Pregare è una facoltà umana: nasce probabilmente dall'intuizione di poter comunicare con le presenze viventi, umane e non, che sono intorno a noi o sono passate o sono altrove. La preghiera è un anelito comune, al di là delle differenze teologiche, ideologiche e politiche. Significa invocare la divinità fuori o dentro di noi perché ci venga incontro e migliori le nostre vite. Si tratti di monoteismo o di politeismi, di animismi o di culto degli antenati, pregare è rivolgersi a una presenza o a più presenze al di fuori di noi, stabilendo una reciprocità fondamentale per motivare il proprio stare al mondo. La nostra società è l'unica che nega questa facoltà, come se avesse deciso di vivere in un quadro dell'adesso impoverito da tutte le ispirazioni che vengono da altrove.
Il Liceo di Atene, di cui abbiamo pochi resti, è considerato a ragione uno dei luoghi più significativi dell'umanità. È il sito della scuola di Aristotele. Qui il filosofo insegnava e discuteva le risposte ai misteri più profondi della condizione umana, cambiando il modo in cui pensiamo. Oggi può essere difficile comprendere l'influenza straordinaria delle sue lezioni. Eppure le sue osservazioni sul mondo intorno a lui, unite alle sue riflessioni sulla natura della conoscenza, hanno gettato le fondamenta di tutta la scienza empirica. Il suo studio del pensiero razionale ha posto le basi della logica formale, pietra angolare dell'indagine filosofica. Il suo esame delle città-stato greche ci ha dato la scienza politica, mentre la sua analisi della tragedia rimane un pilastro dei corsi di letteratura in tutto il mondo. Il noto filosofo John Sellars ci conduce in un viaggio nel pensiero di Aristotele, mostrando come molte sue idee continuino a incidere sul modo in cui pensiamo e viviamo oggi. E ci suggerisce che tenere aperte le porte della mente alla curiosità e al desiderio di conoscere significa anche realizzare compiutamente la nostra natura umana. Le riflessioni di Aristotele, mostra Sellars, hanno oggi ancora molto da insegnarci.
I classici antichi sono diventati soggetti di cui aver paura. Non era facile prevedere che un giorno qualcuno avrebbe messo in guardia i giovani dalla lettura delle opere greche e romane, cospargendole di avvisi di pericolo o addirittura escludendone direttamente alcune dal canone; gli stessi che avrebbero accusato i classici di aver contaminato la nostra cultura con il razzismo, il sessismo, il suprematismo bianco, arrivando al punto di auspicare addirittura l'abolizione del loro insegnamento. Invece è accaduto. Si tratta di un fenomeno recente, ma soprattutto nuovo, inatteso, le cui motivazioni non possono essere ignorate: e come tutte le cose nuove e inattese, ha fatto sì che fosse necessario tornare a riflettere sullo stesso problema - che cosa sono i classici per noi? - da un nuovo punto di vista. Maurizio Bettini ci esorta dunque a tenere vivo il dialogo e a fuggire i pericoli insiti nella sua interruzione. Perché è proprio questo che avviene, quando si manifesta la paura dei Greci e dei Romani: un'interruzione di dialogo fra noi e i classici; non solo, fra noi e la storia, fra noi e il passato.
La vita umana, quando perde il suo fuoco, è destinata a diventare fredda come la morte. Questa nostra epoca pare aver smarrito il fuoco. Quando tutto smette di avere senso, l'unica cosa che sembra delinearsi davanti a noi è trovare qualcosa che ci distragga da questa assenza di significato. Viviamo vite imprigionate in un eterno intrattenimento, ed è difficile dissentire da una società che pare ormai organizzata solo per creare esigenze di consumi e vendere. Ma se tutto questo a un tratto finisse? Se tutto il mondo che conosciamo crollasse lasciando solo macerie e rovine? Che ne sarebbe di noi? Cormac McCarthy (1933-2023), tra i più grandi scrittori americani contemporanei, ha messo in scena un racconto nel suo romanzo "La strada" che conduce a un ribaltamento dello sguardo. Persino il padre protagonista del racconto di McCarthy nel suo pessimismo cosmico riesce a conservare al fondo di se stesso un desiderio di felicità. È la vita di quel figlio l'olio della sua fiamma, il combustibile vero del suo fuoco. Le persone felici sono quelle che hanno trovato il tesoro nascosto. Non hanno nulla, secondo la logica del mondo, ma hanno un motivo, un fuoco e per questo hanno tutto.
L'Italia ha imparato a comprendere la sua scuola in termini che le sono profondamente ostili. È questo il lascito di don Milani. E sta qui il nucleo di un equivoco che accompagna il nostro discorso educativo dagli anni Settanta in avanti. Ebreo convertito al cristianesimo e prete in odio alla borghesia, che nella Chiesa aveva aperto un'aspra polemica in nome dei poveri, don Milani sembrò incarnare una potente richiesta di cambiamento. In una maniera che ha qualcosa di profondamente ironico, tuttavia, la cultura pedagogica italiana ha finito per restare impigliata nelle stesse contraddizioni in cui si dibatteva il suo eroe. Il fatto è che don Milani, figura del nuovo, sarebbe rimasto fedele fino alla fine all'antico, al messaggio di Cristo e alla Chiesa. E a ben vedere anche a una idea di borghesia come classe di cultura. A pensarci è sorprendente come una figura così complessa, piena di tante cose, ambigua, contraddittoria e indubbiamente carica di fascino sia stata poi ridotta al figurino senza spessore del pedagogismo nostrano. L'ideologia che nel nome di don Milani pretende di bandirne il messaggio finisce così per imprigionare il prete a Barbiana ma svuota contemporaneamente Barbiana di ogni significato.
Che differenza c'è tra danzare per far piovere, e schiacciare un tasto per illuminare uno schermo? In entrambi i casi, un movimento del nostro corpo fa accadere qualcosa. Nel primo caso, la danza della pioggia si rivolge a una qualche divinità e il dispositivo che ne attiva l'intervento è il nostro corpo. Nel secondo caso il dispositivo è un prolungamento del corpo. Norbert Wiener, matematico, sottolineava, già negli anni Cinquanta del Novecento, la pericolosa e facile identità tra religione e tecnologia. È dunque ragionevole domandarsi oggi quanto politiche culturali prive di immaginazione abbiano allontanato la tecnologia dalla scienza, trasformandola in una fede che ha i propri sacerdoti, i black fridays di festa, gli eretici, gli atei e i martiri da social network.
Nel centenario della marcia su Roma che dette inizio alla dittatura fascista tocca a Liliana Segre - che nel 1938 fu espulsa da scuola a causa delle leggi razziste e nel 1944 fu deportata ad Auschwitz - presiedere la prima seduta del Senato della XIX legislatura. Ne nasce un discorso memorabile, di rilevanza storica e civile, una dichiarazione d'amore per la Costituzione repubblicana, «non un pezzo di carta, ma il testamento di centomila morti caduti nella lunga lotta per la libertà». Se il fascismo è stato «il filo nero che dalle leggi razziali ha portato alla Shoah», l'articolo 3 della nostra Costituzione è la «stella polare» che, afferma la senatrice Segre, «bandisce le discriminazioni e impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono ai cittadini il pieno sviluppo dei loro diritti, delle loro libertà, della dignità». Completano il volume una accorta introduzione di Alessia Rastelli, un breve nuovo testo di Liliana Segre e il saggio conclusivo di Daniela Padoan, che situa il discorso al Senato nella parabola di una tra le più alte testimoni della Shoah. Introduzione di Alessia Rastelli.
