaggio ricorda il Marlowe di Raymond Chandler, ma impiantato nei tempi nuovi. Contro i quali porta un disincantato messaggio di resistenza.
1984. È l'anno di Bettino Craxi, quando il primo governo a guida socialista raggiunge i maggiori successi. Sandro Pertini, un altro socialista, è il Presidente della Repubblica. È anche l'anno della morte di Enrico Berlinguer, il popolarissimo segretario del più grande partito della sinistra. A Milano un sindaco del Psi amministra la città in alleanza con i cugini comunisti, ed è questa una situazione delicata viste le tensioni tra i due partiti, del tutto divisi riguardo alla figura di Craxi: se la giunta proseguisse spedita nel suo cammino sarebbe una conferma dell'egemonia di quest'ultimo, se invece cadesse sarebbe una sconfitta e l'approfondimento della frattura tra due sinistre. In questo quadro generale, l'omicidio in città di un importante funzionario all'urbanistica del Comune, iscritto al Pci, sembra fatto apposta per sfasciare un precario equilibrio. A cercare di capirci qualcosa è chiamato Mario Cavenaghi, responsabile di quella specie di intelligence interna che era la Commissione dei probiviri del partito di via delle Botteghe Oscure. Un'inchiesta che conduce un po' di malavoglia, perché è un uomo in crisi, ma che lo porta a scandagliare la città di allora, a cercare la polvere sotto il tappeto: i nuovi impresari edili tra affarismo e innovazione; il mondo dei grandi studi di progettazione, le future archistar; la rivoluzione delle televisioni, nuovo potere che sconvolge e crea; la vita, tra passione e cinismo, dei partiti; la mondanità rampante; e, dietro tutto, l'affanno dei ceti legati alla vecchia industria tradizionale in crisi. Muovendosi veloce per i luoghi dove ferve più intensità, Mario riesce a scoprire cosa cova dietro quell'omicidio. E dal suo punto di osservazione, per così dire intimo, non può fare a meno di intravedere il lento tramonto della Prima Repubblica. Questo è un romanzo fortemente politico impiantato su una struttura di giallo, cosa come il primo di Lodovico Festa, "La provvidenza rossa". L'effetto realistico che dà, come un osservatore nascosto dentro le stanze che contano, si fonda sul fatto che l'autore fu uno dei protagonisti di quegli ambienti e situazioni. Lo scopo è quello di restituire ai lettori lo spirito del tempo. E in esso testimoniare, nella finzione romanzesca, soprattutto di un trauma fondamentale della storia d'Italia: la decadenza piena di pathos di un modo di essere, dell'essenza, oltre che civile, umana di una grande fetta d'italiani. Quella parte che si riconosceva nel Partito comunista.
Chiara, insegnante, mezz'età, vita professionalmente appagata e privatamente tranquilla, viene informata che suo fratello Michele è scomparso durante un soggiorno tra le montagne delle Alpi Cozie. Sul posto ritrova Simone, vecchia fiamma, che si è ritirato a fare l'allevatore in quelle valli occitane con il figlio Davide, un bambino a cui Chiara presto si affeziona. Simone aveva un legame forte, complicato, con Michele, cementato in anni di estremismo politico. Anni che Chiara ripercorre e rivive per lampi di memoria; anni, benché difficilmente giustificabili con il criterio dell'etica pubblica, di grande significato esistenziale. Simone, brillante studente di chimica e, da giovane, sensibile musicista, ne ha pagato tutte le conseguenze; con Michele invece il destino era stato più benevolo. Quando viene trovato il suo cadavere, precipitato in un burrone d'alta quota, il verdetto è incidente o suicidio. Ma Chiara non si acquieta e cerca, tra ricordi, rimpianti e rivelazioni, la verità. E questa viene con la prima neve. Come gli altri di Claudio Coletta, questo libro è un racconto sommesso, quotidiano, che avvolge il dramma del tradimento in atmosfere malinconicamente naturali, e solleva tragedie passate, trasfigurate dal tempo in ironie della vita.
«La scuola deve essere un po' meglio della società che la circonda, se no cosa ci sta a fare?». Un maestro, i suoi piccoli alunni, un paese umbro di duemila anime e il mondo che irrompe con le sue tempeste dentro un'avventura pedagogica innovativa. L'attrito, lo scontro a volte, tra una educazione improntata all'apertura e la società in cui si diffondono con energia inattesa diffidenza, rancore e odio verso chi arriva: «Come educare alla convivenza quando nuovi veleni si diffondono nel piccolo villaggio in cui abitiamo e, ancor più, nel grande villaggio mediatico planetario nel quale siamo immersi?». E al fondo l'amarezza con cui si avverte che ciò che unisce, acquieta e rallegra è troppo debole spesso, e che il sospetto può vincerla sull'attitudine amichevole e curiosa verso ciò che è insolito e sorprendente. Il maestro Franco Lorenzoni nei suoi libri racconta il tempo quotidiano delle classi elementari dove insegna. Lo fa unendo il diario di esperienze didattiche vive, ricche di continui dialoghi tra bambine e bambini, con una grande quantità di storie e ritratti individuali. Al centro delle cronache de "I bambini ci guardano" c'è la scoperta del dramma dell'emigrazione, suscitata dalla foto del piccolo Aylan, trovato esanime sulla spiaggia di un'isola greca, evocata in classe da una bambina. A partire da quella immagine e da una ricerca rigorosa intorno ai dati del migrare oggi, la classe allarga il lavoro e la riflessione su violenza, guerra e discriminazioni nella storia, confrontandosi anche con l'arrivo in paese e la controversa ospitalità di una decina di profughi. Ed è presente in questo libro una piega riflessiva di intimo bilancio. La radicalità della crisi pubblico-privata, emersa prepotentemente in questi anni, è esposta nella maniera giocosa, semplice ed elementare, con cui i bambini scoprono le carte del mondo.
Scompare, letteralmente nel nulla, un furgone portavalori. Era carico di quasi tre milioni, le entrate del casinò di Saint-Vincent. Le dichiarazioni di una delle guardie, lasciata stordita sul terreno, mettono in moto delle indagini abbastanza rutinarie per rapina. Ma nell'intuizione del vicequestore Rocco Schiavone c'è qualcosa - lui la chiama «odore» - che non si incastra, qualcosa che a sorpresa collega tutto a un caso precedente che continua a rodergli dentro. «Doveva ricominciare daccapo, l'omicidio del ragioniere Favre aspettava ancora un mandante e forse c'era un dettaglio, un odore che non aveva percepito». Contro il parere dei capi della questura e della procura che vorrebbero libero il campo per un'inchiesta più altisonante, inizia così a macinare indizi verso una verità che come al solito nella sua esperienza pone interrogativi esistenziali pesanti. Il suo metodo è molto oltre l'ortodossia di un funzionario ben pettinato, e la sua vita è piena di complicazioni e contraddizioni. Forse per un represso desiderio di paternità, il rapporto con il giovane Gabriele, suo vicino di casa solitario, è sempre più vincolante. Lupa «la cucciolona» si è installata stabilmente nella sua giornata. Ma le ombre del passato si addensano sempre più minacciose: la morte del killer Baiocchi, assassino della moglie Marina, e il suo cadavere mai ritrovato; la precisa, verificata sensazione di essere sotto la lente dei servizi, per motivi ignoti. Sembra che in questo romanzo molti nodi vengano al pettine, i segreti e i misteri; ed in effetti, intrecciate al filone principale, varie storie si svolgono. Così come si articolano le vicende personali (amori, vizi, sogni) che sfaccettano tutti gli sgarrupati collaboratori in questura di Rocco. Una complessità e una ricchezza che danno la prova che Antonio Manzini si proietta oltre il romanzo poliziesco, verso una più universale rappresentazione della vita sociale e soprattutto di quella psicologica e morale. Ed è così che il personaggio Rocco Schiavone, con il suo modo contorto di essere appassionato, con il suo modo di soffrire, di chiedere affetto, è destinato a restare impresso nella memoria dei suoi lettori.
Un tram, che si fa immaginare come isola di luce nel buio della notte di Natale, viaggia nell'estrema periferia. Dentro porta un mistero, fragile e abbandonato. Salgono povere persone che hanno finito la giornata. La prostituta deportata dall'Africa, il suo disgraziato cliente, il clandestino che vive di espedienti, l'artista vinto dalla malattia, l'infermiera assediata dalla solitudine, il ragazzo che non riesce a mettere insieme la cena per la compagna e la figlia. Vanno verso la notte di vigilia che li aspetta, o che semplicemente non li aspetta. Ciascuno porta con sé, nei pensieri, nel ricordo, sul corpo, una storia diversa e complicata, che parla di loro stessi e di altri, ma pur sempre impastata di impotenza e di rabbia. Ma quel mistero gettato in fondo ai sedili, dietro la cabina dell'autista assuefatto all'indifferenza, li raccoglie tutti insieme, come un presepe viaggiante, miraggio di salvezza. Per quanto ognuno di loro senta che non c'è salvezza fuori da quel tram di Natale. Nella sua prosa fortemente lirica, che ha la capacità di modularsi ai momenti del racconto, quasi di musicarli, Giosuè Calaciura con gli strumenti della letteratura ci restituisce l'urgenza, la profondità e le contraddizioni del nostro tempo. Alla Dickens (il cui Canto di Natale questo racconto apertamente richiama), senza timidezze nel mettersi decisamente dalla parte della denuncia e dell'impegno.
Un'intuizione, un'illuminazione o solo il colpo del fato e basta una giornata per risolvere un caso. Certo ci vuole una giornata particolare, che l'investigatore non potrà più dimenticare: lunga, avventurosa, paurosa e molto eccitante, che lo farà riflettere su quanto strano può essere il mondo del delitto. Ecco il tema su cui i nostri autori hanno ingaggiato i loro eroi (e antieroi) in questa nuova antologia del giallo. Il commissario Montalbano, in un giorno che sembrava di bonaccia, constata quanto è scomodo stare tra l'incudine dello Stato e il martello della mafia. Saverio Lamanna (racconta Gaetano Savatteri) a Gibellina, città d'arte, scopre una vendetta contro l'arte stessa. Tiziana la banconista del BarLume è ad Amsterdam, il suo autore Marco Malvaldi l'ha messa lì per inseguire un gioiello. Il giovane Daquin, il poliziotto di Dominique Manotti, è a Marsiglia nel 1973 in un giorno di caccia all'algerino. C'è una biscia ammaestrata, nel racconto di Piazzese, di cui trovare al più presto i padroni e scoprire un mistero. Al pensionato Consonni della Casa di Ringhiera (autore Francesco Recami) in un giorno succedono tante involontarie peripezie da incastrare un delinquente. La giovane poliziotta Angela Mazzola (creatura di Gian Mauro Costa) nel suo giorno di riposo si chiede perché si usino i kalashnikov per rubare dei carciofi. Petra Delicado (di Alicia Giménez-Bartlett) ha un giorno di ordinaria follia per sperimentare quanto per alcuni «l'infelicità è un destino».
Il giornalista (e detective per caso) Saverio Lamanna ha avuto l’incarico di scrivere per un giornale on-line alcuni articoli sui siti siciliani dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Parte, non a caso, dalla Valle dei Templi di Agrigento; proprio in quei giorni, infatti, la sua fidanzata Suleima che ora vive a Milano sarà in quella zona della Sicilia per accompagnare il titolare dello studio di architettura dove lavora. Lamanna, alle prese con qualche problema di gelosia, viaggia naturalmente in compagnia di Peppe Piccionello, sua spalla confidente e mentore, che deve svolgere una piccola indagine familiare. Giunti nella Valle si trovano nel bel mezzo di una contesa scientifica: sono infatti affiorate da uno scavo archeologico alcune pietre che sembrano indicare la presenza dell’antico Teatro greco. Ricercato da secoli, mai ritrovato, è uno dei rompicapo degli archeologi di tutto il mondo che si sono dati appuntamento proprio in quei giorni in un congresso per discutere della scoperta e accertare se quelle pietre siano davvero i resti di uno dei più grandi teatri dell’antichità. Ma nel corso del convegno la comunità di studiosi e ricercatori viene scossa dalla morte violenta del professor Demetrio Alù, docente emerito e autorità dell’archeologia siciliana. Un delitto inspiegabile, consumato in un angolo di paradiso, tra mandorli, rovine e ulivi saraceni, sotto lo sguardo del Tempio della Concordia. Toccherà a Lamanna e Piccionello risolvere questo mistero nel mistero, nell’unico modo in cui sanno farlo: irriverente e appassionato, icastico e dissacrante. L’indagine svagata e serrata di due investigatori involontari dotati solo delle armi dell’intelligenza e dell’ironia.
Nelle cucine di un ristorante di lusso a Zurigo lavora Maravan, un giovane tamil che viene dallo Sri Lanka. Come molti suoi connazionali è fuggito dalla guerra per giungere in Europa, sperando nell’asilo politico e con la responsabilità di aiutare la famiglia rimasta in patria. Nel ristorante gli vengono assegnati solo i compiti più umili e noiosi, ma lui non se la prende. Ha un carattere amabile e ottimista, possiede una fede devota, con i suoi riti e le sue divinità, e soprattutto è un cuoco dall’olfatto e dalle qualità straordinari.
La prima a scoprirlo è la disinibita Andrea, una cameriera dello stesso locale. Per lei Maravan cucina il vero curry, ispirato alla tradizione culinaria di famiglia con qualche personale innovazione. La ragazza, nel corso di una cena indimenticabile, avrà un’idea che cambierà il loro futuro: dovranno mettersi in proprio e aprire una ditta. Si chiamerà «Love Food» e proporrà un Love Menu, consegna a domicilio di raffinati manicaretti afrodisiaci capaci di stimolare il desiderio delle coppie annoiate. I primi clienti arrivano grazie a una terapista specializzata, ma la voce si sparge rapidamente. In un contesto che scopre con angosciato stupore la possibilità del fallimento, e che diviene sempre più instabile e ingiusto, i piaceri – del corpo, della mente, del palato – diventano merci preziose. Le sensuali ed efficaci ricette di Maravan sanno restituire gusto ed emozione alle serate di coppie abbienti, a personalità della politica, a uomini d’affari in cerca di sensazioni forti. Ma attraggono anche figure ambigue, che vivono ai margini del potere e della ricchezza…
Il talento del cuoco racconta con tono sagace, ironico e riflessivo l’aspra complessità di un ingranaggio sociale che rimescola il destino di persone lontane e diverse e le porta sullo stesso palcoscenico, in uno spazio in cui i gesti e le parole di ognuno riguardano e influenzano le vite degli altri. E allora tra noi e loro, tra gli abitanti di nazioni e città che si vogliono solide e antiche, e quei popoli che crediamo spuntare dal nulla per turbare il nostro ordine e il nostro benessere, nasce un legame profondo, che ha bisogno di una scoperta continua, di una curiosità che può svelare quei mondi quasi del tutto invisibili che convivono quotidianamente accanto a noi.
Uno strano silenzio avvolge la casa di ringhiera, vuoto l’appartamento di Amedeo Consonni, vittima di uno scontro fatale nel cortile; lontana Angela Mattioli, legata all’ex tappezziere, che di stare in quella casa non ha voluto saperne più; alle terme la signorina Mattei-Ferri, che dalla sua finestra sul cortile registra entrate e uscite dal condominio; assente anche il De Angelis che si è allontanato non si sa bene per dove. Solo l’appartamento n. 15 è abitato regolarmente dalla famiglia Giorgi, anzi da Donatella con i precoci e inquietanti figli Gianmarco e Margherita, mentre il marito Claudio, ormai disintossicato dall’alcol, non è comunque ritornato in famiglia. Donatella ha scovato nella camera di Margherita il suo diario segreto. Trovarlo e leggerlo per la madre è un tutt’uno, scopre così un mondo che mai avrebbe potuto immaginare: dov’è la sua bambina in quelle pagine smaliziate ed esperte? Chi sono quelle compagne che sul sesso la sanno così lunga, e quegli accenni a panetti di droga cosa vorranno dire? Margherita si destreggia molto bene con la scrittura, ci sono i riassunti di libri che ha letto, osservazioni acute sulle prof, lettere al padre disinvolte e le risposte di Claudio. E poi c’è un segreto che aleggia, un segreto che Margherita non può affidare neanche al suo diario, qualcosa che ha a che fare con la casa di ringhiera e Amedeo Consonni… Donatella sente di dovere intervenire, di doversi vendicare di quelle compagne che stanno traviando la sua piccola innocente, e lo fa nel modo più incredibile, aiutandosi con la rete e il web ai quali proprio i suoi figli l’hanno iniziata.
«Non ci abbiamo capito niente, Deruta. Forza, al lavoro». Due coltellate hanno spento la vita di Romano Favre, un pensionato del casinò di Saint-Vincent, dove lavorava da «ispettore di gioco». Il cadavere è stato ritrovato nella sua abitazione dai pochi vicini di casa dell'elegante palazzina, e serra in mano una fiche, però di un altro casinò. Rocco Schiavone capisce subito che si tratta «di un morto che parla» e cerca di decifrare il suo messaggio. Si inoltra nel mondo della ludopatia, interroga disperati strozzati dai debiti, affaristi e lucratori del vizio, amici e colleghi di quel vedovo mite e ordinato. Individua un traffico che potrebbe spiegare tutto; mentre l'ombra del sospetto sfiora la sua casa e i suoi affetti. Ed è ricostruendo con la sua professionalità la tecnica dell'omicidio, la scena del delitto, che alla fine può incastrare l'autore. Ma il morto è riuscito a farsi capire? Forse non basta scavare nel passato: «Favre ha perso la vita per un fatto che deve ancora accadere». Il successo dei libri di Antonio Manzini deve probabilmente molto al loro andare oltre la semplice connessione narrativa tra una cosa (il delitto) un chi (il colpevole) e un perché (il movente). Con le inchieste del suo ruvido vice-questore, Manzini stringe il sentire del lettore a una vicenda umana complessa e completa. Così i suoi noir sono in senso pieno romanzi, racconto delle peripezie di un personaggio che vale la pena di conoscere, sentieri esistenziali. Sono, messi uno dietro l'altro, la storia di una vita: Rocco Schiavone, un coriaceo malinconico che evolve e cambia nel tempo, mentre lavora, ricorda, prova pietà e rabbia, sistema conti privati e un paio di affari. Sicché, in "Fate il vostro gioco", il vice-questore riconosce apertamente un semifallimento: ha smascherato il criminale ma troppe cose non tornano. Resta un buco nella sua consapevolezza che gli rimorde come una colpa, e deve colmarlo. Lo farà, si ripromette, la prossima volta e, per il lettore, nella prossima avventura.
Un cold case per i Vecchietti del BarLume. Un vecchio omicidio mai risolto, avvenuto nel fatidico 1968, si riapre per una questione di eredità. In questo giallo comico Marco Malvaldi coniuga una formula felice di leggerezza intelligente e intricato delitto, un sottile pennello che dipinge l’acquerello di un’Italia esclusa dalla ribalta mediatica, e che del Paese vero, anche quello più attuale, fa capire molte cose.
Un cold case per i Vecchietti del BarLume. Un vecchio omicidio mai risolto, avvenuto nel fatidico 1968, si riapre per una questione di eredità.
Muore nel suo letto Alberto Corradi, proprietario della Farmesis, azienda farmaceutica del litorale toscano. Alla lettura del testamento, il notaio ha convocato anche la vicequestore Alice Martelli, perché nelle ultime volontà del defunto è contenuta una notizia di reato. Erede universale è nominato il figlio Matteo Corradi, ma nell’atto il testatore confessa di essere stato lui l’autore dell’assassinio del fondatore della fabbrica, suo padre putativo. Il 17 maggio del 1968 Camillo Luraschi, capostipite della Farmesis, era stato raggiunto da una fucilata al volto. Le indagini non avevano trovato risultati, forse perché il clima politico consigliava di non scavare troppo.
L’imbroglio nella linea di successione obbliga alla riapertura dell’inchiesta. Matteo Corradi non potrebbe, infatti, ereditare ciò che il padre ha ottenuto mediante un delitto. Alice Martelli, la fidanzata (eterna) di Massimo, in questo caso non può fare a meno dell’archivio vivente di pettegolezzi costituito dai quattro vecchietti, che erano stati coinvolti tutti in modi diversi nel Movimento.
Le indagini si svolgono, come al solito, tra la questura e il BarLume di Pineta dove Aldo, nonno Ampelio, Pilade Del Tacca del Comune, il Rimediotti (detti anche i quattro «della banda della Magliadilana») dissipano gli anni della loro pensione, vanamente contenuti dal gestore Massimo, costretto a esorcizzare con la logica le ipotesi dei senescenti occupanti della sala biliardo del bar. Da dove passano storielle toscanacce di ogni genere. L’inchiesta si imbatte in svolte e nuovi delitti obliquamente diretti a occultare. E scomoda, in stolidi playback, i ricordi del Sessantotto nella zona. Finché – tra dialoghi alla Ionesco o da signor Veneranda, battute micidiali in polemica tra i vecchietti e tra loro e il mondo, perle di saggezza buttate lì nel lessico più scostumato e inattuale – si fa strada l’unica maschera triste di tutto il palcoscenico, Signora la Verità.
Marco Malvaldi, con la serie del BarLume, ha rinnovato un genere, il giallo comico di costume. E, in A bocce ferme, la parte del giallo puro si prende una sua rivincita senza sacrificio per la risata. Una formula felice di leggerezza intelligente e intricato delitto, un sottile pennello che dipinge l’acquerello di un’Italia esclusa dalla ribalta mediatica, e che del Paese vero, anche quello più attuale, fa capire molte cose.
Un nuovo mistero tra le mani dell’ispettore Morse, una giovane, attraente donna è morta, uccisa con un colpo di pistola esploso attraverso la finestra del soggiorno di casa sua. Due indizi lo instradano inizialmente: un criptico messaggio che cela data, ora e luogo di un appuntamento, e una foto con uno sconosciuto dai capelli grigi.
«“Non mi ha ancora detto che cosa pensa di questo Owens, il vicino della donna assassinata”. “La morte ci è sempre vicina” disse Morse con espressione seria. “Ma adesso lasci perdere e pensi a guidare, Lewis”».
Una giovane, attraente donna è morta, uccisa con un colpo di pistola esploso attraverso la finestra del soggiorno di casa sua, una delle poche costruzioni di un breve viale in cui i vicini si conoscono tutti e sanno tutto di tutti. Due indizi instradano inizialmente l’ispettore capo Morse: un criptico messaggio che cela data, ora e luogo di un appuntamento, e una foto con uno sconosciuto dai capelli grigi. Un terzo indizio che si aggiunge in seguito appare più promettente: un possibile errore di percorso dell’assassino. Poiché tutto è vago e fuori posto in questo nuovo mistero tra le mani dell’ispettore della Thames Valley Police. Non sembra esserci un motivo solo per cui Rachel James, la vittima, sia stata eliminata. Il modo in cui è stato fatto è distorto e sproporzionato ma sembra quello di un professionista. L’indiziato numero uno manca del movente e i suoi tempi non si incastrano con quelli del delitto. I testimoni sono drammaticamente reticenti in quel breve viale, quasi un cortile, della morte. E tutto, soprattutto, sembra perdere i propri chiari contorni dentro la melassa di buone maniere, ipocrisie, complotti e trappole della upper class intellettuale di Oxford: il vecchio rettore di uno dei maggiori college sta, infatti, per «appendere la toga al chiodo» e deve essere eletto il suo successore, così le mogli, gli amici, le amanti e i sostenitori dei due candidati non si negano colpi micidiali. Che stia nascosta in quel nido di serpenti la verità?
Naturalmente, Morse alla prima non ci prende. Ma «quasi sempre la mente di Morse raggiungeva l’apice della creatività quando una delle sue ipotesi astruse e improvvisate veniva rasa al suolo». Inoltre sempre vigile a sostenerlo c’è il suo vice Lewis. Il rapporto tra i due è il motore dell’azione: Morse è un persecutore inventivo e malinconico, Lewis è paziente e dotato di un robustissimo principio di realtà.
Colin Dexter è il maestro del poliziesco inglese di stampo classico, cioè deduttivo. Alla tipicità del genere e alla caratteristica intelligenza dell’intrico, aggiunge un andamento del racconto fatto di ironie eleganti e sottintesi che rendono complice il lettore e lo divertono, il più delle volte alle spalle del principale bersaglio dell’umorismo dell’autore: la classe agiata e le sue maniere.
Nella prima metà dell'Ottocento, P. T. Barnum (così preferiva essere chiamato) è stato l'inventore dello «spettacolo più grande del mondo», il pioniere dell'industria dell'intrattenimento, forse anche la prima persona a intuire praticamente come un evento può essere usato nella società di massa per orientare l'opinione comune. Ha fatto questo prima con il suo Museo Americano, dove esibiva animali strani e umani «diversi», alcuni reali, alcuni solo artefatti, dopo con il suo proverbiale Circo che rimarrà in giro per il mondo per i successivi 147 anni. Esagerato, rinomato per le sue trovate pubblicitarie, fu anche un impresario enormemente famoso ed influente, un vero self-made man nato povero diventato milionario e un astuto talento d'affari capace di efficaci colpacci divertenti per chi non ne era vittima, il tutto condito da un esplicito propagandismo di rettitudine cristiana. Questa autobiografia è scritta con lo stesso immaginoso impeto con cui viveva e divenne ai suoi tempi un immediato bestseller. È un manuale su come si diventava ricchi in un paese giovane e avventuroso, un'analisi di psicologia dell'intrattenimento, oltre che il racconto di una vita perfettamente a proprio agio nei suoi tempi. Si è detto dei suoi freaks che rimitizzavano della natura ciò che la scienza andava disincantando. Di certo P. T. Barnum ha insegnato agli americani a unire il divertimento con lo stupore per lo straordinario - qualcosa di simile a ciò che accadeva in letteratura con la narrativa «gotica» -: una forma di spettacolarità che poi gli americani hanno insegnato al mondo, con Hollywood e la televisione. Iniziava così una tendenza oggi imperante, quella della meraviglia che distrugge se stessa con l'eccesso di meraviglia.
Luca Corbo è un ragazzo coccolato e protetto che vede davanti a sé, quando non ha ancora diciotto anni, la grande opportunità di tutta una vita. Aspira a una carriera da calciatore professionista, è stato notato da alcuni procuratori, ed è giunto il momento di fare una scelta. Attorno ha i compagni che sul campo e fuori sono gli amici del cuore, anche loro spinti dalle stesse ambizioni. A incoraggiarlo c'è il sostegno dei genitori Dario e Giulia, separati dopo molte difficoltà, per una volta di nuovo complici grazie all'orgoglio per il suo talento. Sono trascorsi alcuni anni dall'estate del caso Nora Beckford, quando Dario Corbo, ex giornalista scaltro e malinconico, ha cercato di riscattare l'immagine e il passato scellerato di un'assassina che proprio lui aveva contribuito a far condannare. Ora Dario lavora per lei, alla Fondazione che cura l'opera del padre artista, e in molti hanno da ridire. Basta una telefonata per cambiare tutto, ancora una volta. Dario viene convocato all'albergo dove il figlio alloggia con la squadra, due poliziotti stanno frugando nella sua stanza, Luca è pallido e silenzioso. La notte precedente una ragazza è arrivata al pronto soccorso con il volto sfigurato, ha denunciato di essere stata condotta sulla spiaggia e poi stuprata e picchiata da un ragazzo conosciuto in discoteca. Quel ragazzo, ha detto, si chiama Luca, e gioca a calcio. Per Dario Corbo è il frantumarsi di un ordine precario e l'annuncio del fallimento più doloroso, quello di padre. Giampaolo Simi ci riporta in Versilia e traccia un affresco ambizioso e avvincente, di raffinato realismo e lancinante tensione. Un noir drammatico ma soprattutto una storia di individui che si riconoscono tra loro e cercano complicità e protezione nell'appartenenza, nella lealtà di gruppo, nel cemento dell'amicizia, nel nucleo tenace delle famiglie. Fin quando una famiglia non è costretta a guardarsi dentro, e a chiedersi quanta cieca fiducia, quanto amore inappellabile sono necessari per proteggere le persone che amiamo. Con il sospetto che persino nel proprio figlio possa nascondersi una creatura feroce.
Vince Corso è un biblioterapeuta. Precario più per nascita e per vocazione esistenziale che per condizione sociale, un giorno ha scoperto le doti curative, per l'anima e per il corpo, dei libri e ne ha fatto la propria professione. Si rivolge a lui una bella sessantenne: ha un fratello malato di Alzheimer che, nel marasma della sua mente, da qualche tempo ripete delle frasi spezzate, sempre le stesse, senza alcun legame tra di loro. Era stato uno studioso di fama e un lettore vorace, un amante delle lingue, un ricco collezionista di volumi, quelle parole potrebbero essere citazioni da un romanzo. «E solo un'ipotesi, ma se questo libro esiste, ci terrei a sapere qual è. E se lei lo trovasse, potrei leggerglielo a voce alta, qualche pagina al giorno». Il biblioterapeuta si mette al lavoro, con una domanda che lo assilla: se avessi perso tutto, e ti venisse concesso di salvare un solo ricordo, quale sceglieresti? Ha diversi enigmi da risolvere, mediante tecniche per decifrare e interpretare i testi, attraverso psicologie di identificazione con possibili autori, ricerche di biblioteca in biblioteca, incontri fortuiti e rivelatori. Un'avventura che lo guida a una soluzione che proprio innocente, come all'inizio appariva, non sarà. Intanto scruta i luoghi, fa sedute di biblioterapia con pazienti nuovi e inaspettati, scopre l'odio che è tornato ad attraversare i quartieri e la società. Ed è come una ricerca nella ricerca, un romanzo nel romanzo. Perché Vince è un camminatore, un esploratore di spazi e di persone: itinerari, spazi e persone che lo rimandano senza tregua a coincidenze con i momenti della letteratura di cui è vittima e complice, quasi come un prigioniero felice. Ma dominato da un bisogno inesauribile: trovare la linea di confine tra la vita e i libri e forse superarla, perché sempre di più è attratto dalle passioni, dalle paure e dalle gioie di uomini e donne in carne e ossa.
"Il commissario Montalbano crede di muoversi dentro una storia. Si accorge di essere finito in una storia diversa. E si ritrova alla fine in un altro romanzo, ingegnosamente apparentato con le storie dentro le quali si è trovato prima a peregrinare. È un gioco di specchi che si rifrange sulla trama di un giallo, improbabile in apparenza e invece esatto: poco incline ad accomodarsi nella gabbia del genere, dati i diversi e collaborativi gradi di responsabilità, di chi muore e di chi uccide, in una situazione imponderabile e squisitamente ironica. Tutto accade in una Vigàta, che non è risparmiata dai drammi familiari della disoccupazione; e dalle violenze domestiche. La passione civile avvampa di sdegno il commissario, che ricorre a una «farfantaria» per togliere dai guai una giovane coppia di disoccupati colpevoli solo di voler metter su una famiglia. Per quanto impegnato in più fronti, Montalbano tiene tutto sotto controllo. Le indagini lo portano a occuparsi dell'attività esaltante di una compagnia di teatro amatoriale che, fra i componenti del direttorio, annovera Carmelo Catalanotti: figura complessa, e segreta, di artista e di usuraio insieme; e in quanto regista, sperimentatore di un metodo di recitazione traumatico, fondato non sulla mimèsi delle azioni sceniche, ma sull'identificazione delle passioni più oscure degli attori con il similvero della recita. Catalanotti ha una sua cultura teatrale aggiornata sulle avanguardie del Novecento. È convinto del primato del testo. E della necessità di lavorare sull'attore, indotto a confrontarsi con le sue verità più profonde ed estreme. Il romanzo intreccia racconto e passione teatrale. Nel corso delle indagini, Montalbano ha la rivelazione di un amore improvviso, che gli scatena una dolcezza irrequieta di vita: un recupero di giovinezza negli anni tardi. Livia è lontana, assente. Sulla bella malinconia del commissario si chiude questo possente romanzo dedicato alla passione per il teatro (che è quella stessa dell'autore) e alla passione amorosa. Un romanzo, tecnicamente suggestivo, che una relazione dirompente racconta in modo da farle raggiungere il più alto grado di combustione nei versi di una personale antologia di poeti; e, all'interno della sua storia, traspone i racconti dei personaggi in colonne visive messe in moviola perché il commissario possa farle scorrere e rallentare a suo piacimento." (Salvatore Silvano Nigro)
Chi sfogliasse "L'album dei Mille", galleria fotografica degli eroi dell'impresa garibaldina, al n. 338 troverebbe la foto di Rosalia Montmasson, l'unica donna che s'imbarcò alla volta della Sicilia. Chi era quest'oscurata protagonista del Risorgimento? Una ragazza che incontra e si innamora di un giovane rivoluzionario pieno di sé, e per amore lo segue in tutte le avventure fino a quando lui l'abbandona? Oppure un'intransigente repubblicana che si lega a un patriota, che alla fine ne tradisce gli ideali? Per vent'anni Rosalia Montmasson fu moglie di Francesco Crispi, che seguì in tutti gli esili, condividendone azione e utopia, senza paura e senza riserve, facendosi cospiratrice e patriota al servizio della causa mazziniana. Si erano incontrati a Marsiglia: lui esule in fuga dalla Sicilia borbonica, lei lavandaia stiratrice che si era lasciata alle spalle l'asfittico paesino d'origine dell'Alta Savoia. Diventata mazziniana anche lei, entrò a poco a poco nella vita di riunioni e di azioni clandestine di lui, perfino le più rischiose e forse terroristiche, giungendo ad assumere un proprio ruolo, stimato anche da Mazzini. Poi l'impresa garibaldina, l'Unità, e la svolta monarchica di Crispi. Le divergenze e i contrasti tra Francesco e Rosalia si accentuarono, ormai la ragazza di Marsiglia è solo un impiccio sentimentale e politico per lui, che nel 1878 - divenuto potente ministro - riuscì con cavilli formali e l'avallo di una compiacente magistratura a farsi annullare il matrimonio. Da quel momento, Rosalia Montmasson fu fatta sparire dalla vita di Crispi, dai libri, e dalla memoria collettiva, una totale rimozione dalla storia risorgimentale che si è protratta fino a oggi; a lei Maria Attanasio, in questo romanzo storico, restituisce voce e identità, recuperando anche una sommersa e avventurosa coralità di oscuri eroi. Con un ritmo narrativo di inchiesta letteraria su una vicenda nascosta del Risorgimento, la scrittrice ne ha cercato le tracce, ripercorrendo i luoghi, scavando tra cronache e documenti, appassionandosi alla vita di questa donna dal temperamento straordinario, ribelle a ogni condizionamento e sudditanza. E ce la racconta in un romanzo sulla libertà di pensiero, che è quasi una storia al femminile sul processo unitario italiano: il ritratto in grande di una donna in grande, dipinta quale immagine del Risorgimento perduto, della sua parte sconfitta e più bella.
"Spia contro spia è l’autobiografia di un agente segreto e nello stesso tempo uno straordinario romanzo di spionaggio e un libro di storia. Perché Dusko Popov era davvero una spia. Serbo, di famiglia benestante, classe 1912, il giovane Dusko Popov studiò in Germania e diventò avvocato, ma il suo stile di vita non piaceva alla Gestapo, che lo incarcerò ed espulse per richiamarlo successivamente con la proposta di far parte dei servizi segreti. Popov i nazisti non li sopportava, accettò di fare per loro la spia ma il giorno stesso si rivolse al servizio segreto britannico per il quale lavorò per tutti gli anni della guerra. Brillante e sfrontato, amante delle donne e della bella vita, fra i più scaltri agenti del controspionaggio, fu determinante in numerosissime azioni; fu lui a organizzare a Londra la rete delle spie tedesche destinandola così a un sicuro fallimento; giunse ad avvertire gli americani di quanto sarebbe accaduto a Pearl Harbor, ma la sua fama di avventuriero e il suo stile di vita resero dubbioso Edgar Hoover, il mitico capo dell’FBI, che non diede peso alle informazioni, così si consumò la tragedia dell’attacco giapponese. Avvincente come pochi libri perché la materia non è di invenzione, ma la realtà, il volume è popolato di personaggi veri, di scenari credibili e dipinti in maniera straordinaria, dalla fumosa Londra colpita dai bombardamenti, alle caserme dello stato maggiore delle SS dove avvenivano gli interrogatori, agli ambienti delle ambasciate di mezza Europa. Innumerevoli le notizie, le curiosità, i dettagli della vita di una spia, i metodi usati - oggi sorpassati e quasi romantici (dal siero della verità alle minuscole macchine fotografiche)."
Per la prima volta insieme questi racconti, già apparsi in varie antologie a tema, ci restituiscono un ritratto del vicequestore Rocco Schiavone. Sono cinque tessere che contribuiscono a definire il personaggio per chi già lo conosce e servono come una presentazione per chi non l’ha mai letto: un poliziotto scontroso, trasgressivo, ruvido, spesso ai limiti della brutalità, conosce però il cuore degli uomini e sa sempre da che parte stare.