Questo è un elogio della lentezza, intesa come elogio della lettura e della scrittura attenta. Se scrivere è indugio intorno al «fare», e leggere un restare in totale compagnia di se stessi, percorrendo un percorso individuale, il testo in quanto oggetto privilegiato deve di conseguenza assorbire ogni attenzione. E l'attenzione e l'indugio sono virtù da coltivare per i loro effetti positivi soprattutto in un'età come la nostra, l'età della velocità. E la velocità porta con sé, insieme ai notevoli agi, un'erosione culturale di cui ancora non siamo in grado di valutare le conseguenze.
Per molti secoli sono state ritenute interessanti solo le opere e i libri degli uomini, mentre le donne sono state addestrate a non avere talento. Sono state silenziate, dimenticate, messe fuori. La soluzione ora è ricostruire l'intero campo su cui si gioca la partita della cultura. La tesi di fondo di questo libro è: come smettere di considerare il mondo solo in termini maschili. Uscire da questa "naturalezza" e da questa "normalità" pregiudiziali non è un obiettivo polemico, ma un'opportunità critica di crescita e di confronto, anche interculturale. Per smettere di considerare il mondo e la cultura solo in termini maschili non si tratta di guardare il paesaggio culturale del Novecento, per esempio, aggiungendo anche le donne, né di ripetere la logica dell'harem, dell'aiuola, o del club per soli uomini. Bensì di far contare la presenza e l'importanza delle donne, anche quando sono state ammutolite o oscurate. Per tanto tempo le donne sono state abituate a sentirsi incapaci e senza talento. La memoria delle loro opere non ha contato. Per illuminare uno spazio così fuori campo non basta aggiungere nomi, né la soluzione è cancellare il passato. Piuttosto, servono altre parole e nuove inquadrature.
L'avvocato, avevano scritto a suo tempo gli autori di questo libro, è quanto mai necessario. E questa necessità si è sentita fin dall'inizio della storia. Ma, rispetto al secolo scorso, il suo lavoro è profondamente cambiato. Nella relazione con i clienti, nella natura degli spazi fisici della giustizia (i tribunali) e nella ritualità del processo. Ma anche nel reperimento delle fonti e dei casi. L'incontro con le nuove tecnologie, con le norme che cambiano e con l'Intelligenza artificiale ha reso quello dell'avvocato un lavoro ibrido e versatile, nel bene e nel male. Un esempio per tutti: quando si ha a che fare con l'Intelligenza artificiale, chi è che può decidere, che può rappresentare, che può ragionare a favore di qualcun altro se non un essere umano? Fulvio Gianaria e Alberto Mittone delineano in questo libro ciò che sarà dell'avvocato nel futuro: prospettive, problemi, opportunità di una professione la cui necessità oggi, e domani, non verrà meno.
I ricchi sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Ma se quelli di una volta erano megacapitalisti, quelli di oggi sono gigacapitalisti. La pandemia, il periodo più calamitoso di sempre per i nove decimi dell'umanità, è stata una pacchia per loro. Jeff Bezos ha aggiunto un'ottantina di miliardi di dollari al suo già cospicuo patrimonio. Elon Musk, per un momento, l'ha superato come uomo più ricco al mondo. La nazione virtuale da due miliardi di utenti fondata da Mark Zuckerberg, se fosse reale, sarebbe la più popolosa al mondo. Ma il punto non è soltanto la quantità del denaro in sé. È che tale quantità dà a singoli individui un potere che, un tempo, competeva solo agli Stati sovrani. Come si fa a fermare la cavalcata verso nuovi tipi di monopoli di questa manciata di plutocrati che non ambiscono a influenzare solo che cosa compriamo ma anche che cosa pensiamo? Con tasse giuste, leggi migliori, più diritti ai lavoratori sfruttati e una nuova consapevolezza collettiva. Perché se continui a dire di mangiare brioche a moltitudini senza pane, la storia insegna, di solito non va a finire bene.
Migliaia di chiese sono oggi inaccessibili, saccheggiate, pericolanti. Altre sono trasformate in attrazioni turistiche a pagamento. Oggi non sappiamo cosa farcene, di tutto questo «ben di Dio», e bene pubblico: mancano visione, prospettiva, ispirazione. Ma è anche lì che si potrebbe costruire un futuro diverso. Umano. Le antiche chiese italiane ci chiedono di cambiare i nostri pensieri. Con il loro silenzio secolare, offrono una pausa al nostro caos. Con la loro gratuità, contestano la nostra fede nel mercato. Con la loro apertura a tutti, contraddicono la nostra paura delle diversità. Con la loro dimensione collettiva, mettono in crisi il nostro egoismo. Con il loro essere luoghi essenzialmente pubblici sventano la privatizzazione di ogni momento della nostra vita individuale e sociale. Con la loro viva compresenza dei tempi, smascherano la dittatura del presente. Con la loro povertà, con il loro abbandono, testimoniano contro la religione del successo. Possiamo decidere che anche questi luoghi speciali che arrivano dal passato devono chinare il capo di fronte all'omologazione del pensiero unico del nostro tempo. O invece possiamo decidere di farli vivere: per aiutarci a vivere in un altro modo.
Essere in dialogo con la solitudine significa entrare in relazione con gli abissi della nostra interiorità. In un mondo collegato continuamente in ogni suo aspetto, la solitudine rappresenta l'occasione per scendere lungo i sentieri che portano dentro di sé, e ascoltare le ragioni della immaginazione e del cuore. Eugenio Borgna ci indica in questo libro la direzione, molto spesso confusa e difficile, per aprirsi al dialogo con la solitudine. L'esperienza della pandemia, che ancora permane, ha posto tutti di fronte al significato della solitudine e a quanto essa sia un valido strumento per conoscere il mondo esterno, nelle sue luci e nelle sue penombre. La solitudine è l'anima nascosta e segreta della vita, ma come non avere la sensazione che oggi, nel mondo della modernità esasperata e della comunicazione digitale, sia grande il rischio di naufragare nell'isolamento?
Dopo il populismo serve una nuova idea di cittadinanza per salvare le nostre democrazie, un patto sociale che prenda sul serio le domande sollevate dall'onda sovranista ma offra risposte più eque ed efficaci. La grande ondata populista che ha portato al successo di Donald Trump, alla Brexit e al governo Cinque Stelle-Lega si è esaurita: la pandemia ha confermato in modo drammatico i limiti dei populisti al potere e la loro incapacità di mantenere le promesse. Nel pieno di una crisi ancora più grave di quella che ha originato il voto di protesta degli anni scorsi, le nostre democrazie sono di fronte a una alternativa: fare scelte radicali per ricostruire una società più giusta e dinamica, oppure consegnarsi alla nuova destra che avanza sulle macerie dell'illusione populista. È ora di smettere di essere popolo, è ora di tornare cittadini.
Questo libro tenta una lettura unitaria delle cause economiche e politiche del declino dell'Italia, che dura da un quarto di secolo. La tesi di fondo è che il Paese è organizzato in modo meno equo ed efficiente dei suoi pari: la supremazia della legge e la responsabilità politica sono più deboli, in particolare, e ciò comprime sia la produttività delle imprese sia le opportunità dei cittadini. Il senso di questo equilibrio politico-economico è la difesa della rendita, e la sua forza è la tensione tra la razionalità individuale e l'interesse collettivo. Questa logica è ferrea ma reversibile. Una battaglia di idee può scardinarla, liberando energie civili e risorse materiali ora sperperate, e avviare il rilancio.
Il concetto di Umanità è antico e attraversa la storia dell'Occidente. Ma nel Novecento esso subisce una brusca torsione, per effetto del superamento di una doppia soglia: quella che separa Umano e Inumano, da una parte. E quella che divide Umano e Postumano, dall'altra. Due fratture che si sono consumate in rapida successione. Con Auschwitz si rompe la soglia tra Umano e Inumano. La Disumanità come In-umanità diventa la trama del nostro presente, nel momento in cui, per esempio, si chiudono i porti all'arrivo dei migranti, decidendo di non salvare altri esseri umani. Il superamento della seconda soglia è quella tra Umano e Postumano, laddove la tecnologia è costruita a somiglianza dell'essere umano, assumendo aspetti a volte salvifici, a volte inquietanti.
Questo libro sostiene l'ipotesi non ovvia che la «morale per eccellenza», cioè quella che riguarda il sesso, sia una delle cose in cui la nostra civiltà è progredita di meno negli ultimi 4000 anni. Chi ritiene di non avere limiti non oserebbe mai farlo in piú di due. Tutte le coppie ostentano una stretta monogamia, e ogni contatto con terzi è considerato un tradimento che può distruggere il rapporto. Anche i giovanissimi vivono sostanziali matrimoni di reciproca sorveglianza. E mentre tutti si dichiarano libertari, di fatto si danneggia continuamente la reputazione delle persone a partire dai loro comportamenti sessuali. Nel profondo la morale sessuale è mutata pochissimo, e per alcuni aspetti sta tornando indietro, come segnalano molti intellettuali. Il libro si rivolge a coloro che sono perplessi rispetto al perdurante ruolo degli insegnamenti cattolici nel condizionare la mentalità comune, e rispetto ai principi cui obbedisce tuttora il legislatore in materia di diritto di famiglia. E viene incontro ai figli - e alle figlie - di genitori piú o meno dichiaratamente repressivi. Ma soprattutto, vuole indurre a dubitare della propria convinzione di essere liberi.
La matematica rivista come prassi politica, e non solo come teoria, è un formidabile esercizio di democrazia: come la democrazia si fonda su un sistema di regole, crea comunità e lavora sulle relazioni. Come la democrazia, la matematica amplia ma non nega. Studiando matematica si capiscono molte cose sulla verità. Per esempio che le verità sono partecipate e pertanto i principî di autorità non esistono; che le verità sono tutte assolute ma tutte transitorie perché dipendono dall'insieme di definizione e dalle condizioni al contorno. Svolgere un problema matematico è un esercizio di democrazia perché chi non accetta l'errore e non si esercita nell'intenzione di capire il mondo non riesce né a cambiarlo né a governarlo. Chiara Valerio tesse in un pamphlet polemico un parallelo tra matematica e democrazia, due aree che non subiscono la dittatura dell'urgenza.
La speranza ci consente di vedere la realtà con occhi non annebbiati e non oscurati dalle esteriorità e dalle consuetudini, dalle convenzioni e dalle ripetizioni, e ci consente di aprirci al futuro, liberandoci dalla ostinata prigionia del passato e del presente. Eugenio Borgna traccia un lucido percorso attraverso le tappe della letteratura, da una parte, e del suo lavoro di psichiatra, dall'altra, sul concetto di speranza. Essa è fragile ma è l'unica via per liberare l'essere umano dalla solitudine e dagli abissi dell'anima. In perenne ascolto dei suoi pazienti e in dialogo serrato con Cesare Pavese, ricostruisce l'esile figura di una delle forze più rivoluzionarie della vita.
Nelle nostre relazioni quotidiane respiriamo un clima sempre piú offuscato da intolleranza, facile offesa e una fin troppo vivace propensione all’accusa. Il crescendo di espressioni di ira e insofferenza va di pari passo con il rifiuto di fare i conti con le proprie fragilità, utilizzando gli altri come proiezione di parti scomode di sé. A partire dalle inimicizie interiori costruiamo cosí un mondo popolato da tanti presunti nemici esterni a cui addossare la colpa di scontento e malumori. La difficoltà a mettersi in discussione ben si evidenzia nell’attività psicoterapeutica, ma è anzitutto nella vita di tutti i giorni che i sentimenti negativi proiettati alimentano spirali di rabbia e divisioni. Riconoscere in se stessi ciò che troppo facilmente viene attribuito agli altri, assumersene la responsabilità, è l’unica strada per conoscersi, rispettarsi e ricercare forme pacifiche di convivenza, sottraendosi al rischio che la rabbia sia strumentalizzata dai giochi di potere e della politica.
Pensare che Dio sia "soltanto" una parola non significa ridurne il valore nella storia. Al contrario, può significare dare contenuto di realtà alle radici profonde che hanno indotto, nei secoli, comunità di esseri umani a lavorare intorno a questa immagine, costruendo una foresta di simboli, tracciando cammini di conoscenza e di relazione tra gli uomini. Ma poiché ogni pensiero deve fare i conti con la contemporaneità, è necessario capire se la parola «Dio» sia oggi sfibrata, svuotata di senso oppure se sia possibile rinvenirne un significato nuovo, in cui al di là della narrazione mitologica si possa intravedere l'ossatura di una inesausta ricerca. Potremmo allora considerare la parola «Dio» come il punto di intersezione tra le piccole vicende umane di ogni tempo e le vorticose dimensioni della ricerca intorno all'universo. Forse è in questo incrocio di strade che la parola «Dio» è stata formulata. E forse si può tentare oggi di immaginare una nuova mappa. Interrogando la vita, ma anche le scienze, la poesia, la storia e le Scritture stesse.
Incisi nella pietra con caratteri di fuoco, i comandamenti impongono all'uomo l'obbedienza e al tempo stesso esigono la libertà di trasgredirli: la legge divina ha senso solo se ammette la facoltà di non osservarla.
Nonostante siano il passo biblico più conosciuto e citato al mondo, simbolo per eccellenza del monoteismo, i Dieci comandamenti hanno ancora molto da raccontare. Che cosa rappresentano oggi e che suggestioni nascono dalla loro (ri)lettura? La rivelazione della parola divina a Mosè sul Sinai è un dialogo fra terra e cielo ricco di chiaroscuri, fraintendimenti, emozioni che prendono il sopravvento, come quando, infuriato con il popolo d'Israele per il vitello d'oro, il profeta spezza le prime Tavole della Legge. Dall'analisi di Elena Loewenthal emerge che il principio di responsabilità – la consapevolezza che ogni azione o pensiero porta con sé delle conseguenze – è senz'altro la filigrana dei comandamenti. In questa breve sequenza di imperativi positivi o negativi si snodano la storia passata e le aspettative future. Ma malgrado una struttura apparentemente semplice, i due passi biblici che enunciano i comandamenti nascondono sottintesi, dubbi, difficoltà. Ed è proprio attraverso le aporie che si dipana la ricchezza di significati, che le infinite rifrazioni del testo si aprono alla lettura.
A chi appartiene la nostra vita? Detto altrimenti: sul nostro fine vita è preferibile che decidiamo noi o un estraneo che non conosciamo, scelto dal caso o dai rapporti di forze, che potrebbe essere anche un nostro nemico? Questo è l'unico interrogativo intellettualmente onesto, logicamente e moralmente onesto, con cui affrontare il tema del fine vita, del suicidio assistito, dell'eutanasia. Ed è l'interrogativo che Paolo Flores d'Arcais si pone in questo pamphlet. La risposta ovvia è che preferiamo decidere noi. Perché mai dovremmo sottometterci a un altro, alla Chiesa, a una maggioranza politica? Tutti e ciascuno, senza eccezioni, preferiremmo essere noi a scegliere. Ad essere logicamente e moralmente onesti, perciò, la questione del fine vita non costituisce un problema, non dovrebbe, almeno. Ha in sé la sua risposta: nessuno può imporre la propria volontà sul fine vita di un altro.