Un ritratto del vicequestore Rocco Schiavone. Cinque tessere che contribuiscono a definire il personaggio per chi già lo conosce e servono come una presentazione per chi non l’ha mai letto. Racconti già pubblicati in varie antologie che questo volume mette insieme per la prima volta. Il primo – che dà il nome all’intera raccolta ed è ampio poco meno che un romanzo breve – ha un inizio macabro, quasi horror: al cimitero, dentro una cappella gentilizia, viene trovato un cadavere sconosciuto disteso sopra la bara di un’altra; unico indizio uno strano anello nuziale. Ma presto la storia prende le vie tipiche che ispirano Antonio Manzini: innestare su un’indagine poliziesca misteriosa disagi esistenziali, denuncia sociale, sentimenti profondi; il tutto narrato con un umorismo ironico che sfiora il sarcasmo, fatto di battute rapide e paradossi, che nella misura breve dei racconti sembra persino accentuarsi per concentrazione. Le altre storie che seguono – tre amici in gita alpinistica finita con il morto; una partita di calcio truffaldina tra uomini di legge; un delitto nella «camera chiusa» di un treno; un innocuo eremita ucciso in una chiesetta abbandonata – sono indagini che portano, secondo l’umor nero che non lascia mai Schiavone, a «una conclusione scomoda, squallida, triste, più del cielo di questa città». Lui, il protagonista indiscusso, è un poliziotto non integerrimo, spesso ai limiti della brutalità, ma che sa riconoscere una persona vera ovunque e comunque si presenti. Un uomo che non sopporta il tempo in cui vive, per tanti motivi, ma soprattutto perché gli ha strappato la cosa più importante della vita.
Una donna di cinquant’anni viene assassinata in modo brutale nella casa in cui vive da sola; il volto è sfigurato e sul cadavere è poggiata una lettera d’amore: «Cara Pauline, sai che ti ho amato moltissimo e che ti amo ancora. Tu invece non mi ami più e io non ho avuto altra scelta se non quella di ucciderti» e sotto la firma: Demostene. Quando Aurora, una ragazza ecuadoriana che lavora come badante, viene uccisa con le stesse modalità, si comincia a sospettare che si tratti di un serial killer. Le indagini presto conducono a scoprire che entrambe le donne si erano rivolte negli ultimi tempi a un’agenzia matrimoniale di cui però pare si siano perse le tracce, una specie di agenzia fantasma dall’improbabile nome «Vita futura». Petra Delicado vorrebbe investigare a modo suo, naturalmente al fianco di Fermín Garzón con cui l’intesa è perfetta, ma stavolta non è lei a dare gli ordini perché il caso viene affidato a un ispettore della polizia regionale catalana - Roberto Fraile dei Mossos d’Esquadra -, nonostante sia più giovane di lei e abbia meno esperienza. Relegata a un ruolo subalterno l’irritazione di Petra sale presto alle stelle e la spinge a dedicarsi alle indagini con meno impegno del solito, rischiando di provocare equivoci ed errori, in un caso che si fa sempre più inquietante e delicato. Il nuovo attesissimo romanzo di Alicia Giménez-Bartlett affronta argomenti forti come la morte, la follia, la solitudine nelle grandi città, la questione catalana, ma l’umorismo dell’autrice spagnola è capace di trasformare anche la storia più nera in un’esperienza quasi felice.
Il Venerdì Santo del 1890, durante la sacra rappresentazione che si tiene nei giorni della Settimana Santa, definita popolarmente il «Mortorio», il ragioniere Antonio Patò, che interpreta il personaggio di Giuda, scompare nella botola predisposta sul palcoscenico. Solo che al momento di ricevere gli applausi, del ragionier Patò non c’è più traccia. Che fine ha fatto? Il caso diventa l’argomento del giorno per i giornali locali, «l’Araldo di Montelusa» e la «Gazzetta dell’Isola». Delle indagini si occupano sia il Delegato di Pubblica Sicurezza che il Maresciallo dei Carabinieri che attraversano tutte le ipotesi, dalla perdita di memoria alla fuga d’amore, dal delitto di mafia, a problemi legati alla Banca di Trinacria di cui Patò è direttore, e non mancano supposizioni eccentriche, a metà tra la scienza e il mistero. Lasciamo la parola allo stesso Camilleri: «Questo libro intende essere una sorta di summa di temi che mi sono cari. Però, una volta tanto, volti decisamente al divertimento. Si tratta di un’indagine portata avanti congiuntamente dalla polizia e dai carabinieri dell’epoca al fine di arrivare al bandolo di questa matassa. Mi sono inventato una quantità di cose, partendo solo da questo esile spunto. Questo Patò, ragioniere scomparso, in realtà è il nipote di un senatore, che è sottosegretario agli interni. Per questa scomparsa si mobilita il mobilitabile. Il senatore è abbastanza chiacchierato, e pare che si serva del nipote, direttore della filiale di Vigàta di una banca, per gestire i suoi loschi traffici. Quindi, tutto è possibile sulla scomparsa di Patò. Naturalmente, la verità poi sarà rivelata da due poveracci indagatori, che partiti come il cane e il gatto all’inizio, veri nemici giurati, si ritrovano sempre più affratellati, via via che questa indagine dimostra la pericolosità delle loro carriere». s
Ghezzi e Carella, Monterossi e Falcone: due coppie di detective e un delitto nella Milano ricca. Tra ironia e amara analisi sociale, un thriller intrecciato con mano sicura da un abile narratore.
«E ho pensato che avevo sbagliato vita, che così non andava bene, e che intanto mi ero perso delle cose, e moltissime altre, forse più importanti... cose... persone... a cui ho pensato sempre...».
Umberto Serrani è un elegante, anziano, ricco signore cullato dai suoi rimpianti. Riservato, distaccato, finalmente padrone del suo tempo dopo una vita passata a «mettere al sicuro» le fortune altrui, specie se sospette e ingombranti, un lavoro che gli ha permesso di tessere legami invisibili che arrivano dappertutto.
Quando apprende della morte di Giulia – un amore di venticinque anni prima, intenso, totale, un rimpianto mai sopito – decide di capire, agire, pagare vecchi debiti. Vuole sapere di quella morte assurda che sembra uno scippo finito male, chi è stato, perché. E vuole sapere tutto di quella donna per tanti anni amata nel silenzio e nella lontananza, della sua vita solitaria e ordinata, delle sue speranze e delle sue difficoltà, della figlia Sonia, promettente soprano.
Assolda per questo una coppia di strani investigatori, Carlo Monterossi e Oscar Falcone: il primo è un mago della televisione, che però odia; il secondo sa nuotare in tutti gli ambienti e ha uno speciale sesto senso per le cause giuste. Intanto, sull’omicidio lavorano anche Ghezzi e Carella, sovrintendenti di polizia, «due cani da polpaccio», che vogliono chiudere il caso, fare giustizia, capire.
I quattro, indipendentemente gli uni dagli altri, dragheranno le acque fetide che hanno inghiottito Giulia, con il sottofondo delle arie d’opera in cui la giovane Sonia si esercita per realizzare il suo sogno.
Ogni libro di Alessandro Robecchi contiene personaggi, intrecci e tanta materia narrativa da poterne ricavare più romanzi; dialoghi tesi, un parlato da duri e un esemplare umorismo di costume sui nostri tempi. E le sue storie traggono sempre spunto da un’amara osservazione sociale e umana. In Follia maggiore c’è l’agonia silenziosa del ceto medio che attrae appetiti criminali, e un malinconico «discorso dei rimpianti» sulle cose perdute che non torneranno. Mai.
Un anno in giallo raccoglie 12 racconti, uno per ogni mese dell’anno; ogni autore ha scelto il «suo» mese, ambientando lì, in quel tempo dell’anno, una storia con il «suo» investigatore. Ad aprire la raccolta con il mese di gennaio è naturalmente Andrea Camilleri, il capostipite, colui che ha impresso al romanzo giallo un segno irripetibile, creando con il commissario Montalbano un personaggio che è ben saldo nella mente e nel cuore dei suoi infiniti lettori di ogni parte del mondo. Poi, mese dopo mese, tutti gli altri investigatori: quelli istituzionali come il vicequestore Schiavone di Antonio Manzini, l’ispettrice Petra Delicado con il vice Fermín di Alicia Giménez-Bartlett. I detective per caso: i sicilianissimi Saverio Lamanna e Lorenzo La Marca così simili ai loro autori, Gaetano Savatteri e Santo Piazzese, il biblioterapeuta Vince Corso inventato da Fabio Stassi, l’autore televisivo Carlo Monterossi, personaggio di Alessandro Robecchi, e Kati Hirschel, la libraia di Istanbul, patria di Esmahan Aykol. Infine gli investigatori corali: il condominio della casa di ringhiera capeggiato da Amedeo Consonni di Francesco Recami e i goliardici vecchietti del BarLume di Marco Malvaldi. Due personaggi fanno qui la loro comparsa per la prima volta: l’avvocato Cornelia Zac, frutto della fantasia e della professione legale di Simonetta Agnello Hornby, e la poliziotta Angela Mazzola, in servizio alla sezione antirapina della Mobile di Palermo, creatura di Gian Mauro Costa. Le due nuove detective di cui facciamo conoscenza in questa antologia saranno presto protagoniste di romanzi.
Trenta storie, divertenti e sorprendenti, con protagonista Montalbano. «Ladri, suicidi veri e suicidi non veri, un morto vivente, delitti e vari tentativi criminali, un diavolo che diavolo non è, acrobati, un re pastore e una veggente, figli e padri difficili, storie varie d’amore con colpi di scena imprevedibili: un rompicapo dietro l’altro, per il commissario, in un «romanzo» lungo un mese» (Salvatore Silvano Nigro).
Montalbano ha talvolta una franchezza insolente. È capace di rispostacce. Ma anche di una scanzonata levità. Lo soccorre l’ironia. E l’autoironia. Il commissario vanta «sangue di sbirro», senza frenesie però. Si prodiga persino in indagini «a ritroso nel tempo», che lo convincono a lasciare sepolto nelle macerie della storia il tragico segreto da lui scoperto; oppure preferisce condurre un’inchiesta parallela, stando nell’ombra, con la consueta vigilanza, con un sorriso arguto, e una sollecitudine anonima. Arriva a sentire inappropriata la divisa del detective armato di binocolo. L’indossa, solo per ridicolizzarsi: «Era atterrito all’idea che qualcuno del paìsi potesse vederlo col coppo... e un binocolo da teatro in mano intento a scrutare, proprio in cima al molo, non l’orizzonte, ma gli scogli che stavano sotto a lui». Ricorre all’«inquadratura» dei particolari più invisibili, ma «a fiuto» e «a pelle», con l’intuito e i sensi: «In questo consistevano il suo privilegio e la sua maledizione di sbirro: cogliere, a pelle, a vento, a naso, l’anomalia, il dettaglio macari impercettibile che non quatrava con l’insieme... Nel mondo che il suo occhio inquadrava qualcosa stonava». La collaborazione tra l’olfatto, la vista, e il tatto, lo dota di percezioni sinestesiche; gli fa incrociare sfere sensoriali diverse: «l’angoscia densa, la desolazione palpabile, la disperazione visibile... fetevano di un giallo marcio». Montalbano non dismette le «travediate». Ma ricorre anche a un marchingegno letterario. Ordina in racconto convincente i risultati della sua filologia investigativa (attenta pure a quella singola parola che apre «un abisso di sottintesi»); e garbatamente mette in campo la «storia» raccontata per accordare le parti in causa sulla verità dei fatti: e capita che la verità esiga l’indulgenza di Montalbano per l’umana debolezza. «E ora che fare?». La verità è stata acquisita. «E poi?», dice Montalbano: doveva essere, sempre e comunque, un giustiziere? Il turbamento del commissario ha la profondità morale dell’ansia notturna dell’Innominato nei Promessi sposi: «E poi? che farò... che farò?». Un mese con Montalbano è una raccolta di trenta racconti, già pubblicata da Mondadori nel 1998. Se è vero che il racconto sta al romanzo come una fotografia sta a un film, è anche vero che la sequenza delle «situazioni» del libro si configura come un film-romanzo in trenta episodi-capitoli. Qualche flashback sugli anni giovanili del commissario completa e arricchisce il «romanzo», dentro il quale convivono ladri, suicidi veri e suicidi non veri (e non è detto che un omicidio sia davvero omicidio), un morto vivente, delitti e vari tentativi criminali, un diavolo che diavolo non è, acrobati, un re pastore e una veggente, figli e padri difficili, storie varie d’amore con colpi di scena imprevedibili: un rompicapo dietro l’altro, per il commissario, in un «romanzo» lungo un mese. Salvatore Silvano Nigro
Emilio Isgrò scrive in copertina con il gessetto, come su una lavagna, la parola “Autocurriculum”, dopo aver cancellato con la manica della giacca la parola “Autobiografia”. Con questo teatrale sabotaggio di un genere letterario, si innalza sopra il personaggio omonimo che, dentro il libro, tra le righe d’inchiostro di una finzione curriculare, si fa viandante alla costante ricerca di un lavoro e del sentimento del mondo.
In un posto isolato e bellissimo della Maremma toscana, un'enorme tenuta tra le colline e il mare, si ritrova una compagnia di persone diverse tra di loro. È un appuntamento del destino, anche se non lo sanno. Si sta decidendo se vendere o no, a un gruppo finanziario cinese, la proprietà dove dimorano. E per ciascuno di loro, Poggio alle Ghiande è qualcosa di più che un semplice grande podere. I due proprietari, i gemelli Zeno e Alfredo Cavalcanti, sono divisi, pur senza aperta discordia; l'uno è un sofisticato collezionista d'arte che si è ritirato da decenni nella sua tenuta, l'altro è un broker di mondo i cui affari non vanno sempre a gonfie vele. La questione tocca in misura diversa i vari residenti che affittano i pochi alloggi nella tenuta. Quelli che invece sono ferocemente attaccati alla terra sono due famigli: il vecchio Raimondo, una specie di fattore misantropo che è stato lunghi anni in manicomio; e Piotr, un inquietante polacco fanatico religioso che fa il cameriere. Sono ospiti della villa anche Margherita, bella filologa chiamata a ordinare la collezione di Zeno, e Piergiorgio Pazzi, un genetista. Quest'ultimo incaricato di fare da esecutore di una singolarissima scommessa dalla quale dipenderà se vendere o meno. Una notte, un incendio improvviso divora il bosco di Poggio alle Ghiande e dentro il cerchio delle fiamme si ritrova il cadavere di Raimondo. E mentre sul vecchio fattore e su una certa opera di Ligabue scomparsa cominciano a circolare dicerie, un secondo omicidio toglie ogni dubbio sulla presenza di un assassino. Il mistero di quelle morti sta negli occhi di chi guarda. Per Marco Malvaldi la cura dei personaggi riveste un ruolo fondamentale, non solo perché su di essi si impernia il gioco delle parti da commedia gialla dei suoi romanzi (l'umorismo), ma anche perché ognuno pur nella sua individualità viene a rappresentare un pezzo di mondo, un pezzo di costume, un pezzo di società (la satira). Così in questi misteri si respira una suspense un po' da Agatha Christie - con un salotto di personaggi strani messi a interagire e ognuno con il suo mistero sospetto - e un'aria frizzante un po' da Fruttero&Lucentini - con una satira di costume che non fa generalizzazioni.
In "Pulvis et umbra" due trame si svolgono in parallelo. Ad Aosta si trova il cadavere di una trans. A Roma, in un campo verso la Pontina, due cani pastore annusano il cadavere di un uomo che porta addosso un foglietto scritto. L'indagine sul primo omicidio si smarrisce urtando contro identità nascoste ed esistenze oscurate. Il secondo lascia un cadavere che puzza di storie passate e di vendette. In entrambi Schiavone è messo in mezzo con la sua persona. E proprio quando il fantasma della moglie Marina comincia a ritirarsi, mentre l'agente Caterina Rispoli rivela un passato che chiede tenerezza e un ragazzino solitario risveglia sentimenti paterni inusitati, quando quindi la ruvida scorza con cui si protegge è sfidata da un po' di umanità intorno, le indagini lo sospingono a lottare contro le sue ombre. Tenta di afferrarle e gli sembra che si trasformino in polvere. La polvere che lascia ogni tradimento.
Un condominio assunto a personaggio collettivo che vive di vita propria, cui capitano cose di tutti i giorni che però il malinteso trasforma in misteri criminali. Questa è l'idea che rende originale la serie gialla della Casa di ringhiera; romanzi maggiori e più rapidi racconti (come questi sparsi in diverse raccolte pubblicate tra il 2011 e il 2014 e qui riuniti) che in effetti per chi li legge costituiscono tutti una sola grande storia in fieri, un'unica Commedia umana. La cui armonia Francesco Recami spiega in questo modo: «Le case di ringhiera una loro peculiarità l'hanno mantenuta. Per esempio, essendo gli ingressi degli appartamenti sui ballatoi, l'accesso a casa propria è all'aperto, e non in uno stretto pianerottolo servito da un grigio ascensore. Così se uno entra in casa, o ne esce, lo vedono tutti. C'è un'altra caratteristica che rende uniche le case di ringhiera: sembrano un teatro shakespeariano. Su due o tre livelli, con porte e finestre che si aprono (magari quando sarebbe meglio che rimanessero chiuse) e che si chiudono (magari quando sarebbe meglio che rimanessero aperte) è tutto un entrare e un uscire, tipico della drammaturgia teatrale, soprattutto della commedia degli equivoci». Su questo palcoscenico Recami installa una compagnia di personaggi, tanto tipici di modi di vivere e di pensare quanto straordinari, i quali passano il tempo ad imbrogliare malefatte e segreti che sembrano delitti da indagare. E lo sguardo che lo scrittore getta su di loro non sempre è benevolo o pietoso. Talvolta è lo sguardo comprensivo delle disdette umane e dei goffi tentativi di superarle. Talvolta è lo sguardo sarcastico, cinico, di un umorista della crudeltà convinto dell'assurdo esistenziale che non risparmia nessuno su questa Terra.
«La fucilata rimbombò nel silenzio della notte, echeggiò fra le rocce della montagna che sorgeva nera e massiccia nella purezza del cielo, dolcemente soffuso del chiarore lunare. «Era una notte di settembre. La luna, alta e piena, illuminava tutta quanta la chiostra delle montagne che recingono la Conca d'Oro palermitana, gettava un velo argenteo... ». Se c'è qualcuno che sa creare il clima dell'avventura e immergerlo nei colorati contrasti della Palermo storica, fino ad assorbirne tutti i dolori e le feste, questi è Luigi Natoli. "Coriolano della Floresta", pubblicato nel 1914, è il seguito dei "Beati Paoli": dopo il romanzo storico che aveva inventato la setta dei Giustizieri sulla cui verità immediatamente «il popolino» aveva proiettato la propria speranza di giustizia, ecco il romanzo popolare che alimentava la meraviglia dei lettori (e dei narratori orali che ripetevano la saga per chi non sapeva leggere). Ma se il favoloso per avere presa deve iniziare dal reale, così la raffigurazione storica sociale e psicologica, di ambienti individui e moltitudini, distingue questi romanzi da tutti gli altri prodotti della letteratura cosiddetta popolare. La trama si articola intorno all'amore contrastato tra Cesare Brancaleone e Giovanna Oxorio, discendenti da famiglie divise da un segreto che affonda nel passato. Protegge occultamente i due giovani Coriolano della Floresta, capo della setta tenebrosa degli Incappucciati, che nei decenni si è velato dietro false identità. Ma il tema del matrimonio negato è solo il filo che lega le innumerevoli avventure da giustiziere del capo dei Beati Paoli, che movimentano il romanzo avanti e indietro nel tempo. Ed è soprattutto su queste avventure che si concentra l'autore, riunendo l'agilità narrativa e il fervore storico. Luigi Natoli, con perfetta ambientazione di luoghi e grandi eventi, fa correre i suoi personaggi attraverso cinquant'anni, dal 1722 al 1773: epoca di guerre dinastiche e miserie popolari, in cui la Sicilia è il boccone di appetiti potenti. Ma è chiaro che nelle sopraffazioni e nelle rivolte che racconta egli voglia additare anche le miserie presenti dell'isola.
Roma 1944, giugno. La Città eterna è liberata. Si ritirano le truppe della Wehrmacht. Il giovane tenente colonnello dell'Abwehr (il controspionaggio dell'esercito) Martin von Bora si avvia, non senza rimpianto per ciò che lascia, a raggiungere un comando operativo. Lo blocca il suo vecchio generale che gli affida una missione ad altissimo rischio. Si tratta di recuperare dei documenti brucianti, e i risultati dovrà riferirli solo al suo superiore e a nessun altro, a qualunque costo. Mussolini, subito prima di lasciare la prigionia di Campo Imperatore preso in custodia dai tedeschi, ha affidato a un confinato della zona, suo conoscente, una corrispondenza segretissima e compromettente per tutti. Sono delle lettere cui danno la caccia sia gli Inglesi sia il temibile servizio segreto delle SS. Martin deve precederli, pena conseguenze devastanti per l'Italia e distruttive anche per le dissidenze antinaziste interne all'esercito. Nel paesino di Faracruci, sul Gran Sasso, a poca distanza dall'ex prigionia del dittatore, egli rintraccia l'avvocato Borgonovo, un milanese, ex interventista, ex amico del capo del fascismo, poi divenuto influente esponente dell'antifascismo, perciò ristretto in montagna, al confino, da molti anni. Le pressioni crescenti su di lui non lo convincono a cedere il suo tesoro. Entrambi sanno che, qualunque sia l'esito, l'avvocato dovrà essere eliminato, eppure tra Bora e Borgonovo si stringe una sottile comunanza, di ironia, di umanità, di cultura, di onore. A distrarre il destino segnato, si intromette il cadavere di un giovane sconosciuto, trovato una mattina nella piazza del paese. Bora inizia a indagare, mentre le atmosfere e i segreti di un isolato paesino di montagna piombato nella guerra lo avvolgono come nebbia. Intuisce un legame con il suo incarico di intelligence. Con l'ufficiale tedesco, da lontano, senza parere, collabora a svelare il pericoloso enigma l'avvocato milanese. In lui si riflette, per la sua storia e per la sua cultura, quella borghesia italiana che si lasciò trascinare in buonafede per poi ribellarsi. Così come in Bora - soldato d'alta scuola, nobile integralmente europeo e autenticamente tedesco, diviso tra il disprezzo del nazismo e la fedeltà al giuramento - si raffigura l'aristocrazia militare tedesca irretita da Hitler che troppo tardi comprese l'orrore.
"Una quotidianità sventatamente rapinosa, da fiera o luna park, sconcia Vigàta. Il villaggio è diventato il set di una fiction prodotta da una televisione svedese. Per falsare il paesaggio urbano e riportarlo indietro, fino agli anni Cinquanta, i tecnici si sono ispirati ai filmini amatoriali recuperati dalle soffitte. La mascherata cinematografica prevede di coinvolgere persino il commissariato, messo a rischio di subire l'oltraggio di un'insegna che lo dichiara «Salone d'abballo». Un'eccitazione pruriginosa monta attorno alle attrici svedesi e minaccia gli equilibri coniugali. Durante il ricevimento per il gemellaggio tra Vigàta e la baltica Kalmar arriva anche il finger food. Montalbano ribolle d'insofferenza; gli appare «tutto fàvuso». Temperamentoso com'è, cerca luoghi solitari. E tiene testa alla situazione. Dalla polvere di scartoffie dimenticate sono emersi, durante la ricerca delle domestiche pellicole d'epoca, sei filmini datati che, per sei anni di seguito, sempre nello stesso giorno e nello stesso mese, riprendono con ossessione il biancore ottuso di un muro. Montalbano è sfidato a leggere dentro quello spazio vuoto e rituale la trama, il giallo che si dà e si cancella: angosciosamente schivo ed enigmatico; forse intollerabile. Diversamente peritosa è l'altra inchiesta che, attraverso un episodio di bullismo misteriosamente complicato da una incursione armata a scuola, porta Montalbano a misurarsi generosamente (lui non più giovane) con l'intensità sagace e luminosa di adolescenti che socializzano attraverso skype; e, con lo slancio fiducioso di nuovi argonauti, affidano la loro fragile tenerezza all'avventura della rete. Fra argute intemperanze e astuzie varie, Montalbano riafferma le sue qualità rabdomantiche che lo fanno archeologo di trame sepolte e di esistenze nascoste, oltre che sottile e lucido analista di quella «matassa 'ntricata che è l'anima dell'omo in quanto omo». Irritato dalla volgarità geometrica e aggressiva del falso, si prodiga per risolvere due casi delicatissimi collocati in quella plaga morale, labile e sfumata, che non rende mai del tutto colpevoli o del tutto innocenti ed esige indagini riguardose ed emozionalmente partecipi: tra 'protezione' e verità rivelata (ovvero scoperta e di nuovo velata, per non renderla insopportabile o sconvenientemente perniciosa). Non stupisce che Montalbano, in questo grande romanzo dell'introspezione, e del confronto pensoso con il disagio, si dichiari lettore e ammiratore della commedia di Jean Giraudoux, 'La guerra di Troia non si farà'; e citi la battuta con la quale Ulisse si congeda da Ettore, ricordando le rispettive mogli per rendere intimamente credibile la solidarietà data affinché la guerra non ci sia: non è questione di semplice 'noblesse', di generica nobiltà d'animo, dice; e tira fuori la carta segreta: 'Andromaca ha lo stesso battito di ciglia di Penelope'." (Salvatore Silvano Nigro)
Un libraio d'antiquariato nel quartiere di San Lorenzo a Roma che ricorda un vecchio angelo di Frank Capra. Un bibliotecario che soffre di uno strano malessere. Una lettera di Gesualdo Bufalino. E un libro magicamente ritrovato: il primo che Fabio Stassi avrebbe voluto scrivere, ma che ha sempre rimandato. Eppure sul frontespizio c'è il suo nome. Sotto a un titolo misterioso: Angelica e le comete. Vi si narra di una compagnia di marionette in viaggio che se ne va in giro lungo le coste della Sicilia su un carro zeppo di pupi, paladini e saraceni ma anche diavoli, ippogrifi, angeli, cinquanta attori di legno, tutti tenuti a lustro con scimitarre fiammanti ed elmi e pennacchi multicolori. Il padrone è Lo Spagnolo, scontroso ed esigente: conosce tante lingue ma non sa leggere. Lo aiuta Bruciavento, un gigante dal passato burrascoso. Ma la vera attrazione del teatro è una donnina dalle dimensioni di una marionetta, che le comari del suo paese pensavano fosse figlia del diavolo o della Luna. È «la sola Angelica in carne e ossa di tutto il Regno» e anche se il padrone la maltratta a lei basta ballare, mentre tutte le altre marionette la amano. Soprattutto una, un piccolo legno senza voce e senza armatura: Ardesio. Un giorno il carro dello Spagnolo arriva nel paese di Kalamet, proprio al tempo in cui un'altra carovana passa per l'Isola: Garibaldi e i suoi Mille. Questa storia ariostesca di donne cavalieri d'armi e d'amori, di cortesie e audaci imprese, è una favola triste, una pantomima di parole che sanno di infanzia e di tradizione, di malinconia e magia, quella che solo un teatro di marionette come l'opera dei pupi può dare. «In poco tempo, chi assisteva allo spettacolo non si sentì più in uno sconosciuto villaggio del Regno delle Due Sicilie, davanti all'opera dei pupi, ma si credette proprio lì, nei pressi dell'azione, a Roncisvalle, nei panni di un paladino».
"Senza movente, senza indiziati, senza una logica apparente". Questo commento dell'ispettrice Petra Delicado, nel racconto di Alicia Giménez-Bartlett, potrebbe funzionare da presentazione generale di questa antologia. Il delitto di viaggio è un classico della letteratura poliziesca, che ha sempre sfidato l'inventiva degli scrittori. Senza un luogo stabile e ripetute abitudini, fuori da strade e case conosciute, lontano da vicini invadenti, l'investigatore deve sfoderare tutta la sua astratta capacità razionale e la più pura intuizione per trovare il filo della matassa. Però, la novità è che oggi viaggiano tutti, il viaggio è di massa e quotidiano, non ci sono solo Orient Express e giri alle Piramidi in cui annidare degli eleganti misteri. Gli enigmi dell'indagine sono complicati, movimentati, resi anche più ironici, dall'estrema varietà capricciosa delle nostre offerte turistiche. E questa raccolta ne copre le più diverse tipologie. Ci sono crociere a prezzo stracciato, come quella in cui sono implicati i vecchietti del BarLume di Marco Malvaldi. Pullman di studenti pendolari in cui ritrovare cadaveri a pezzi, com'è il caso raccontato da Alicia Giménez-Bartlett. Gite in una Brianza sorprendentemente appartata, dove si avventurano i detective per caso di Alessandro Robecchi. Per seguire l'ultimo mistero della Casa di Ringhiera, Francesco Recami destina il piccolo Enrico al più avventuroso dei viaggi. Gaetano Savatteri trasferisce il suo "disoccupato di successo" da San Vito Lo Capo alla Praga d'oro, dentro un intrigo internazionale post Cary Grant. L'inspiegabile rapina da camera chiusa nel Frecciarossa su cui sale il Rocco Schiavone di Antonio Manzini, forse è quello che più si avvicina al classico. Così il viaggio, in questa nuova antologia di racconti, non è più la cornice che adorna di esotismo gli intrecci ma diventa la nuova situazione in cui impegnare i detective contemporanei creati da alcune delle più apprezzate penne del poliziesco.
Giovanni Bovara, nato in Sicilia, ma trasferitosi a soli tre mesi d'età a Genova, viene mandato nell'isola come ispettore ai mulini, dopo che i due che l'hanno preceduto sono morti ammazzati. A Vigàta rimane invischiato nei potentati locali, dal prete ai politici, agli uomini d'onore a infidi azzeccagarbugli che gli mandano messaggi in codice che Bovara, integerrimo funzionario, non può capire. Va dritto per la sua strada, che è quella della legge, e ragiona in dialetto genovese, ma è proprio questo che gli impedisce di cogliere la rete che lo va stritolando...
Natale, quanti modi ci sono per declinare questa parola? Presepe, albero, stella, auguri, vacanza, bianco, babbo, famiglia, messa, cena... Sette scrittori si misurano in questa antologia con il tema del Natale. Liberi di sviluppare una narrazione sul tema che da duemila anni in qua è vissuto a tutte le latitudini, si sono sbizzarriti. E non si tratta certo di storie scontate o necessariamente di buoni sentimenti. La letteratura è piena di storie natalizie, non c'è autore classico che non abbia provato a raccontare a suo modo questa festa cristiana e pagana insieme. Questa volta l'antologia di fine anno non si tinge di giallo; gli autori tradizionalmente impegnati nelle raccolte a tema abbandonano investigatori e delitti per dedicarsi a storie di Natale, e insieme ad altri autori fanno ai lettori un regalo davvero speciale. Non è detto che il 25 dicembre si diventi più buoni, né che si accendano le luci dell'albero, in questa antologia ci sono racconti di ogni tipo: favole natalizie, storie malinconiche e di solitudine, ma anche di amicizia e di allegria, di regali mancati e di interni familiari...
Anno domini 1323, Abbazia di Pomposa. All’alba irrompono due cavalieri, Ludovico di Soissons e Bernardo da Caen, alla ricerca di un manoscritto con gli ultimi canti della Commedia di Dante che sono finiti in maniera rocambolesca nelle mani di un monaco. Ma nel convento scoppia un incendio e il prezioso manoscritto brucia tra le fiamme, ad eccezione degli ultimi due fogli. Questo è solo il prologo del romanzo di Coletta che in realtà si svolge tutto ai giorni nostri. Siamo a Parigi dove un poliziotto italiano, Domenicucci, collabora con il collega francese Pujol all’indagine su un delitto al Marais. E’ stata assassinata Clothilde, una ricca collezionista di opere d’arte, e sono stati rubati due capolavori, un Picasso e un Giorgione. La situazione si presenta subito anomala; nel caveau della casa ci sono opere di immenso valore e troppo famose per essere finite nelle mani di un privato. Come ha fatto Clothilde ad entrarne in possesso? E che fine ha fatto il suo amante italiano che sembra si sia volatilizzato? Intorno alla donna si muovono poi altri inquietanti personaggi, l’avvocato che l’assisteva in tutte le attività finanziarie, e il maggiordomo tuttofare che sembra sapere più di quel che ammette. Domenicucci e Pujol lavorano in perfetta sintonia e per cercare di giungere all’autore del delitto risalgono ai precedenti proprietari dei quadri rubati; finiscono così in Piccardia nel castello di Soissons dove il Giorgione era stato acquistato. E qui alcuni indizi ci riportano alla storia del manoscritto di Dante...
"La cronaca contorta e pazza di Vigàta è uno spinaio di furfanterie, sgangheratezze, deliramenti, e intrichi d'amore: un intreccio di balordaggini pubbliche e di magnifiche stolidezze private. Nel villaggio, l'innocenza è spesso un candore temerario, un'allucinazione; e l'onestà è il capolavoro di falsari della morale e del buonsenso caritativo. Lo stesso crimine è un refuso dell'intelligenza, una morbida beffa. E la tristezza nuda di un cimitero si presta agli esercizi di un petrarchismo peloso versato nel corteggiamento di una Lauretta in abiti vedovili e alla resa dei conti tra parenti. Il camposanto diventa una gremita e agitata piazza d'armi e d'amori. Ci si mette anche il caso, che porta a rovescio ciò che si vorrebbe fosse il dritto. Le apparenze ingannano. E la realtà contempla situazioni che proliferano. Gli amori clandestini fanno sì che si formino collezioni di famiglie. La strampalatezza eccitabile è una corrente elettrica incontrollata: accende reazioni a catena, contagi come da 'epidemia'; assurdità ossimoriche del tipo: 'Un morto si reca all'obitorio ma cade strada facendo'. Un dono di natura è capace di distorcere un'intera vita, e trasformare l'eletto in una 'macchina' digerente, priva di 'cuore', di 'cervello', di funzioni sessuali. L'arco cronologico è lungo. Va dal 1862 al 1950, dopo avere attraversato l'aria viziata di stupidità e dissennatezza del ventennio nero." (Salvatore Silvano Nigro)
Vengono raccolti in questo volume sei racconti che sono stati scritti per le diverse antologie "in giallo" pubblicate da questa casa editrice. I protagonisti dei sei casi del BarLume sono loro: Nonno Ampelio, Aldo, Pilade e il Rimediotti, insieme, s'intende, al barrista Massimo e al commissario Alice Martelli. Trame varie e vivaci in cui fa capolino la chimica, primo amore di Malvaldi. Nessun luogo come un bar è più adatto a osservare la gente, per ascoltare e capire. E così tra una briscola in cinque e un tressette i 4 "soprammobili che consumano aria e patatine" all'ora dell'aperitivo, ragionano e si accapigliano quando si tratta di indagare su un caso, e loro, di casi non se li fanno mancare mai. Instancabili fabbricatori di ipotesi e pettegolezzi, croce di Massimo e della Polizia, delizia dei lettori, i quattro con questi casi da risolvere trovano pane per le loro dentiere. Li chiamano Movimento Quattro Vecchietti, CIA, Combriccola Investigatori Anziani, Quartetto Uretra, ma sono arzilli e svegli come mai quando hanno a che fare con delitti, furti, indagini. I sei racconti: "L'esperienza fa la differenza", "Il Capodanno del cinghiale", "Azione e reazione", "La tombola dei troiai", "Costumi da tutto il mondo", "Aria di montagna".
Una storia d'amore: ma anche il resoconto di quanto tale sentimento possa condurre alla distruzione di sé. Il racconto di una passione assoluta, forse troppo grande per tempi così precari, di cinismo e paura: ma che restituisce ad essa tutta la sua dignità, il suo pudore, e insieme il suo peso tragico. Due vecchi amici si incontrano per caso nel bar che era stato un tempo il covo della loro tribù urbana. Si erano persi di vista e uno dei due, il protagonista, comincia a raccontare all'altro: che prima resta interlocutorio, poi stizzito, e infine folgorato dall'impeto inattuale della storia. Alessio, sul finire dei vent'anni, un lavoro normale, originario di una famiglia delle montagne lombarde con un padre autoritario e un fratello sbandato, trombettista in una piccola jazz band, coltiva una mediocrità esistenziale: un "dolceamaro contentarsi", lo chiama. Martina invece è magra e dal corpo agile e nervoso; viene da una famiglia di professionisti meridionali, non dice molto di se stessa, e i suoi gusti sono spesso poco originali. Due ragazzi qualunque: ma da questo "qualunque" si genera di colpo una strana forza tempestosa, una divina mania. Un fuoco breve che esplode per le strade di Milano - evocata limpidamente, quartiere dopo quartiere - e si consuma al suono di una musica febbrile. Fino a quando, così com'era venuto l'amore se ne va all'improvviso...