La follia non è qualcosa di estraneo alla vita, ma una possibilità umana che è in noi, in ciascuno di noi, con le sue ombre e con le sue incandescenze emozionali. La tristezza e l'angoscia sono esperienze umane non estranee alla nostra esistenza.
La fenomenologia ha portato a considerare la psichiatria finalmente non solo come una scienza naturale, ma anche come una scienza umana, che nella cura delle interiorità ferite segue sentieri conoscitivi nutriti di gentilezza e di sensibilità, di etica e di umanità, sondando aree solo apparentemente estranee alla psichiatria, ma a questa vicine nel loro comune retroterra emozionale. Le emozioni ferite entrano a fare parte delle diverse forme di sofferenza psichica, e non solo di quelle depressive. Ma le emozioni accompagnano la nostra vita in ogni sua circostanza, si voglia o non si voglia, quando stiamo male e quando stiamo bene e non solo nelle condizioni di malessere, anche se non sempre ne siamo consapevoli. In questo libro Eugenio Borgna intesse le sue riflessioni su passato, presente e futuro della psichiatria con frammenti della sua vita «rapsodici e serpeggianti, nei quali sono confluite esperienze lontane e vicine nel tempo».
Per il pensiero liberale una «politica della verità» è un'assurdità e un pericolo, il principio di una società dogmatica, paralizzata da un potere totalitario e ingiusto. È davvero così? La teoria sviluppata in questo libro rovescia l'ipotesi. Uno sguardo più attento al ruolo del vero e del falso nelle nostre vite ci fa capire che oggi il destino della libertà e della giustizia è inestricabilmente legato al concetto di verità. Ma si tratta di guardare alla verità in un modo diverso: considerando anzitutto il suo speciale potere in democrazia, in cui le credenze (vere, false, incomplete o distorte) dei cittadini orientano le stesse condizioni della vita pubblica. Contro la proliferazione del falso e dell'insensato, una nuova politica della verità deve tutelare, per tutti noi, il diritto alla verità non soltanto in relazione al bisogno di sapere, ma anche al bisogno di essere garantiti in quei beni e valori critici che si legano a un uso razionale delle conoscenze.
La vita nell'amicizia è adesso, lo sentiamo senza dovercelo dire. Vale la pena di vivere per questo, perché c'è l'amicizia. Essa libera la quotidianità dal suo carattere di «compito» e l'esistenza da qualunque sospetto di «doversela meritare». È la ricompensa dei viventi, che non bisogna aspettare anni o in un'altra vita. In questo senso, proprio oggi, per noi contemporanei è una delle più assurde e anacronistiche manifestazioni. Ricorda a una società che ne ha completamente smarrito il senso che non c'è un oltre, ma che esso è già qui, che c'è qualcosa che non corrisponde a nessuno scambio equo, è uno spazio della «ingiusta gratuità», ingiusta perché questa non è offerta a tutti.
Nel mondo di Chandra, dove la parola è anche immagine e poesia, meditare è anzitutto stare fermi; sedersi e seguire umilmente e con pazienza il respiro, accoglierlo in silenzio, conoscere ma senza pensare. Meditare è seguire i movimenti della nostra mente smettendo di affaccendarci in azioni, pensieri, preoccupazioni per il futuro, ricordi del passato. Meditare non è fare il vuoto intorno a noi. Anzi: è non separare i mondi, non dividere quel che consideriamo spirituale da quel che riteniamo ordinario. E i gesti quotidiani di cucinare, lavare i piatti, telefonare, pulire, leggere possono diventare forme di preghiera. È insomma stare dentro noi stessi, dentro tutto ciò che siamo in quel momento, consapevolmente. Spesso si pensa che la soluzione al dolore e all'ansia sia altrove, ma è nel dolore la soluzione del dolore (e nell'ansia la soluzione dell'ansia). Sentendolo, abitandolo, assaporandolo, non è più un estraneo, ma a poco a poco un ospite scomodo, irruente, tempestoso e infine un pezzo di noi.
Tutti, prima o poi, riceviamo una diagnosi. Un giorno arriva un esperto e con una parola ci dice qualcosa che modifica il corso della vita, in peggio o in meglio. Momento chiave della relazione medico-paziente, la diagnosi non è solo un processo di conoscenza compiuto da chi la formula, è anche un'occasione importante della conoscenza di sé. Ed è sempre un incontro: con il corpo, la chimica dei farmaci, la cura di sé, la scienza medica, la (s)fiducia nella medicina, il passato dell'anamnesi, il futuro della prognosi, la nostra personalità, le nostre paure e difese. Sulla malattia e l'essere malati si è scritto molto. Meno sulla diagnosi e l'essere diagnosticati. O con internet, sull'autodiagnosticarsi, solitari esploratori dei nostri sintomi. Le diagnosi non sono sentenze e le malattie non hanno un «significato», non sono metafore o colpe. Possono però abitare le nostre vite come narrazioni e mitologie personali.
Già i pittori offrivano al vasto pubblico immagini decisive della storia: ma, prima di dipingere una battaglia, si informavano su chi l'aveva vinta. L'invenzione fotografica fu invece salutata come l'avvento dell'informazione obiettiva. I cronisti possono mentire, gli scatti sul campo dovrebbero riprodurre la realtà. Eppure, la ricostruzione storica dimostra che le foto piú famose sono spesso il risultato di artifizi. La nuova tecnica, nata per aiutare il vero, scivola al servizio della propaganda, alleandosi al falso. La parabola della fotografia riassume quindi in icone una degenerazione dei mass-media. Il libro di Zoja discute otto fotografie celebri. Le quattro che rappresentano "guerrieri" provengono da messe in scena. Possiamo invece credere alle altre quattro: riproducono dei bambini, che ignorano finalità nascoste. Questa rassegna anticipa il problema della post-verità, analizza la psicologia retrostante e offre strumenti per capirla.
Eugenio Borgna continua, con questo libro, a elaborare un altro elemento del suo personale lessico delle emozioni. Qui racconta la nostalgia ferita, con le sue collaterali parole tematiche: quella della memoria, quella del tempo, quella della patria perduta, quella dell'infanzia. Ma c'è anche la nostalgia della morte, quella di un volto che, come diceva Rilke, ci accompagna, a volte introvabile; e anche la nostalgia della vita quando la malattia è in noi. La nostalgia aperta alla speranza è diversa da quella pietrificata nel passato. Queste sono alcune delle parole che tematizzano il libro. Ci sono nostalgie ferite dal dolore, e nostalgie che se ne salvano. Ovviamente, significa fare riferimento a Leopardi e Proust ma anche a Emily Dickinson e Guido Gozzano. La nostalgia, infine, può essere intesa come recupero del passato: come sua donazione di senso; come antitesi, anche, al drago dell'indifferenza che porta al deserto delle emozioni.
Un piccolo libro con una tesi molto grande: per risolvere i conflitti che dilaniano il mondo, e in particolare l'Europa, dobbiamo partire dal concetto di «identità culturale». Un concetto pernicioso che porta a pensare alla cultura come a qualcosa di statico, determinato, immobile. Un concetto che tende a produrre da un lato comunitarismi integralisti, dall'altro relativismi inerti e indifferenti. Oppure barricate per difendere orticelli culturali o indifferentismo dove tutto va bene purché omologo e uniforme. Invece proprio della cultura è il dinamismo, lo scambio, la permeabilità. Usando la rara peculiarità intellettuale di una doppia conoscenza, quella del mondo occidentale e del mondo cinese, Jullien riesce a stabilire l'unica piattaforma possibile per un'umanità pacificata. Quella in cui le idee e le culture sono qualcosa di dinamico, di fluido, senza steccati. Un antidoto prezioso a un mondo che costruisce barriere.