Saverio Lamanna è un giornalista disilluso, passato alla comunicazione politica. Si trova a suo agio nella Roma dei flirt occasionali e dei locali alla moda, nell'abito elegante del quarantenne disimpegnato. Ma un inciampo professionale fa crollare il suo castello di carte. Licenziato dal sottosegretario di cui era il portavoce, è costretto a tornare nella sua Sicilia e a rifugiarsi nella villetta di famiglia sul mare di Màkari. In questo approdo provvisorio, Lamanna ritrova Peppe Piccionello, esemplare locale in mutande e infradito, carico di una saggezza pratica e antica. E nel paradiso sul mare trapanese conosce Suleima, una ragazza che potrebbe farlo perfino felice. Nato e cresciuto in quattro racconti inclusi in altrettante raccolte di questa casa editrice, Lamanna ha la battuta pronta, idiosincrasia ai luoghi comuni e soprattutto ai pregiudizi, perfino quelli positivi, che ruotano attorno ai siciliani. Per campare si inventa piccoli mestieri, decide addirittura di farsi scrittore di gialli. La minuta celebrità locale gli procura qualche lavoretto atipico. Una ricca signora lo assolda per tenere d'occhio la sorella minore, dietro il paravento di ufficio stampa di una produzione cinematografica. Così Saverio Lamanna, con l'improbabile spalla Piccionello, fa irruzione alla Mostra del Cinema di Venezia: entrambi si muovono con disinvoltura tra star americane, registi famosi e tappeti rossi.
Pubblicato a puntate sul "Giornale di Sicilia" tra il maggio del 1909 e il gennaio del 1910, I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano innalzava a epopea letteraria un'antica leggenda del popolo siciliano. Ma Luigi Natoli faceva qualcosa di più che scrivere, da una favola popolare, le puntate straordinariamente avvincenti e misteriose, capaci di inchiodare nelle portinerie il popolo attorno a chi era in grado di leggere e che "quasi con prepotenza salivano negli appartamenti della borghesia siciliana". Di fatto creava il mito compatto di una società segreta a protezione degli oppressi: la setta tenebrosa dei Beati Paoli e il loro tribunale implacabile, entrava nelle dicerie e nelle fantasticherie popolari come verità storica indiscussa e nostalgia segreta di riscatto. Un successo enorme, dovuto sì all'aderenza ad un sentire popolare, ma anche all'arte di avvolgerlo in un intrico fittissimo di vicissitudini private derivanti da segreti inconfessabili, da odi di famiglia o di società; di imprese coraggiose e cospirazioni vili; di sentimenti e passioni invincibili; di personaggi tragici nel bene e nel male. Raccontati in un linguaggio sensibile a tutti i vari ritmi e le tensioni della trama, e soprattutto così ricco e moderno da spiegare come mai la tenuta ne sia straordinariamente duratura, rispetto alle opere del genere.
"Lo sai cosa lasciamo di noi? Una matassa ingarbugliata di capelli bianchi da spazzare via da un appartamento vuoto". Rocco Schiavone è il solito scorbutico, maleducato, sgualcito sbirro che abbiamo conosciuto nei precedenti romanzi che raccontano le sue indagini. Ma in questo è anche, a modo suo, felice. E infatti qui siamo alcuni anni prima, quando la moglie Marina non è ancora diventata il fantasma del rimorso di Rocco: è viva, impegnata nel lavoro e con gli amici, e capace di coinvolgerlo in tutti gli aspetti dell'esistenza. Prima di cadere uccisa. E qui siamo quando tutto è cominciato. Nel luglio del 2007 Roma è flagellata da acquazzoni tropicali e proprio nei giorni in cui Marina se ne è andata di casa perché ha scoperto i "conti sporchi" di Rocco, al vicequestore capita un caso di bravi ragazzi. Giovanni Ferri, figlio ventenne di un giornalista, ottimo studente di giurisprudenza, è trovato in una cava di marmo, pestato e poi accoltellato. Schiavone comincia a indagare nella vita ordinata e ordinaria dell'assassinato. Giorni dopo il corpo senza vita di un amico di Giovanni è scoperto, in una coincidenza raccapricciante, per strada. Matteo Livolsi, questo il suo nome, è stato finito anche lui in modo violento ma stavolta una strana circostanza consente di agganciarci una pista: non c'è sangue sul cadavere. Adesso, l'animale da fiuto che c'è dentro Rocco Schiavone può mettersi, con la spregiudicatezza e la sete di giustizia di sempre, sulle tracce "del figlio di puttana"...
Flavia de Luce fa un'orrida scoperta. Nell'orto dei cetrioli, proprio sotto la finestra della sua camera da letto, in mezzo agli attrezzi disordinati del bravo Dogger, il giardiniere autista tuttofare, inciampa in piena notte in un corpo semisepolto; esalando l'ultimo respiro, l'uomo sussurra una strana parola: "Vale!". Poco prima, dietro la porta di una delle infinite stanze di Buckshaw, il castello di famiglia, aveva sentito parole inquietanti pronunciate in una conversazione del padre con uno sconosciuto: "Twining? Il vecchio Tazza? E morto da trent'anni...". "E lo abbiamo ucciso noi". E ancora prima sulla soglia della cucina, il padre era quasi svenuto di fronte al freddo corpicino di un uccellino con un francobollo infilzato nel becco. Segnali, premonizioni che stuzzicano la curiosità dell'undicenne Flavia, temeraria detective. Lei, come il segreto modello Sherlock Holmes, sa usare la chimica da esperta per i suoi misteri, che la spingono in moto perpetuo per campagne e stradine di Bishop's Lacey, di cui i de Luce sono i signori decaduti. Sempre in lotta con le dispettose sorelle maggiori, Daffy e Feely, con loro condivide il vetusto maniero, insieme all'altrettanto annosa servitù, tutt'e tre orfane di una dama avventurosa e rimasta presente nel ricordo e non solo. Chi era Twining? E chi è quel tipo con cui papà ha urlato? Che significa quel francobollo infilzato nel becco ? E come si lega tutto questo all'infausta tragedia, trent'anni prima, nel college?
Amedeo Consonni, il tappezziere pensionato protagonista di avventure rocambolesche e di investigazioni paradossali, è morto. Non di morte naturale, però. Ma come si è arrivati a quell'esito fatale? Occorre tornare un po' indietro. Angela, la professoressa Mattioli vicina di casa e matura fidanzata del tappezziere, ufficialmente è andata a Bruxelles dalla figlia, ma è via anche per certi affari misteriosi. Un po' immalinconito, Amedeo si trova ad affrontare la solitudine e prende una di quelle sbandate senili per una giovane barista, una bella ragazza dell'Est, che sembra in cerca di un padre o non è insensibile verso chi la tratta con antica cavalleria. Consonni si strugge d'amore. Intanto la vita della Casa di ringhiera procede nella micro malignità di tutti i giorni: il vecchio De Angelis tende le sue trappole al cagnetto che gli lorda la BMW e al suo padrone, l'ex alcolizzato e detossificato Claudio subisce le angherie della finta invalida signorina Mattei-Ferri, Donatella è incalzata da un corteggiatore, i peruviani del secondo piano diffondono chiasso festaiolo. Tutto come al solito. Questo piccolo teatro della crudele normalità è scombussolato dall'irrompere di due intrecci criminosi. La passione trascina Consonni in una storia infame di sfruttamento e traffici schiavistici di giovani donne, mentre un cospicuo panetto di droga, nascosto da due spacciatori di via Padova, viene scoperto da alcuni inquilini della ringhiera...
"Una pagina tira l'altra. Eppure la lettura non può che scorrere con lentezza. C'è troppo dolore, c'è troppa disperazione, nel paesaggio di realtà che si va ad attraversare. Il mare è diventato una enorme fossa comune, il teatro acquatile di una immane tragedia di naufraghi: il quadrante acheronteo di violenze, lo specchio deforme attraversato dai fantasmi di quanti hanno sperato nella salvezza della fuga, sebbene pagata con la spoliazione e con gli abusi, con l'urlo raggelato delle madri e il pianto muto dei bambini che non sanno come decifrare l'orrore che si è disegnato nei loro occhi. Con quanta velocità è concesso di leggere la lentezza della sacra rappresentazione dell'esodo di una umanità straziata, tradita dalla storia e offesa dalle politiche del sospetto e dell'egoismo? A Vigàta, Montalbano è impegnato nella gestione degli sbarchi, nei soccorsi ai migranti, nello smascheramento degli scafisti. Ha la collaborazione del commissariato, di vari volontari, e di due traduttori di madrelingua. Si prodigano tutti. Si sacrificano, tra tenacia e spossatezza. Catarella si intenerisce, si infervora, e mette a disposizione delle operazioni caritatevoli la sua innocente quanto fragorosa rusticità. Il lettore procede, compunto, con il passo del pellegrino. E non si accorge che dietro le pagine si sta armando un romanzo perfettamente misterioso. Persino Montalbano viene colto di sorpresa. L'arrivo felpato del delitto gli dà il soprassalto..." (Salvatore Silvano Nigro)
"Non c'è nessuna coerenza nelle nostre vite" pensa il protagonista di questo romanzo. "Ci siamo solo noi, che la reclamiamo. A creare l'universo non può che essere stato uno scrittore fallito". Ma se è così che stanno le cose, può un essere umano vivere la propria vita come se scrivesse un racconto che qualcuno deve leggere? Vince Corso è un professore precario, non più giovanissimo. È nato dalla relazione fugace della madre, che lavorava in un hotel a Nizza, con un viaggiatore e, ogni volta che ne sente il bisogno, Vince manda una cartolina al padre sconosciuto all'indirizzo dell'albergo. L'unico ricordo che ha di quell'uomo sono tre libri lasciati nella stanza come un'eredità che gli ha segnato l'esistenza: Vince ora è un'anima di letterato che ha letto forse troppo, convinto che la scrittura sia una strana menzogna capace di manipolare la vita, perché, come dice Celine, "se si immerge un bastone in un lago per vederlo intero bisogna spezzarlo" e per lui i romanzi sono quel lago. Per sbarcare il lunario, si inventa una professione, la biblioterapia. Qualcuno gli parla del proprio male, nello spirito o nel corpo, drammatico o ridicolo, e Vince gli consiglia un libro come medicina. Da principio lo fa con timidezza ma, poco a poco, si conquista una clientela, fatta di sole donne. E intanto lo prende un'intrigante curiosità per l'enigma del rapporto fatale tra la letteratura e la vita. E quando scopre che la vicina è scomparsa... comincia a studiarla attraverso i libri...
"Un lavoro d'indagine vero, sul campo, è molto più simile alla battaglia navale. All'inizio spari alla cieca, e non cogli niente, ma è fondamentale che tu ti ricordi dove hai sparato, perché anche il fatto che lì tu non abbia trovato nulla è una informazione". Non lontano dalla casa di Nonno Ampelio, uno dei quattro vecchietti investigatori del BarLume, ci sono i Sassi Amari, il litorale di Pineta. Abbandonato lì, viene trovato il cadavere di una bella ragazza con un particolare tatuaggio. Lei viene presto identificata, dal figlio dell'anziana presso cui lavorava, come la badante ucraina della madre. Le colleghe connazionali si affrettano ad accusare il marito della ragazza, un balordo che la tormentava. E il caso sembra avviato a una veloce conclusione. Tra i Vecchietti serpeggia la delusione. Visto anche che l'indagine è affidata a un altro commissariato, e non all'amica vicequestore, la fidanzata di Massimo il Barrista. Ma è l'ostinazione senile che fornisce alla Squadra Investigativa del BarLume l'intuizione decisiva. E grazie anche all'intermediazione di un altro squinternato, il compagno Mastrapasqua che delle ucraine conosce usi e costumi, il vicequestore Alice Martelli può raddrizzare un'inchiesta cominciata con il piede sbagliato.
"L'attentato" non è un romanzo sul terrorismo, per quanto ne sia pervaso dall'inizio alla fine: non è sulle circostanze ideologiche o storiche di esso; sulla giustizia o il torto di una causa, benché alcune pagine incancellabili pongano il lettore nel mezzo della tragedia palestinese. È un romanzo, lucido e lacerante, sulla paranoia che il terrorismo genera quando diventa orrore quotidiano; quando non è esterno ed estraneo, ma si pone come alternativa esistenziale con cui ciascuno deve, nessuno escluso, fare i conti. Amin Jaafari è un chirurgo di Tel Aviv, figlio di beduini naturalizzato israeliano, ottimamente integrato nel successo di una carriera costruita per mezzo del "sedurre e rassicurare", in cui "ogni successo era un'offesa al loro rango". Un attentato di kamikaze vicino al suo ospedale conduce alle sue cure feriti su feriti e arrivano, insieme ad essi, gli agenti dei servizi segreti che arrestano Amin e cominciano a interrogarlo per giorni. Sihem, la bella, intelligente, ammirata moglie di Amin è tra le vittime ma porta sui resti i segni di essere lei l'attentatrice. Pressioni degli investigatori e intimidazioni della gente non convincono il medico. Liberato, giorni dopo, scopre a casa la prova dell'incredibile: è lei l'attentatrice. Così inizia un'indagine personale: "voglio sapere chi ha indottrinato mia moglie, l'ha bardata di esplosivo" ma soprattutto perché "non sono stato capace di farle preferire la vita". Già pubblicato con il titolo "L'attentatrice".
Un concessionario di macchine di lusso freddato nel suo salone. Una escort "morta male", torturata fino alla fine, nel suo studio del centro cittadino più opulento. Un "morto" che viene a riprendersi un tesoro. Una donna che sembra vissuta più volte. Un passato cattivo che ritorna e lascia misteriosi indizi sulla pista. E in esso la polizia cerca risposte a domande che appaiono impossibili. Mentre un vento insopportabile stranamente inquieta l'inverno delle strade. Stavolta Carlo Monterossi, il detective per caso della nuova Milano nera vividamente dipinta da Alessandro Robecchi, è un detective per rabbia. Lo tormenta un senso di responsabilità, benché involontaria, nel delitto; ma soprattutto, con Anna - così si chiamava la bella di via Borgonuovo - aveva vissuto un momento di sincerità totale, di quelli che chiariscono l'anima al pari di un'amicizia duratura. Il suo debito di verità e giustizia, per una volta, si incontra con un paio di poliziotti che condividono la stessa tenerezza verso una vittima che sporge sulla coscienza come fantasma gentile: "Se troviamo chi ti ha fatto male te ne vai, vero, signorina?". E verrà alla luce qualcosa che stride brutalmente con la vita da autore di reality televisivi che dà a Carlo fama e soldi.
Questo romanzo è un mistery, sono inventati il crimine che scatena la vicenda, la trama, e la soluzione finale, e sono fittizi i protagonisti; ma è pure un pezzo importante di memoria, come forse sarebbe difficile riportare con la stessa evidenza in un saggio di storia. La memoria di cosa fu un grande partito, di come funzionava la mente di dirigenti e militanti, di come si muoveva l'invisibile macchina del potere e del contropotere in una grande metropoli negli anni fine Settanta, poco prima che l'omicidio Moro scompigliasse la storia d'Italia. Milano, autunno 1977, zona Sempione. Una sventagliata di mitra ha ucciso una giovane fioraia. Accanto al corpo, nel chiosco di via Procaccini, una copia dell'"Unità", perché Bruna Calchi, la vittima, era un'iscritta al Pci, dirigente della sezione e del circolo Arci, dove si occupava di teatro e di diritti gay; bella ragazza, molto conosciuta anche per la sua spigliata esuberanza. L'inchiesta poliziesca parte con tutta la prudenza del caso delicato, affidata a un giovane funzionario, moderno e progressista ma capace di stare al mondo; e subito incorre in un primo mistero: l'arma del crimine, una Maschinenpistole, i famosi Mp 40 in uso alla Wehrmacht, riemersa chissà come dalla Seconda guerra mondiale. Contemporaneamente, "per evitare eventuali provocazioni e trappole", muove la controinchiesta del Pci. Se ne occupa il vecchio Peppe Dondi con il suo vice ingegner Cavenaghi...
Questo volume riunisce i racconti pubblicati in diverse antologie di questa casa editrice, a partire da "Capodanno in giallo". Raccolti assieme, permettono di ricostruire quello che può chiamarsi l'antefatto del vicequestore Rocco Schiavone. Un poliziotto tutt'altro che buonista, piuttosto eccentrico nei panni del nemico del crimine. Di mattina, per darsi lo slancio si accende uno spinello; quando capita, non disdegna qualche affaruccio con la refurtiva di un colpo sventato; è rozzo con tutti, brutale con i cattivi, impaziente con le donne. Ciononostante chi legge le sue avventure lo vorrebbe amico. Per punizione, i comandi lo trasferiranno in mezzo alla neve di Aosta, dove sono ambientati i romanzi che gli hanno dato tanta notorietà. Intanto, nelle storie di questo volume, lo incontriamo prima del forzato trasloco. Sa che sta per dire addio alla città amata, ma non sa quale sia il suo destino. In questa incertezza, il passato lo stringe da ogni parte scolpendo il suo pessimismo, nutrendo la sua malinconia. Percorre Roma, luoghi familiari, vecchie conoscenze, mentre nel suo modo sfaticato intuisce soluzioni impensate agli enigmi criminali. E questi hanno sempre sfondi di oscura umanità. Tanto che i suoi difetti appaiono l'altra faccia, necessariamente antiretorica, della medaglia della viva pietà per i derelitti e del grande dolore che una volta gli ha straziato il cuore. Insomma, sembra una specie di angelo caduto.
La corrispondenza racconta di una studentessa universitaria che nel tempo libero fa la controfigura per la televisione e il cinema. La sua specialità sono le scene d'azione ed è abilissima nelle situazioni pericolose che, sullo schermo, si concludono fatalmente con la morte del suo doppio. Sembrerebbe una mania dettata dalla passione per il rischio, in realtà è l'ossessione in cui la ragazza s'illude di sublimare un orribile senso di colpa. Quello di ritenersi responsabile della tragica scomparsa del suo grande amore. Una ferita mai rimarginata, un conto sospeso, un'ombra che nessuna luce saprà mai dissolvere. Sarà il suo professore di astrofisica ad aiutarla nel ritrovare l'equilibrio esistenziale perduto. Il loro sarà soprattutto un rapporto epistolare tutto veicolato dalla rete, fatto di messaggi e posta elettronica, dove i confini tra virtuale e reale si fanno evanescenti, ambigui.
"Era come se a un drammaturgo inesperto fosse stata affidata una trama che prevedeva un omicidio, e quello si fosse buttato a scrivere pagine e pagine di dialoghi inappropriati, fuorvianti e a tratti contraddittori". Capita per le mani dell'ispettore capo Morse, costretto in ospedale, un libretto "Assassinio sul canale di Oxford". È una memoria, la minuziosa microstoria di un delitto avvenuto nel 1859, ricerca di una vita dell'anziano colonnello del letto vicino appena spirato che lo ha lasciato al poliziotto come ricordo. Morse legge e, dalla prosa ordinata del colonnello, apprende con ricchezza di particolari dello stupro e annegamento di Joanna Franks, un'avvenente signora in viaggio da sola lungo il canale, passeggera di una chiatta da trasporto di alcolici. L'incubo di una donna per giorni in mano a degli ubriaconi che ai tempi aveva impressionato l'opinione pubblica. Incolpati del delitto furono i tre barcaioli, due dei quali giustiziati e uno deportato dopo due accurati processi. Ma ci sono discrepanze, strani vuoti e sproporzioni che allertano i sensi annoiati dell'ispettore, che non può evitare di applicare la sua mente enigmistica a costruire trame alternative. Aiutato in questo dalle ricerche sul campo del fido agente Lewis e della affascinante bibliotecaria Christine. La soluzione finale è sorprendente e ineccepibile.
C'è un drago al Corviale, il quartiere della periferia di Roma detto dagli abitanti "il Serpentone", un vero lucertolone, grande un intero appartamento, che terrorizza tutti. Con questa fiaba di Antonio Manzini si apre l'arazzo con cui sei scrittori raffigurano Roma. Racconti che si possono leggere anche seguendo la traccia fiabesca. La Stazione Termini, secondo Fabio Stassi, diventa un luogo magico e reale, che incanta "l'eterno andare solitario per il mondo". A Trastevere, racconta Chiara Valerio, scende un marziano che agisce in base al passato come noi facciamo in prospettiva del futuro, e vede oltre la luce visibile agli umani: si insinuerà misterioso nella vita di una ragazza. Giordano Tedoldi immagina un amore adolescente tra Monteverde Vecchio e il Vaticano, che esce dalle vecchie mura di un liceo clericale e si immerge nella libertà del colonnato del Bernini. Nel racconto di Gianni Di Gregorio, è lo squallore della periferia che diventa un balcone da cui osservare il globo: Roma caput mundi di tre "poracci" d'oggi che progettano una vita alla grande in un paradiso per pensionati miseri. Quella inventata da Giosuè Calaciura è un'avventura di barbari: una banda di ladri ragazzini si tira dietro un bambino "per bene" che sta diventando cieco, il quale per un giorno vede con i loro occhi una specie di città tardoimperiale, preda molle e meraviglia.
Ernesto Ragazzoni avrebbe voluto che sulla propria tomba fosse scritto: "D'essere stato vivo non gli importa". Poeta dei buchi nella sabbia e delle "pagine invisibilissime", dell'arte giullaresca realizzata nella vita fuori dal testo, è in un certo senso il testimone di questo "dramma giocoso in tre atti". Come grottesco contrappasso, accanto a lui, bohémien anarchicheggiante e antimilitarista, agirà come in duetto un rigido ufficiale dei regi carabinieri. Siamo nel 1901, tempo di attentati (il re Umberto è stato appena ucciso), e a Pisa, terra di anarchia. Al Teatro Nuovo si aspetta il nuovo re, per una rappresentazione della Tasca di Giacomo Puccini. Le autorità sono in ansia: il tenore della compagnia "Arcadia Nomade", i cavatori di marmo carrarini convocati per alcuni lavori, gli stessi tecnici de teatro, sono tutti internazionalisti e quindi sospetti. E nell'ottusa paranoia dei tutori dell'ordine, perfino il compositore, il grande Puccini, è da temere tra i sovversivi. A scombinare ancor di più le carte è l'intervento di quello stravagante di Ragazzoni, redattore del giornale "La Stampa". Fatalmente l'omicidio avviene, proprio sul palcoscenico al culmine del melodramma, e non resta che scoprire se sia un complotto reazionario o un atto dimostrativo di rivoluzionari. O un banale assassinio...
Una corrispondenza durata 26 anni tra un ergastolano e il suo giudice. Nemmeno tra due amanti, ammette l'autore, è pensabile uno scambio di lettere così lungo. Questo non è un romanzo di invenzione, ma una storia vera. Nel 1985 a Torino si celebra un maxi processo alla mafia catanese; il processo dura quasi due anni, tra i condannati all'ergastolo Salvatore, uno dei capi a dispetto dei suoi 28 anni, con il quale il presidente della Corte d'Assise ha stabilito un rapporto di reciproco rispetto e quasi - la parola non sembri inappropriata - di fiducia. Il giorno dopo la sentenza il giudice gli scrive d'impulso e gli manda un libro. Ripensa a quei due anni, risente la voce di Salvatore che gli ricorda, "se io nascevo dove è nato suo figlio adesso era lui nella gabbia". Non è pentimento per la condanna inflitta, né solidarietà, ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. La legge è stata applicata, ma questo non impedisce al giudice di interrogarsi sul senso della pena. E non astrattamente, ma nel colloquio continuo con un condannato. Ventisei anni trascorsi da Salvatore tra la voglia di emanciparsi attraverso lo studio, i corsi, il lavoro in carcere e momenti di sconforto, soprattutto quando le nuove norme rendono il carcere durissimo con il regime del 41 bis. La corrispondenza continua, con cadenza regolare caro presidente, caro Salvatore. Il giudice nel frattempo è stato eletto al CSM, è diventato senatore, è andato in pensione...
"Letti, divani, e giacigli, sono ospitali a Vigàta. E contemplano ingorghi e soprassalti. La prodigalità è un ardore di istintiva e disfrenata voluttà. Si dipana come una corrente vitale a due fuochi: la passione gagliarda, che non si tiene ai limiti del ritegno; e la missione soccorrevole, da crocerossine che, per la società e la patria, e per il proprio piacere, esercitano le opere di bene come un darsi generoso secondo le esigenze ghiotte dell''appetito' da soddisfare, del 'boccone' prelibato, del 'ristoro', e finanche del fervoroso 'spolpamento'. A Vigàta si acclimatano divinità pagane, santi, e creature circensi: una Venere di lago e un Apollo dormiente; uno splendore di ragazza, incline alle estasi, la quale, mentre dintorno preme il mistero del trascendente, corrompe e si corrompe con i propri aromi di purezza e la sua voglia di santità, compiacendosi dei sogni lascivi, illusoriamente tattili, che tra uno spandersi di afrori di peccato mettono in comunicazione notturna il letto suo e quello del proprio confessore; le quattro svedesi equilibriste, le vichinghe volanti che, avvenenti e fascinose, montano le loro roboanti motociclette come cavallerizze da circo. Un'astuta e insolente provvidenza narrativa si prende gioco delle aspettative: imbroglia, sbroglia, imprevedibile alla fine; sbrigliata com'è, nel dare scacco matto. Un cacciatore sbadato non sa di essere cacciato da un cacciatore per diletto. Uno sgambetto è inevitabile..." (Salvatore Silvano Nigro )
Lo sbarco di Anzio è da poco avvenuto e le truppe tedesche occupanti sentono la morsa degli Alleati. Si intensificano le azioni dei patrioti. Sono i giorni lugubri delle Fosse Ardeatine. L'infernale 1944. Martin Bora, giovane maggiore dei servizi segreti della Wehrmacht è venuto in missione a Roma. "Caput mundi", la tenera città che gli era familiare da giovanissimo aristocratico, è ora una fosca città aperta, "sotto assedio dall'interno". Nel suo animo e nel suo corpo la guerra ha inciso a sangue. Ha perso la mano sinistra in un'azione dei partigiani; il fratello, compagno di un'infanzia dorata, è caduto con il suo aereo in Russia; Dikta, la bella moglie altera, è lontana. In quest'atmosfera, una giovane segretaria dell'ambasciata tedesca s'è sfracellata al suolo dalla finestra di casa sua, al quarto piano. Potrebbe passare per un suicidio o per un incidente, se non fosse che le chiavi dell'appartamento chiuso non si trovano dentro casa. Inoltre, il delitto offrirebbe certe occasioni alla polizia italiana. Nell'inchiesta che inizia, mentre si occupa di più importanti affari di intelligence, Bora ha al fianco l'ispettore Sandro Guidi che il questore capo ha chiamato per chiudere in fretta il caso. Ma al contrario le indagini proseguono. Altri delitti coinvolgono capi nazisti, cardinali, gerarchi italiani, salotti altolocati. Bora, e accanto a lui Guidi con cui s'è rafforzata una amicizia piena di discrezione, procedono sull'orlo dell'abisso...
Kati Hirschel, stambuliota di origini in parte tedesche, ha una libreria specializzata in giallistica. È questa familiarità con l'aspetto romantico del delitto che la predispone al fascino del mistero, e la rende abbastanza spregiudicata da non disprezzare alcuna fonte di informazione. Così, quando la veggente che è andata a consultare insieme all'amico Fofo, ha visto nei fondi del caffè il cadavere di una giovane donna, è entrata in allarme. I fatti però, non obbediscono sempre alle visioni: la vittima non sarà quella da Kati attesa e del resto non ci sarà un vero e proprio cadavere. Semplicemente Nil, l'amica della sua collega, ha avuto un arresto cardiaco. Ma tanto basta all'irrefrenabile investigatrice per correre le strade di Istanbul in cerca di indizi. Infatti presto, come una profezia che si autodetermina, le stranezze cominciano a piovere, tanto da spingere Hakan, il fratello della vittima, a darle un completo incarico da detective. Innanzitutto il tenore di vita di Nil appare troppo sostenuto per una giornalista disoccupata: perfino un quadro Julian Opie nel lussuoso appartamento. Poi, si scopre che Nil stava scrivendo una specie di romanzo sui desaparecidos argentini, paragonandoli alle vittime (greci, curdi) del perenne autoritarismo turco, il cosiddetto "stato profondo". Ce n'è abbastanza per mettere in moto una personalità indagatrice col dono di inverare le complicazioni che poi risolverà.
Sei inchieste vecchia maniera, senza risparmio per le suole delle scarpe; frugando nei barrio di Barcellona; mimetizzandosi negli ambienti cittadini luccicanti o miserabili; entrando nella discrezione delle case e nei segreti dei caratteri che le abitano. Protagonisti assoluti Petra Delicado, dura e femminista ispettrice della polizia di Barcellona, e Fermín Garzón il suo vice panciuto e tradizionalista. Petra e Fermín, antitetici in tutto e appassionatamente amici, sembrano impersonare i due volti della Spagna eterna. Ragion per cui, battibeccano su tutto, sulle inchieste in corso ma anche e soprattutto sul mondo intero. Inscenando una commedia dentro il poliziesco, un divertimento nella aspreza del noir, che ha fatto della lo creatrice, Alicia Giménez-Bartlett, simbolo del giallo latino. Questi sei racconti, scritti in tempi diversi, sono stati pubblicati per la prima volta in altrettante raccolte a tema di autori vari.
"Mettilo agli atti, Italo. In una notte di maggio, alle ore una e dieci, al vicequestore Rocco Schiavone piomba addosso una rottura di decimo grado!". Gli agenti del commissariato di Aosta, che stanno imparando a convivere con la scorza spinosa che ricopre il suo cuore ferito, scherzano con la classifica delle rotture del loro capo, in cima alla quale c'è sempre il caso su cui sta indagando. Ma Rocco è prostrato per davvero. Una donna è morta al posto suo, la fidanzata di un amico di Roma, "seccata" da qualcuno che voleva colpire lui. E quando esce dalla depressione si butta sulle tracce di quell'assassino tra Roma ed Aosta, scavando dolorosamente nel proprio passato, alla ricerca del motivo della vendetta, un viaggio nel tempo che è come una ferita che si apre su una piaga che non ha ancora smesso di sanguinare. Però le rotture sono solo cominciate: un altro cadavere archiviato all'inizio come infarto. Un altro viaggio che si inoltra stavolta nel presente dorato della città degli insospettabili. In questo quarto romanzo, prosegue la serie dei polizieschi scabri, realistici e immersi nell'amara ironia di Rocco Schiavone. Ma in realtà, attraverso le diverse avventure di un poliziotto politicamente scorretto, si svolge un unico racconto. Il racconto della vita di un uomo che si scontra con la impunita e pervasiva corruzione del privilegio sociale, nel disincanto assoluto dell'Italia d'oggi.
Il cadavere si trova riverso nell'acqua della fontana, sulla strada della chiesa madre in modo che tutti lo vedano. È Rocco La Paglia, giovane comunista ex partigiano. Un morto strano. Se per vendetta, una strana vendetta. Rocco da tempo era silenzioso nel suo lavoro a bottega. Da quando la strage aveva insegnato a lui, come a tutti i contadini che avevano creduto di poter alzare la testa, a stare al suo posto, in basso. Così, adesso, sembra ovvio a tutti che il cadavere sia legato alla solita storia: a una signora troppo bella e troppo altera per sfuggire alle dicerie del paese, e a un possidente, chiacchierato per non essere abbastanza maschio. Delitto d'onore, come una specie di dramma collettivo di espiazione, per gli anni scorsi di troppa libertà. La storia vera la scrive un galeotto balbuziente ex contrabbandiere ex contadino ed ex minatore. Finalmente, quando ormai l'emigrazione ha svuotato il paese, egli può, senza essere interrotto nel silenzio della cella del carcere dov'è rinchiuso, avvolgere la storia con il filo della verità. Ricordando i personaggi, gli ambienti, le situazioni, le figure di paese, che tremolano dietro quella verità come dietro un filo di fumo. Nel cuore di questo romanzo è il concreto, umano significato della strage di Portella della Ginestra del 1947, quando il bandito Giuliano, su mandato di oscure potenze e chiari interessi, sparò sul Primo maggio dei contadini della Sicilia occidentale, uccidendone e ferendone a decine...
Amato e rispettato da scrittori, critici e lettori, "Un amore senza fine" è una potente, viscerale meditazione sulla passione che diventa l'unico motore di una vita. Tradotto in venti lingue, ha ispirato due dei film meno riusciti della storia del cinema (secondo alcuni commentatori), di cui il più noto è quello di Franco Zeffirelli. Al centro del romanzo è la discesa negli inferi di un sentimento assoluto, la storia trascinante, furiosa, di forte ed esplicito erotismo di David Axelroad e Jade Butterfield, due ragazzi consumati dallo stupore dell'intimità e dell'attrazione reciproca. David e Jade non sembrano rendersi conto di quanto il loro rapporto, il desiderio, la sessualità, siano difficili da comprendere per chi sta loro attorno. Quando il padre di Jade allontana David dalla propria casa, il ragazzo immagina un piano per riguadagnare la fiducia dei genitori di lei. Ciò che segue è un incubo, l'immersione in un'oscurità in cui le emozioni di David sono un crimine e una malattia, un mondo di telefonate anonime, lettere folli e senza speranze, baratri e timori, alla ricerca costante, inevitabile, quasi punitiva dell'unica cosa che davvero conti per David: l'amore della sua ragazza e della sua famiglia.
Amedeo Consonni, il pensionato con il talento di trovarsi coinvolto negli imbrogli più singolari, entra in scena in mezzo a un bagno di sangue. Si trova a impugnare il coltello che affonda nella bianca carne di una bella ragazza immersa nell'acqua di una vasca color profondo rosso. E per giunta, un misterioso portatore di gemelli da polso del Milan lo immortala con un flash nella posa compromettente che lo identifica come un assassino. Che ne penserà la professoressa Angela Mattioli, la sua compagna? Per l'occasione si dimenticherà della sua tradizionale tolleranza. Ed è il timore della polizia, e forse ancor di più quello dell'irosa Angela, a costringere Amedeo a trasformarsi in un fuggiasco, a tingersi i capelli e a prendere altre identità. Ha capito che o si salva da sé scoprendo il vero assassino o stavolta è proprio perduto. Così non trova altro complice che l'ottantenne Luis De Angelis, che ha testa solo per il suo spider BMW 24 valvole, ma anche un po' per lucrare sulle disgrazie altrui. Intanto la Casa di ringhiera cade sotto le mire speculative di una coppia di architetti alla moda. Seguirà il perenne parapiglia che coinvolge tutti: un crescendo di chiasso e tragedia da molto rumore per nulla. E con la suspense della soluzione finale, tanto più catartica quanto più l'enigma è una moltiplicazione di ipotesi.
Un noir che disturba e sorprende, una tensione che sale piano come la marea. La storia di un amore che lentamente si trasforma in veleno, di un vuoto intimo che trasfigura una ragazza meravigliosa. In questo senso "Cosa resta di noi" fa pensare ai romanzi di Patricia Highsmith. Guia, la protagonista, chiama "morte vista al contrario" la sua impossibilità di avere un figlio: "una vita che non solo non inizia ma non riesce nemmeno ad essere concepita". Eppure è una ragazza nata per essere felice, di antica famiglia, scrittrice indirizzata al successo, sposata con un uomo che ama ed è pazzo di lei. Ma è in questa unione di felici che si infiltra il "lutto al contrario" del figlio mancato, come una crepa che si allarga e non si può fermare. Edo, il marito, il Narratore, segue le scene da questo matrimonio che si sta suicidando, nel letargo dorato degli inverni in Versilia, mentre Guia riversa in un prossimo romanzo tutta la sua disperazione e scrive di un tempo diverso da quello che stanno vivendo. Intorno le quiete banalità di coloro che "hanno tempo, soldi ed energie in surplus". Ma ad un tratto lo scenario cambia. Nella vita di Edo appare un'altra donna che però, pochi giorni dopo, svanisce nel nulla inspiegabilmente. La sua scomparsa diventa il caso del momento, segna l'irrompere di una realtà cieca e distruttiva nella crisi che Edo e Guia stanno cercando di affrontare.