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Vittime di violenza politica e intolleranza religiosa, inassimilabili malgrado il battesimo forzato, perseguitati dalle prime leggi razziste, costretti a un'emigrazione interiore, non più ebrei, ma neppure cristiani, i marrani sono «l'altro dell'altro». La scissione lacerante, la doppiezza esistenziale conducono alla scoperta del sé, all'esplorazione dell'interiorità. Gli esiti sono disparati: vanno dalla mistica di Teresa d'Ávila al concetto di libertà di Baruch Spinoza. Pur iscritto nella storia, il marrano ne eccede i limiti rivelandosi il paradigma indispensabile per sondare la modernità politica. Sopravvissuti grazie alla clandestinità, alla resistenza della memoria, al segreto del ricordo, divenuto con il tempo ricordo del segreto, i marrani non possono essere consegnati all'archivio. Il marranismo non si è mai concluso.
I populismi si alimentano di un'illusione, che può essere pericolosa: il recupero della sovranità. Ma si tratta di una promessa che non si può mantenere, perché le leve del potere sono, ormai, inesorabilmente altrove.
Di fronte a problemi che nessun governo nazionale è in grado di risolvere, elettori e politici, sfiduciati verso la globalizzazione, inseguono le sirene del populismo. Spaventati dai fantasmi di una sovranità che sembra svanire, stiamo cosí distruggendo proprio quegli strumenti che ci consentirebbero di ricostruirla in un mondo che non è piú quello dominato dagli Stati nazionali. Frustrati per l'impressione di non riuscire a far sentire la nostra voce e di non avere piú il controllo sulle nostre vite, ci rassegniamo a uno stato di natura del tutti contro tutti, incapaci di quella fiducia reciproca - tra persone e nazioni - che ci permetterebbe di riprendere in mano il nostro destino. Si è rotto il compromesso della delega, nemica giurata dei populismi, travolta da referendum, progetti di uscita dall'euro e ostilità a ogni élite politica e tecnocratica. L'errore finora è stato cercare di preservare il patto sociale che ha retto l'Europa nel lungo Dopoguerra - integrazione come garanzia di pace e di prosperità - invece che dare alla sovranità condivisa una base di legittimità piú attuale. Che può essere soltanto protezione e identità, sicurezza e difesa dalle conseguenze della globalizzazione.
Questa non è un'epoca per vecchi: nell'orgia di giovanilismo che contraddistingue i nostri giorni, donne e uomini anziani sono esposti a una sorta di rottamazione che nasce da un ingiustificato astio verso rughe e capelli bianchi, accompagnato da una ancora più ingiustificata esultanza per la giovinezza, della quale poco ci manca che si torni a cantarla «primavera di bellezza». Se poi la vecchiaia è una stagione della vita, una condizione del vivente che è lì per chiunque la raggiunga, che senso ha, ci chiediamo, parlare specificamente di vecchiaia delle donne? Non esiste una differenza delle qualità delle donne e degli uomini di tipo naturale, essenziale, oggettivo, genetico; esistono invece pregiudizi maturati nel tempo. Sulla vecchiaia delle donne pesano eredità di comportamento e «vestigia di gender», tra le quali sicuramente quella della sterilità, del venir meno della capacità di procreare che colpisce le donne diversi anni prima degli uomini.
Il postmoderno è morto. La tesi che proclamava la fine di ogni cosa (soggetto, verità, storia, morale) non è più capace di intercettare i movimenti epocali del presente. Il postmoderno non ha compreso le sfide create dalla crisi di una parte della modernità: positivismo e idealismo hanno infatti radicalizzato alcune intuizioni moderne, finendo per√≤ per tradirle profondamente. I postmoderni hanno rigettato quei travisamenti insieme alla radice sana, rifiutando in blocco la modernità. Ora, dopo il fallimento di quella diagnosi, ci troviamo in una nuova modernità. I problemi dell'Europa fra Cinquecento e Seicento si ripresentano su scala globale e in forma accelerata: conflitti politici ed economici sostenuti da ideologie religiose, mutamenti radicali di scenari culturali e geopolitici, rivoluzioni scientifiche che cambiano la percezione dell'umano. Di fronte a queste sfide, tornano a essere necessarie e credibili proprio le idee moderne che il postmoderno credeva finite e che abbiamo bisogno di ripensare.
L'antropocentrismo è costruito sulla presunta superiorità dell'umano sulle altre forme di vita, oltre che su quella di certi umani rispetto ad altri: ma che succede quando scopriamo di essere della stessa sostanza di tutti gli esseri viventi del pianeta? Quando le proprietà che pensavamo ci rendessero speciali, come la vita mentale o la capacità di soffrire, si manifestano anche in ciò che definiamo ingenuamente «non umano», allora l'umanità come sistema chiuso dell'umanesimo classico si dissolve. Molte sono state le soluzioni proposte, a questa domanda, ma ognuna, presa singolarmente, non basta. Il postumano, così come declinato qui, contrapposto anche ai primi fallimentari tentativi dell'ultimo decennio dello scorso millennio, è volto a riposizionare l'umanità in uno schema integrato nella Natura, verso un superamento dell'antropocentrismo, e la costruzione di una nuova narrazione per il nostro futuro.
Sminare il terrorismo, decostruirne la storia, è il percorso seguito da questo libro che affronta le questioni sollevate dal terrore planetario. Lo sguardo si concentra sulla scena dell'attentato, quel tentativo di forzare il ritmo della storia che sfida la sovranità, non per mostrare l'abisso, ma per soppiantarla. Perciò terrore e rivoluzione, spesso confusi, vanno separati. Piuttosto il terrorismo è lo spettro della sovranità moderna, sempre tentata di invocarlo. Di qui l'esigenza di ridescrivere la figura del terrorista che non è un nichilista, ma mira a un progetto politico o teologico-politico. Mentre affiora l'itinerario verso il terrore dei «cavalieri postmoderni dell'apocalisse», vengono considerati gli effetti di una violenza che colpisce la vittima nella sua nuda vulnerabilità. Questo terrorismo non può essere imputato alla religione. Sullo sfondo di un confronto fra sinistra e jihad si erge il terrore del capitalismo globale, emerge quell'insonnia poliziesca che sostenta la nuova fobocrazia.
Dove corre il confine fra «paesaggio» e «città»? E come giudicare o indirizzare gli interventi sull'uno e sull'altra, o la continua crescita delle periferie? Devono prevalere i valori estetici (un paesaggio da guardare) o quelli etici (un paesaggio da vivere)? L'architetto è il mero esecutore dei voleri del committente, anche quando vadano contro l'interesse della collettività, o deve mostrarsi attento al bene comune? Sfidare i confini difficili fra città e paesaggio, decostruire i feticci di un neomodernismo conformista (il grattacielo e la megalopoli) e le sue conseguenze (i nuovi ghetti urbani) vuol dire tentare il recupero della dimensione sociale e comunitaria dell'architettura. In un paesaggio inteso come teatro della democrazia, l'impegno etico dell'architetto può contribuire al pieno esercizio dei diritti civili. Diritto alla città, diritto alla natura, diritto alla cultura meritano questa scommessa sul nostro futuro.