Il grande Maometto il Conquistatore, nelle stanze del palazzo reale di Costantinopoli appena sottomessa, andava recitando una triste poesia persiana. Trovandosi di fronte all'immensità della sua conquista, il vincitore dell'ultimo basileus non poteva evitare di provare la malinconia della decadenza. Tra il Trecento e il Novecento gli ottomani edificarono un enorme impero incastrato tra Occidente e Oriente, con il chiaro proposito di unire l'Asia e l'Europa. I suoi sultani si credevano i successori di Costantino il Grande e nutrivano il sogno di conquistare la "Mela rossa", cioè Roma probabilmente. La storia dei turchi, a noi sempre presente e insieme misteriosa perché sostanzialmente è stata storia dell'altro, racconta di un'orda venuta dalle steppe asiatiche, che si distende rapidamente nello spazio prima occupato dall'impero d'Oriente, che domina per secoli il Mar Mediterraneo e regna in pace interna su religioni e popoli diversi, protetti e spesso favoriti da un sistema di governo che rivaleggiò fino al Settecento con quello occidentale, apparendo a molti una preferibile alternativa. Ma è anche parte della contesa eterna tra popoli stanziali e nomadi, e parte della storia comune dei popoli i cui paesi oggi finiscono in "stan".
"La memoria" è il titolo di questa collana che arriva al numero mille nel nome di Elvira Giorgianni Sellerio (1936-2010). I suoi fiori blu parlano di lei, per lei. Questo libro ne onora il ricordo e ne festeggia il traguardo, nel racconto di ventitré tra autori e collaboratori della casa editrice. Nata nel 1979, "La memoria" deve la sua lunga fortuna ai lumi di Leonardo Sciascia, al prodigio grafico di Enzo Sellerio e alla lungimiranza di certi librai avveduti. Ma soprattutto e sopra tutti, la deve a Elvira Sellerio e alle migliaia di lettori che nel corso di tanti anni ne hanno premiato e condiviso le scelte. "Uno dei più evidenti e gravi difetti della società italiana, e quindi di tutto ciò che - dalla cultura al costume - ne è parte, sta nella mancanza di memoria. Forse per la quantità eccessiva delle cose che dovrebbe contenere, la memoria si smarrisce, si annebbia, svanisce. Intitolare una collana letteraria "La memoria" presuppone questa considerazione d'ordine generale, anche se con intenti più limitati: una esortazione a non dimenticare certi scrittori, certi testi, certi fatti. Una collana che riserva scoperte, riscoperte, rivelazioni, sorprese". Così Leonardo Sciascia scriveva de "La memoria". Per più di trent'anni Elvira Sellerio ne ha perfezionato gli intenti iniziali, moltiplicato la varietà di titoli, così componendo una biblioteca ideale intesa come mosaico di tante biblioteche ideali.
Così raccontava Fernando Pessoa parlando dei suoi eteronimi, le sue voci di dentro, i suoi "altri da sé" a cui aveva attribuito una biografia e un'opera letteraria: "Ricordo quello che mi sembra sia stato il mio primo eteronimo o, meglio, il mio primo conoscente inesistente: un certo Chevalier de Pas di quando avevo sei anni, attraverso il quale scrivevo lettere a me stesso. [...] Un giorno mi venne in mente di fare uno scherzo a Sa-Carneiro: di inventare un poeta bucolico e di presentarglielo come se fosse reale. Passai qualche giorno a elaborare il poeta ma non ne venne niente. Alla fine, un giorno in cui avevo desistito mi avvicinai a un alto comò e cominciai a scrivere, in piedi. E scrissi oltre trenta poesie, in una specie di estasi. [...] E quanto seguì fu la comparsa in me di qualcuno a cui subito diedi il nome di Alberto Caeiro. Era apparso in me il mio Maestro. Tanto che, non appena scritte le trenta e passa poesie, afferrai un altro foglio di carta e scrissi, di seguito, le sei poesie che costituiscono Pioggia obliqua di Fernando Pessoa. [...] Fu la reazione di Fernando Pessoa alla propria inesistenza come Alberto Caeiro". Queste conferenze, tenute da Antonio Tabucchi a Parigi nel 1994, sono frutto di un lungo e profondo dialogo con l'opera del grande poeta portoghese e toccano aspetti fondamentali e inediti della poetica pessoana: il rapporto con il Tempo e la Nostalgia; le avanguardie storiche rivisitate attraverso l'ironia; il confronto con grandi poeti del passato...
Non abbagli la luce matta che, sugli schermi delle pagine, proietta comiche a rapidi scatti: una schermaglia rodomontesca con due mosche fastidiose; una rissa con attori che sbaccanano e come palla si involvono e rotolano, con braccia e gambe che si agitano, tra pugni e morsi, e lampi di lama; un commissario con un occhio pesto e un orecchio morsicato, che per "scangio" viene arrestato dai carabinieri; una servente che prende a padellate e fa prigioniero un intruso, che l'ha distolta dalle occupazioni culinarie; un signore ben curato e ben vestito, che più volte va a un appuntamento: a vuoto sempre, e deluso. E c'è anche il remake di una scenetta antica e surreale (dal "Libro mio" di Pontormo passata a "Il contesto" di Sciascia) di chi, con la mente scardinata, sta chiuso in casa, e a chi bussa risponde di non esserci. In così lunatica atmosfera sembra che i dettagli creino digressioni. Ma è negli interstizi che il mistero prospera, insondabile; e lento scivola, dilatatorio, deviando gli aghi di qualsivoglia bussola e decorando di apparenze ingannevoli le sue trame da brivido. Il romanzo è un pantanoso labirinto del malamore, di un tenebroso malessere: geloso oppure ossessivo. Nel dedalo di meandri, giravolte, gomiti d'ombra, nasconde una "camera della morte": l'ultima, la più segreta, come quella delle mattanze nelle tonnare. A Vigàta i notturni sono di leopardiana bellezza. Non assolvono però il fruscio di invisibili ali di tenebra. Montalbano si è svegliato con una premonizione.
Protagonista di questo giallo, che miscela ad arte tensione, amore e ironia, e racconta anche di una rinfrancante cospirazione della solidarietà umana, è Milano. La città di Expo 2015, che "accoglie 20 milioni di visitatori", dove gli architetti sono archistar, le sedie "sistemi di seduta" e le feste sono eventi. E contrapposta a questa metropoli, la Milano delle periferie multietniche dove la disperazione sa ancora lasciare spiragli alla speranza, cioè alla vita vera. Due città che sono due mondi, e un involontario, scanzonato protagonista che li percorre in lungo e in largo da preda e cacciatore insieme. Carlo Monterossi è il fortunato autore di una trasmissione tivù di genere piagnucoloso, "Crazy Love", un grande successo commerciale di cui non va per nulla fiero. A casa sua, nella baraonda di una festa, finisce un giovane orientale in stato confusionale. Somiglia in modo impressionante a un architetto giapponese acclamato come una star all'Expo, ma non ricorda nemmeno il proprio nome e non vuole che si chiami la polizia. Il giorno dopo, il giovane orientale sparisce e Carlo Monterossi trova il suo appartamento devastato da una perquisizione. Di colpo la sua esistenza agiata e tranquilla è sconvolta da eventi che gli paiono inspiegabili ma evidenti: qualcuno cerca qualcosa ed è abbastanza determinato da seminare cadaveri, anche il suo, per trovarla.
"A diciassette anni - rivela Manuel Vázquez Montalbán - avevo letto la storia di questo personaggio basco arrestato a New York, torturato e poi fatto sparire perché aveva scritto una tesi di dottorato sul dittatore Trujillo. E mi pareva terribile che queste cose potessero essere successe in piena Fifth Avenue. Per questo, molti anni dopo scrissi questo libro che tratta soprattutto dell'impunità del potere". Jesús Galíndez fu visto per l'ultima volta alle 10 del 12 marzo del 1956 a Manhattan, mentre entrava nella metropolitana della Quinta Strada. Lì scomparve, rapito - come poi risultò - torturato e ucciso dagli agenti di Rafael Trujillo, dittatore della Repubblica di Santo Domingo. A New York era giunto come rappresentante negli Usa del Partito nazionale basco in esilio, insegnava alla Columbia University, ed operava con la Lega per i diritti umani oltre che con associazioni di scrittori. Prima degli Stati Uniti, aveva insegnato a Santo Domingo. Aveva combattuto nella guerra civile spagnola dalla parte dei repubblicani, e forse collaborato con i servizi segreti americani fino alla Guerra fredda e al riconoscimento da parte americana del governo franchista. Dopo, i suoi rapporti con il governo americano erano cambiati. Vázquez Montalbán non seguì la via della ricostruzione storica, preferì ricorrere al romanzo.
Sul palcoscenico più che moderno della Barcellona degli anni Ottanta dentro bar alla moda e per ramblas, si riuniscono alcuni intellettuali di mezza età che furono antifranchisti e vivono rannicchiati nelle pieghe dell’industria culturale e della fabbrica del consenso. Sullo sfondo, ma poi sempre più al centro, è la figura del protagonista, Rosell, un musicista la cui carriera era stata interrotta dal ripudio morale della dittatura, e della sua «ombra», il compositore Doria, che invece ha raggiunto la notorietà rifiutando ogni impegno e accettando il compromesso. È nei decenni che questo contrasto si articola, rappresentando i due personaggi antagonisti come in realtà l’uno alter ego dell’altro. Il racconto del pianista si articola in tre momenti, dalla Spagna degli anni Ottanta si ritorna indietro nel tempo, nella Barcellona anni Quaranta; Rosell è disorientato, reduce dalla galera franchista, mentre di Doria giungono dall’estero gli echi del suo successo e dei suoi contatti con il regime di Franco. I fili del racconto si chiariscono definitivamente con un nuovo salto indietro nel tempo. Siamo a Parigi nel 1936, i due amici vivono nell’ambiente delle avanguardie politiche culturali, ma le discussioni sull’arte e la musica vengono spazzate via dalla notizia della guerra civile in Spagna: è l’ora della scelta, il momento di decidere se essere tra «quelli che seppero smettere di essere franchisti in tempo e quelli che seppero essere antifranchisti in giusta misura e al tempo giusto». Il contrasto tra i due, il pianista costretto ad interrompere la propria carriera e il musicista che ha raggiunto il successo, si fa metafora di un bilancio politico e morale di un’epoca ambigua e di gravi dilemmi.
Milano o la città. Così, attraverso frammenti di esistenze eccentriche, questi racconti vogliono rappresentare che cosa vuol dire vivere insieme in una città oggi. E che cosa vuol dire vivere una città nell'epoca in cui sembra smarrita la possibilità di riconoscerne un'identità. Giorgio Fontana raffigura "la capacità di Milano di essere più reale di ogni sogno o perversione" attraverso l'estate "atlantica" di un giovane sbandato, l'estate degli sgomberi dei centri sociali. Per Helena Janeczek la metropoli emerge come un ologramma colorato dagli sprazzi di conversazione di un ragazzino che parla dentro un gioco elettronico con un partner che sta lontano, a Caltanissetta, e, a poco a poco, diventa presente e amico più dei compagni vicini. L'ingegnere slavo di Di Stefano confessa al commissario la sua assurda ribellione perché "Milano non era più il paradiso grigio che avevo conosciuto all'arrivo". L'esperienza urbana del supplente di Marco Balzano culmina nell'incontro con un alunno ricoverato in una casa alloggio per pazienti psichiatrici. Neige De Benedetti trova la città in un tram perché "l'unica cosa di cui si parla a Milano è partire". E "dove voi siete io sono già stato, dove vado io è dove voi non arriverete" conclude il suo racconto il fuggitivo di Francesco M. Cataluccio: una specie di eterno viandante, profugo siriano mezzo ebreo che nelle architetture pretenziose della stazione rivive luoghi percorsi da generazioni passate.
"... Si sa del resto come era nato 'Il Piccolo Principe'. Nel 1942, Saint-Ex disegnava sulla tovaglia bianca, in un ristorante di New York, sorvegliato severamente dal cameriere. 'Cos'è?' aveva chiesto l'editore. 'Un bambino che porto nel cuore' rispose Antoine. 'Facciamone un libro per l'infanzia' propose l'editore, più che altro 'per svagare quel gigante triste'. 'The Little Prince' e 'Le Petit Prince'uscirono contemporaneamente in America il 6 aprile 1943. In Francia fu pubblicato solo nel '46, postumo: perché Saint-Exupéry il 31 luglio 1944 era stato abbattuto da un caccia tedesco. Per questo i grandi dicono che 'Il Piccolo Principe' è anche un testamento. Ai bambini e a tutti resta da ricordare che se i rapporti umani sono così difficili è anche perché l'essere amato, una volta addomesticato con prolungati legami, deve anche essere, un po', perduto". Nella Nota che chiude il volume, Daria Galateria raccoglie in un "abbecedario" i temi principali del "Piccolo Principe"; e, tra le pieghe della vita e le combinazioni di pagine e disegni inediti di Saint-Exupéry, indaga su figure e simboli ricorrenti. Sul mistero della "favola più bella del Novecento".
C'è un'azione parallela, in questa inchiesta del vicequestore Rocco Schiavone, che affianca la storia principale. È perché il passato dell'ispido poliziotto è segnato da una zona oscura e si ripresenta a ogni richiamo. Come un debito non riscattato. Come una ferita condannata a riaprirsi. E anche quando un'indagine che lo accora gli fa sentire il palpito di una vita salvata, da quel fondo mai scandagliato c'è uno spettro che spunta a ricordargli che a Rocco Schiavone la vita non può sorridere. I Berguet, ricca famiglia di industriali valdostani, hanno un segreto, Rocco Schiavone lo intuisce per caso. Gli sembra di avvertire nei precordi un grido disperato. È scomparsa Chiara Berguet, figlia di famiglia, studentessa molto popolare tra i coetanei. Inizia così per il vicequestore una partita giocata su più tavoli: scoprire cosa si cela dietro la facciata irreprensibile di un ambiente privilegiato, sfidare il tempo in una corsa per la vita, illuminare l'area grigia dove il racket e gli affari si incontrano. Intanto cade la neve ad Aosta, ed è maggio: un fuori stagione che nutre il malumore di Rocco. E come venuta da quell'umor nero, un'ombra lo insegue per colpirlo dove è più doloroso.
L'autunno è scuola e quando le lezioni ricominciano basta sollevare un lembo del tessuto della normalità, per mezzo della finzione letteraria, per scoprire il mistero che nelle aule si nasconde. È quello che fanno gli autori di questi racconti gialli che amplificano appena appena in senso criminale quello che tutti i giorni vivono studenti e insegnanti. Esmahan Aykol mostra una sorta di delitto passivo del fondamentalismo che si diffonde in una scuola di quartiere povero a Istanbul. In una Palermo odorosa e putrescente Gian Mauro Costa inscena un racket di ladri di biciclette che racchiude come in un bocciolo un amore di adolescenti di un'epoca lontana. Alicia Giménez-Bartlett immagina il femminicidio anomalo di una quindicenne. Il pensionato Consonni della Casa di Ringhiera dello scrittore Recami dimostra che, quando si mettono di mezzo le famiglie, ne può uccidere più la psicosi della stessa pedofilia. Nella Napoli splendida e disperata di Maurizio de Giovanni un giovane è conteso tra la scuola e la camorra. La coppia Fantini e Pariani racconta di due insegnanti sessantenni alle prese con il tragico segreto di una setta cyberfantasy di bulli. Nel vetusto college inglese di Alan Bradley, la piccola Flavia de Luce indaga su un cadavere nel laboratorio di chimica fisica. A rappresentarla in giallo la scuola appare un teatro naturale del realismo narrativo: lotta di classe, il disagio sociale, le offese del bigottismo e dell'ipocrisia.
"Ho desiderato raccontare un anno di vita di una quinta elementare del piccolo paese umbro dove insegno da molti anni perché ascoltando nascere giorno dopo giorno parole ed emozioni, ragionamenti, ipotesi e domande, che emergevano dalle voci delle bambine e dei bambini con cui ho lavorato per cinque anni, ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a scoperte preziose, che ci aiutano ad andare verso la sostanza delle cose e verso l'origine più remota del nostro pensare il mondo". Nei dialoghi degli scolari su argomenti di un programma svolto ponendo questioni e lasciando elaborare soluzioni, intorno a temi che riguardano matematica, scienze, arte e storia, si ha l'impressione di ripercorrere l'evolversi della cultura umana. Si prova la meraviglia del nascere di un pensiero. Così questo libro, che contiene indicazioni concrete per un insegnamento innovativo, non è un burocratico manuale di didattica che si aggiunga a una fila troppo lunga. All'opposto ogni pagina trabocca di spontanea poesia, pur non indugiando in un'estetica compiaciuta del mondo incantato dell'infanzia. Nel diario di un anno di scuola, in cui ciascun allievo è protagonista di una ricerca comune, si mostra il cuore del dialogo didattico: "provare a dare forma al mondo". È una proposta pedagogica nuova, evidentemente capace di cercare un senso all'esistere e al far esperienza, diventa anche un racconto antropologico.
"Sono otto le 'mosse' narrative che Camilleri si concede lungo le otto colonne e le otto traverse della sua geometrica scacchiera del racconto: tra i quattro lati del libro, e nell'ordine chiuso di un romanzo-matrioska che dentro di sé inclina, procedendo di racconto in racconto, di tensione in tensione, sull'asse unico dell'attività investigativa del commissariato di Vigàta. Più che racconti lunghi sono romanzi ristretti quelli che qui si spintonano a vicenda e concorrono al disegno unitario: uno compie un giro, l'altro ricomincia. L'andatura piacevolmente svagata e a punte d'arguzia è un effetto stilistico della restrizione e degli scorci. Fra gli aliti grassi del mare e il fresco odore salino, a Vigàta si conduce la solita vita fragorosa di ripicche e di rimbecchi; di passioni irritabili, di insofferenze e di strampalerie. La cameriera Adelina e Livia, la fidanzata 'straniera' di Montalbano, si annusano sempre da lontano. Catarella, devoto alle cerimonie più smaccate, indossa imperterrito il proprio corpo come una maschera cui aderiscono gesti e mimiche di dialettalità selvaticamente impetuosa e arruffata. Perdurano le moschetterie giornalistiche delle due contrapposte televisioni locali, abilmente strumentalizzate da Montalbano. Il medico legale, Pasquano, solo davanti a una guantiera di cannoli di ricotta è disposto a deporre acrimonie, ringhi, e "cabasisi". (Salvatore Silvano Nigro)
Martin Bora, l'investigatore di casi delicati per i servizi segreti della Wehrmacht, si trova a Mosca. Mancano settimane all'attacco di Hitler alla Russia di Stalin, e l'ufficiale è aggregato al corpo diplomatico della capitale sovietica immersa ancora nel clima del patto Ribbentrop-Molotov. In questa veste, gli arriva una strana richiesta da parte del diabolico Beria: recarsi a Creta, appena presa dai tedeschi, per procurare al raccapricciante capo dello spionaggio sovietico sessanta bottiglie di un pregiatissimo vino cretese. Invece, giunto nell'isola piena ancora dei segni di un bagno di sangue, l'ufficiale-detective è posto di fronte a un compito ben diverso. Una famiglia di civili è stata massacrata nella sua villa, a quanto pare da una pattuglia di paracadutisti tedeschi. I servizi vogliono vederci chiaro, non solo per scagionare i soldati accusati di crimini di guerra e impedire un incidente diplomatico, ma anche per prevenire l'intervento della Croce Rossa e tenere lontane le SS di Himmler, interessate alla strage. Infatti, la vittima principale è un residente svizzero, esperto di antichità e storia della razza ariana e membro dell'Ahnenerbe, la società fondata da Himmler per studiare il passato mitico della razza ariana e sovrintendere a tutte le ricerche ancestrali e archeologiche. L'imbarazzo è grande, ed enorme il mistero. Per scioglierlo, Bora dovrà farsi carico di un'indagine che lo porterà a muoversi lungo piste divergenti...
"'Ora, Ampelio, secondo lei io mi metto a parlare del caso qui, al bar, di fronte a tutto il paese?'. 'Come, tutto il paese? Ci siamo solo noi quattro'. 'Appunto' confermò la commissaria". Ma in realtà tra la giovane commissaria Alice Martelli e i quattro vecchietti del BarLume s'è creato un feeling operativo. Il pettegolezzo come sistema investigativo trova una riconosciuta efficacia. È successo che Vanessa Benedetti è scomparsa. Venuta da fuori, dalla "lontana" Umbria, gestisce col marito Gianfranco, da cui ha divorziato per motivi fiscali, uno zoppicante agriturismo. Un giorno ordina chili e chili di carne, ma i tedeschi suoi ospiti pranzano regolarmente al Bocacito, il ristorante di uno dei pensionati. Poi svanisce nel nulla. Questo basta ai vecchietti per saltare al thriller: Vanessa uccisa dal marito che si è liberato del corpo. Tutte farneticazioni di anziani perdigiorno? A moltiplicare le ipotesi infinite che rimbombano nel BarLume, spunta una svolta imprevista. Atlante il Luminoso, un cartomante di successo, che aveva pronunciato da una televisione privata la sua preveggente verità sul caso Vanessa, viene ritrovato cadavere. Assassinio o suicidio? Nonostante la canicola a Pineta, i vecchietti del BarLume, con l'interprete investigativo delle loro maldicenze Massimo il barrista, sono in forma smagliante per dissolvere ogni dubbio, con l'arma della battuta letale e della rissa verbale, nel loro nuovo mistero.
È scomparsa Marilou, la figlia di Luisa Kakoiannis-Sforza. La signora, un'imprenditrice della moda, ospite fissa delle copertine dei rotocalchi popolari, si rivolge per le ricerche ad Amedeo Consonni, il tappezziere in pensione della Casa di ringhiera. Le è noto grazie al successo del caso investigativo della Sfinge di Lentate sul Seveso (raccontato nel romanzo "La casa di ringhiera"), ma la ragione è anche di sfuggire ai riflettori del gossip. Oppure c'è sotto qualcos'altro? Il Consonni, con le sue risorse semplici e antiquate, comincia a indagare. E finirà per imbattersi in un'altra donna, non meno ricca e superba, che con la prima condivide il segreto e l'odio.
"Si sono aperte le cateratte del cielo. I tuoni erompono con fragore. Nel generale ottenebramento, e sotto la pioggia implacabile, tutto si impantana e smotta. Il fango monta e dilaga: è una coltre di spento grigiore sulle lesioni e sulle frane. La brutalità della natura si vendica della politica dei governi corrotti, che non si curano del rispetto geologico; e assicurano appalti e franchigie alle società di comodo e alle mafie degli speculatori. A Vigàta dominano le sfumature opache e le tonalità brune delle ombre che si allungano sull'accavallato disordine dei paesaggi desolati; sui lunari cimiteri di scabre rocce, di cretti smorti, e di relitti metallici che sembrano ossificati. Questa sgangherata sintassi di crepature e derive ha oscuri presagi. E si configura come il rovescio tragico dell'allegra selvatichezza vernacolare di Catarella, che inventa richiami fonici ed equivalenze tra 'fango' e 'sangue'; e con le confuse lettere del suo alfabeto costruisce topografie che inducono all'errore. Del resto, macchiate di sangue sono le ferite fangose del paesaggio; e l'errore è consustanziale al labirinto illusionistico dentro il quale i clan mafiosi vorrebbero sospingere il commissario Montalbano per fuorviarlo, e convincerlo che il delitto sul quale sta indagando è d'onore e non di mafia. La vicenda ha tratti sfuggenti, persino elusivi..." (Salvatore Silvano Nigro)
Siamo alla fine di luglio, nel 1914, a Venezia. Il 28 giugno a Sarajevo Francesco Ferdinando è stato assassinato, l'Austria ha consegnato l'ultimatum alla Serbia. Sono i giorni dei "sonnambuli", di imperi e nazioni, governanti e diplomatici, che consegnano inconsapevoli l'Europa al suo suicidio. Il commendatore Niccolò Spada vigila sui suoi ospiti all'Excelsior: il presagio che aleggia sull'Europa soffia anche sul Lido. L'Albergo leggendario è affollato: l'aristocrazia di tutta Europa scintilla come non mai, ma celebra le ultime ore della Belle époque. Fra gli ospiti c'è anche la marchesa Margarete von Hayek, "bella come sa essere solo una donna dal piglio pari alla grazia", che nasconde un segreto terribile, inconfessabile, e che brindando alla fine del mondo chiede una lettera di credito molto particolare a Spada. Il commendatore vacilla, tentato dall'amore per Margarete, che è "fuoco e rapina". Un sogno, sempre lo stesso, lo disorienta: un cacciatore ossessionato da una belva che si aggira per la foresta. Senza riuscire a incontrarla, ne sente il ruggito. Poco lontano, nel cuore della laguna, l'isola di San Servolo, sede del manicomio, conserva il segreto della nobile Margarete.
Milano, estate 1981: siamo nella fase più tarda, e più feroce, della stagione terroristica in Italia. Non ancora quarantenne, Giacomo Colnaghi a Milano è un magistrato sulla linea del fronte. Coordinando un piccolo gruppo di inquirenti, indaga da tempo sulle attività di una nuova banda armata, responsabile dell'assassinio di un politico democristiano. Il dubbio e l'inquietudine lo accompagnano da sempre. Egli è intensamente cattolico, ma di una religiosità intima e tragica. È di umili origini, ma convinto che la sua riuscita personale sia la prova di vivere in una società aperta. È sposato con figli, ma i rapporti con la famiglia sono distanti e sofferti. Ha due amici carissimi, con i quali incrocia schermaglie polemiche, ama le ore incerte, le periferie, il calcio, gli incontri nelle osterie. Dall'inquietudine è avvolto anche il ricordo del padre Ernesto, che lo lasciò bambino morendo in un'azione partigiana. Quel padre che la famiglia cattolica conformista non potè mai perdonare per la sua ribellione all'ordine, la cui storia eroica Colnaghi ha sempre inseguito, per sapere, e per trattenere quell'unica persona che ha forse amato davvero, pur senza conoscerla. L'inchiesta che svolge è complessa e articolata, tra uffici di procura e covi criminali, tra interrogatori e appostamenti, e andrà a buon fine. Ma la sua coscienza aggiunge alla caccia all'uomo una corsa per capire le ragioni profonde, l'origine delle ferite che stanno attraversando il Paese...
La trama intricata delle "cause" che hanno portato alla Grande Guerra è un vero laboratorio per lo studioso di storia. Partendo dalla scintilla dell'attentato di Sarajevo, lo storico Luciano Canfora svolge un'analisi che offre al lettore una prospettiva nuova. Accanto alla discussione dei fatti, delle circostanze e delle interpretazioni, è qui condotto un esame (acuto com'è proprio della scienza del filologo Canfora) delle parole che allora furono dette, e furono mortifere. Questa vivace sintesi si svolge attraverso i principali nodi storiografici: le diverse interpretazioni di parte; i comportamenti delle forze in campo; il rapporto tra i sistemi politico elettorali e i meccanismi delle decisioni; gli "scivolamenti progressivi" che condussero al conflitto; la "colpa tedesca" o la "responsabilità collettiva"; la "guerra degli spiriti" dei grandi intellettuali e degli accademici; la "reazione a catena" delle alleanze; i "falsi di guerra".
Un fortunato autore televisivo ha abbandonato la trasmissione cui deve la fama e una discreta agiatezza. Si chiama Crazy Love e racconta la vita sentimentale della "né buona né brava gente della Nazione". Sotterfugi, tradimenti, odio, passioni e rancori, al motto di "Anche questo fa fare l'amore". Un enorme successo, ma lui non ne può più. Felice e orgoglioso della sua scelta, una sera gli si presenta in casa un tizio che cerca di ucciderlo. Si salva la vita, ma da qui in poi cominciano i guai. Una coppia di killer colti e professionali, due zingari in cerca di vendetta, una giovane segugia col cuore in frantumi, collezionisti e contrabbandieri di souvenir nazifascisti, qualche morto di troppo. Sullo sfondo accanto a una Milano multietnica e luccicante, la vita brulicante del campo rom, la sua cultura, la sua eticità. Questo di Robecchi è un giallo e una commedia, tra Scerbanenco e le canzoni di Enzo Jannacci. Raccontata da una voce caustica e cattiva, che tutto commenta e descrive con acuminata ironia, e che tiene in equilibrio il sarcasmo ribelle e sfacciato del suo investigatore chandleriano (appassionato di Bob Dylan) e il cinismo a suo modo morale del punto di vista criminale e della vendetta.
Nell'autunno del 1869, Orta è un borgo tranquillo e forse intorpidito, solo con un fremito di animosità verso i forestieri. Ci vive Enrico Costa, detto il Francesino, ultimo figlio di una famiglia proprietaria squassata dalla disgrazia; vi soggiorna Dostoevskij, in cerca di un riparo dall'assillo dei creditori; vi scorrono le esistenze immutabili di tanti, ciascuno con la smorfia tipica del volto che svela a tutti carattere e destino, ciascuno tormentato da qualcosa di indicibile. Perché qui, cinquantasei anni prima, è avvenuto un macabro delitto, di quelli germinati nel torbido di una famiglia e nell'odio di famiglie tra loro. Teodoro Costa, bisnonno di Enrico, è stato ucciso con feroce violenza. Facilmente, la giustizia ha trovato il colpevole nel figlio Demetrio, ghigliottinato dopo un rapido processo. Tornato dalla Francia, Enrico il Francesino non è mai stato ben accolto in paese. Poeta e scrittore, ha sempre avuto il desiderio di scrutare nell'oscurità intorno alla storia dei suoi avi. Inoltre, un rasoio e un messaggio cifrato ritrovati per caso, gli sembrano una combinazione troppo azzardata per non essere un messaggio. Il suo itinerario di verità e di liberazione s'incontra con la curiosità intellettuale di Dostoevskij, che invece è motivato dalll'interrogarsi sulla colpa e sull'odio alla base della sua ricerca spirituale. Lentamente, si apre il velo della storia segreta, che è storia di tante vite che portano il proprio tributo di dolore, ingiustizia e vendetta.
"Non è, questo, un romanzo d'ambiente; di costume. Non è un romanzo storico. È una potente azione narrativa. Se nel gioco degli scacchi l'obiettivo finale è catturare il re, le modalità operative e di ricerca di questa opzione strategica forzano il silenzio e le tenebre della storia, per affrontare il mistero di un'"ombra", penetrare nelle tante maschere di un volto che si può pensare ma non conoscere, catturare la personalità artificiosa di un protagonista di eventi reali che con infame talento si evolve su se stesso e sotto più nomi si tramuta; e restituire, infine, alle necessità del racconto, il lato oscuro, la metà notturna e fosforica della civiltà dell'Umanesimo raggiante di cultura. Qui Camilleri gioca a scacchi con l'imponderabile. Le strade del suo personaggio si moltiplicano, si confondono, si scambiano l'una con l'altra. Partono dalla giudecca di Caltabellotta, in Sicilia, e lungo il Quattrocento si inoltrano nei labirinti delle capitali, delle corti piccole e grandi, degli studioli umanistici, delle Accademie e delle Università; nella geografia politica della penisola italica e delle remote contrade di là delle Alpi. Il lettore fa il possibile per recuperare il fiato. Una pagina tira l'altra, vorticosamente. Tra vari avvisi di pericolosità e d'orrore, il protagonista del romanzo sprigiona intelligenza perversa, crudeltà e spietatezza. È un ebreo convertito, poliglotta: esperto soprattutto in lingue orientali..." (Salvatore Silvano Nigro)
"Carnevale in giallo" raccoglie racconti polizieschi a situazione, in cui i protagonisti, gli investigatori noti dai romanzi maggiori pubblicati da questa editrice, svolgono il loro lavoro nel clima della festa proverbialmente beffarda che li condiziona pesantemente. Hanno a che fare con maschere e travestimenti, con il libertinaggio e la confusione del "mondo alla rovescia". Una capacità di metamorfosi di persone e cose che accentua la difficoltà dell'enigma. Che mescola in ogni racconto una tintura di grottesco. Petra e Fermín - nel primo racconto ad opera di Alicia Giménez-Bartlett - affrontano il caso di un "diavolo" trovato stecchito e bagnato di sangue e acqua nei vicoli di Barcellona. La mascherata degli equivoci, narrata da Francesco Recami, coinvolge, sotto il solito destino cinico, la Casa di Ringhiera nella caccia a un collier scomparso. Nella baraonda teatrale di una festa di paese, a lui più congeniale, il buon Enzo Baiamonte dello scrittore Gian Mauro Costa conduce la sua inchiesta di periferia: il morto è dietro una maschera del Mastro di Campo, kermesse del borgo palermitano di Mezzojuso. Il nero del racconto di Antonio Manzini non è ravvivato nemmeno per un momento dalla festa, visto che il vicequestore Rocco Schiavone considera il Carnevale solo un Halloween fallito. Marco Malvaldi traveste i Vecchietti del BarLume da giudici della sorte più che da investigatori del pettegolezzo: la loro dura lex si abbatte con ridanciana ironia su un italianissimo mascalzone.
"Il vicequestore sorrise nel pensare alla somiglianza che sentiva tra lui e quel cane da punta". Rocco Schiavone ha la mania di paragonare a un animale ciascuna delle fisionomie umane che gli si para davanti. Ma più che il setter che gli suscita quell'accostamento, lui stesso fa venire in mente uno spinone, ispido, arruffato e rustico com'è: pur sempre, però, sottomesso all'istinto della caccia. È uno sbirro manesco e tutt'altro che immacolato, romano di conio trasteverino, con una piaga di dolore e di colpa che non può guarire. Ad Aosta, dove l'hanno trasferito d'ufficio, preferirebbe tenere le sue Clarks al riparo dall'acqua e godersi i suoi amorazzi, che non imbarcarsi in un'altra inchiesta piena di neve. Una donna, una moglie che si avvicinava all'autunno della vita, è trovata cadavere dalla domestica. Impiccata al lampadario di una stanza immersa nell'oscurità. Intorno la devastazione di un furto. Ma Rocco non è convinto. E una successione di coincidenze e divergenze, così come l'ambiguità di tanti personaggi, trasformano a poco a poco il quadro di una rapina in una nebbia di misteri umani, ambientali, criminali. Per dissolverla, il vicequestore Rocco Schiavone mette in campo il suo metodo annoiato e stringente, fatto di intuito rapido e brutalità, di compassione e tendenza a farsi giustizia da sé, di lealtà verso gli amici e infida astuzia.
Il famoso ultimo momento è il tempo giusto per i regali di Natale. Lo sanno anche gli eroi dei gialli pubblicati dalla casa editrice Sellerio, noti ai nostri lettori per averli già incontrati nei romanzi. Costoro, però, siano (a seconda dei loro autori) poliziotti professionisti o investigatori capitati per avventura, per senso di giustizia o per carattere intrigante, incappano nell'ultima indagine festiva, proprio mentre sono in corsa per gli acquisti dei regali. Le complicazioni, le considerazioni amare e gli umori neri insiti nella vistosa contraddizione esistenziale: caccia al criminale/caccia al regalo, finiscono con l'accentuare, stilizzare, potenziare ancor di più i tratti caratteriali che li hanno resi più familiari ai lettori che li amano. In questa raccolta, affrontano l'indagine del regalo di Natale gli investigatori: Petra Delicado e il vice Fermín Garzón (autrice: Alicia Giménez-Bartlett); Gelsomina Settembre, assistente sociale (che Maurizio de Giovanni ha appositamente immaginato per questa antologia); la Casa di Ringhiera (il caso e la necessità in versione mistero guidati da Francesco Recami); Rocco Schiavone (sempre più arruffato da Antonio Manzini); Harpur & Isles (la coppia angeli-demoni del gallese Bill James); e i vecchietti del Bar Lume (gli artisti del pettegolezzo investigativo inventati da Marco Malvaldi).
Lorenzo La Marca, lo svagato detective dei gialli palermitani di Santo Piazzese, si trova ad Erice, ad un workshop del Centro Ettore Majorana. Mentre gironzola qui e là in cerca di riparo dalla inesorabilità del sole e dei colleghi, fa un incontro inatteso: l'amico dei primi anni di Biologia. Rizzitano, si chiamava, ed era sempre stato tanto capace di navigare tra uomini e donne quanto La Marca era impacciato. La rievocazione inevitabile s'impunta su una zona della memoria evidentemente sensibile: l'isola della Spada dei Turchi. E qui cambia la scena. L'ironia e il parlare per allusione e contrasti, tipici della spavalderia autocritica del personaggio, si modula, a poco a poco, al tono del ricordo. La mente torna agli inizi di La Marca, il ritratto del personaggio da giovane. Un pugno di anni di tanto tempo prima, studente alle prime armi, il suo professore, per studiare certi pesci, lo imbarcava su un peschereccio, il "Santa Ninfa". Navigando con gente di mare, gli era piaciuto scoprire cose immaginate sui libri di scienze e di avventura ma, una volta, s'era invaghito di un'isola della costa siciliana, la Spada. Ci vivevano "gli stravaganti" - così gli altri isolani chiamavano la colonia di individui finiti là, ognuno venuto da lontano, ognuno per ragioni diverse, qualcuno a viverci stabilmente, altri a ricercare periodicamente se stessi. Gravitavano intorno a un bar dal nome incongruo, fondato nel dopoguerra da un friulano precipitato in quello scoglio insieme alla moglie bellissima.
"All'inizio, nel secondo Ottocento, c'è il patriarca Luigi Sacco, bracciante d'ingegno e passione. Vengono poi i discendenti, grandi lavoratori tutti, e socialisti, tra emigrazione transoceanica e chiamata alle armi nella Grande Guerra, malversazioni e canaglierie di rozzi capimafia con alle spalle pupari altolocati, che prosperano nella latitanza dello Stato e sanno come avvantaggiarsi nella tragica notte del fascismo, nonostante il pugno di ferro del prefetto Mori (e grazie ad esso, anzi) che seppe abbattersi anche sui comuni oppositori politici. I cinque fratelli Sacco conoscono la disperazione a vivere in un regime di mafia. Si danno alla latitanza. Si sentono investiti di un ruolo di supplenza nella lotta (armata) contro i persecutori mafiosi. Diventano giustizieri solitari, nel silenzio ottuso dell'omertà: cittadini eslègi di uno Stato che non ha saputo garantirli. Vengono arrestati, processati, e inventati come "banditi" e predoni d'assalto. In carcere conoscono l'antifascismo. Incontrano Umberto Terracini e incrociano Gramsci. Il succo della storia, di questo western nostrano di onest'uomini indotti e costretti a farsi vendicatori, è di declinazione manzoniana: 'I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi'." (Salvatore Silvano Nigro)
C'è una rapina nella casa di uno scrittore molto noto; col bottino, sparisce il computer in cui è salvato il suo ultimo romanzo non ancora consegnato alla casa editrice e incautamente non conservato in altro modo. Da questo momento il file comincia a scivolare come argento vivo sul piano accidentato della sua avventura, e si insinua, imprendibile e vivificante come il metallo liquido degli alchimisti, nel tran tran quotidiano dei tanti e diversi protagonisti. Ognuno dei quali sarebbe per sorte lontanissimo dagli altri, ma si trova coinvolto occasionalmente a causa della deviazione che quel manoscritto ha impresso nella sua esistenza. Il grande scrittore e la moglie; il giovane ingegnere a tempo determinato che lotta con la vita insieme alla affannata compagna; la bella agente di polizia, che conduce l'indagine in competizione con il laido superiore; la banda dei balordi; il tecnico appena disoccupato che c'è capitato per caso; il vecchio editore e la giovane editor. Questa varietà di personaggi, con i loro pezzi di vita, l'autore muove intorno alle eventualità aperte dallo svolgersi dell'inchiesta di polizia, su cui a loro volta gli individui incidono inconsapevoli con le scelte che fanno, creando una commedia degli incroci della vita.
"La vita andava avanti lo stesso, spietata e inutile come quei giorni di agosto". C'è un morto sulla spiaggia con una siringa in vena: Montalbano, con Livia a Vigàta per il Ferragosto, sospetta una montatura, scopre il colpevole ma viene scavalcato. Un milionario russo è stato assassinato nel resort non lontano dal BarLume: il Barrista e i Vecchietti cercano la donna. Una rapina in banca finisce quasi in una strage: il vicequestore Rocco Schiavone gioca un po' sporco, come al solito. Nel cuore afoso delle ore piccole, una splendida fuggitiva irrompe nella Casa di ringhiera: tutto in una notte per il vecchio De Angelis con la sua auto feticcio e, dietro, il corredo di equivoci sarcastici da ballatoio. Un attentato nel ricco mondo dell'industria vinicola siciliana: Baiamonte, steso sulla sdraio, indaga per noia. Una pistola da collezione ha ucciso la moglie del commissario Carreras e ogni indizio accusa il marito: Petra Delicado e Fermin Garzón scommettono sul vero amore. Da Salvo Montalbano a Petra Delicado, gli investigatori degli autori presenti in questa raccolta hanno poderose personalità, tanto da riempire ampiamente lo spazio dei loro casi, non meno di quanto lo facciano gli intrecci in cui capitano. Da questa osservazione nasce l'idea di misurarne, appunto, la personalità, impegnandoli alla prova di occasioni speciali, di feste comandate e di giornate in cui di solito tutti vorrebbero liberarsi dei ruoli ufficiali.
Come fa la professoressa Angela, la rassicurante compagna del pensionato Amedeo Consonni, a mantenersi economicamente, lei che ha lasciato il liceo dove insegnava ed è troppo giovane per avere la pensione? Di chi sono in realtà gli appartamenti dove va regolarmente a bussare per riscuotere la pigione mensile? E come si giustifica quella preziosa collezione di servizi da caffè che brillano nella vetrina del suo salottino? Lo veniamo a sapere dalla sua voce, nel "Segreto", il manoscritto confessione che la ex professoressa affida all'amato vicino di pianerottolo, Amedeo Consonni. E dal momento che la cifra narrativa di Francesco Recami è quella di partire da una banalissima domanda, magari pettegola, magari indegna di attenzione, per aprire orizzonti di presunti crimini e avventure dentro la sua Casa di ringhiera, la risposta che attende sarà delle più perversamente complicate. Il segreto comincia qualche anno addietro. Angela è una professoressa di lettere al liceo, democratica, con le Birkenstock ai piedi, contenta del lavoro e frustrata dalla vita e dalla famiglia: insomma il tran tran quotidiano del tipo dell'insegnante come solo il cinismo di Recami sa rappresentare. Succede che un allievo viene rapito, mentre è in vacanza in Sardegna. È uno di quelli che Angela non può sopportare. Straricco, protetto dai genitori parvenus, strafottente stupido e (purtroppo) bello. Ma giusto per l'ultimo compito in classe, ha scritto un tema stranamente interessante, prima di scomparire.
"Ehi, Khoury, non è ancora tornata, vero? - Chi parla? - Non te ne deve fregare di chi parla. Abbiamo preso tua moglie, arabo di merda. La vuoi indietro o no?". Kenan Khoury, libanese di New York e trafficante di droga, in pochi minuti è pronto a pagare quasi mezzo milione di dollari per riavere la bella, dolce, innocente Francine. E la ritrova, dopo una serie di giri pazzi, nel portabagagli di un'automobile, a pezzi. Nella grande città, una coppia ben organizzata uccide per godere del palpito di dolore delle giovani prede, e ha di mira le donne amate dai fuorilegge. Matthew Scudder, ex poliziotto, ex alcolista, detective senza licenza, si mette al lavoro per scoprire il mostro e consegnarlo, forse, alla vendetta: perché un narcotrafficante non può parlare alla polizia, perché c'è spesso più umanità e lealtà dove meno ce l'aspettiamo, e soprattutto perché la striscia di sangue innocente è cominciata ben prima di Francine e rischia di continuare dopo, con un'altra inconsapevole vittima. Per le strade inquiete di Brooklyn, corre un'indagine che interpreta indizi e decifra tracce e che è insieme una caccia all'uomo, condotta da un manipolo eterogeneo (la prostituta compagna di Scudder, il narcos e suo fratello, uno spiritoso ragazzino dickensiano e due strani amici esperti di computer e marciapiedi), creature del disordine ma piene di una suadente armonia etica.
"Sognando, Montalbano è entrato in un sogno dipinto da Rousseau il Doganiere. Si è ritrovato, insieme alla fidanzata Livia, nel respiro di luce e nella convivenza innocente di un'edenica foresta. Gli intrusi riconoscono il luogo solo grazie a un cartello inciso a fuoco. Sono nudi. Ma portano addosso l'ipocrisia di foglie di fico posticce, fatte di plastica. L'armonia dell'eden, la sua mancanza di volgarità e violenza, è una finzione pittorica. Non appartiene a nessun luogo reale. E neppure ai sogni. Ciononostante, anche nella cieca e brutale realtà può sopravvivere la delicatezza del canto discreto e cortese di un uccello del paradiso saltato giù dai rami dipinti o sognati. Montalbano viene svegliato dal fischiettare di un garbato vagabondo che intona II cielo in una stanza, con "alberi infiniti", imponendosi sul fracasso di un temporale. La filologia congetturale del commissario deve applicarsi al fondo torbido e malsano di esistenze nascoste e incarognite dal malamore, dagli abusi e dalle sopraffazioni, dalla crudeltà e dalla sordidezza, dalle ritorsioni e dai ricatti, dalla gelosia e dal rancore: non meno che dall'interesse. Il ragioniere Cosimo Barletta, sciupafemmine compulsivo e strozzino, è stato trovato morto: ucciso con modalità che a prima vista appaiono inesplicabili, e addirittura insensate. Montalbano indaga sui segreti impenetrabili di una famiglia e sui misteri di una comunità. Sui rapporti di sangue e quelli di affinità." (Salvatore Silvano Nigro)
"Agli Uffizi ci si andava da bambini, alle domeniche. Non frequentando la nostra famiglia, nel giorno di festa, alcuna funzione religiosa, il babbo ci conduceva di mattina al rito laico dell'osservazione dei quadri, che precedeva quello pagano del primo pomeriggio alle partite di calcio della Fiorentina, nello Stadio di Campo di Marte, affollato di figure concave e convesse, progettate da Pier Luigi Nervi. Verso le dieci, mentre la mamma (pessima cuoca) si industriava a preparare l'unico vero pranzo della settimana, nostro padre ci portava a visitare una sala, sempre diversa, a rotazione, della Galleria degli Uffizi". Questo libro è l'occasione per raccontare molte storie dei dipinti e anche dello scrittore che, nato a Firenze, per una decina d'anni, quando era ragazzino, fu portato dai genitori a visitare gli Uffizi, in una sorta di educazione alla bellezza e alla vita, fatta di aneddoti curiosi, giochi con le immagini e familiarizzazione con un luogo dove è racchiuso il segreto della nostra vita immaginaria. Un racconto che è anche un'originale guida per "veder sapendo e scegliendo".
Avola, 6 ottobre 1954. In una masseria di montagna, ricca di non pochi terreni e armenti, convivono le famiglie di Salvatore e Paolo Gallo, fratelli. Si odiano quotidianamente e metodicamente. Liti ripetute che coinvolgono mogli e figli, sedate a fatica dai vicini, futili motivi di rancore e dispetto. È l'alba di un giorno di lavoro, quando Paolo sparisce: restano di lui un basco e qualche macchia di sangue sul terreno. L'incriminazione è facile: la galera pronta per Salvatore e suo figlio Sebastiano, analfabeti e in più confusi. Intervengono a loro difesa due abilissimi avvocati, i due principi del foro di Siracusa, i quali sanno dare gambe legali alla spontanea versione difensiva: che Paolo è scomparso volontariamente e la moglie ha inscenato un omicidio. Si apre così un legal thriller in terra contadina che trova il suo diapason nei processi e si articola nelle vite quasi ubriacate dalla vicenda (amori e inganni, emigrazioni e ritorni, ribellione e mansuetudine), in centinaia di indizi raccolti e falsificati da una parte e dall'altra, testimonianze e avvistamenti acclarati e smentiti di volta in volta. Un inestricabile labirinto di verità e menzogna. Silenzi, rivelazioni, colpi di scena, rovesciamenti dopo che la giustizia-monstre ha macinato più vite. Un romanzo verità sul "morto-vivo di Avola" (così venne denominato), che restituisce il sapore di un'epoca e di un mondo a sé.
"Racconto veritiero di una storia solo in parte supposta, il romanzo cresce e concresce scortato dalla luna. Tutto era lecito allora, nel Seicento, a Palermo, fuorché ciò che era lecito. (...) Tra le pompe di un dovizioso apparato, con maggiordomi, paggi, maestri di casa e scacazzacarte, e in mezzo a uno strisciar di riverenze, di ludi e di motteggi, era tutto un rigirar di scale e porte: un far complotti, ordire attentati, muover coltelli e insanguinar le mani; violar le leggi, collezionar prebende, metter tangenti, dispensar favori e accudir parentele; abusare, predare e ladroneggiare, intorbidar le acque; industriarsi nel vizio, puttaneggiare e finger compassione e trepida carità per il sesso più giovane, e derelitto, mentre un'enfasi scenica e profanatoria provvedeva ai corrotti desideri con burlesques di tonache coi fessi aperti dietro e dinanzi. L'illegalità lavorava a pieno servizio. Era il predicato forte della politica del Sacro Regio Consiglio, e delle sue mosse proditorie, dapprima alle spalle di un Viceré che la malattia aveva reso tardo e lento, grave di carne tremolosa, dirupato e assopito sul suo carcassone; e poi contro la sua vedova, donna Eleonora di Mora, senza paragone diversa, lucidamente ferma e decisa nella difesa delle leggi e della giustizia sociale, da lui designata a sostituirlo in caso di morte improvvisa. Fu così che, nel 1677, la Sicilia ebbe un Viceré "anomalo". Un governatore donna." (Salvatore Silvano Nigro)
"La scrittura non cambia il mondo. Ma è una difesa contro la ferita dell'impotenza. Ne conviene anche Consolo che indossa la cronaca come un linguaggio diverso, moralmente e civilmente allarmato, che non si riconosce nelle narrazioni convenzionali, inadeguate al carico di pena e alle calligrafie del dolore di tante vite 'deportate': avvilite, mortificate, disfatte; dimenticate. Si inoltra nei dintorni oscuri e inospitali della città opulenta, nelle solitudini dei dormitori; si muove lungo gli orli sfumati della vita urbana. Incontra scelleraggine e sordidezza: fattacci di cronaca nera, tragedie familiari, speculazioni omicide. Ridiscende in Sicilia, nei paesi spogliati dall'emigrazione, a inventariare morti e rovine entro un panorama diroccato, abbandonato dallo Stato o affidato all'avidità degli esattori e alle politiche di tale o talaltro onorevole per nulla onorevole. Va per uffici anche. E raccoglie le voci tutte e le scalmane di un pazzo mondo di disservizi e disfunzioni: sgarbato e spiritato; e talmente compresso da sembrare invasato, e come in farsa". (Salvatore S. Nigro)
L'omicidio del signor Siguán è quello che Petra Delicado chiama con fastidio un "caso freddo". Cinque anni prima, l'affermato imprenditore tessile Adolfo Siguán era stato ucciso nell'appartamentino dove celebrava il suo vizio: le giovanissime prostitute, preferibilmente prese dal marciapiede. Ai tempi, la sentenza era stata sbrigativa: rapina con morto ad opera del protettore della prostituta con la complicità di lei. Ma, adesso, quando l'ispettrice della Policía Nacional con il suo vice Fermín Garzón, riaccende con scetticismo la macchina investigativa, le basta togliere un poco di polvere dalle vecchie carte per rendersi conto di alcune incongruenze. Soprattutto, resta enigmatico l'assassinio dell'assassino. All'inizio Petra e Fermín, battono pigri le piste consuete. Ma un incidente, cruento e spietato, fa capire che c'è qualcuno che segue Petra. E questo qualcuno squarcia improvvisamente lo scenario, legando il delitto all'intricato registro degli affari di Siguán che si scoprono connessi alla criminalità italiana trapiantata nella capitale catalana. E quindi a Roma che prosegue la partita. Ed è in questa specie di Vacanze romane, omaggio dell'autrice a un paese che ama, che tutta la forza comica tipica dei gialli della Giménez-Bartlett, si dispiega. Le sue storie, senza essere tinte di altro colore che non sia il noir, senza attenuare malinconie e frustrazioni dei personaggi, riescono a scatenare umori leggiadri di commedia.
Un sessantenne esperto d'arte e battitore d'aste di grande fama, è un cuore gelido, l'unico affetto è quello che prova per gli sguardi scrutanti dei volti femminili della sua segreta e inestimabile raccolta di ritratti. Una giovane donna non esce di casa da anni, nessuno ha più visto il suo volto e vive circondata d'ombre, servita da un anziano portiere. L'incontro tra i due avviene in vista della vendita del patrimonio artistico contenuto nell'antico palazzo ereditato da lei. E tra di loro comincia un gioco torbido e insieme speranzoso che si potrebbe chiamare passione o liberazione. Introducendo questo suo racconto, da cui viene il film "La migliore offerta", il regista Giuseppe Tornatore racconta che nei suoi appunti riposavano da tempo "la figura di una ragazza molto introversa, che viveva reclusa in casa per paura di camminare lungo le strade e mischiarsi in mezzo agli altri" e "un uomo impegnato in un mondo che mi ha sempre attratto, quello dell'arte e dell'antiquariato, un battitore d'aste con la mania dei guanti". Due personaggi isolati che non toccavano la solidità di una storia, fin quando non accadde che, grazie al fluido misterioso della creatività, queste due figure iniziarono a interagire e "una volta innestate l'una nell'altra, la vicenda della ragazza agorafobica e quella del battitore d'aste hanno miracolosamente originato la completezza narrativa che da anni inseguivo e non trovavo".
Nei gialli alla maniera di Malvaldi, in cui si ride della cinica ironia dei personaggi, i luoghi sono fondamentali per l'equilibrio tra umorismo e suspense. Montesodi Marittimo è un paesino toscano di una certa altitudine, nonostante il nome, per di più molto scosceso. Una persona su due porta un doppio patronimico, il secondo dei quali è sempre Palla. Eredità di un marchese Filopanti Palla, gran gaudente, pentitosi in punto di morte di lasciare tanti bambini senza un nome legittimo. Inoltre su Montesodi aleggia un mistero: è considerato "il paese più forte d'Europa". Per scoprirne la causa, vengono mandati dall'Università un genetista, Piergiorgio Pazzi, e una esperta di archivi, Margherita Castelli. Trascorsi i primi giorni, nel panorama umano che gli si offre, i due non trovano nulla di cui meravigliarsi, tranne la forza. È un mondo abitudinario, dominato da due gruppi familiari: il sindaco, l'onesto e schietto Armando Benvenuti, con la moglie Viola, e la maestra Annamaria Zerbi Palla, anziana vedova, con un figlio poco amato. La sorpresa arriva con una tremenda tempesta di neve che isola il paese per giorni. Piergiorgio, che alloggia nella casa della Zerbi, una mattina trova l'energica signora abbandonata in poltrona senza vita. Sembra, a prima vista, un attacco di cuore, ma Piergiorgio capisce che non si tratta di morte naturale e poiché il paese è isolato l'assassino non può essere andato via.
In una sera di Natale la Morte va a trovare Charlie Chaplin nella sua casa in Svizzera. Il grande attore e regista ha passato gli ottant'anni ma ha un figlio ancora piccolo e vorrebbe vederlo crescere accanto a sé. In un lampo di coraggio Chaplin propone un patto alla Vecchia Signora: se riuscirà a farla ridere si sarà guadagnato un anno di vita. Inizia così un singolare balletto con la Morte, e quella notte a salvarlo non sarà la tecnica consumata dell'attore ma la comicità involontaria che deriva dagli impacci dell'età. La questione però è solo rinviata: anno dopo anno, a Natale, la Vecchia tornerà a reclamarlo e bisognerà trovare il modo di suscitarle almeno una risata. Nell'attesa dell'incontro fatale Chaplin scrive una lunga e appassionata lettera al figlio. Vuole raccontargli la storia vera del suo passato, quella che nessuno ha mai ascoltato, ed ecco che dalle sue parole scaturisce l'avventura rocambolesca di una vita e il ritratto di un'epoca rivoluzionaria.
Un istituto bancario ha deciso per i suoi investimenti l'acquisto della Bolla d'oro di Alessio Comneno III, uno di quei documenti con cui, nell'antica Bisanzio, la Cancelleria trasmetteva, con l'aureo sigillo, i decreti imperiali. Sorge, naturalmente, una questione di autenticità, perché queste carte erano nell'Ottocento facilmente falsificate, e la perizia è affidata ai due massimi esperti del settore, il professor Celletti e il timido Bosconi, suo allievo. I due danno pareri opposti e, a complicare l'operazione, il secondo dei due svanisce nel nulla, nelle tappe di una trasferta negli archivi dei monasteri ortodossi del Monte Athos. L'intraprendente Teresa Nitti, donna d'affari che si autodefinisce "una che risolve problemi", è incaricata della ricerca; la signora si rivolge al suo vecchio compagno di studi Carlo Donna. Alla fine, dietro al mistero, si svelerà una truce cospirazione ma il romanzo ha anche una trama più profonda da comunicare: il viaggio-ricerca di Carlo, la sua scoperta dell'universo chiuso e infinito dei monaci barbuti che abitano i luoghi a precipizio sul mare protetti dai millenni. Ma la sua non è un'iniziazione mistica o un'esperienza religiosa trascendente. Con il suo documentare i sentieri, i panorami, le mura, le celle, le conversazioni, i personaggi, il trascorrere delle ore, con il suo sentirsi strappato all'ordinario vivere, Carlo trasmette ciò che ha finalmente capito: di essere giunto "all'ultima dogana della terra".
I grandi autori avvertivano prima di tutto il vuoto - spiega Giuseppe Scaraffia all'inizio di questa traversata a tappe nei costumi di vita dei protagonisti della cultura occidentale. Perciò, tutto quello che facevano, per riuscire a dare diletto a se stessi, era il modo che avevano di "arredare il vuoto"; e quanto più elaborato, eccentrico, sofisticato, maniacale od effimero, questo diletto si mostra ai nostri occhi, tanto maggiore doveva esercitarsi su di loro la pressione diffusa di quel nulla che li minacciava: "ognuno ha la propria ricetta e spesso i più dissipati sono proprio i saggi". Secondo lo stile formatosi in tanti volumi contemporaneamente ironici e colti, Scaraffia conduce il lettore tra le pagine e le vite, con un bagaglio immenso di critica e fatti, e con un tratto di scrittura capace di rappresentare rapidissimo una figura del palcoscenico letterario dei secoli. In questo libro il centro dei suoi interessi sono le attività a cui i grandi si davano per trovare gioia o riposo o oblio o ebbrezza, da cui ricavavano, appunto, piaceri: analizzate e sistemate per ordine. I baci, i cani, i tatuaggi, le valigie, i giardini, le motociclette, e tutto il resto: non suonano come manie di artisti narcisisti ma, nel modo di scandagliarli dell'autore, sono finestre che si aprono sulle anime e sulle poetiche. Ed è come entrare nel salottino di casa dei grandi scrittori e farsi raccontare cosa facevano per dimenticarsi di sé.
Tutto congiura perché Montalbano prenda atto del proprio compleanno e, bravando e brontolando, si lasci ferire dalla ruvida evidenza dei suoi cinquantotto anni. Soliloquista e monologatore, il commissario di Vigàta scivola talvolta in una dimensione immaginativa di minacciosa intensità, ma sa come governare la giostra che il mondo gli fa intorno e deludere i toni di urgenza e le intimazioni di resa. Nuovi accidenti e strani, vili crudeltà e ampie atrocità, messinscene squallide o di fastosa turpitudine, si incastrano capziosamente in un gioco di scatole cinesi irto di replicazioni. Tutto comincia con il furto degli incassi in un supermercato. Seguono a valanga, come per una reazione a catena, delitti di crescente impatto. Il medico legale, Pasquano, ha il suo da fare fra tanto aroma di sangue. È burbero come sempre, nei suoi larghi giri di indisponenza; ma è cauteloso come mai. Si fiuta aria d'intimidazione tutt'attorno. Si intuisce un disegno criminale guidato, con mano di ghiaccio e cinica impudicizia, lungo la zona d'ombra nella quale il potere politico convive e si confonde con quello del malaffare e della mafia: non senza i dimenamenti, le scorrettezze o le connivenze, più o meno attive, persino di alcune autorità preposte al rispetto della legge. Lo stesso Montalbano, che è un rigoroso supervisore di dettagli e ha esatta intuizione scenica, è indotto a una cordialità cauta con i superiori ipocriti e pelosamente prudenti." (Salvatore Silvano Nigro)
Questo libro è un incrocio di idee, biografia e autobiografia, e racconto. Cataluccio dice di non credere a una realtà che sia separabile dalle finzioni che coerentemente ha suscitato, né a una finzione disancorata da ciò che si considera evento storico. Così il suo narrare, che stilisticamente ricorda un procedere sempre visitando luoghi e situazioni prima che fatti, attraversa nella stessa pagina e nello stesso pensiero generi diversi, ma con un piacere di scoprire legami nascosti, un'immedesimazione nei personaggi, un sentimento del ritmo del tempo e una sensibilità naturale verso lo spirito dei luoghi, in grado di rendere complice il lettore con la stessa gioia evidente del momento in cui furono scritti. Un grande bacino di cultura come sottofondo: è la cultura della cosiddetta Mitteleuropa, tra Trieste e il Baltico, la Germania e la Russia, un'Europa di catastrofi storiche, unita solo "dalla memoria comune", "popoli di nazioni mai vincitrici" e per questo, come ha scritto Milan Kundera, "un'altra Europa, il rovescio dell'Europa dei grandi, il vero contrappunto". Da questo serbatoio, Cataluccio trae un'opera, uno scrittore, un'idea, e li proietta su un orizzonte di situazioni da lui vissute o riportate, di incontri memorabili, di notizie storiche tragiche e comiche, di casi e personaggi esemplari perlopiù a noi ignoti ma più espliciti di qualunque descrizione. Ci scorrono dinanzi, uniti strettamente ai nessi culturali, idiomi di popoli negati, villaggi inghiottiti...
Intorno alla chiesa di St Frideswide, dall'alto del suo campanile gotico, a Oxford North, si vede scorrere la vita di quel pezzo di provincia inglese. Il reverendo Lawson è tiepido nella fede come lo è in tutto, tranne che nella raccolta delle offerte; la piacente Brenda Josephs sfoga la sua inquietudine con l'organista Paul Morris distratto dall'erotismo delle sue giovani allieve; il marito di Brenda, Harry Josephs, sagrestano, non trova pace negli umilianti, per lui ex ufficiale, lavoretti che trova da disoccupato; uno strano barbone entra ed esce dalla canonica; qualche vecchia beghina sa qualcosa; una donna formosa attrae l'attenzione, forse volontariamente. In questo clima sensuale e ipocrita qualcuno di loro è un assassino, qualcuno di loro sarà una vittima: e i delitti avvengono in un trascinamento impercettibile delle azioni umane, quasi che fosse l'ambiente a contenere un magnetismo che muove i protagonisti. La chiave della suspense dello scrittore Colin Dexter, ultimo e innovatore rappresentante del giallo classico inglese, è infatti nella capacità di far derivare lo strappo della violenza omicida dalla ordinarietà delle circostanze: una trama costruita particolare dietro particolare già a partire dal soffermarsi dell'occhio narrativo sugli oggetti che designano i luoghi; personaggi non simpatici, tutti abbastanza gretti ma nessuno totalmente privo di bontà e buoni sentimenti; un sussiego scostante da città universitaria di livello prestigioso, quale Oxford.
Enzo Baiamonte, il piccolo eroe testardo della serie di Gian Mauro Costa, ha chiuso per sempre la saracinesca del laboratorio di elettrotecnico. La sarta Rosa, il suo tardivo amore, lo convince a richiedere il patentino di investigatore privato. A che prò - pensa con la scarsa autostima di sempre -, per cercare cagnolini scomparsi, per inseguire qualche adultero? Però, una piccola pensione ce l'ha, per la compagnia ci sono gli scoponi con i quattro amici e poi i lavoretti occasionali non gli mancheranno. Ed è proprio nel corso di uno di questi, che si fissa al solito su una di quelle piste che la fantasia gli fa scorgere. Ingaggiato per curare l'impianto elettrico per la festa della Madonna Addolorata del suo quartiere palermitano, Baiamonte entra in un certo giro, sente discorsi, apprende del cantante neomelodico che è stato anche a lungo uno "scappato" (un piccolo boss fuggito in America durante una guerra tra cosche), si interessa a un individuo di nessun conto ma silenzioso e impenetrabile come una pietra. La sua mente non riesce a star ferma e, contro la sua stessa volontà, comincia a mettere insieme elementi sparsi, che nessuno mai ha pensato di associare: una rapina con il morto innocente, un furgone ammaccato, la scomparsa di un carico d'oro, piccoli furti dalle tombe del cimitero; e legge segni: una foto, una smorfia, un'amicizia infantile, le cure esagerate di una megera, un colloquio cifrato. Così osa immaginare un doppio crimine sottratto alla vista di tutti quanti.
Questo "mistery romagnolo", potrebbe sembrare un cupo romanzo criminale dell'epoca classica. Una gang capeggiata da un Padrone potente e taciturno secondo regola, è il luogo di odi incrociati e segrete ambizioni di ogni risma. Tra i tanti, Amalia, dark lady carnale e crudele nonostante genitori anarchici idealisti, decide di imprimere una svolta al suo rapporto con l'amante, capo operativo della cosca, un essere di nessuna umanità sposato senza sentimenti con l'enorme Minerva, figlia del Padrone. Minerva vigila su tutto e su tutti, immobile nelle sue stanze come un ragno al centro della tela, sicché Amalia, per emarginarla e prendere il suo posto nel cuore dell'amante e nella gerarchia, escogita un complotto. Assolda, tra gli scagnozzi della banda, il più emarginato, Primo Casadei, detto Terzo, uno che sembra capitato lì per caso, ma che si rivela un abile e freddo agente coadiuvato dalla sua squadra di strambi amici. Le cose però si complicano e si intrecciano, si bagnano di molto sangue e sfociano in un incomprensibile mistero risolto dall'abilità deduttiva di Primo. Ma questo, solo guardando la nuda trama. Nella sua realtà questa storia, al contrario dei romanzi criminali dell'epoca classica, non è accompagnata da nessun cattivo umore. Tutto, com'è tipico dei romanzi di Carlo Flamigni, si stempera in un andamento comico, pieno di battute, di situazioni surreali e popolaresche, di personaggi del tutto favolosi ma che le circostanze ambientali rendono veri come la vita.
Maj Sjöwall e Per Wahlöö sono stati la coppia di scrittori a cui si riconosce, insieme a pochi altri, la nascita del genere poliziesco cosiddetto procedurale. Scrissero la famosa serie di Martin Beck e dei colleghi della polizia di Stoccolma, da dove sono stati tratti film e telefilm in tutto il mondo. Loro la consideravano come un unico romanzo a fini di educazione politica socialista. Tanto che il sottotitolo della serie è unico: "romanzo su un crimine", intendendo con "crimine" l'insieme delle circostanze sociali che spingono le persone al delitto. Oltre che nella scrittura e nel fine politico della loro opera, erano compagni nella vita - lei, Maj, più giovane ed entrambi reduci da matrimoni con figli -, ed ebbero una storia d'amore piena di sentimento, di sensi e di vitalità, conclusasi per la prematura morte di lui. In questi racconti (tre a quattro mani, uno di Per e uno di Maj) lettere e note sparse, gli elementi portanti della comune avventura biografica e letteraria si colgono e si intuiscono tutti, rendendo questo piccolo volume un utile compagno ai dieci volumi dei loro polizieschi. Si scopre una scrittura naturalmente leggera, bella, scorrevole, che ha bisogno di alimentarsi di realismo quotidiano e di acutezza psicologica verso i tipi che si incontrano nella vita; si scruta lo stesso panorama di mare e di porti che faceva da sfondo inevitabile al loro immaginario nordico; si entra nel loro romanticismo di coppia, così tipicamente libero e anni Sessanta.
Allmen vive in tutto al di sopra delle sue possibilità, da vero dandy, conservando abitudini, comportamenti cortesi e splendidezze che non potrebbe più permettersi. Giunto alla mezza età, scampato fortuitamente al matrimonio e al fallimento, grazie al caso risolto nella precedente e prima indagine, quella delle libellule del grande Emil Galle da lui ritrovate, ha fondato un'agenzia internazionale per la ricerca di meraviglie disperse, la Allmen International Inquiries. In verità l'idea (e i capitali in buona parte) provengono dall'industrioso e destrissimo servitore guatemalteco Carlos. Nell'agenzia appena inaugurata le cose non vanno a gonfie vele. È quindi accolto come un colpo di fortuna il reticente procuratore che viene a offrire un incarico importante: recuperare il "diamante rosa", gioiello di valore inestimabile rubato a una festa. Ma perché rivolgersi proprio a un'agenzia così modesta ? L'indagine porta Allmen in giro per hotel lussuosi, alle calcagna di un russo, ladro presunto; mentre Carlos resta a casa, dietro la cabina di regia del suo computer. La coppia di detective comincia a dubitare su chi sia il cacciatore e chi la preda, e sinistri indizi e tristi eventi costringono a spalancare gli occhi sul vero enigma. Per scoprire un mondo anonimo rapidissimo e feroce, dove si incrociano la finanza globale e la rete, e l'obiettivo è il dominio assoluto.
Una macabra esposizione al museo dell'ultravanguardia; vendetta e vecchi merletti in un attico di Barcellona; terrori nuovi di fantasmi d'oggi per tenere lontani gli intrusi; il vampiro superstite in una località di villeggiatura che non riesce a leggere i tempi; un serial killer tra i Neanderthal smascherato da un Sapiens sapiens; l'ingenuo Sherlock Holmes di periferia; misterioso omicidio su una navicella spaziale; la folgorante bellezza interiore di un cadavere di donna. Nei suoi romanzi precedenti, con protagonista la coppia di gemelli precari che conduce svagate indagini, la catalana Teresa Solana adopera il giallo brillante per ricavarne gli effetti narrativi prediletti: il sarcasmo che destina alle situazioni umane, la satira sociale della babele culturale in cui viviamo. In questi racconti la sua penna attinge a tutte le sfumature del genere nero e mescola assieme la parodia al sensazionalismo, un cinico realismo, con fantasie grottesche: e l'esito riecheggia la crudele comicità alla Amorose Bierce.
"Un gorgo d'angoscia governa l'alterno respiro delle storie che nel romanzo si tramescolano. Il commissario Montalbano è in apprensione. Gli orli sfumati di un sogno trasudano malessere, sensazioni superstiziose, oscure premonizioni. Un pensiero laterale stenta a chiarirsi, e perdura nella realtà come sospettosa vigilanza; e come soprassalto a ogni minima coincidenza con lo squallore infausto del sogno che di uno straccio di terra aspra e solitaria ha fatto un obitorio a cielo aperto, con bara chiusa e cadavere da riconoscere, sotto una luce itterica e di meteoropatica influenza. Persino il consueto barbugliamento di Catarella si è dato in sogno negli arcani costernanti di una locuzione latina. La rotta sequenza delle indagini, su un'aggressione a mano armata e violenza carnale, su un traffico d'armi, e su degli esportatori di opere d'arte rubate, allinea e intreccia storie di donne di forte e deciso temperamento; mentre il commissario, così esposto al lato oscuro delle cose e ai clandestini giochi della mente, è in attesa che qualcosa di non del tutto delucidato esca fuori, alla fine, da un qualche retroscena, e si riveli. Si sedimenta lo spaesamento in Montalbano. Nella vita del commissario va crescendo un senso di solitudine che accascia e predispone a una morbidità di sentimento. Livia continua a essere una voce nel telefono, una minaccia costante e fastidiosa di baruffe. Un'assenza. Una lontananza impegnativa. Irrompe in carne e ossa una donna fatale...". Salvatore Silvano Nigro
"Capiva che è meglio la morte di una scomparsa, che è un po' il tema di questa storia che vi sto narrando". Un giorno, ad Amedeo Consonni, tappezziere in pensione e collezionista per hobby di cronaca nera, si presenta del tutto inaspettato il Barzaghi, compagno di lavoro di quando addobbavano le carrozze della Wagon-Lits. Nel suo vecchio casolare, in un'intercapedine ha trovato tre scheletri; e vorrebbe aiuto, dall'antico collega con il suo pluridecennale archivio di crimini, per capirci qualcosa, prima di rivolgersi alla Polizia con il rischio che gli blocchino i lavori di restauro. Sente il Consonni che è il prezzo della fama guadagnata per il ruolo (lui dice del tutto casuale) avuto nella risoluzione del precedente caso, cosiddetto della Sfinge di Lentate. Contro la sua volontà, dal suo arredatissimo appartamento nella casa di ringhiera, si trova costretto a cercare dei nomi per quelle ossa. Così inizia la commedia degli errori che ha tutta l'apparenza di un giallo ed è in effetti il mistero impenetrabile delle vite quotidiane quando sono scrutate da un cortile condominiale. Spuntano piste di ogni genere, ingegneri inghiottiti in loschi affari, boy-scout svaniti come fumo dietro a storiacce d'amore: e lui le segue tutte, mentre cadono a destra e sinistra pezzi di esistenza quotidiana a formare storie parallele che assumono autonomia e propulsione propria. Ma è un'unica vicenda che nasce dal connubio tra l'intrigo degli scheletri e il mestiere di vivere che agita lo zoo umano degli inquilini.