Il populismo si è manifestato in forme molto diverse nel corso della storia, tra la fine dell'Ottocento e l'intero secolo breve; e anche oggi, la nuova disseminazione populista in Europa e negli Stati Uniti presenta differenze interne notevolissime, quelle che passano ad esempio tra la vittoria di Donald Trump e l'ascesa di Marine Le Pen. Ma un denominatore comune c'è: il populismo è sempre indicatore di un deficit di democrazia, cioè di «rappresentanza». Un deficit «infantile», per cosi dire, per i populismi delle origini, sintomo di una democrazia non ancora compiuta; e un deficit «senile», quando cresce il numero di cittadini che non se ne sentono più «coperti». Il populismo attuale - questa la tesi centrale del libro - è del secondo tipo: rappresenta una sorta di «malattia senile della democrazia». Il sintomo di una crisi di rappresentanza che si estende alla forma democratica stessa. È il segno più preoccupante del rapido impoverimento delle classi medie occidentali sotto il peso della crisi economica; ma anche della sconfitta storica del lavoro - e delle sinistre che lo rappresentarono - nel cambio di paradigma socio-produttivo che ha accompagnato il passaggio di secolo.
La domanda alla quale queste pagine abbozzano una risposta è nella alternativa seguente. La causa di questo mondo detestabile è da cercare presso presunti nemici dichiarati dei diritti, che del resto sarebbero difficili da individuare, e quindi in un dato esteriore ai diritti, cioè nella loro attuazione difettosa, onde il rimedio debba cercarsi nel loro potenziamento? Oppure, la causa è diversa ed è intrinseca alla concezione stessa dei diritti, in un mondo come l'attuale, che si rivela sempre più ingiusto e violento e sempre più piccolo, non nel senso di complicato ma nel senso etimologico di totalità dove ogni parte sta in rapporto di interdipendenza con ogni altra parte? Questo nostro mondo è tenuto insieme da forze attrattive centripete potenti. Paradossalmente, la rivendicazione di diritti, invece che promuovere diversità e diversificazione, rischia di spingere all'uniformità e all'omologazione.
In questo libro l'autrice narra e commenta, con profonda sensibilità, una storia di maternità con l'intento di valorizzare una esperienza fondamentale, che non sempre occupa il posto che merita nella vita delle donne. Già i mesi dell'attesa costituiscono, se non vengono prevaricati da altre richieste, un periodo di straordinaria intensità emotiva. Ma, nell'epoca della fretta, molte giovani donne si trovano sole e smarrite al momento di realizzare il desiderio di un figlio. Per aiutarle è allora opportuno riallacciare un dialogo tra le generazioni ove alcune troveranno la possibilità di rievocare situazioni ed emozioni che credevano dimenticate, altre di sentirsi motivate e preparate ad accogliere «l'ospite più atteso», il figlio che nascerà.
Sempre più spesso a chi si occupa di discipline umanistiche - e soprattutto classiche - viene chiesto: «A che cosa serve?» Dietro questa domanda agisce una rete di metafore economiche usate per rappresentare la sfera della cultura («giacimenti culturali», «offerta formativa», «spendibilità dei saperi», «crediti», «debiti» e così via). A fronte di tanta pervasività di immagini tratte dal mercato, però, sta il fatto che la storia testimonia una visione ben diversa della creazione intellettuale. La civiltà infatti è prima di tutto una questione di pazienza: e anche la nostra si è sviluppata proprio in relazione al fatto che alla creazione culturale non si è chiesto immediatamente «a che cosa servisse». In particolare, è proprio lo studio dei Greci e dei Romani a meritare questa pazienza: soprattutto in Italia, un paese la cui enciclopedia culturale è stata profondamente segnata dall'ininterrotta conoscenza dei classici. Se si vuole mantenere viva questa presenza, però, è indispensabile un vero e proprio cambiamento di paradigma nell'insegnamento delle materie classiche nelle nostre scuole.
Da sempre, sia pure in forme diverse, gli uomini si ribellano. Difficilmente le rivolte si lasciano ricondurre a un paradigma unitario, ma presentano come orizzonte comune la rivendicata antitesi rispetto a un ordine costituito o a un «comune sentire» che si pretende giusto. La cellula genetica del dissenso corrisponde a un sentire altrimenti che è, già virtualmente, un sentire contro: e che, per ciò stesso, può trapassare nelle figure concrete in cui il dissentire si cristallizza facendosi operativo. Il pensiero ribelle deve costituire oggi il gesto primario contro l'uniformazione globale delle coscienze che si sta registrando nell'orizzonte del nuovo pensiero unico e del falso pluralismo della civiltà occidentale. Diego Fusaro si propone qui di analizzare le figure del pensare altrimenti, le declinazioni storiche del dissenso e la sua fenomenologia.
Un uomo "sempre presente a sé stesso, sempre domatore, che non s'arresta di fronte a nulla", capace di agire con coscienza e di non arrendersi alle allucinazioni collettive. A questo tipo morale si riferiva il "giovane prodigioso" Piero Gobetti, in lotta con il suo tempo. Per esplorare lo spazio della scelta, del dubbio etico, della costruzione di sé come individui, questo libro interroga storie di esseri umani di fronte a un bivio. Giovani temerari nella realtà e nel mito, figure della filosofia e della grande letteratura alle prese con decisioni radicali, estremiste, e soprattutto durevoli. Dagli interrogativi di Kierkegaard al "no" perentorio di un personaggio di Melville, da un Benjamin pressato dall'orologio della Storia a un Calvino in cerca di una strada coerente, il corpo a corpo con la propria identità appare senza uscita. E oggi? L'identità "allargata" e "aggiornabile" si traduce in un desiderio di vivere su più fronti insieme, perché scegliere davvero comporterebbe rischi e rinunce. Ma forse in ogni tempo c'è una via più difficile e impervia, per arrivare a essere, come voleva Gobetti, "sé stessi dappertutto".
Figlia dei baby boomers e madre dei nativi digitali, quella degli anni Settanta è una generazione ammarata nel mezzo di due fondamentali cambiamenti paradigmatici, uno sociale e uno tecnologico, una generazione che ancora fatica a trovare una dimensione storica. Esiliati dai simboli ideologici e giunti ai linguaggi tecnologici come adulti con una lingua straniera, i quarantenni di oggi hanno mancato il tempo di ogni rivoluzione; ora abitano il proprio presente con la sensazione di non potervi davvero risiedere, infragiliti da un'instabilità che li costringe a immaginare mondi inespressi, ma senza dimenticare due urgenze primarie: sopravvivere e restare visibili. Ma quale mondo avremmo costruito se avessimo avuto la percezione di poterlo fare? Quali cose, col senno di mezzo di chi nasce mediano, avremmo voluto migliori? Quale cambiamento avremmo generato se non avessimo avuto la sensazione di essere arrivati cosí dopo o cosí prima di tutti gli altri? Un libro scritto con la convinzione ostinata che non ci siano colpe del passato né pesi del presente che esimano dal prenderci la responsabilità di sognare il futuro.
Le specie umane migrano da almeno due milioni di anni: lo hanno fatto prima in Africa, poi ovunque e il risultato è che il quadro delle popolazioni umane si è arricchito: fughe, ondate, convivenze, selezione naturale, sovrapposizione tra flussi successivi, forse conflitti tra diverse specie umane, fino a Homo Sapiens. Il cervello è cresciuto e con esso la flessibilità adattativa e la capacità migratoria. Gli esseri umani sono evoluti anche grazie alle migrazioni: questa è una delle ragioni per cui garantire la libertà di migrare, soprattutto nel momento in cui i cambiamenti climatici, oltre che le emergenze politiche, sociali ed economiche, provocano flussi forzati. Il che significa pure, ovviamente, che va tutelato il diritto di restare nel proprio Paese.
Come riflettere sulle stragi compiute a Parigi il 13 novembre 2015? Chi sono gli agenti di questo crimine di massa? E come possiamo qualificare la loro azione? È necessario allargare lo sguardo. Alain Badiou cerca qui di delineare il quadro generale su cui si staglia questo tipo di attentati. In Occidente ha trionfato il liberismo e la classe media, sempre piú impoverita, vive divisa tra l'orgoglio del proprio modello di società e la paura costante dell'arrivo dei diseredati. Il resto del mondo paga un prezzo altissimo per le politiche neocoloniali delle multinazionali, che prosperano nel caos da loro stesse creato. I terroristi emergono in tale contesto: per Badiou la loro pulsione distruttrice è essenzialmente fascista e vuol reprimere il desiderio d'Occidente, anche in loro stessi. L'islamismo che ostentano, a suo avviso, è un fattore estrinseco e non costitutivo del loro agire. Ciò di cui noi soffriamo in particolar modo è l'assenza su scala mondiale di una politica disgiunta dal capitalismo egemonico. Senza una nuova proposta strategica il mondo resterà in uno stato di disorientamento. È un compito gravoso, ma indispensabile per tutti, fare in modo che la storia dell'umanità cambi direzione e, faticosamente, cerchi di allontanarsi dalla fosca catastrofe in cui sta sprofondando.
A lungo la filosofia ci ha raccontato una storia deprimente. C'è un Io che, con il linguaggio e il pensiero, costruisce il mondo, dunque (se prendiamo sul serio questa favola), anche gli altri io, e, per assurdo che possa sembrare, lo stesso passato. La storia è deprimente perché questa posizione, che si pretende rivoluzionaria, di fatto è profondamente conservatrice: è la reazione pura, è la negazione di ogni evento. Ci insegna che nulla di nuovo potrà mai colpirci, come una minaccia o come una promessa, perché il mondo è tutto dentro di noi. Con un linguaggio creativo e con argomenti ironici e stringenti Ferraris ci racconta una storia diversa e davvero rivoluzionaria. La realtà, e il pensiero che la conosce, provengono dal mondo, attraverso processi ed esplosioni, urti, interazioni, resistenze e alterità che non cessano di sorprenderci. Dal Big Bang alle termiti, dal web alla responsabilità morale, quello che il mondo ci dà (ossia tutto quello che c'è) emerge indipendentemente dall'io e dalle sue claustrofilie.
Noi non siamo mondi isolati, ma mondi aperti all'ascolto in una circolarità di esperienze che ci rendono consapevoli di quanta sia la nostra responsabilità nel determinare i modi di essere e di comportarsi degli altri. Sentiamo tale responsabilità nello scorrere delle giornate in cui siamo continuamente chiamati ad ascoltare gli altri, a rispondere alle loro angosce e alle loro speranze. Conoscere se stessi e gli altri è il modo piú intenso di essere responsabili. Nessuno si conosce del resto fino a quando è soltanto se stesso, e non, al medesimo tempo, anche un altro. Quale rapporto lega la responsabilità alla speranza? Quest'ultima è apertura al futuro, ci obbliga a pensare non solo alle conseguenze presenti e passate delle nostre azioni e delle nostre parole, ma anche a quelle future. Non lasciamo morire in noi la speranza se vogliamo aiutare chi la sta perdendo. Lo dice Walter Benjamin: "Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza".
La nostra epoca ha profondamente bisogno di una rinnovata filosofia dei valori. Non di una retorica sui valori, che associa la nozione di valore a quelle di tradizione, passato, memoria, religione o ideologia. C'è bisogno di pensiero vivo che faccia luce su un dato essenziale della nostra esperienza: i valori, come li incontriamo, attraverso la gamma della nostra vita emotiva e affettiva nei beni e nei mali di cui son fatte le nostre giornate, con le nostre decisioni, i comportamenti privati e pubblici. La filosofia, nata con Socrate per tradurre questa esperienza viva in conosenza vera, ha dato le dimissioni da questo suo compito. Eppure la sua anima migliore si era trasferita nel corpo di documenti e istituzioni che hanno cambiato la storia del mondo: dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo fino al sogno ragionevole di un'Europa unita in pace, libertà e giustizia. Ma dove lo spirito le abbandona, le istituzioni umane vanno in rovina. Questo libro interroga tutti noi, educatori e ricercatori, sulle cause di questo male dilagante. E conduce i llettore sulle tracce di una nuova cognizione del valore.
Il termine "stress" detiene oggi un primato d'uso e di "audience" che ne fa senza dubbio una chiave di lettura privilegiata del disagio contemporaneo e al contempo uno degli specchi favoriti della nostra epoca. Alla lettera, "stress" significa semplicemente "tensione", ma il ricorso a un concetto proposto come scientifico, e divenuto in realtà vago e ambiguo, va sempre più diffondendosi come spiegazione dell'insorgenza dei più svariati disturbi emotivi e fisici. Tale non innocente equivoco di fondo ne trascina con sé altri piccoli e grandi, quali la perdita del confine tra normalità e patologia, il ruolo della forza dell'io di ciascuno a fronte delle difficoltà del vivere, il significato dell'adattamento; ma soprattutto alimenta la confusione sui possibili rimedi. Definirsi stressati può essere, a livello culturale e individuale, un modo per non fare i conti con sofferenze e fragilità interiori, spostando all'esterno cause e rimedi.
Nel corso della nostra vita siamo accompagnati da alcune esperienze fondamentali che ci consentono di conoscere cosa noi siamo e cosa sono gli altri; e fra queste esperienze come non ripensare alla tristezza, alla sofferenza, alla felicità, alla solitudine, alla tenerezza, al desiderio di comunità e di comunità di destino, alla speranza, alla malattia e alla morte volontaria, e ai modi con cui entrare in comunicazione con ciascuna di queste esperienze? Ma cosa è questa parola ambivalente, "comunicazione", che entra in gioco in ogni forma di discorso e di vita? Comunicare vuol dire rendere comune (dal latino munus, dono): è dialogo, relazione. Significa entrare in relazione con la nostra interiorità e con quella degli altri, nella convinzione che comunicazione sia sinonimo di cura. Noi entriamo in relazione con gli altri, allora, in modo tanto più intenso e terapeutico quanta più passione è in noi, quante più emozioni siamo in grado di provare e di vivere.
In questo saggio molto personale, scritto con grande eloquenza - frutto dell'adattamento di una conferenza TEDx dal medesimo titolo di straordinario successo - Chimamanda Ngozi Adichie offre ai lettori una definizione originale del femminismo per il XXI secolo. Attingendo in grande misura dalle proprie esperienze e riflessioni sull'attualità, Adichie presenta qui un'eccezionale indagine d'autore su ciò che significa essere una donna oggi, un appello di grande attualità sulle ragioni per cui dovremmo essere tutti femministi. In un contesto in cui il femminismo era considerato un ingombrante retaggio del secolo scorso, la posizione di Adichie ha cambiato i termini della questione. Alcuni brani della sua conferenza sono stati campionati da Beyoncé nel brano Flawless e hanno fatto il giro del mondo. La scritta FEMINIST a caratteri cubitali come sfondo della performance dell'artista agli Mtv Video Music Awards e il famoso discorso dell'attrice Emma Watson alle Nazioni Unite in cui si dichiara femminista sono segni evidenti del fatto che c'è un prima e un dopo Dovremmo essere tutti femministi.
Sono vent'anni che, in Italia, la politica del patrimonio culturale si avvita sulla diatriba pubblico-privato: brillantemente risolta socializzando le perdite (rappresentate da un patrimonio in rovina materiale e morale) e privatizzando gli utili, in un contesto in cui le fondazioni e i concessionari hanno finito per sostituire gli amministratori eletti, drenando denaro pubblico per costruire clientele e consenso privati. Ma cosa ha significato, in concreto, la "valorizzazione" (o meglio la privatizzazione) del patrimonio? Quali sono la storia e i numeri di questa economia parassitaria, che non crea lavoro dignitoso e cresce intrecciata ai poteri locali e all'accademia più disponibile? Ed è vero che questa è la strada seguita nei grandi paesi occidentali? Tomaso Montanari risponde a queste e altre domande spiegando perché non ci conviene distruggere il governo pubblico dei beni culturali basato sul sistema delle soprintendenze: un modello che va invece rafforzato e messo in condizione di funzionare, perché è l'unico che consente al patrimonio di svolgere la sua funzione costituzionale. Che è quella di renderci più umani, più liberi, più uguali.