"Naturalmente, quando ho cominciato a raccontare questa favola per il vostro diletto, non sapevo che di lì a poco avrei incontrato i miei due corvi nella vita vera". Questo nuovo caso per Aristotele detective ha inizio mentre il filosofo è occupato a discutere con gli allievi del Liceo la funzione del denaro. La strada migliore per raggiungere la felicità, sostiene un giovane viziato. Ma il vecchio Stagirita non è d'accordo e per illustrare la propria visione economica, nel quadro della più vasta teoria della polis, sceglie una parabola (un'abitudine, come osserva ironico uno dei discepoli, platonica più che aristotelica): la favola dei due corvi bianchi. Il filosofo ha appena iniziato a raccontare che arriva un uomo trafelato. E Caronide, un vedovo, una volta possidente, che ha ceduto terreni e schiavi per ridursi a vivere su uno stentato podere accudendo le capre. Costui chiede ad Aristotele di indagare sulle macchinazioni del cugino, il ricco Simmaco, che vorrebbe impadronirsi delle ultime sue risorse. Aristotele non accetterebbe quell'incarico da piedipiatti, ma a convincerlo c'è una singolare coincidenza: il governatore Licurgo gli ha chiesto di recarsi ad Idra, la vicina isola dov'è rifugiato il detto Simmaco, per chiarire un caso di corruzione di giuria; inoltre, la città di Atene ha deciso di inviare nella stessa isola Stefanos, il braccio destro nelle specula zioni poliziesche come Teofrasto lo è in quelle del Liceo. Così Aristotele si trova ad affrontare tre casi..
Si vuole che il racconto abbia la geometria di un sonetto, con una trama rigorosamente distesa su una tavola metrica "baciata" alla fine da un'arguzia, che può essere sì un colpo di scena, ma entro la prevedibilità di una catena di cause e di concause. Diversa è la meccanica dell'immaginazione che Camilleri sceglie. Lui è un orologiaio fantastico. Carica le molle, e decide che siano inavvertitamente scombinate: in modo che l'ora segnata suoni inattesa e fragorosa, come un refuso del destino, uno schianto che si prende la rivincita sui normali procedimenti di scioglimento, mentre rende la storia che si racconta asimmetrica ai desideri e alle attese degli stessi protagonisti. Di siffatta specie sono gli otto racconti vigatesi qui raccolti, ognuno dei quali apre lo sguardo sui casi quotidiani di una provincia che vive a rate le balzanerie e le strampalatezze di una società sedotta dalle proprie furbizie e dalle sue stesse ciance: tra battibecchi da circolo, lambiccati bizantinismi, ludi e motteggi, eterne liti familiari, infervoramenti carnali, sbatacchiamenti, oneste mignotterie, dolorosi stupori e premurose cordialità. Non c'è ordine cronologico nella successione dei racconti. Ognuno di essi è però un bordo d'inquadratura che prende d'infilata la scena larga di Vigàta di volta in volta bloccata nei mesi e negli anni di pertinenza, lungo un arco che va dal 1893 al 1950
Il principe fulvo, Don Fabrizio Corbèra, Principe di Salina, è il protagonista di questo arioso "racconto di un romanzo" che Salvatore Silvano Nigro ha costruito per svelare II Gattopardo e guidarci in una regolata intimità di documenti inediti, lettere e testimonianze che, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, illuminano biografia e scrittura. Vengono in primo piano le intemperanze degli anni giovanili di Lampedusa, la vocazione a sgangherarsi nel tentativo di riscrivere "Il Circolo Pickwick" di Dickens. Tutto questo romanzeggiare dickensiano sta prima e dietro "Il Gattopardo". Nigro rapisce lo sguardo quotidiano del Lampedusa maturo, entrando nelle prospettive casalinghe e urbane che erano finite sotto i suoi occhi, per rintracciarvi le immagini che, trasfigurate, si sarebbero trasformate nel "Gattopardo" in veicoli narrativi e in impianto di forme. E si scopre con sorpresa come perfino le più apparentemente innocue presenze di una vita siano diventate "personaggi". In questa luce il capolavoro di Lampedusa è raccontato non come il romanzo storico che tutti conosciamo, ma come un segreto romanzo fantastico e allegorico intimamente strutturato dalla trama di un quadro vivente. Dentro "Il Gattopardo" si muovono una mutante creatura di cielo e di mare, sagome di animali che fanno sberleffi o imprecano, due statue animate: una Venere, determinata e "assassina"; e un Ercole in divisa fulva, da leone, legato all'araldica e alla simbologia dei Borbone.
"Non è che tutti gli anni possono ammazzare qualcuno per farvi passare il tempo", sbotta disperato Massimo il barrista. Ma è impossibile sottrarsi al nuovo intrigo in cui stanno per trascinarlo i quattro vecchietti del BarLume: nonno Ampelio, il Rimediotti, il Del Tacca del Comune, Aldo il ristoratore. Dalla vendita sottoprezzo di una villa lussuosa, i pensionati, investigatori per amor di maldicenza, sono arrivati a dedurre l'omicidio del vecchio proprietario, morto, ufficialmente, di un male rapido e inesorabile. Massimo il barrista, ormai in balìa dei vecchietti che stanno abbarbicati tutto il giorno al tavolino sotto l'olmo del suo bar nel paese immaginario e tipico di Pineta, al solito controvoglia trasforma quel fiume di malignità e di battute in una indagine. Il suo lavoro d'intelletto investigativo si risolve grazie a un'intuizione che permette di ristrutturare le informazioni, durante un noioso ricovero ospedaliero: proprio come avviene nei classici del giallo deduttivo. E a questo genere apparterrebbero, data la meccanica dell'intreccio, i romanzi del BarLume, se non fosse per le convincenti innovazioni che vi aggiunge Marco Malvaldi. La situazione comica dei quattro temibili vecchietti che sprecano allegramente le giornate tra battute diatribe e calunnie, le quali fanno da base informativa e controcanto farsesco al mistero. La feroce satira che scioglie nell'acido ogni perbenismo ideologico. La rappresentazione, umoristica e aderente insieme, della realtà della provincia italiana...
Scrive Andrea Camilleri nella Nota a questo volume: "Nella mia vita ci sono stati due libri che mi hanno formato non come scrittore, ma come persona. Il primo era stato "La condizione umana" di Malraux, il secondo indubbiamente fu "Il mondo e una prigione" di Guglielmo Petroni. Fu, dunque, Petroni uno dei protagonisti della cultura italiana del secondo Novecento, come poeta, come narratore e anche come organizzatore (essendo tra i creatori del terzo programma radiofonico). Il nome delle parole è il libro autobiografico dal quale traspare un desiderio di sintesi, di bilancio: quasi un giustificare la scelta di dedicarsi, lui di famiglia povera, bambino autodidatta, alla cultura; scelta sentita simile a una sorta di tradimento del destino di nascita suo e di quelli come lui di non potersi esprimere. Un racconto che va dalla "casa povera" alla "casa giusta", cioè dalla prima infanzia agli anni dell'affermazione. Scandito in tre tempi. Il tempo dell'infanzia, in cui un essere sensibile alla bellezza apre gli occhi dentro "una vita povera che non conosce il nome dei colori e nemmeno quello delle parole". Il tempo dell'adolescenza, in cui per caso Guglielmo s'incontra con l'arte e l'arte gli trasmette il bisogno imperioso di "impossessarsi delle parole necessarie per adeguarsi agli oscuri sovvertimenti che le nuove immagini avevano provocato nel mio povero spazio spirituale": un bisogno di lettura di poesia e di scrittura.
"Tutto d'invenzione è il rustico paesotto: il paesaggio remoto, le otto chiese (sette per gli abbienti, una per i contadini), il Circolo litigioso e scalmanato; le scivolose segretezze, le vacanterie escandescenti di angusti e scaduti puntigli, le aggressioni sbagliate fatte in nome dell'onore, la foia atroce di un brigante dal nome biblico, l'astio e le divisioni tra bassa aristocrazia di campagna, professionisti borghesi, massari, campieri, nullatenenti. Assolutamente vera è invece la faccenda, testimoniata da Filippo Turati e da Don Luigi Sturzo. E personaggio storico è il protagonista Matteo Teresi, avvocato dei poveri e dei deboli; e giornalista, che la sua animosa attività di denuncia nutre di socialismo umanitario. Un fremito, un rimbombo, un intollerabile fracasso investe il villaggio. Si teme un'epidemia di colera. Corre l'anno 1901. Per un susseguirsi sbrigliato di equivoci, si crede al contagio. A un'invasione del Maligno. Nelle chiese si raccolgono e si mescolano le classi sociali. I preti, tutti, tranne quello della parrocchia dei poveri, svampano dai pulpiti sulle teste dei fedeli spauriti. Colgono l'occasione e infamano Teresi. Lo accusano di essere un sovversivo: in lega con il diavolo, nelle sue battaglie laiche. Viene indetta una crociata d'espiazione contro 'il diavolo sotto forma dell'avvocato', che attenta all'ordine sociale e all'unità sacra delle famiglie per dar luogo a una nuova Sodoma e a un'altra Gomorra." (Salvatore Silvano Nigro)
Tre individui: tre diversi la cui emarginazione non è dovuta a cause sociali o ideologiche, ma alla sindrome di Tourette, che provoca tic motori e verbali e una luminosa sensibilità. Sono amici; hanno passioni complementari; svolgono lavori solitari. Il primo è sospettato ingiustamente di un omicidio e diventa bersaglio di inspiegabili tentativi di ucciderlo. Gli altri due cominciano a indagare sul delitto per scagionarlo. Scovano le tracce di traffici tenebrosi e assassini, incrociano un gigante russo che nutre perverse utopie estetiche, si battono contro coppie di gemelli killer. Incompresi dalla polizia, tormentati da tic compulsivi che imitano pezzi di realtà svelandone la trama invisibile, vagabondano per le calles livide e i sotterranei miserabili di una Buenos Aires che prepara il bicentenario della indipendenza, tra bombe di nazionalisti, colonne di fumo, palazzi distrutti. "La sindrome di Rasputin" non è un giallo convenzionale. La critica in Argentina lo ha definito un feuilleton avventuroso, e l'autore, un innovatore del genere nella letteratura in lingua spagnola, vi unisce, all'avventura, l'azione cruda, la comicità del grottesco e dell'assurdo che diventa logica del mondo, sprazzi da fantascienza, e una visione in bianco e nero che s'ispira esplicitamente a sguardi cinematografici. Il tutto per raccontare, in fondo, la sostanza umana di un'amicizia nata dove la cosiddetta normalità erige i suoi muri.
Quattro donne in un labirinto senza uscita. Il laboratorio dell'esperimento è un chiuso residence messicano. Un villaggio in cui vivono in lussuoso isolamento le mogli degli ingegneri stranieri al lavoro in un grande cantiere. Paula, aspirante scrittrice e intellettuale, di umore scostante; Victoria, professoressa di chimica, intelligente e positiva; Susy, giovanissima americana segnata da un passato familiare traumatico e affamata d'affetto; Manuela, moglie sessantenne del capo, realizzata e sicura di sé con uno spirito protettivo da matrona. Piccole invidie, normali pettegolezzi, pretese e profferte di amicizia, sottili nevrosi, si incrociano e si scontrano come prevedibile e naturale. Ma un giorno una di esse si innamora del marito di un'altra. E scoppia una specie di reazione a catena, che investe, in una tempesta di sentimenti implacabili, ognuna di loro e ciascuno dei rapporti matrimoniali. Come se la scintilla di quell'amore irregolare fosse il lampo improvviso che illumina, per un attimo e per sempre, un paesaggio sconosciuto, fino a quel momento sepolto nella notte. Alicia Giménez-Bartlett si immerge impietosa nelle fragili personalità esposte allo stress di situazioni improvvise, insolite, che le scoprono indifese.
"Il tuo problema, Martin, è che fai il lavoro sbagliato. Nel momento sbagliato. Dalla parte sbagliata del mondo. Nel sistema sbagliato" è la frase finale di quest'ultimo romanzo che conclude la saga poliziesca di Martin Beck e della sua squadra di investigatori sulle strade di Stoccolma. E, detta dall'amico leale Kollberg che si è ritirato disgustato dalla polizia, suona simile a un'epigrafe generale di tutte le loro avventure. I dieci "romanzi su un crimine" della coppia Sjowall e Wahloo intendevano, infatti, mostrare come vanno le vere indagini di polizia nella società impastata di ingiustizia: quando il successo del poliziotto migliore, che svela le circostanze e le cause reali, coincide sempre, inevitabile, con il suo stesso fallimento morale. In "Terroristi" tutti questi motivi diversi -l'avventura, la denuncia sociale, l'inquietudine morale, una certa satira di costume dei potenti risaltano in esplicito rilievo. Giunto all'apice della carriera, Martin Beck deve affrontare, di fatto contemporaneamente, più casi insieme. L'omicidio di un regista pornografico e imprenditore del vizio. Una strana rapina commessa, a a detta dello sbrigativo procuratore, da una ragazza madre fuoriuscita da un mondo incantato. E infine, vicenda principale, l'attentato terroristico progettato contro un potente senatore americano in visita.
Un Natale degli anni Cinquanta. Tutta la famiglia è riunita intorno all'albero, che porta sulla cima un puntale con l'effigie di un angelo che il piccolo Morfeo fissa incantato; ora il bambino si allontana, si rannicchia presso una finestra, quando una persiana si stacca piombandogli sul capo. Il trauma lo lascia per giorni tra la vita e la morte. Ciò che segue è il tempo di Morfeo, da quel disgraziato incidente agli anni futuri. Ma ciò che segue può essere letto come un lungo delirio, come un sogno oppure come un racconto di verità alterato dal dolore, un dolore che c'è sempre, acquattato nelle pieghe della vita, e periodicamente mostra la smorfia. Morfeo cresce, diventa scrittore, incontra il mondo e i suoi curiosi abitanti: ha amici, passioni, e un amatissimo figlio. Ma tutto il suo cammino è segnato dalla malattia, forse eredità di quella ferita, forse no, che lo rende diverso e non mette d'accordo i medici, tantomeno l'industria delle cure. Superbia, vanità, incompetenza, ma soprattutto il cinico affarismo lo lasciano in balia dei farmaci, ne diventa dipendente, le sue giornate sono ritmate da quel "dominio chimico".
"Il commissario Montalbano si tiene costantemente d'occhio. È frastornato dai trasognamenti. Qualcuno gioca ingegnosamente con lui. Misura i passi del commissario. Li indirizza. Li spinge là dove è inutile che vadano: lungo piste che, se sono giuste, si rendono irriconoscibili, si cancellano, o si labirintizzano. Montalbano ha una sua cultura cinematografica. E gli viene in mente il vecchio film 'La signora di Shanghai' di Orson Welles: il torbido noir, con tutti i suoi scombussolamenti, e tutti i suoi illusionismi barocchi. Montalbano entra nel film. E vede se stesso disorientato, dentro la scena finale, nella sala degli specchi di un padiglione del Luna Park. Il prodigio degli specchi altera lo spazio visibile. Si spara. Ma non si capisce se i bersagli sono reali o esito di un gioco di specchi. Un villino, un giro di macchine, una storia d'amore un po' scespiriana, due esplosioni apparentemente insensate, un proiettile senza tracciabile direzione, una coppia di cadaveri, bruciato uno, bestialmente violentato l'altro, entrano nella trama del romanzo. La narrazione si concede focali corte, inquadrature insolite, avanzamenti lentissimi alternati a piani-sequenza vertiginosi. Scorre come un film. Turba e sconvolge, ma non si nega qualche respiro ludico, utile anch'esso alla soluzione del giallo. Persino Catarella ha il suo momento di gloria, alla fine." Salvatore Silvano Nigro
Amedeo Consonni, tappezziere in pensione, vive in una casa di ringhiera, arredata, grazie alla sua arte, come prezioso boudoir. Si dedica, nel tempo libero, ad un ascetico collezionismo: archiviare notizie su delitti feroci e violenti, provenienti da qualsiasi fonte. E quando dalle cronache rimbomba dappertutto il caso dello strano omicidio "della Sfinge", è immediato per lui occuparsene. Un egittologo dilettante è stato ucciso, il cadavere mutilato ridotto a mimare una statua egizia. Nel frattempo davanti alla sua finestra sul cortile, trascorre la giornata degli altri inquilini. Ci sono Erika e Antonio, nel monolocale vicino. C'è il vecchio De Angelis, che bada solo alla sua Opel. La professoressa Mattioli, cinquantenne affettuosa, attraente anche per l'alone di mistero che la circonda. Si arrabatta la famiglia dei bambini Gianmarco e Margherita: il padre è alcolizzato e la madre cerca di difendere eroicamente il decoro. Su questo mondo, misero ed egoista ma, a guardarlo senza rancore, commovente nelle sue inutili passioni, improvvisamente cala un'atmosfera delittuosa. Negli appartamenti di ringhiera scompare un uomo e appare un cadavere di donna. E questo muove tutto un vento di equivoci e di sospetti che sconvolge gli inquilini. E mentre i delitti del cortile marciano caoticamente verso una loro beffarda rivelazione, confuso, frastornato e travolto dagli eventi, Amedeo, senza volerlo, guida l'indagine alla verità.
Martin Bora è un ufficiale della Wehrmacht, qui cronologicamente agli albori della sua carriera investigativa. Bora è un gentiluomo di antica nobiltà guerriera, fascino tenebroso, amante sfortunato, temperamento di severità kantiana, ma soprattutto roso, fino al disagio fisico tangibile, dalla contraddizione che non sa risolvere. Egli ha giurato obbedienza, e il codice d'onore gli vieta deroghe, ma cresce in lui la consapevolezza degli orrori dei nazisti, che disprezza per odio politico, per arroganza aristocratica, ancor più perché offendono il suo senso etico ed estetico. La carriera di Bora nel controspionaggio è appena iniziata. Il compito è quello di accompagnare una trilaterale tedesco-nipponico-italiana, una conferenza di affari e di scambio di tecnologie militari. Ma è una copertura. La missione reale è di indagare attorno al "Signore delle cento ossa", una spia che secondo una prima ipotesi si identifica nella persona di Ishiro Kobe, rigido generale giapponese. Una mattina, andando a prelevare Kobe per una cavalcata, scopre la scena raccapricciante del primo omicidio:. Nel bagno accanto, annegato nel sangue, l'aiutante Nogi. Sembra un delitto di onore, o di passione. Ma Bora si orienta diversamente: un terzo è penetrato nella stanza, l'assassino. Tra mistificazioni, altri delitti, tradimenti, Martin Bora si inoltra negli ambienti lividi dove la guerra incombente favorisce intrighi come pozioni venefiche. E dove perderà la sua fiducia.
Memoria familiare, nostalgia dell’infanzia, romanzo autobiografico. “Un filo d’olio” è tutto questo. E anche un ritratto della Sicilia anni Cinquanta in una famiglia dell’aristocrazia terriera. Simonetta Agnello Hornby ha raccontato la Sicilia con storie forti e personaggi leggendari, dalla Mennulara, alla zia marchesa, alla monaca Agata, attraversando l’Otto e il Novecento. Ora è il ricordo autobiografico che si fa protagonista in uno scenario, quello della casa di campagna, dove l’autrice ha trascorso le estati della sua infanzia e giovinezza. Si chiama Mosè il luogo dell’anima di Simonetta Agnello, nome biblico derivante dal primo proprietario - un’opera pia - della antica masseria che ha resistito alla guerra. A pochi chilometri dai templi dorici dell’antica Akragas Mosè accoglie da maggio a ottobre la famiglia Agnello. Simonetta rivive e racconta quelle estati, i riti del viaggio, l’arrivo - ogni volta una emozione rivedere l’enorme gelso, le aie assolate, gli ulivi argentati, le stanze fresche, cercare i nidi tra le persiane, attendere gli ospiti, le visite, i cugini. I giochi, gli svaghi che si ripetono sempre uguali. E nel racconto affiora il lessico familiare, i parenti e le loro mille storie, i contadini, la servitù, figure che si sono impresse nella memoria dell’autrice e da cui ha tratto spunto per i romanzi in cui storia e tradizione si combinano con una intensità evocativa tale da far pensare ad alcuni classici della letteratura siciliana. Fra i ricordi più vivi quelli legati ai riti del cibo e della sua preparazione, piatti legati alla tradizione familiare, agli aromi pungenti della campagna, alle verdure spontanee e ai segreti mai svelati. E sono le ricette della sorella Chiara - inseparabile compagna al Mosè - che incorniciano ogni capitolo di questo affresco, dal caffè dal profumo speziato, riservato alle occasioni speciali, alla tuma tiepida e croccante.
"Spesso la pittura ha mosso la mia penna. Se in un lontano pomeriggio del 1970 non fossi entrato al Prado e non fossi rimasto "prigioniero" davanti a Las Meninas di Velazquez, incapace di uscire dalla sala fino alla chiusura del museo, non avrei mai scritto 'II gioco del rovescio'. Lo stesso vale per l'enorme suggestione provata da bambino davanti agli affreschi del convento di San Marco, rivisitati spesso da adulto, che un bel giorno ritornò con prepotenza sbucando nelle pagine de 'I volatili del Beato Angelico'". Dalla suggestione di un'immagine, soprattutto dalla pittura, nascono questi racconti di Tabucchi. Ma a sua volta il racconto sembra catturare in un'altra dimensione le figure che lo provocarono: è quella contea fantastica dove, come scrisse Leopardi, "l'anima immagina quello che non vede". Così le figure sembrano risvegliarsi dalla loro immobilità, acquistano vita, da immagini diventano personaggi e interpreti delle loro storie. Suddiviso come un ideale spartito musicale (l'Adagio dove prevale la chiave della malinconia, l'Andante con brio per un'atmosfera più giocosa, le Ariette laddove il motivo è solo accennato e non eseguito) questo libro polifonico è anche il puro piacere del testo, un fuoco d'artificio narrativo, lo stupefacente cromatismo di un maestro riconosciuto del racconto.
Per i più, Chernobyl è solo la centrale atomica luminescente per il suo bulbo di uranio infuocato e le storie da day after seguite all'incidente del 1986, il più grave di tutti i tempi. Ma quell'evento faustiano, che segnò la vera data finale del comunismo, fu in realtà l'estremo anello di una lunga catena di evacuazioni e massacri di genti, di luciferini stermini di culture: quasi che quell'angolo di terra ucraina fosse luogo eletto di un progetto per la cancellazione del diritto degli uomini di narrare la propria storia. E in tale progetto di cancellazione della memoria, questo libro si immerge e mira a rifarne la storia, quasi in forma di romanzo dalle forti venature autobiografiche. Chernobyl è un luogo antico, di numerosissima popolazione ebraica, benché scarse tracce siano rimaste di quel mondo per provare a immaginarlo. Fu il centro incontrastato del Hassidismo, che divenne l'anima di quei luoghi. Ma a Chernobyl e dintorni presero forma le più livide crudeltà delle guerre tra ucraini, russi e polacchi. Alle vendette staliniane si alternarono le stragi naziste: l"Holomodor" (la morte inflitta attraverso la fame) distese il suo mantello su quei campi, durante le carestie della collettivizzazione forzata, e cancellò un terzo degli ucraini e il loro universo contadino; furono annientati gli ebrei e la loro cultura.
Ritorna la Romagna di Flamigni con la sua variegata e allegra galleria di personaggi che hanno conquistato i lettori di “Un tranquillo paese di Romagna” e di “Circostanze casuali”: Primo Casadei e la sua famiglia, gli amici Proverbio e Pavolone, alle prese l’uno con un ricovero in terapia intensiva, l’altro con il desiderio di mettere al mondo un figlio con l’amata Maite. E sono problemi che li pongono di fronte a questioni di morale - la fine della vita e il suo inizio - non facili da risolvere soprattutto perché oscurate da leggi mal scritte e mal interpretate. Gli affanni dei due amici si intrecciano con la trama principale del romanzo. Giuseppe, figlio di una delle tante cugine di Primo, giornalista in una emittente televisiva, arriva in Romagna per una inchiesta sul «Presidente», uno di quei potenti che si muovono con disinvoltura tra politica danaro e malaffare senza però sporcarsi le mani. La sua vita è all’insegna della discrezione per non dire della segretezza. Giuseppe ha colto al volo l’occasione dell’inchiesta anche perché la sua fidanzata ha deciso di presentarsi al concorso Belle e Brave che si svolge in Romagna proprio in quei giorni. Accompagnata dalla mamma insieme hanno capito quali sono le mosse giuste per avere successo. Giuseppe si muove con eccessiva disinvoltura, a tratti con ingenuità, alla ricerca di verità sul Presidente, e Primo, che ben conosce il mondo al confine tra lecito e illecito (nel suo passato c’è anche la prigione), lo mette in guardia e lo avverte di fermarsi.
San Carlo, Maremma Toscana. Il conte Alinaro Bonaiuti ha invitato nel suo maniero degli ospiti per la battuta di caccia del fine settimana; tra questi, c’è il noto gourmet Pellegrino Artusi. La prima sera del week-end, a cena, il padrone di casa è di umore allegro. Accenna ad una grossa vincita ai cavalli, quindi invita gli ospiti nella sala da fumo dove brinderanno alla vincita. Poi, scusandosi, spiega di non poter bere champagne per i suoi problemi di stomaco, e ripiega sul suo solito Porto. Durante la notte si sente male. Questa volta Malvaldi si cimenta con un giallo di impianto classico - l’ambientazione ottocentesca, il castello, i delitti, la nobiltà decaduta, il maggiordomo - illuminato però dalla presenza di Artusi, il grande gastronomo che con la sua “Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” dette dignità alle pietanze di tutti i giorni. Sarà proprio Pellegrino - studioso di storia naturale oltre che letterato - a trovare con il suo acume e la sua curiosità la chiave per arrivare alla verità, mentre Malvaldi - lasciati per il momento i quattro vecchietti del BarLume - ci consegna il magnifico ritratto di un italiano memorabile che si muove a suo agio in mezzo a personaggi di invenzione.
Otto storie, tanto perfette e compiute da costituire ciascuna un breve romanzo. Ci sono i personaggi della Vigàta di ogni tempo, l’inventario di una Sicilia dalle inesauribili sfaccettature: avvocati brillanti, chiromanti improvvisate, contadini e studentesse, preti e federali, comunisti sfegatati, donne risolute, un repertorio che suscita il sorriso o la pietà, e sempre un forte coinvolgimento. Ma in queste storie c’è anche un elemento fiabesco, mitico, un improvviso scarto dalla narrazione che ritorna insistente. È una traccia sotterranea che si mescola con il momento storico che è sempre ben definito, al punto che sin dalle prime righe di ogni storia la narrazione viene incastonata in una data precisa, la fine dell’Ottocento, l’alba del 1900, ma più spesso gli anni del fascismo, dello sbarco, del dopoguerra. Quasi sempre è l’ironia, la burla a dominare, o il gallismo brancatiano, oppure l’umanità solidale che non manca mai nelle storie di Camilleri che in quella «piazza della memoria» che è Vigàta, attinge a storie vere o verosimili depositate fra i suoi ricordi, per reinventarle e raccontarle con la sua capacità affabulatoria, tutte spruzzate da una polvere di simpatia.
Lorenzo, romano, è studente a Medicina e si trova nel pieno di una di quelle crisi di identità ben note agli universitari del post-sessantotto. A un passo dalla laurea, si sente ormai del tutto fuori dal mondo studentesco, che gli brulica intorno svagato e pieno di conformismi inconsapevoli; però sa che la vita professionale adulta che l’aspetta è un appuntamento inevitabile con un sé sconosciuto e inquietante. Ad aggravare malinconie, ansie e straniazione, c’è il momento storico in cui Lorenzo si trova del tutto immerso: la metà degli anni Settanta, quando il movimento studentesco inizia a risentire di sfinimento e delusioni, mentre intorno scoppiano i primi fuochi del terrorismo e continuano nelle piazze le stragi dai mandanti occulti. Tra lezioni, visite in corsia col codazzo di assistenti e allievi, e un dibattito del Collettivo studentesco che sta per occupare la facoltà, Lorenzo con un suo amico fa una scoperta raccapricciante. Il professor Mori, luminare di ematologia, è trovato ucciso in un modo rituale: lui, medico del sangue, morto dissanguato. E non sarà quella l’unica cerimonia nera con simboliche liturgie e vittime altrettanto illustri. La forza delle circostanze coinvolgerà Lorenzo nella sequela di vendette in camice bianco. La sua esistenza, amicizie studi amori, ne sarà sconvolta fino a quando la verità non emergerà dalla sequenza di sangue. È un giallo misterioso e crudele. Ma per tutto il contorno del racconto, il suo sfondo e la sua ambientazione, Viale del Policlinico è il ritratto mobile di una generazione fortunata ma anche travagliata da complessità incipienti. Un sapiente quadro d’ambiente, sui cattedratici di un tempo simile eppure molto diverso, sui fremiti degli studenti di allora, e sulle atmosfere del loro sacro tempio di una volta, la facoltà di Medicina.
Claudio Coletta (Roma, 1952) lavora come medico presso un ospedale di Roma. È stato membro della giuria internazionale del Roma Film Festival 2007. Oltre a numerosissime pubblicazioni in campo scientifico, questa è la sua prima opera di narrativa.
«Deve essere difficile per il vero colpevole sfuggire alle vostre investigazioni. Può non aver lasciato alcuna traccia materiale, ma voi cercate invece quelle morali e finite per trovarlo». Di Scerbanenco colpisce, soprattutto nei cinque gialli della serie con Arthur Jelling, il miscuglio di realismo e fantastico, di logica investigativa e psicologia. Un insieme che, ben amalgamato, dà ai suoi polizieschi una vaga atmosfera da cruda fiaba. L’effetto fiabesco è marcato dalla singolarità del timidissimo investigatore, dotato di una profondità psicologica da veggente; dall’ambientazione in una Boston più mitica che reale; dal voluto esotismo dei personaggi, ciascuno ogni volta stilizzato nella sua tipicità sociale; e, inoltre, da una serie di intrusioni che sembrano immanenti e terreni incantesimi. Qui il ruolo dell’incantesimo è retto dalle capacità di due cani prodigiosi che si riveleranno decisivi nella meccanica dell’intreccio. In questa inchiesta, scritta nel 1942, Arthur Jelling, archivista capo della polizia di Boston prestato per le sue capacità alle investigazioni sul campo e sempre desideroso di ritornare al più presto alla tranquillità familiare, deve affrontare un assassinio sul treno. Situazione classica, questa, della letteratura poliziesca deduttiva, con i possibili sospetti tutti raccolti in un unico ambiente. La complicazione però nel caso del Cane che parla è costituita da due misteri: non è chiaro se la vittima sia stata uccisa con un colpo partito dall’esterno o, con un misterioso artificio, dall’interno; e nessuno dei passeggeri sembra aver potuto provocare l’arresto del treno necessario all’assassino per colpire. I sospetti e i testimoni, provengono tutti dal mondo dell’editoria: poeti, giornalisti, scrittori, editori, critici letterari, uniti da stili di vita comuni e divisi da invidie e competizioni. Jelling risolve tutti i misteri ma non riesce ad evitare un triste prezzo da pagare alla verità.
Giorgio Scerbanenco (1911-1969), nato a Kiev, vissuto in Italia, scrisse un numero immenso di romanzi di tutti i generi fantastici, tutti con una personale inimitabile cifra narrativa. I romanzi con protagonista Duca Lamberti lo incoronarono maestro del noir italiano. Questa casa editrice ha pubblicato Uccidere per amore (2002), La mia ragazza di Magdalena (2004), Rossa (2004), Uomini ragno (2006), Annalisa e il passaggio a livello (2007), Sei giorni di preavviso (2008), La bambola cieca (2008), Nessuno è colpevole (2009) e L'antro dei filosofi (2010).
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Berlino, 1940. Jablonskistrasse numero 55: la postina Kluge consegna ai Quangel, modesta famiglia operaia, la lettera che comunica la fine del loro unico figlio, “morto da eroe per il suo Führer e per il suo popolo”, mentre la Francia capitola. Oltre al dolore indicibile, la notizia scatena nel cuore di Otto e Anna Quangel, mai iscritti al partito ma che con il nazismo convivono come tanti, un sussulto di ribellione e il desiderio di fare qualcosa. Nasce l’idea di un’azione di controinformazione: scriveranno cartoline postali con appelli contro il Führer e il partito, da lasciare dove capita, per diffondere almeno il germe del dubbio. In due anni scrivono quasi 300 cartoline, che finiscono però quasi tutte nelle mani della polizia. La gente è spaventata, ci vuol poco per essere arrestati dalla Gestapo e finire nei guai. Mentre i Quangel agiscono in solitudine, seguiamo le vicende degli altri abitanti del condominio: i Persicke, fedelissimi del partito nazionalsocialista, la vecchia ebrea Rosenthal, la spia Borkhausen, il giudice Fromm, l’ispettore Escherich che indaga sulle cartoline. È il nazismo, il protagonista del romanzo, non quello dei gerarchi e delle grandi decisioni, ma il sottile strisciante nazismo di tutti i giorni, nelle fabbriche e per le strade, nelle prigioni e nei manicomi. Ognuno può essere il nemico, il delatore. Un romanzo di straordinaria forza, una storia che tiene con il fiato sospeso anche se già sappiamo che finirà male per tutti. La vicenda trae origine da una storia vera. Alla fine della guerra nella Berlino liberata dai sovietici, viene affidato a Fallada - sopravvissuto al nazismo e alla guerra - un dossier della Gestapo su due sconosciuti, Otto ed Elise Hampel, giustiziati nel 1942 per avere diffuso materiale anti-nazista per trarne un racconto. Fallada lo scrive in 24 giorni. In appendice al volume viene riproposto il dossier della Gestapo e alcune cartoline postali dei coniugi Hampel.
Più che saggi letterari questi tre scritti di Herta Müller possono essere definiti incontri con una poesia intesa come vita, come pane quotidiano, come unico mezzo per sopravvivere. L’autrice riflette infatti su tre poeti e racconta del loro esprimersi in poesia, cercando nella loro esperienza l’«immagine dell’essere umano». Esperienza che non fu solo quella del totalitarismo, ma fu soprattutto, per loro e per una fetta importante di umanità, quella della continuità inconcepibile del totalitarismo: attraverso il nazismo, la guerra, i campi di concentramento, fino ai regimi comunisti dell’est europeo. Generazioni diverse e successive, perdute entro questa continuità senza vie di fuga dalla trappola. Cioè da quell’impasto di «paura di morire»; di angoscia di sapere (come Primo Levi) di essere legati a un capo della corda all’altro capo della quale sono i sommersi, i morti, e «che alla fine sono loro i più forti»; e di senso di colpa per appartenere a un’identica storia. La stessa trappola, del resto, prigione dell’autrice, che invisa al regime per le sue idee e per la sua provenienza etnica di tedesca sotto Ceauşescu, aveva contemporaneamente presente il ricordo colpevole del padre militare nelle SS. A questo assurdo indicibile solo la poesia come modo d’essere può ridare la parola. Così, molto più che scrivere di letteratura su sofferti poeti del mondo tedesco, Herta Müller legge, attraverso la poesia, nel vissuto, scava stati dell’animo come emergono dalle parole clandestine di tre menti vietate, deportate, dimenticate o suicide. Riflette sulla condizione di chi è costretto a dover scegliere sempre tra tre categorie di appartenenza: chi collabora volontariamente, chi può essere chiamato a collaborare e chi rifiuterà di collaborare lasciandosi come unica possibilità la poesia, detta o taciuta, emersa o sepolta per sempre.
Herta Müller, nata nel 1953 a Niţchidorf, nella regione del Banato svevo passata alla Romania dopo la Prima guerra mondiale, ha lavorato come traduttrice e insegnante. Nel 1987 è emigrata a Berlino dove tuttora vive. Nel 2009 riceve il Premio Nobel per la Letteratura, con la seguente motivazione: «Con la concentrazione della poesia e la franchezza della prosa ha rappresentato il mondo dei diseredati». Fra le sue opere sono state pubblicate in italiano: Bassure, Il paese delle prugne verdi, In viaggio su una gamba sola e, con questa casa editrice, Lo sguardo estraneo e Cristina e il suo doppio.
Gli anni non impediscono a Montalbano di riaccedere alle venture e agli incanti dell’esperienza adolescenziale: all’inadeguatezza emotiva, alle fantasticaggini, ai risalti del cuore, ai turbamenti, alla tenera e trepida lascivia; alle affezioni precipitose, anche: dagli scoppi d’ira, agli schianti di gelosia. Conosce a memoria la poesia Adolescente di Vincenzo Cardarelli. Recita a se stesso i versi sul «pescatore di spugne», che avrà la sua «perla rara». E sa, non senza diffidenza e discorde sospetto di decrepitezza, quando più e quando meno, tra il lepido e il drammatico, che «… il saggio non è che un fanciullo / che si duole di essere cresciuto». In così gelosa materia, il commissario ha vicino, con la sua delicatezza silenziosa e con la comprensione partecipe, l’ispettore Fazio. Non crede invece, alla sua «saggezza», la fidanzata Livia. E scambia per un tratto di guasconeria la confessione di un tradimento, fatta con la schiettezza propria dell’età men cauta. Montalbano è stato folgorato dalla bellezza, sensualmente sporca di vita, della giovane Angelica. Ha riconosciuto, nella donna, i tratti dell’eroina dell’Orlando furioso così come erano stati interpretati da Doré nelle illustrazioni del poema ariostesco. Di quell’Angelica di carta e inchiostro si era segretamente innamorato negli anni dell’adolescenza. E ora, incalzato dai versi dell’Ariosto, che spontanei gli tornano in mente, rivive il vecchio amore, e finalmente lo consuma. Anche la coscienza onirica collabora, con le sue illuminazioni notturne. Un misterioso personaggio, nascosto in un gomito d’ombra, confonde il commissario con una giostra di furti architettati geometricamente, secondo uno schema d’ordine di pedante e accanita astuzia. Non mancano stoccate varie e finte mosse, con morti e feriti in campo. Quale sia la posta in gioco è da scoprire. La vicenda è ingrovigliata e ha punte d’asprezza. E intanto Montalbano si vede in sogno, costretto in un’armatura di cavaliere, e buttato dentro un torneo. Deve affrontare un gigante, che ha il volto coperto da una celata nera. Assistono alla sfida dame e cavalieri. Dà il via Carlo Magno. Fuor di sogno, nel vivo delle indagini, irrompe, in questa «gara» similariostesca, la nuova Angelica. Porta addosso gli occhi di tutti. Montalbano è «furioso». Ma, nel molt’altro della storia, tra la bonaccionaggine di Catarella, le lazzaronate del medico legale Pasquano, e la feconda imbecillità dei superiori, veri e propri marescialli dei regolamenti, l’indisciplinato commissario non dismette l’amabile improntitudine. Si dà scena di teatro. Si fa commediante e guitto. Sale in palco. E improvvisa contraffazioni melodrammatiche, con risalite tonali e rimarcature di parole. Sa avvolgersi nel lessico scelto, e colmo di palpiti, di una affettata letteratura drammatica. Salvatore Silvano Nigro
Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), regista di teatro, televisione, radio e sceneggiatore. Ha insegnato regia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Ha pubblicato numerosi saggi sullo spettacolo e il volume, I teatri stabili in Italia (1898-1918). Il suo primo romanzo, Il corso delle cose, del 1978, è stato trasmesso in tre puntate dalla TV col titolo La mano sugli occhi. Con questa casa editrice ha pubblicato: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca (1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005), Le pecore e il pastore (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), Il sonaglio (2009), La rizzagliata (2009), Il nipote del Negus (2010, anche in versione audiolibro); e inoltre i romanzi con protagonista il commissario Salvo Montalbano: La forma dell'acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L'odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d'agosto (2006), Le ali della sfinge (2006), La pista di sabbia (2007), Il campo del vasaio (2008), L'età del dubbio (2008), La danza del gabbiano (2009), La caccia al tesoro (2010).
Si ride e si piange molto il sabato pomeriggio in casa di Suzy dove le sue amiche, che come lei lavorano in una delle ultime fabbriche tessili del nord della Francia, si incontrano per acconciarsi i capelli e scambiarsi confidenze nell’atmosfera ironica e complice delle riunioni femminili. Si ride dei pettegolezzi, si piange per gli amori infelici, i lutti familiari, gli incidenti sul lavoro che ogni tanto colpiscono una del gruppo. E si lotta anche, per migliorare le condizioni di lavoro, per scongiurare la chiusura dell’azienda. Intorno alle donne si muove il gruppo degli uomini: Ricco, l’amante italiano che Suzy, dopo la separazione dal marito, ha accolto in casa imponendone la presenza alla figlia Nina, Arnold, grande amico della ragazza, Steph, di cui lei non ricambia l’amore, e soprattutto Delplat, l’odiato e temuto padrone della fabbrica. Proprio Nina è la voce narrante che descrive se stessa e quel mondo con una lucidità spietata e disarmante. Tutto si svolge tra un venerdì e il lunedì successivo, quando si presenterà al negozio dove è stata appena assunta come apprendista. In quel breve intervallo accadono eventi drammatici che per lei chiudono definitivamente la fase dell’adolescenza. Uscita per cercare un regalo di compleanno per Suzy, Nina incontra Delplat, cliente abituale del negozio dove lavora. L’uomo cerca di attirarla a casa sua con una vaga promessa di denaro; la ragazza intuisce il suo lubrico scopo ma non può rifiutare l’invito perché teme qualche ritorsione contro sua madre in fabbrica. Si reca in effetti a casa di Delplat, ma dopo un’ora sta di nuovo vagando per le strade: ricorda solo il momento in cui vi è entrata e sembra incapace di ricostruire il resto. Si intuisce solo che deve essere accaduto qualcosa. Frattanto nella fabbrica la situazione precipita: alla minaccia di chiusura, le operaie inscenano una rivolta che degenera in tragedia.
Orgoglio, patriottismo, odio, amore: passioni pure e antiche si mescolano e si scontrano tra loro, intorbidate più che raffrenate dal senso, anch'esso antico, di reticenza e onore. Villa Spada, dimora signorile di un paesino a pochi chilometri dal Piave, nei giorni compresi tra il 9 novembre 1917 e il 30 ottobre 1918: siamo nell'area geografica e nell'arco temporale della disfatta di Caporetto e della conquista austriaca. Nella villa vivono i signori: il nonno Guglielmo Spada, un originale, e la nonna Nancy, colta e ardita; la zia Maria, che tiene in pugno l'andamento della casa; il giovane Paolo, diciassettenne, orfano, nel pieno dei furori dell'età; la giovane Giulia, procace e un po' folle, con la sua chioma fiammeggiante. E si muove in faccende la servitù: la cuoca Teresa, dura come legno di bosso e di saggezza stagionata; la figlia stolta Loretta, e il gigantesco custode Renato, da poco venuto alla villa. La storia, che il giovane Paolo racconta, inizia con l'insediamento nella grande casa del comando militare nemico. Un crudo episodio di violenza su fanciulle contadine e di dileggio del parroco del villaggio, accende il desiderio di rivalsa. Un conflitto in cui tutto si perde, una cospirazione patriottica in cui si insinua lo scontro di psicologie, reso degno o misero dall'impossibilità di perdonare, e di separare amore e odio, rispetto e vittoria.
Fu Vittorini a seguire passo passo la nascita e la crescita di questo romanzo. E fu Romano Bilenchi a volere per primo che il romanzo venisse pubblicato. L’enorme tempo apparve nel 1976. Ferdinando Virdia scrisse: «Il vero protagonista non è tanto il giovane medico narrante se stesso, ma il paese, con le sue case e con la sua luce, con le tracce delle innumerevoli generazioni che vi si sono succedute, con la gente viva e con i morti, con gli ammalati, con i vecchi, con i bambini, con gli animali che vivono insieme tra le medesime mura, con i ricordi delle generazioni che ognuno si porta dentro. Il giovane medico ritrova ogni giorno l’antica favola nella presente realtà, ma nel tempo stesso vi si immerge, la interroga, ne riscopre i segni profondi, i segreti di una umile vita di ogni giorno, la lunga assuefazione al tempo che scorre, l’enorme tempo che attutisce e diluisce drammi ed esistenze, dolori e passioni, fantasie e memorie, nel cuore di un microcosmo-Minèo, che può essere anche lo specchio di un macrocosmo, di quel continente-Sicilia che in altri suoi libri, La contrada degli ulivi, Il fiume di pietra, La divina foresta, L’isola amorosa, Bonaviri evoca in chiavi di mito e di fantasia, ma sempre con un vigile e immediato sentimento della realtà, nelle chiavi, vorrei aggiungere, di una “scienza nuova” che gli può suggerire la sua “favola” di medico. Ed anche di una sua “gaia scienza”, e non scrivo a caso, ma quasi per analogia, questo titolo nietzeschiano».
Qui, per la prima volta, vengono riproposti in appendice gli Appunti per un diario d’un medico siciliano: il memoriale sul quale Bonaviri lavorò per la costruzione del romanzo.
Giuseppe Bonaviri, nato nel 1924 a Mineo, in provincia di Catania, è scomparso nel 2009. Primo di cinque figli di un sarto, Bonaviri ha vissuto per anni a Frosinone dove ha esercitato la professione di medico. Fra le sue opere più note, tutte ora pubblicate da questa casa editrice: L’incominciamento (1983), Il dottor Bilob (1994), Il vicolo blu (2003), L’incredibile storia di un cranio (2006), Il sarto della stradalunga (2006), La divina foresta (2008) e Notti sull’altura (2009).
"Egli sempre procedeva soprattutto per intuizione. Non credeva all'evidenza degli indizi, alla certezza delle prove. Nessuna prova era certa. Nessun delinquente firma il suo delitto. Il caso lo firma". È un modo di muoversi e di pensare, quello del commissario De Vincenzi, che sfugge a ogni modello di detective fino a quel momento prevalente. Il suo creatore, Augusto De Angelis, in questo Sei donne e un libro, datato 1936, più di altre volte si sofferma a descriverlo. È un poeta, professionalmente e politicamente tiepido se non scettico; di letture eretiche per l'epoca. Ma quanto il suo creatore De Angelis possa qualificarsi come la fonte originale del giallo all'italiana, si apprezza soprattutto nelle ambientazioni e nelle atmosfere in cui fa muovere il suo investigatore: una Milano consapevole di essere moderna, che sta scoprendo di essere metropoli, animata dalle sculture meticolose di ogni personaggio che formano sempre dei piccoli spaccati sociali. Le sei donne del titolo sono quelle che hanno circondato il professor Ugo Magni, medico di successo, senatore, "un vittorioso, un fortunato della vita". Viene trovato ucciso nei locali di una piccola libreria. C'è un libro scomparso, conventicole dedite a spiritismo e una strana premonizione affidata a dei ferri chirurgici recapitati in questura dentro un camice bianco. De Vincenzi indaga tra interni Déco con dame stupende, tra esterni affaccendati e case di ringhiera in un universo di portinaie e popolani.
In questo, che è il primo romanzo della serie, due ragazze a Oxford attendono alla fermata l'ultimo autobus per Woodstock. Il bus è in ritardo e le due ragazze si incamminano a piedi sperando di trovare un passaggio. E lo trovano perché dopo un po' una macchina si ferma e le fa salire a bordo. Passaggio fatale per una delle due, che verrà ritrovata assassinata poche ore dopo. L'ispettore Morse inizia l'indagine con l'aiuto del sergente Lewis, suo aiutante (in questa e in tutte le avventure che seguiranno). La verità si fa strada con difficoltà e non sarà una scoperta facile né felice.
Puritani, moralisti, intransigenti fino all’eccesso, gli Steve vivono squallidamente alla periferia di Boston. Il capofamiglia Leslie, alcolizzato, ha finito per perdere la cattedra di filosofia. Per autopunirsi ha deciso di occuparsi lui delle faccende di casa e passa le giornate a spolverare e cucinare per i tre figli che vivono tutti con lui benché siano più che adulti. Il maggiore, Gerolamo, anche lui filosofo, vive tenendo conferenze di morale in circoli di puritani, Carla è senza occupazione, Oliviero lavora come contabile in una ditta. Ha sposato Luciana Axel, una ex cassiera di bar, salvata dall’orfanotrofio quando era ragazza da Padder, un ricco industriale che si è preso a cuore il suo caso e che continua a proteggerla anche dopo il matrimonio. Una sera Luciana Axel scompare di casa e viene trovata lungo un fiume assassinata con il cranio sfondato. Anche Padder viene trovato ucciso, allo stesso modo, ma a una sessantina di chilometri di distanza, l’auto in fiamme e una borsa carica di denaro a pochi metri. Jelling inizia le indagini: non si tratta certo di rapina, il movente va cercato piuttosto tra le pieghe della vita privata delle vittime. L’inchiesta è difficile, bisogna districarsi tra i componenti di una famiglia di fanatici moralisti che di Luciana Axel non posseggono neanche una foto e che rifiutano di collaborare. Sarà l’intuito e la conoscenza dell’animo umano che porteranno Jelling, poco a poco, verso la verità più segreta in una Boston oppressa dal caldo d’agosto.
Cosa ama tanto di Istanbul Kati Hirschel, tedesca-turca trapiantata in città, se per la maggior parte del tempo si trova immersa nel caos mobile della metropoli, porta tra oriente e occidente? Forse, più del kebab e delle sale da tè all’aperto che non la stancano mai, proprio il caos l’appassiona, frutto inebriante di una stratificazione di esseri umani profondamente diversi, il cui inatteso effetto è la convivenza e la capacità di comunicare. Kati ha vissuto a Istanbul per metà circa della sua vita di quasi quarantenne e ne conosce ogni angolo, gli svariati ambienti, i ritrovi esclusivi o popolari, i tanti quartieri che fanno città nella città. È indipendente, sola, alquanto vanitosa, erotica, e dirige la sua libreria specializzata in gialli. Per lavoro e per passione, incontra ogni tipo di gente, clienti, amici, vicini simpatici curiosi e vociferanti, in giro instancabilmente tra il mar di Marmara e il Bosforo. Inattesa, perché mai erano state intime, Petra, vecchia amica tedesca diventata attrice di una certa fama, la chiama. È scesa all’Hotel Bosforo, giunta nella vecchia capitale per un film di produzione turco tedesca. Subito Petra riversa sull’amica tutto il dolore di un’esistenza senza amore. Al successivo appuntamento, Kati viene a sapere che in albergo è stato consumato un crimine, ed è proprio Petra la principale sospettata. Arma del delitto, decisamente femminile, un asciugacapelli; vittima il regista tedesco, morto fulminato nella vasca da bagno della sua suite, con un bicchiere di whisky in mano. Con lui, Petra, a detta di tutti, aveva una relazione che però lei nega. Kati, per amicizia, si sente coinvolta e decide di assistere da vicino alle indagini. E si trova a condursi con abilità e civetteria tra produttori miliardari dal passato losco, poliziotti spicci, artisti, bohémien, corteggiatori, circuiti internazionali dell’orrore e vendette, e un amore; mentre le sue giornate sono movimentate dalle tante persone che popolano la sua complicata vita quotidiana. Lo scontro delle loro abitudini e dei loro pregiudizi, con i pregiudizi e le abitudini di un’europea occidentale, dà vita al gioco dell’orientalismo e dell’occidentalismo. Ed è un abbraccio a una metropoli carica di storia europea che ritorna in Europa.
Esmahan Aykol, nata nel 1970 a Edirne, Turchia, vive tra Berlino e Istanbul. Durante gli studi universitari in giurisprudenza ha lavorato come giornalista per radio e giornali turchi. Oggi, dopo una parentesi come barista, si dedica completamente alla scrittura. Hotel Bosforo è il primo romanzo della serie con protagonista Kati Hirschel.
Anni 1929-1932. In Sicilia si trova a frequentare la Regia Scuola Mineraria il nipote del Negus Ailé Sellassié. Da questo fatto vero Andrea Camilleri trae spunto per immaginare tutto quello che successe intorno al principe abissino: le lettere, i documenti, gli articoli di cronaca, nel clima di autentica stupidità generale, tra farsa e tragedia, che segnò quell'epoca. E la sua voce ricrea l'atmosfera del racconto orale della tradizione e dota la neolingua di Camilleri della sua, per così dire, interpretazione autentica.
Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), regista di teatro, televisione, radio e sceneggiatore. Ha insegnato regia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Ha pubblicato numerosi saggi sullo spettacolo e il volume, I teatri stabili in Italia (1898-1918). Il suo primo romanzo, Il corso delle cose, del 1978, è stato trasmesso in tre puntate dalla TV col titolo La mano sugli occhi. Con questa casa editrice ha pubblicato: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca (1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005), Le pecore e il pastore (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), Il sonaglio (2009), La rizzagliata (2009), Il nipote del Negus (2010); e inoltre i romanzi con protagonista il commissario Salvo Montalbano: La forma dell'acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L'odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d'agosto (2006), Le ali della sfinge (2006), La pista di sabbia (2007), Il campo del vasaio (2008), L'età del dubbio (2008), La danza del gabbiano (2009).
«Dovunque arrivassi, mi sono trovata a dover convivere con questo mio doppio. Non si limitavano a mandarmelo al seguito, succedeva anche che mi precorresse. Benché sin dall’inizio io abbia scritto sempre e soltanto contro la dittatura, il mio doppio continua fino ad oggi a battere la sua strada per i fatti propri. Si è reso autonomo».
Solo dopo insistenti richieste e ripetuti tentativi nel 2004 Herta Müller ha potuto visionare il suo doppio, ovvero il fascicolo che la Securitate di Bucarest aveva costruito ai suoi danni. Nome in codice «Cristina», novecento pagine di un dossier incompleto, sottoposto ad accurata «pulizia» da parte dei nuovi servizi rumeni, quelli non più comunisti. E seguendo il fascicolo l’autrice ha scritto questo, da lei stessa definito «racconto autobiografico». Lucida testimonianza letteraria sull’arma più micidiale in mano al potere opaco, che domina mediante il possesso esclusivo dell’informazione: l’arma della disinformazione. Più sottile della semplice calunnia, che agisce soprattutto tra i nemici, la disinformazione invece punta a distruggere le vittime nel campo degli amici, seminando quei dubbi e sospetti che proprio gli amici debbono temere. Herta Müller ne fu vittima, perché tedesca in terra rumena e perché scrittrice «ai margini». Sul lavoro, fu contattata dalla Securitate, che le chiese di diventare informatrice. Al suo rifiuto, scattarono i caratteristici tre momenti della trappola della «disinformazia». Primo: diffusione da parte del centro della falsa notizia che la vittima fosse un’informatrice del servizio stesso. Secondo: notizia «registrata» dal servizio, in apparente oggettività, che nell’ambiente della vittima si diffondeva una certa diffidenza a causa di sospetti sulla sua lealtà. Infine, terzo tempo: fonti di stampa diffondevano come «notizia» che i servizi avevano registrato informazioni sulle diffidenze.
Un libretto istruttivo, dunque, non solo per capire la vita governata dalle spie nel mondo comunista al suo epilogo; ma anche per orientarsi in luoghi e tempi lontani dal comunismo: dovunque, e accade sempre più spesso, ci sfiori l’esperienza della disinformazione.
Herta Müller, nata nel 1953 a Niţchidorf, nella regione del Banato svevo passata alla Romania dopo la Seconda guerra mondiale, ha lavorato come traduttrice e insegnante. Nel 1987 è emigrata a Berlino dove tuttora vive. Nel 2009 riceve il Premio Nobel per la Letteratura, con la seguente motivazione: «Con la concentrazione della poesia e la franchezza della prosa ha rappresentato il mondo dei diseredati». Fra le sue opere sono state pubblicate in italiano: Bassure, Il paese delle prugne verdi, In viaggio su una gamba sola e, con questa casa editrice Lo sguardo estraneo.
Una delle caratteristiche del ciclo di Martin Beck, con cui gli scandinavi Maj Sjöwall e Per Wahlöö hanno iniziato il poliziesco procedurale, è che gli attori di questa commedia umana in chiave criminale invecchiano in tempo reale. Per esempio, in questo romanzo, la figlia del commissario, che abbiamo conosciuto bambina alcuni romanzi prima, adesso, è una giovane capace di dare influenti consigli al padre. È questo uno degli effetti con cui gli autori intendevano conferire più oggettività alla loro creazione, per uno scopo dichiarato: «Molte persone forse credono che i nostri libri siano dei cosiddetti gialli. Quello a cui in realtà stiamo lavorando è una seria indagine sociologica sulle relazioni dei poliziotti verso i loro compagni di società. E lo facciamo insieme perché la materia è tanto vasta e perché non possiamo produrre uno studio corretto se non lo affrontiamo da diversi punti di vista. In questo caso quello dell’uomo e della donna». Eppure a leggere oggi questi «romanzi su un crimine» (così il sottotitolo ricorrente), un senso di pessimismo domina sulla sociologia, un profondo scetticismo sulle ragioni del cosiddetto «ordine pubblico». Sjöwall e Wahlöö danno corpo narrativo a una generale riflessione sulla funzione della violenza sociale, sui cambiamenti che essa induce in chi vi è esposto, come poliziotto, come criminale o come vittima; una riflessione capace di insistere, oltre che sulle circostanze sociali, sui sottili meccanismi psicologici. Ed è questo che ha fatto del ciclo di Martin Beck un riferimento classico dell’attuale romanzo criminale, riconosciuto da tutti. L’uomo sul tetto è l’inchiesta sull’omicidio, avvenuto tramite un colpo di baionetta mentre era ricoverato in ospedale, di un alto papavero della polizia, uomo crudele e violento, le cui malefatte si vanno scoprendo più efferate ed intricate del previsto; si conclude con una vendetta di sangue, piena di caos e simbolismo, contro il corpo di polizia: una vetta di realismo, di suspense e di pietà insieme, da parte di chi sapeva bene come le città capitalistiche di cui parlavano siano dei perfetti teatri naturali per il crimine.
Maj Sjöwall (1935) e Per Wahlöö (1926-1975), compagni nella vita, hanno scritto la serie dei dieci romanzi di Martin Beck: tradotta in una trentina di lingue e soggetto di film e telefilm. Una collaborazione con un fine anche politico: la denuncia della società neocapitalistica svedese. Questa casa editrice ha già pubblicato Roseanna, L’uomo che andò in fumo e L’uomo al balcone (ora raccolti anche nel volume I primi casi di Martin Beck della collana «Galleria»), Un assassino di troppo, Il poliziotto che ride, L’autopompa fantasma e Omicidio al Savoy.
Le giornate di Guido Guerrieri trascorrono in equilibrio instabile fra il suo lavoro di avvocato – un nuovo elegante studio, nuovi collaboratori, una carriera di successo – e la solitudine venata di malinconia delle sue ore private. Antidoti a questa malinconia: il consueto senso dell’umorismo, la musica, i libri e le surreali conversazioni con il sacco da boxe, nel soggiorno di casa.
Tutto inizia quando un collega gli propone un incarico insolito: cercare gli elementi per dare nuovo impulso a un’inchiesta di cui la procura si accinge a chiedere l’archiviazione. Manuela, studentessa universitaria a Roma, figlia di una Bari opulenta, è scomparsa in una stazione ferroviaria, inghiottita nel nulla dopo un fine settimana trascorso in campagna con amici. Inizialmente Guerrieri esita ad accettare l’incarico, più adatto a un detective che a un legale. Poi, scettico e curioso a un tempo, inizia a studiare le carte e a incontrare i personaggi coinvolti nell’inchiesta. Tra questi, la migliore amica di Manuela, Caterina. Una ragazza dei suoi tempi giovane, bella, immediata al limite della sfrontatezza. L’avvocato, diviso fra imbarazzo e attrazione, si lascia accompagnare da lei nel ricostruire il mondo segreto di Manuela e le ragioni della sua scomparsa.
In parallelo con l’indagine, nasce e si sviluppa – in lunghe conversazioni notturne e inattese confessioni – l’amicizia con Nadia, ex cliente di Guido, donna singolare e affascinante, dal passato burrascoso.
Se Caterina è la normalità inquietante e indecifrabile, Nadia, con la sua storia irregolare ma il suo animo limpido, è quasi un simbolo della possibilità di cambiare il proprio destino.
Nelle pieghe di questo contrasto l’avvocato Guerrieri percorre una ripida traiettoria attraverso la mutazione genetica dei suoi tempi e della sua Bari. Emergono verità nascoste, in un mondo apparentemente stabile e normale, in realtà insospettato e torbido, dove l’unica salvezza sembra essere nella nitida perfezione di alcuni rari, provvisori momenti di felicità.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961), magistrato, con Sellerio ha pubblicato i gialli dell’avvocato Guerrieri (Testimone inconsapevole, 2002; Ad occhi chiusi, 2003; Ragionevoli dubbi, 2006, tradotti in tutto il mondo e ripubblicati nella collana «Galleria» con il titolo I casi dell'avvocato Guerrieri, 2007) e L’arte del dubbio (2007). Ha vinto numerosi premi tra cui il Premio Bancarella
con Il passato è una terra straniera. Ha scritto anche Né qui né altrove, Una notte a Bari e, con il fratello Francesco, il graphic novel Cacciatori nelle tenebre.
Grand Hotel, della austriaca Vicki Baum, è stato uno dei primi best seller internazionali. Pubblicato in Germania nel 1929, presto tradotto in tutta Europa, già nel 1932 era diventato quel film da Oscar (con Greta Garbo e John Barrymore) che oggi ricordiamo meglio del romanzo che ne era all’origine: con la battuta finale – «Grand Hotel, gente che va, gente che viene» – che volgarizzava la fine del libro: «Si entra, si esce... si entra, si esce... si entra, si esce... Del resto è così che è la vita». Difatti è l’ambientazione – il Grand Hotel, appunto, in quegli anni simbolo popolare di vita privilegiata e moderna, sogno di massa –, il principale fattore, forse, del grande successo di lettori. «Gli hotel offrono opportunità infinite – asserisce la scrittrice Monica Ali –. Ogni ospite potenzialmente ha una storia. Altre storie nascono quando gli ospiti interagiscono. Basta il ruotare di una porta girevole. Grand Hotel, di Vicki Baum, dimostra questo principio alla perfezione. Sei persone si fermano in un albergo e nei successivi cinque giorni le loro vite si intrecciano. Il romanzo si muove tra personaggi storie e luoghi diversi e solo il Grand Hotel fa da collante a tutti questi frammenti». Un movimento frenetico, che trascina il tragico passato di ciascun personaggio in un’apparente pausa del presente in cui al contrario i destini si compiono; e questo è reso dall’autrice con una strategia narrativa, con un «montaggio» visivo significativamente attuale: l’affaccendato cicaleccio della hall dell’albergo, l’aprirsi e il richiudersi della bussola rotante, scandiscono i diversi quadri della trama, come se i sei personaggi ogni volta fossero zoom che inquadrano e lanciano in primo piano i volti isolati, presi da una moltitudine indifferenziata. E come se le mura dell’albergo racchiudenti i personaggi, rappresentassero al contrario la città che escludono, metafora della sterminata e modernissima metropoli berlinese. Sicché Grand Hotel, best seller senza apparenti pretese simboliche, mostra oggi la forza di figurare la moderna folla solitaria al suo nascere, la massa anonima, dentro cui s’ammucchiano innumerevoli tragedie silenziose, l’una affiancata all’altra ma prive perfino dell’energia esistenziale di accorgersi l’una dell’altra.
Hedwig (Vicki) Baum (1888-1960) nata a Vienna da famiglia ebrea e morta a Hollywood dove s’era trasferita, è considerata tra i primi creatori di bestseller. Scrisse una cinquantina di romanzi di cui almeno dieci trasformati in pellicole.
Questo «libro scritto dalle cose e da tutti», al suo apparire, nel 1955, fu un caso capace di infiammare il momento civile e politico. Perfino celebri personalità dell’intelligenza europea restarono subito colpite dall’azione di stimolo e denuncia di Danilo Dolci: Sartre, per esempio, o Bertrand Russel e l’Abbée Pierre. Dell’attività del «maestro della non violenza», Banditi a Partinico è insieme testimonianza e risultato. Il testo – qui ripubblicato nella veste ideata in origine, con le foto di Enzo Sellerio, poi espunte nella prima edizione per difficoltà tecnico-editoriali – si articola fondamentalmente in due parti. Le prima trenta pagine (la Relazione su Partinico) presentano i dati sociologici di una città della Sicilia anni Cinquanta del Novecento, Partinico – ma potrebbe essere un qualunque grosso centro agricolo isolano o meridionale. La seconda parte contiene le storie umane che popolavano la città raccolte dalla voce dei protagonisti, in prima persona, con le loro precise parole. E tra le due parti gioca una dinamica tale che i numeri paurosi della statistica vivono, si muovono in una loro danza macabra, nelle storie di fame, di follia e di ignoranza in una specie di coro drammatico alla storia d’Italia. Un mescolarsi di denuncia, di proposta e di azione concreta che offre l’immagine perfetta di cosa il maestro della nonviolenza intendesse con l’espressione «rivoluzione dal di dentro». Dolci avrebbe voluto che il titolo del volume fosse «Banditi» a Partinico per enfatizzare che con la parola intendeva non tanto i fuorilegge, che allora imperversavano nella zona, quanto un popolo intero messo al bando dallo stato e dalla legge: che insomma, in certe condizioni come quelle della cittadina siciliana, il passo tra essere poveri ed essere criminali era talmente breve e obbligato che solo uno stato colpevole poteva trattare la questione sociale come fosse una questione criminale. Bobbio scriveva nella prefazione: «Dopo aver letto queste pagine, ascoltate la risonanza sinistra o ironica che acquistano nel vostro animo parole come democrazia, giustizia, diritto, legge... Vorrei che si leggessero queste pagine come un commento, amaro e talora crudele, sempre spietatamente smascheratore delle belle frasi di cui la classe dirigente, politica e sacerdotale, riempie e decora i propri discorsi».
Danilo Dolci (Sesana, 1924-Trappeto, 1997), dopo l’esperienza di Nomadelfia, «la città dove la fraternità è legge», venne a Trappeto vicino a Trapani, iniziando un’instancabile attività di animazione sociale. Tra le sue opere: Inchiesta a Palermo (1957), Spreco (1960), La struttura maieutica e l’evolverci (1996). Con questa casa editrice, Racconti siciliani (2008).
Jacques Bonnet, scrittore ed editore, rievoca la genesi lontana di questa variazione sul tema dell’incantesimo dei libri su certi individui. Fu un incontro con Giuseppe Pontiggia. Entrambi condividevano «la stessa felicità e maledizione che ci era toccata in sorte»: un’enorme biblioteca con molte migliaia di volumi, non da bibliofili o da collezionisti, ma una normale biblioteca generalista, in cui ammucchiare libri letti o da leggere o solo da annusare. Conversando tra loro, era venuta l’idea di fondare un’associazione per i proprietari di biblioteche oltre le ventimila opere, una specie di mutuo soccorso e consiglio. Naturalmente non se ne era fatto niente. Ma col tempo l’esame divertito dei problemi, di chi di non può fare a meno di comprare ogni libro che contiene anche una sola promessa, è germinato nei capitoli di questo che si presenta come un trattatello sull’arte di convivere con troppe librerie (ma mai sopra la spalliera del letto: per non imitare la fine leggendaria di un grande compositore parigino). Che è ben di più che un trattatello su un piccolo tema curioso. È una piacevolissima danza tra gli scaffali di una sterminata libreria a parlare di tutti i rebus di spazio (come quel personaggio che, non avendo più stanze per contenere i libri, li usò per costruire la casa che poi distrusse per ritrovare un singolo volume) o di tempo (le più diverse e capricciose catalogazioni: come quella di Warburg così precisa di affinità tra i testi che se ne perse il senso, morto l’autore), discutendo le più fantasiose e bizzarre soluzioni, i ricordi, gli aneddoti, gli incidenti e gli enigmi: rievocando le vie della passione per la lettura di quei tanti personaggi memorabili (di uno Sciascia, per esempio, che nel suo appartamento siciliano conservava il Journal dei Goncourt ignorato dall’autore stesso) convinti, o illusi, che un lettore intelligente trova almeno una cosa degna in ogni libro. Una danza con i fantasmi delle biblioteche, cioè con quelle strane presenze (primi i sostituiti, detti «fantasmi» appunto, inseriti negli spazi di un libro prestato, e perduto) che occupano la mente dei proprietari e a volte fanno sembrare, all’imperfetta memoria, una grande biblioteca dotarsi con il tempo di vita propria.
Jacques Bonnet, editore, traduttore e scrittore, ha pubblicato tra l’altro una monografia su Lorenzo Lotto (1996) e il romanzo La questione del metodo (2003).
Non può esserci posto per un commissario alla Montalbano nella Palermo di questo romanzo. Montalbano è, qui e ora, un’icona proverbiale distratta nei paesaggi remoti della giubilazione. Viene evocato, ma solo a sproposito. «Non è che ora ti devi mettiri a fari il commissario Montalbano», si dice; e l’iperbole è riservata alla vocazione investigativa di una segretaria, che è una «vera e propra minera di sparlerie, curtigliarate, maledicenze». Il romanzo si colloca nelle vicinanze della cronaca più recente. E dà una rappresentazione storicamente ravvicinata del generale insordidamento politico: delle occulte geometrie e delle segrete intese fra poteri forti trasversali alle colorazioni stinte dei partiti; degli strusciamenti della corruzione; delle collusioni mafiose; dei vari gradi di perversione del linguaggio velato o atteggiato, elusivo o reticente, ossequioso o intimidatorio. Le apparenze abbagliano. Ed è sconsigliato denudare le parole e interpretare i fatti. L’impermeabilità della politica irradia di sé le carriere, nelle aziende pubbliche, e i passaggi dei pacchetti azionari nella Banca dell’Isola; e persino le alcove: le fedeltà e le infedeltà coniugali; l’amor costante e le passioni tattiche. La giostra, che la politica fa intorno al cadavere di una studentessa assassinata e al fidanzato raggiunto da un avviso di garanzia, viene seguita, e assecondata, dal direttore del telegiornale isolano. Anche gli innocenti, che credono di star fuori o ai margini della trama, e sanno come «cataminarisi», hanno le loro tare e qualche inaspettato tornaconto nel romanzo. L’ingarbugliamento della vicenda, il labirintico concrescere della trama, annoda e invischia tutti; e impedisce che si arrivi a decifrare il calcolo ordinato dietro l’apparente contraddittorietà dei particolari, e a riconoscere quell’istanza di superiore controllo che nulla ha lasciato al caso. Qualcuno, in alto, ha lanciato il rezzàglio, la rete da pesca. E ha tirato su il bottino che gli premeva. «Ittari nna rizzagghiata», dicono i vecchi dizionari fraseologici del dialetto siciliano, significa «non lasciar uscir di mano nulla, né perdere occasione alcuna di qual si voglia poca importanza ch’ella si sia». La verità è confezionabile, come qualsiasi menzogna. La verità autentica trova spazio solo nell’utopia fantascientifica della letteratura. Nell’ipotesi di un soggetto cinematografico, per un possibile film da intitolare Girotondo attorno a un cadavere. L’autore del «soggetto» è però un «fituso» informatore, capace d’inventare romanzi sull’attualità, per poi spacciarli come «verità di vangelo». E pretende, addirittura, di vendere le sue fantasie all’artefice mafioso della «rizzagliata» politica. Il «fituso» scompare nella notte. Tocca a Camilleri riscattare il soggetto romanzesco, gettare a spaglio la propria rete, e fare la Rizzagliata: il romanzo suo più nero, che ora esce in Italia, dopo il successo raccolto in Spagna con il titolo La muerte de Amalia Sacerdote.
Salvatore Silvano Nigro
Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), regista di teatro, televisione, radio e sceneggiatore. Ha insegnato regia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Ha pubblicato numerosi saggi sullo spettacolo e il volume, I teatri stabili in Italia (1898-1918). Il suo primo romanzo, Il corso delle cose, del 1978, è stato trasmesso in tre puntate dalla TV col titolo La mano sugli occhi. Con questa casa editrice ha pubblicato: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca (1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005), Le pecore e il pastore (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), Il sonaglio (2009); e inoltre i romanzi con protagonista il commissario Salvo Montalbano: La forma dell'acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L'odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d'agosto (2006), Le ali della sfinge (2006), La pista di sabbia (2007), Il campo del vasaio (2008), L'età del dubbio (2008), La danza del gabbiano (2009).
Nelly Boxall, la cuoca di Virginia Woolf, non ebbe mai una stanza tutta per sé; dovette condividerla per anni con la cameriera Lottie, peraltro sua amica. Il diritto ad averla quella stanza, - che la Woolf, pubblicando "Una stanza tutta per sé", eresse a condizione essenziale per una donna intellettualmente emancipata - è pervicacemente negato alle sue domestiche. Ma questa è solo una delle contraddizioni che segnano il lungo e tormentoso rapporto di Nelly con la sua signora, raccontato in questo libro di Alicia Giménez-Bartlett. La Bartlett racconta di come si sia appassionata alla vicenda di Nelly e di casa Woolf e, al resoconto delle sue ricerche sull'Inghilterra dell'epoca, alterna il racconto della cuoca così come viene fuori dalle pagine del giornale intimo che Nelly tenne per 18 anni (il tempo che rimase al servizio della scrittrice), riordinato e riempito grazie alla lettura comparata dei due diari, quello della cameriera e quello della signora.
Nella malinconica allegria di "A Roma con Bubù", Gian Carlo Fusco racconta della sua grande amicizia maschile, della reciproca infatuazione per il cantante marsigliese Rick Rolando che militò nella Legione straniera. Da qui i quattro articoli del 1961 sulla Legione straniera raccolti in questo volume. Quasi tutto, di questo scrittore irregolare ed estroverso, porta infatti il segno della testimonianza vissuta: e anche in questa storia della Legione, a tratti sembra emergere il segno del ricordo personale (mutuato evidentemente dall'esperienza dell'amico). Più che una storia è una rievocazione, finalizzata a spogliare il mito romantico dominante, ricca di aneddoti e ritratti, di episodi curiosi e paradossi viventi. Un movimento che corre rapido dalla presentazione del cliché, immortalato nel cinema con la faccia di Jean Gabin, alla sua distruzione. Vi sono gli eroi, e i retroscena taciuti di essi; le campagne militari e la vita quotidiana fatta di stenti e degradanti punizioni; i miti e i grandi orrori del colonialismo; le tradizioni e le viltà nascoste. Volano come una scorribanda dentro un'unica avventura, in quello stile scintillante e fragoroso di colui che è considerato il più grande narratore orale del dopoguerra, ma che resta ammorbidito nella spontanea, coinvolgente simpatia per tutto ciò, uomini e cose, di cui narra.
"Fratelli" venne pubblicato nel 1978 e diventò subito un caso editoriale. L'autore, noto ispanista, era alla sua prima prova narrativa e le 30.000 copie della tiratura andarono immediatamente esaurite mentre critici come Giorgio Manganelli, Natalia Ginzburg, Alfredo Giuliani lo accolsero come un capolavoro. "Vivo, ormai sono anni, in un vecchio appartamento nel cuore della città, con un fratello ammalato". In una vasta casa di una città imprecisata vivono due fratelli. È il più grande a raccontare, l'altro è affetto da disturbi che riguardano "l'attività del pensiero" che non vengono comunque mai precisati, il ricovero in ospedale, predisposto da anni, "sembra di là da venire". Il rapporto tra i due è tormentato, la comunicazione è difficile, fatta di poche parole, di molti sguardi, silenzi, contatti fisici - il fratello maggiore accudisce l'infermo, lo lava, lo veste, lo segue da una stanza all'altra del grande appartamento, semivuoto di mobili, colmo comunque di ricordi, "arnesi dall'uso incerto" che "interrompono, di tanto in tanto, la sequenza dei vuoti", residui di una intimità familiare ormai perduta.
Centrale di Polizia di Boston, ufficio Archivio criminale: lì, seduto alla sua scrivania, Arthur Jelling, quarant'anni, vita tranquilla, sposato, un figlio, un passato di studente di medicina. Un innato istinto per scoprire la trama oscura dei delitti. "Chissà che cosa c'è nel cuore degli uomini. Di fuori sembrano una cosa e di dentro Dio solo sa cosa sono". Jelling si trova questa volta alle prese con il mondo della sanità: il miliardario Déravans, rimasto cieco in un incidente automobilistico in cui è implicata la ragazza poi diventata sua fidanzata, può essere guarito da un intervento ardito. Solo il professore Linden è in grado di farlo, ma è minacciato di morte se deciderà di compiere l'operazione. La minaccia si realizza alla vigilia di entrare in sala operatoria. Cos'è che Déravans non deve vedere? o chi? o quale impressione sepolta non deve riemergere con la vista? Jelling deve saperlo prima che la mano assassina spenga la prossima preda; e per scoprirlo scruta i volti, le mani, i gesti, nella selva di individui che circonda Déravans, la cerchia eccentrica dei suoi familiari, i medici della clinica, perfino i legami più intimi.
Ritorna, con la seconda avventura dopo "La briscola in cinque", la squadra di investigatori del BarLume di Pineta, detto anche "l'asilo senile". A parte il barista Massimo e la sua banconista, la bella e comprensiva Tiziana, il più giovane del gruppo è Aldo, ultrasettantenne gestore dell'osteria Boccaccio. Seguono Nonno Ampelio, Pilade, il Del Tacca del Comune, il Rimediotti. La loro attività, unica, più che principale, si svolge nel presidiare il BarLume e, dietro il paravento della partita a carte, passare al setaccio tutti gli avvenimenti di Pineta, in un pettegolezzo toscano senza eufemismi e senza ritrosie. Qualche volta resta nelle maglie fitte della rete, un fatto criminale. In realtà è Massimo, pronto all'intuizione ma svogliato all'azione, che è spinto a investigare, richiesto casualmente dal commissario Fusco. I vecchietti fanno da polo dialettico in un contraddire minuzioso che però facilita la sintesi: corale ambientazione umana, provinciale e antiglobalizzata (lenta, senza preoccupazione di efficienza mezzo-fine). Uno sfondo di commedia italiana a dei gialli enigmistici la cui soluzione è affidata alla virtù del ragionamento e alla fortuna del caso. Nel gioco delle tre carte un esercizio di abilità e di elusione fornisce lo schema per risolvere un enigma criminoso consistente nel nascondere ostentando. Nel corso di un congresso, viene ucciso un professore giapponese. La chiave del mistero è in un computer che in apparenza non contiene niente di significativo.
Nel corso di questo nuovo caso - la più marina delle indagini di Montalbano l'ha definita Camilleri - che si svolge tutto nel porto di Vigàta, tra yacht e cruiser, il lettore resterà colpito dal cambiamento che si è verificato nel commissario, come se Camilleri avesse voluto scavare più intensamente dentro i sentimenti del suo beniamino. Una mattina viene trovato nel porto di Vigàta un canotto, all'interno il cadavere sfigurato di un uomo. L'ha riportato a riva un'imbarcazione di lusso, 26 metri, abitata da una disinvolta cinquantenne e da un equipaggio con qualche ombra. Proprietaria e marinai devono trattenersi a Vigàta fino alla fine dell'inchiesta sul morto (ammazzato col veleno stabilisce l'autopsia), ma intanto è proprio su di loro che Montalbano vuole indagare.
La pubblicazione della "Divina foresta" (1969) fu propiziata da Giorgio Caproni, con un suo dettagliato parere di lettura: "Una suggestiva historia naturalis ambientata in una remotissima Sicilia agli albori della creazione, è il tema, svolto in chiave tra lucreziana e, al limite opposto, perfino kipliniana, di queste pagine che il lettore, da un capo all'altro, segue con mai rallentato interesse e, diciamolo pure, con innegabile incanto poetico. Protagonista è la vita stessa, o, per meglio dire, è un'entità vivente e "cogitante" dapprima indeterminata nella propria larvale forma e quindi, dopo una breve stagione vissuta vegetalmente, sotto la definitiva specie d'un avvoltoio e precisamente d'un filosofico avvoltoio, che nulla ha in sé della ferocia che il nome evoca ma che anzi è nutritissimo di classica saggezza (la greca in primo luogo) e che a suo modo disegna nell'arco della propria avventura (la perdita della compagna lo spinge, fino all'estenuazione, alla ricerca d'un messaggio iperuranico oltre i confini dell'isola d'oro, oltre gli oceani e addirittura verso l'irraggiungibile luna, in un alternarsi di roventi esaltazioni e di nere ipocondrie che rasentano le più moderne nevrosi) l'arco della nostra umana inquietudine di fronte al nostro stesso esistere e morire".
"Camilleri è il cronista - sottolinea S. S. Nigro - il favolista e il mitografo della comunità vigatese. Racconta di Minica e di suo marito. Della loro modesta vita nella solitaria casetta gialla, accanto a un pozzo e a un ulivo saraceno: in un paesaggio arcigno, blandito dal vicino mare e dalla luce". Siamo in Sicilia, tra Vigata e Castelvetrano negli ultimi anni del fascismo. Lungo la linea ferroviaria che collega i paesi della costa fare il casellante è un privilegio non da poco: una casa, il pozzo, uno stipendio sicuro, ma la zona, alla vigilia dello sbarco alleato, si va animando di un via vai di militari e i fascisti, quasi presagendo la fine imminente, si fanno più sfrontati. A Nino Zarcuto, "trentino, beddro picciotto" è toccato un casello stretto tra la spiaggia e la linea ferrata. Si è sposato con Minica e aspettano, finalmente, un figlio. Il lavoro è poco, quindi c'è tempo per l'orto e per andare ogni tanto in paese dove Nino, appassionato di mandolino, può anche dilettarsi con l'amico Totò in qualche serenata improvvisata. Poi una notte, mentre Nino è in carcere, colpevole di avere ridotto le canzoni fasciste a marce e mazurche con chitarra e mandolino, un evento sconvolgente travolge la vita di Minica. Un romanzo in cui mito e storia si intrecciano in quello che Camilleri definisce il secondo romanzo - dopo "Maruzza Musumeci" di una "trilogia della metamorfosi".
Su un terreno nei dintorni di Vigàta, buono solo per ricavarne creta per i vasai, viene trovato il cadavere di un uomo. Sfigurato, squartato, chiuso in un sacco affiorato dopo una forte pioggia. Non si sa chi sia lo sconosciuto, ma nel frattempo una donna del paese denunzia la scomparsa del marito, un colombiano di origini siciliane, imbarcato su navi di lungo corso che fanno la spola tra il Sud America e l'Italia. È a quel punto che il commissario Montalbano si ricorda del racconto del Vangelo - il tradimento di Giuda, il pentimento, i trenta denari scagliati a terra e poi utilizzati per comprare il "campo del vasaio" per dare sepoltura agli stranieri. Semplici coincidenze? Il corpo della vittima è stato smembrato in trenta pezzi, il terreno in cui è stato ritrovato è buono per i vasai, il colpo di pistola alla nuca nel codice d'onore sta a significare tradimento, senza contare che il morto era uno straniero. Ma le convergenze sembrano costruite con troppa arte e anche se il delitto ha tutte le caratteristiche di un omicidio di mafia, Montalbano sente odore di bruciato. I tradimenti nel romanzo non si contano: quello di Mimì, nei confronti di Beba ma anche dell'amico e "superiore" Salvo con cui sgomita per avere un ruolo da protagonista nelle indagini, quello di Dolores, la bellissima moglie del morto ammazzato, quello dello stesso commissario che è costretto a barcamenarsi tra segreti e bugie per giungere alla verità.
Soldati viaggiava in terza classe, non per fare esperienza o raccogliere materiale, ma per risparmiare. Eppure nei grandi scompartimenti pieni d'aria e di luce, dove ogni segreto era impossibile e capitavano mille incontri e mille incidenti, sono nati personaggi e storie di alcuni dei suoi racconti più belli. Come quelli raccolti ne "L'amico gesuita", l'antico compagno di scuola diventato Padre della Compagnia di Gesù, che Soldati riconosce nello svolazzo della veste, nella letizia contenuta e tranquilla, nella mimica tutta speciale del gesuita contento, che solo chi è stato in collegio dai preti può cogliere. Poi gli altri racconti racchiusi in tre quaderni: "Quaderno di viaggio" (il poliziotto del sud che lavora a Torino, "un uomo anche lui"; il pregiudicato che ritorna a casa dopo una vita di galera...), "Quaderno di malato": quattro racconti su medici e medicine che potrebbero essere stati scritti oggi, e "Torinesi", narrazioni ambientate nella aristocratica capitale sabauda dove le signore sono felici di parlare ogni tanto in francese e di mangiare la erre. Soldati si muove "nello spirito della commedia ma avvistando o sfiorando il tragico".
Umberto Domina praticava un umorismo poco italiano, fatto di battute, di dialoghi e situazioni, e non di macchiette, della scuola di Achille Campanile e simile a quello di Marcello Marchesi. Un umorismo di testa e di intreccio, ottimista, capace di resistere brillantemente alla dimensione del romanzo, com'è questa storia di sostituzioni e imbrogli di due siciliani trapiantati a Milano che si scambiano i ruoli e le mogli. Entrambi Liborio Cappa, l'uno odia il successo, le amicizie altolocate e gli elettrodomestici, ma è un genio creativo naturale particolarmente adatto alla rapidità e all'assurdo che il boom economico sta imponendo al gusto ed è tormentato da una moglie che aspira a ciò che lui disprezza; l'altro manca di genio ma possiede ambizione e ha una moglie ricca che lo lascia in pace. Troveranno come combinarsi e come gabbare il mondo, senza male per nessuno. Mondo che è quello del miracolo economico, dei mobili di plastica che rimpiazzano le antichità, delle automobili usate anche per andare a comprare le sigarette, delle scomodissime urbanizzazioni futuribili, dei cibi in scatola al posto della buona cucina, del salutismo vanesio e perdigiorno; di tutto questo Domina avverte per tempo, in presa diretta, il formidabile potenziale comico e l'effimera durata, però ne registra l'intrinseca allegria e non l'angoscia. E ne inscena una esilarante parodia, come e più di un documento o una testimonianza.
Anni fa, quando fu pubblicato per la prima volta con un altro titolo, questo libro era diverso da adesso. Gianrico Carofiglio, allora esclusivamente un magistrato ben lontano dai romanzi che ne hanno fatto uno degli autori più amati dal pubblico, l'aveva concepito come un manuale sulla tecnica dell'interrogatorio, su come demolire o rafforzare una testimonianza nel dibattimento penale. Ma siccome il testo era tutto costruito su casi concreti, su verbali di veri interrogatori, ebbe una cerchia di lettori più vasta di quella degli specialisti. Evidentemente molti, nell'arte controllata di insinuare il dubbio fra i fatti, avevano avvertito l'umorismo, ossia il lavoro del contrario. In breve, lo spirito della letteratura, in una raccolta di racconti veristici venati di giallo: pezzi di vita, storie tragiche e comiche di esseri umani presi in avventure e peripezie, di prede e predatori, furbi e poveracci sul palcoscenico del processo che diventa teatro di vita. Da tutto questo lo stimolo a ripubblicarlo oggi liberato dalle parti più tecniche, per tornare ciò che era veramente: una raccolta di racconti giudiziari.
Il volume contiene tre parti, fra loro collegate dalla stessa domanda sullo stato del mondo - più esattamente: sulla fine del mondo - e sulla combinazione fra memoria e smemoratezza. Un capitolo si chiede che cosa sia davvero quella "eterogenesi dei fini" che, nonostante l'astrusità, è diventata così ricorrente nella pubblica conversazione. E che conseguenze abbia l'idea che i risultati delle azioni umane non corrispondono, e spesso tradiscono e rovesciano, gli scopi da cui sono partite, sul modo di pensare alla politica, e di praticarla. Un capitolo si interroga sull'ottimismo, dunque sul pessimismo. Sull'effetto che la lontananza e la vicinanza, e la grandezza e la piccolezza, esercitano sulla compassione per le sciagure umane. Un ultimo capitolo ripubblica la "Lettera a un aspirante terrorista" (maggio 2007) ed esamina i commenti turbolenti che ha suscitato, raccontando una serie sorprendente di precedenti, e mostrando i capricci della memoria pubblica e privata.
La storia comincia a Vigàta nel gennaio del 1890. Gnazio ritorna dall'America dopo 25 anni di assenza. Ci era andato a lavorare giovane perché in paese era rimasto solo. Sapeva solo "arrimunnari "gli alberi, ma alla perfezione tanto da essere assunto a New York come giardiniere. Poi, una brutta caduta da un pino, i soldi dell'assicurazione e il ritorno a Vigàta con un piccolo gruzzolo, sufficiente a comprare un pezzo di terra. Se ne era innamorato subito Gnazio, perché al centro di quella terra, stretta tra ciclo e mare, troneggiava un ulivo secolare, la gente diceva che aveva più di mille anni. La terra era rinata con le sue amorevoli cure, rivoltata e bagnata, popolata di animali, abbellita da una costruzione tirata su pietra su pietra e ora a 45 anni Gnazio era desideroso di farsi una famiglia. È l'esperta di erbe e guarigioni, la vecchia Fina, a trovargli una moglie, Maruzza Musumeci, bella come il sole. Chi sa perché quella ragazza non aveva mai trovato marito. Forse per certe sue stramberie? Le nozze, poi i figli. La famiglia di Gnazio e Maruzza cresce, prima nasce Cola, poi Resina, dalla voce ammaliante, poi Calorio e Ciccina, e cresce anche la casa... Una favola in cui si intrecciano mito e storia, ma anche arte, architettura, astrologia. Una fantasia sconfinata imbrigliata nel racconto di una vita vissuta intensamente.
Negli anni cruciali del Regno delle Due Sicilie, tra Napoli, Palermo e Amalfi, una storia d'amore, di sostituzioni e di identità, una giovane donna scomparsa e il suo doppio che ritorna misteriosamente a intrigare amanti e scienziati di malie e di passioni. La nobile fanciulla Chiara ama il giovane Alessandro, dell'illustre famiglia degli Altomare. Dopo estati trascorse a intrecciare giochi d'amore i due si sposano, ma Chiara presto è uccisa dal vaiolo. A sconvolgere la rassegnazione di chi la pianse e l'isolamento in cui s'è chiuso il suo sposo, compare una donna che alcuni riconoscono come Chiara. Ma chi sia veramente non è dato sapere. Questa incertezza compenetra i destini incrociati e gli interessi contrastanti dei personaggi. La vicenda si snoda su più registri: c'è la testimonianza oggettiva e piana di un narratore. Ma accanto a questa, il diario e le lettere tra il giovane Altomare e un singolare scienziato francese trasformano uomini, cose e avvenimenti in perturbanti fantasmi della mente. Ruggero Cappuccio è scrittore e regista per il teatro e il cinema, e da questo trae una personalissima maniera di immaginare l'intreccio e la sapienza nel far risuonare le sue molte voci come su un vasto palcoscenico.
La rivalsa dei pensionati. Da un cassonetto dell'immondizia in un parcheggio periferico, sporge il cadavere di una ragazza giovanissima. Siamo in un paese della costa intorno a Livorno, l'immaginaria Pineta, "diventata località balneare di moda a tutti gli effetti, e quindi la Pro Loco sta inesorabilmente estinguendo le categorie dei vecchietti rivoltandogli contro l'architettura del paese: dove c'era il bar con le bocce hanno messo un discopub all'aperto, in pineta al posto del parco giochi per i nipoti si è materializzata una palestra da body-building all'aperto, e non si trova più una panchina, solo rastrelliere per le moto". L'omicidio ha l'ovvio aspetto di un brutto affare tra droga e sesso, anche a causa della licenziosa condotta che teneva la vittima, viziata figlia di buona famiglia. E i sospetti cadono su due amici della ragazzina nel giro delle discoteche. Ma caso vuole che, per amor di maldicenza e per ammazzare il tempo, sul delitto cominci a chiacchierare, discutere, contendere, litigare e infine indagare il gruppo dei vecchietti del BarLume e il suo barista. In realtà è quest'ultimo il vero svogliato investigatore. I pensionati fanno da apparato all'indagine, la discutono, la spogliano, la raffinano, passandola a un comico setaccio di irriverenze. Sicché, sotto all'intrigo giallo, spunta la vita di una provincia ricca, civile, dai modi spicci e dallo spirito iperbolico, che sopravvive testarda alla devastazione del consumismo turistico modellato dalla televisione.
"Raprì l'occhi, si susì, annò alla finestra, spalancò le persiane. E la prima cosa che vitti fu un cavaddro, stinnicchiato di fianco supra la rina, immobile. La vestia era tutta 'nsanguliata, gli avivano spaccato la testa con qualichi spranga di ferro, ma tutto il corpo portava i segni di una vastoniatura longa e feroci..." Il commissario ha appena il tempo di convocare i suoi uomini e il cavallo è sparito, rimane solo il segno del corpo sulla sabbia. Quello stesso giorno una donna "forestiera", Rachele Estermann, denunzia al commissariato di Vigata il furto del suo cavallo mentre nelle scuderie di Saverio Lo Duca, uno degli uomini più ricchi della Sicilia, un altro purosangue è svanito nel nulla. Lo scenario della vicenda è il mondo delle corse clandestine, passatempo preferito di una certa aristocrazia terriera che scommette forte. È in quest'ambiente dorato che Montalbano deve indagare, perché, dopo il cavallo, viene trovato cadavere anche un custode delle scuderie. Fra maggiordomi in livrea, baroni e contesse Montalbano sta un po' a disagio, mentre "ignoti" entrano una, due, tre volte nella casa di Marinella: non rubano niente ma mettono tutto sottosopra, sembrano cercare qualcosa; ma cosa?
Una nuova storia per l'ispettore Petra Delicado, già protagonista di "Giorno da cani", "Messaggeri dell'oscurità", "Morti di carta". Cosa succede all'ispettore? In un momento di disattenzione si fa rubare la pistola. Situazione imbarazzante, tanto più che il furto avviene nella toilette di un locale pubblico e la colpevole è una bambina di otto anni. La ricerca della piccola armata precipita l'ispettore e il suo vice nel mondo dell'abuso sui minori. Bambini di strada, bambini sfruttati, figli di immigrati abusati o venduti sul mercato della pornografia. Per la prima volta Petra, a contatto con l'essenza stessa del male, sfiora la depressione e non riesce più a trovare conforto nella solitudine. Provvidenziale, un uomo rassicurante entra nella sua vita, con una caterva di figli nati da precedenti matrimoni. È una ventata di normalità per l'investigatrice mentre le indagini la trascinano verso il fondo più oscuro delle pulsioni umane.
Un atto di lettura è all'origine di questo giallo storico. La curiosità dello scrittore viene attratta da un libro, dimesso e periferico in apparenza. Lo scrittore precipita nella lettura, ma inciampa in una nota a piè di pagina. La brevità della nota stenta a contenere l'immanità del fatto. Recita la nota: "Nella lettera del 16 agosto 1956 l'Abadessa sr. Enrichetta Fanara del monastero benedettino di Palma Montechiaro così scriveva a Peruzzo: 'Quando V. E. ricevette quella fucilata e stava in fin di vita, questa comunità offri la vita di dieci monache per salvare la vita del pastore. Il Signore accettò l'offerta e il cambio: dieci monache, le più giovani, lasciarono la vita per prolungare quella del loro beneamato pastore'". Il "pastore" delle giovani "pecore", che si lasciarono morire di fame e sete in una lunga agonia, era il vescovo di Agrigento Giovanni Battista Peruzzo: il "vescovo dei contadini" che, in nome della giustizia sociale, e a dispetto del professato anticomunismo, aveva messo il suo carisma e la sua possente eloquenza al servizio dei deboli e degli abbandonati: contro gli agrari; e contro quella "struttura di peccato", che era il latifondo incolto. Immancabilmente, due proiettili ferirono a morte il vescovo. Era una sera d'estate del 1945. Dieci monache offrirono le loro vite a Dio. Il vescovo sopravvisse al baratto. Mentre dieci cadaveri si dissolvevano nel silenzio di una strage dimenticata.
Non è un buon momento per il commissario Montalbano: con Livia continui litigi, incomprensioni ingigantite dalla distanza, nervosismo. Passato e futuro si ammantano nei suoi pensieri di una vaga nostalgia. E in una di queste serate di malinconia viene chiamato d'urgenza. In una vecchia discarica è stato trovato il cadavere di una ragazza. Nuda, il volto devastato da un proiettile, niente borse o indumenti in giro. Solo un piccolo tatuaggio sulla spalla sinistra - una farfalla - potrebbe favorire l'identificazione della donna. Parte l'indagine con un Montalbano svogliato, stanco di ammazzatine. Ma il caso lo trascina: ci sono altre ragazze con una farfalla tatuata sulla scapola, sono tutte dell'Europa dell'est, hanno trovato lavoro grazie all'associazione cattolica "La buona volontà" che le ha salvate da un destino di prostituzione. Montalbano non è persuaso. C'è qualcosa di poco chiaro all'interno di quell'organizzazione benefica? E mentre l'inchiesta va avanti, il commissario è incalzato da ogni parte: dal vescovo, che non ammette ombre su "La buona volontà", dal questore, che non vuole dispiacere al vescovo, da Livia che vuole partire con lui per ritrovarsi. Tutto si muove sempre più velocemente, alla ricerca della soluzione e il commissario ha fretta, di concludere, di andarsene.
"Oltre alle regole scritte, quelle del codice e delle sentenze che lo interpretano c'è una serie di regole non scritte. Queste ultime vengono rispettate con molta più attenzione e cautela. E fra queste ce n'è una che più o meno dice: un avvocato non difende un cliente buttando a mare un collega. Non si fa, e basta. Normalmente chi viola queste regole, in un modo o nell'altro, la paga. O perlomeno qualcuno cerca di fargliela pagare". L'avvocato Guido Guerrieri deve correre questo rischio. C'è un uomo in carcere che si dichiara innocente, condannato in primo grado per traffico di droga. Le circostanze sono schiaccianti e lui stesso, in un primo momento, aveva confessato. Ma c'è però la possibilità che sia finito in una trappola orchestrata dall'avvocato di primo grado. Un maledetto imbroglio, dunque, che Guerrieri è restio a caricarsi, e non solo perché tutte le apparenze sono contro. Il detenuto non è una faccia nuova: ai tempi del movimento studentesco lo chiamavano Fabio Raybàn, picchiatore fascista ossessione dell'adolescenza di Guido. C'è anche una situazione personale ambigua che coinvolge l'avvocato: la fine forse di un amore, l'inizio pericolosissimo di un altro, e in ciascuno di questi incroci sembra materializzarsi lui, il detenuto che si proclama disperatamente innocente.
Caldo torrido, estenuante, sole implacabile: è questa la vampa del mese più infuocato della torrida estate siciliana, ma è anche l'ardore e la passione che infiammano Montalbano. Siamo in agosto, Mimì Augello ha dovuto anticipare le ferie e Montalbano è costretto a rimanere a Vigàta. Livia vorrebbe raggiungerlo, ma per non restare sola, con Montalbano sempre al lavoro, pensa di portare con sé un'amica (con marito e bambino) e chiede a Salvo di affittare una casa sul mare per loro. La vacanza scorre nella villetta sul mare, silenziosa, verde. Ma un giorno il bambino sparisce. Montalbano accorre e scopre in giardino un cunicolo che rivelerà clamorose sorprese tra cui un baule con il cadavere di una ragazza scomparsa sei anni prima.
Fin dal 1940 centinaia di capolavori dai musei di molte città italiane furono segretamente trasferiti nel Palazzo Ducale di Urbino, e in altre località, reputate sicure, dell'Italia centrale. Ma nel 1943 quei rifugi divennero ancora insicuri ed esposti a una nuova minaccia: la deportazione. Fu allora che lo stesso gruppetto di volenterosi, con pochi mezzi di fortuna, attuò il trasferimento di quel patrimonio nei ripari sicuri dei Musei Vaticani. Uno dei protagonisti fu Emilio Lavagnino, padre della scrittrice che in queste pagine ricostruisce l'avventura movendosi tra documenti e diari sperduti, mescolandovi i propri ricordi personali di figlia adolesecente, e le piccole avventure di una famiglia movimentata, come in un romanzo mémoire.
"Quann'era picciliddro, una volta sò patre, per babbiarlo, gli aveva contato che la luna 'n cielu era fatta di carta. E lui, che aviva sempre fiducia in quello che il patre gli diciva, ci aviva criduto. E ora, maturo, sperto, omo di ciriveddro e d'intuito, aviva nuovamente criduto come un picciliddro a dù fìmmine..., che gli avivano contato che la luna era fatta di carta." Torna il sangue nelle inchieste di Montalbano: un delitto spietato in una casa alla periferia di Vigata. Tutto sembra condurre alla pista passionale. Ma il commissario non si lascia ingannare. Come già ne "La pazienza del ragno" incontriamo un commissario Montalbano più del solito pensieroso, quasi intimista.
"Privo di titolo" intreccia la storia dell'unico martire fascista siciliano del biennio rosso con la colossale beffa di Mussolinia, la città nei pressi di Caltagirone che avrebbe dovuto celebrare per sempre la gloria del Duce. In un'intervista, concessa a "La Nazione" il 17 gennaio 2002, Andrea Camilleri dichiarò: "Voglio assolutamente scrivere la storia di un eroe immaginario in un paese immaginario. Mi riferisco alla storia dell'unico martire fascista che poi ho scoperto essere stato ammazzato dai suoi per un errore. L'ambientazione ovviamente sarà quella che sarebbe dovuta divenire Mussolinia, la città che non fu mai costruita e della quale al duce, nel 1928, fu mostrato un fotomontaggio".
"Alexandre Dumas era un gran mangiatore, così come era un grande narratore" scrivevano Leconte de Lisle e Anatole France nella nota introduttiva alla prima edizione del 1873 di questo monumento letterario e storico alla civiltà gastronomica di Francia. - Questa natura possente, che Michelet ha opportunamente definito "una forza della natura", produceva molto e spendeva molto. Mai un uomo viaggiò, realizzò, scrisse più di lui; mai più solida ossatura sostenne mente più feconda. Un uomo simile dovette istintivamente pensare a quel che un eccellente scrittore chiama "il sistema di alimentazione necessario alle creature d'élite".
"Può un omo, arrivato oramà alla fine della sò carriera, arribbillarsi a uno stato di cose che ha contribuito a mantiniri?". Il commissario Montalbano sente il peso degli anni. E della solitudine. [...] "La pazienza del ragno" è un giallo anomalo. Senza "delitto " e spargimenti di sangue. A meno che delitto cruento non venga considerato lo splendore di vite costrette a consumarsi e a sprecarsi nell'odio. Nell'attesa di una catarsi che [...] metta in calma le coscienze e le riposizioni nel gioco delle parti: dopo che l'agitazione "teatrale" della "ragnatela", pazientemente tessuta dall'odio, ha esaurito la funzione strategica di "menzogna" che sulla scena ha portato, irretendolo, il vero colpevole". (Salvatore Silvano Nigro).
Nelle giornate dell'avvocato Guerrieri, ogni tanto piomba una pratica, di quelle che non portano né soldi né gloria, ma solo nuovi nemici. Lui non riesce a rifiutarla, una specie di molla gli scatta dentro. La nuova pratica di "Ad occhi chiusi" gli prospetta una giovane donna vittima di maltrattamenti che ha avuto il coraggio di denunciare l'ex compagno suo persecutore: nessun avvocato vuol rappresentarla per timore delle persone potenti implicate. E la molla che gliela fa accettare sembra essere la ragazza con un'aura di inquietudine, che una sera si presenta assieme all'amico ispettore di polizia nel suo studio per chiedergli di assumere la difesa della donna tormentata.
Nell'anno di grazia 1935, quello della guerra d'Abissinia, Michilino è un "picciliddro". Figlio della Lupa, fascista perfetto, arruolato nella milizia di Cristo grazie a prima comunione e cresima, il bambino si cerca a tentoni tra un padre che si "ringalluzza con la creata di casa" e una madre che si dà alla "penetrante conversazione" con un prete. Il professore Gorgerino, pedofilo e capo dell'opera nazionale balilla, lo introduce alla ginnastica degli spartani brutalizzandolo per festeggiare di volta in volta la presa di Macallè, di Tacazzè, Axum. Ed è proprio durante i festeggiamenti per la presa di Macallè che il bambino dall'infanzia manomessa decide di farsi vendicatore, trasformandosi in un pluriomicida soldato della milizia del Duce e di Cristo.
Una famiglia italiana in un campo di concentramento giapponese nel diario della madre, Donna Topazia Alliata, che fu allieva di Pippo Rizzo, amica di Guttuso ed esponente della scuola pittorica siciliana degli anni Trenta. L'8 settembre 1943 Topazia Alliata si trova a Kyoto insieme al marito Fosco Maraini - orientalista, antropologo e fotografo - e alle tre figlie bambine Dacia, Toni, future scrittrici, e Yuki. Erano arrivati in Giappone nel 1938 quando il marito aveva vinto una borsa di studio per ricerca. Il viaggio offrì loro, antifascisti, l'occasione per sfuggire all'atmosfera opprimente del regime mussoliniano. Poi, la guerra. Dopo l'8 settembre, il rifiuto di aderire alla repubblica di Salò li condusse in campo di concentramento.
"Ricordatevi, cara figlia, che le persone anche di merito distinto, quando sono infelici, cessano di essere amabili", scrive Pietro Verri in questi Ricordi alla figlia Teresa, chiamata così in omaggio alla regina Maria Teresa d'Austria, che l'illuminista di Milano ammirò sopra ogni altro. Una figlia avuta tardi, a quasi cinquant'anni, alla quale appena nata ricordava come diventare felice, attraverso la disciplina dello spirito, e così fare felici gli altri, com'era dovere di donna. I Ricordi, cioè ammonimenti, formano un trattato modello di pedagogia femminile illuministica, più vicina all'inglese rigoroso Locke che all'utopista libertario Rousseau.
L'inchiesta più dura del commissario Montalbano comincia con un cadavere pescato per caso in alto mare. L'incrocia Montalbano mentre nuota al limite dello stordimento per lavarsi di dosso una notte di cattivi pensieri e malumori. I fatti politici, certi eventi di repressione poliziesca, l'atteggiamento verso gli immigrati: tutto cospira a farlo sentire un isolato, e il cadavere anonimo, destinato a restare senza giustizia, archiviato da banale caso di clandestino immigrato, sembra armonizzarsi macabramente con il suo senso di solitudine. Per il commissario è una sfida, che lo scuote dal proposito di dimettersi, e lo spinge in una inchiesta doppia, su delitti apparentemente indipendenti e accomunati solo dalla ferocia.
Chesterton apre questa raccolta di scritti con una doppia ironia: che nel giallo la tecnica è tutto e che lui stesso ha scritto alcuni dei peggiori gialli del mondo. Chesterton spiega come si scrive un giallo, come si lavora nella officina del mistero e della sorpresa. In realtà Chesterton spiega anche come si debba leggere un giallo, come scoprirne la qualità, come cedere al suo incanto razionale senza cadere nel vizio della serialità.
È stato ucciso un bambino di nove anni. Il piccolo corpo viene ritrovato nel fondo di un pozzo. Un delitto atroce di cui è accusato un ambulante senegalese, Abdou Thiam, che lavora nella spiaggia vicino la casa dei nonni dove il bambino è solito giocare. Inchiodano il senegalese indizi e testimonianze, ma soprattutto una foto e le dichiarazioni di un barista. Un destino processuale segnato: privo di mezzi, lo attendono una frettolosa difesa d'ufficio e vent'anni con rito abbreviato. Ma è un destino che si scontra con quello di un avvocato in crisi che trova, nella lotta per salvare Abdou in una spasimante difesa, un nuovo sapore alla vita.
«Negli scritti di memoria di ebrei perseguitati in Italia, nei sette anni che vanno dalle leggi fasciste del 1938 alla Liberazione, mancava fino ad oggi un diario come quello di Renzo Segre - scrive Nicola Tranfaglia nell'introduzione. - La storia cioè di un uomo che, per sfuggire alla deportazione dei lager e alla probabile morte, si era rifugiato con la moglie in una clinica psichiatrica e vi era rimasto per quasi due anni fingendo di essere un malato mentale e vivendo nell'angoscia costante di essere scoperto e deportato o ucciso. Le tracce di quella vicenda contrassegnarono tutta la vita successiva di Renzo Segre caratterizzata da un "perenne stato di depressione e di ansia per il futuro". Né poteva essere diversamente, se si ripercorrono attraverso queste pagine le tappe di un calvario che ha inizio già negli ultimi anni della dittatura ma registra un inevitabile salto di qualità, un drastico peggioramento quando i nazisti occupano l'Italia del Centro-Nord, spingono Mussolini a fondare la Repubblica Sociale Italiana e questa, con il manifesto di Verona, proclama apertamente che gli ebrei saranno trattati come "sudditi di uno stato nemico". Con la sua drammatica e oscura quotidianità la vicenda raccontata nel diario può forse far capire alle nuove generazioni come la tragedia provocata dalla vittoria dei fascismi, nella prima metà del nostro secolo, è ancora vicina nel ricordo di tante famiglie e merita di essere ricordata e approfondita soprattutto da quelli che dovranno affrontare la sfida di un futuro che si annuncia, malgrado le lezioni di storia, tutt'altro che facile o portatore di sicure promesse».
Ambientato nel primo quindicennio del Settecento, il romanzo di Camilleri si ispira ad un episodio della storia siciliana. Erano gli anni in cui la Sicilia era con i Savoia, si succedevano rivolte e rivoluzioni. Per sei giorni Girgenti diventò un regno indipendente con un contadino che si autoproclamò re. Si chiamava Michele Zosimo, nei giorni dell'insurrezione pare bevesse vino mescolato a polvere da sparo. Re per soli sei giorni, una volta sedata la rivolta, venne ucciso.
A Vigàta è tornato l'inverno. E il commissario Montalbano non è più un ragazzino. Lo si avverte perché i segni lasciati da tutte le inchieste passate riaffiorano qua e là, con i colori della nostalgia, a ogni passo di quest'ultimo caso. Un caso anomalo in cui il cadavere non spunta all'inizio, e Montalbano non ne è proprio il titolare, ma vi si intrufola. Troppe coincidenze lo spingono. Scava nella scomparsa di un finanziere truffatore, che si è portato via i soldi di mezzo paese e dintorni, e poi del suo aiutante. E la soluzione sarebbe una fuga banale, col malloppo sottratto ai molti polli dell'epoca della borsa, connessa a un omicidio, se assai più carica di dolente orrore non si profilasse una soluzione laterale.
Un nuovo romanzo del giovane scrittore modenese Ugo Cornia. Pagine dirette e ingannevolmente semplici. Gli affetti evocati non sono mai liricizzati, né ridotti a sfogo emotivo. E' la vita, che conosce tensioni, urti, sconvolgimenti, ma che diventa divagazione sull'affiorare imprevedibile delle memorie.