Eguaglianza "aritmetica" o "proporzionale", secondo la distinzione di Aristotele? Nel punto d'arrivo o di partenza? Verso l'alto o verso il basso, come vorrebbero le teorie della decrescita? Se due mansioni identiche ricevono retribuzioni differenti, dovremmo elevare la peggiore o abbassare la più alta? Ed è giusto che una contravvenzione per sosta vietata pesi allo stesso modo per il ricco e per il povero? Sono giuste le gabbie salariali, il reddito di cittadinanza, le pari opportunità? E davvero può coltivarsi l'eguaglianza fra rappresentante e rappresentato, l'idea che "uno vale uno", come sostiene il Movimento 5 Stelle? In che modo usare gli strumenti della democrazia diretta, del sorteggio e della rotazione delle cariche per rimuovere i privilegi dei politici? Tra snodi teorici ed esempi concreti Michele Ainis ci consegna una fotografia delle disparità di fatto, illuminando la galassia di questioni legate al principio di eguaglianza. Puntando l'indice sull'antica ostilità della destra, sulla nuova indifferenza della sinistra verso quel principio. E prospettando infine una "piccola eguaglianza" fra categorie e blocchi sociali, a vantaggio dei gruppi più deboli.
Luciano Violante sostiene che si deve tornare al concetto di "dovere" per far vivere pienamente la forza della democrazia. Senza doveri non esiste il concetto di nazione: i doveri specificano il senso complessivo della cittadinanza, come obbligo politico e come rete di rapporti civici. La continua rivendicazione di diritti senza alcun riferimento ai doveri, inoltre, aumenta l'egoismo sociale e allenta i legami di appartenenza alla comunità civile. I diritti senza doveri trasformano i desideri in pretese, sacrificano il merito e finiscono per legittimare gli egoismi individuali. Promettendo diritti senza richiedere l'adempimento di doveri si accresce il rancore sociale - perché si promette quello che non si può mantenere - e, in ambito pubblico, si conferiscono poteri di veto, lasciando campo libero alla demagogia e al populismo. Una tesi coraggiosa e attuale, per una nuova etica della cittadinanza.
Come è stato possibile che si sia finiti col parlare d'Europa come di un sogno da cui meglio sarebbe risvegliarsi? Secondo Barbara Spinelli l'Europa è a un bivio ma si comporta come se non lo sapesse. Il tuonare dei governi contro gli eurocrati distruttori del sogno europeo è una scusa per nascondere le loro responsabilità. La trojka che ha vessato Grecia, Portogallo, Irlanda, è una loro creazione e lo è anche il Fiscal compact che incombe sulle nostre già fragili finanze. Sono gli Stati ad aver deciso di rispondere alla crisi scoppiata nel 2007 uccidendo la vocazione solidale dell'Unione, ignorando le ragioni per cui nacque, opponendo i paesi forti del centro alle sue nuove periferie. Occorre ripartire dalla visione del Manifesto di Ventotene per far si che il Parlamento europeo esca dal suo sonno e scriva finalmente la Costituzione che i cittadini europei non posseggono e cui hanno diritto. Che metta l'economia e la moneta al servizio della politica e dei cittadini: non il contrario come avviene oggi.
In tre modi muoiono le città: quando le distrugge un nemico spietato, quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, o quando perdono la memoria di sé. Venezia può morire se perde la memoria, se non sapremo intenderne lo spirito e ricostruirne il destino. Fragile, antica, unica per il suo rapporto con l'ambiente, Venezia si svuota di abitanti, e intanto è bersaglio di innumerevoli progetti, che per "salvarla dall'isolamento" ne uccidono la diversità e la appiattiscono sulla monocultura di una "modernità" standardizzata, riducendola a merce, a una funzione turistico-alberghiera. Il caso di Venezia, emblematico, permette a Salvatore Settis un ragionamento universale: dall'Aquila a Chongqing - città della Cina che è passata dai 600.000 abitanti del 1930 ai 32 milioni di oggi - mutamenti frenetici imposti da ragioni produttive e di mercato violano il contesto naturale e lo spazio sociale, mortificano il diritto alla città e la democrazia.
Fin dalle origini, la nostra civiltà si è basata su una distinzione netta e inequivocabile tra persone e cose, fondata sul dominio strumentale delle prime sulle seconde. Questa opposizione di principio nasce con il diritto romano e percorre per intero la modernità, fino ad approdare all'attualità del mercato globale, producendo contraddizioni crescenti. Sebbene la distinzione continui ad apparirci chiara e necessaria, nella prassi giuridica, economica e tecnica assistiamo continuamente a un ribaltamento di fronte: alcune categorie di persone vengono assimilate alle cose, mentre alcuni tipi di cose acquistano un profilo personale. Per risolvere questa antinomia, Roberto Esposito - con il consueto rigore argomentativo - ci propone una via d'uscita, grazie a un nuovo punto di vista costituito dal corpo. Né persona né cosa, il corpo umano diventa l'elemento dirimente nel ripensamento dei concetti e dei valori che governano il nostro lessico filosofico, giuridico e politico.
Quale è il senso di un discorso sulla fragilità? Quello di riflettere sugli aspetti luminosi e oscuri di una condizione umana che ha molti volti e, in particolare, il volto della malattia fisica e psichica della condizione adolescenziale - con le sue vertiginose ascese nei cieli stellati della gioia e della speranza, e con le sue discese negli abissi della insicurezza e della disperazione -, ma anche il volto della condizione anziana, lacerata dalla solitudine e dalla noncuranza, dallo straniamento e dall'angoscia della morte. La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l'immagine della debolezza inutile e antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell'indicibile e dell'invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d'animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi.
Il tema del dono è uno tra i più presenti nel grande cantiere della ricerca e della riflessione contemporanea, ma in una società dominata dal mercato e sempre più individualista c'è ancora posto per l'arte del donare come atto autentico di umanizzazione? Oggi, poi, persino il perdono, atto che attira una curiosità mediatica morbosa e poco rispettosa, rischia di essere banalizzato. Chi è arrivato a perdonare sa però che questo è un cammino lungo e faticoso, compiuto a caro prezzo poiché deve fare i conti con il problema del male. Di fronte a esso le differenti vie religiose percorse dall'umanità hanno percepito che l'unica cosa seria che si può fare è "soffrire insieme", praticare la compassione. Essa, anche secondo la rivelazione ebraico-cristiana, è l'unica risposta sensata che l'uomo può dare davanti alla sofferenza. Questo sentimento, questa passione, da assumere in primo luogo nelle relazioni interpersonali, non si può limitare a tale dimensione, ma deve aprire una strada a livello sociale e anche politico ed economico.
Negli ultimi decenni il mondo è cambiato a una velocità spaventosa, la globalizzazione ha modificato a fondo non solo i paradigmi economici, ma anche quelli culturali. Al mutamento della società, segue la necessità di mutamento nelle istituzioni: prima fra tutte, il diritto. Ma come si sta adeguando, se si sta adeguando, il sistema giuridico italiano al tessuto sociale multietnico del nostro paese? Quanto peso può avere il retaggio culturale nella configurazione di un reato? Gianaria e Mittone provano ad affrontare il problema sostituendo all'analisi sociologica, che troppo spesso rischia di arenarsi nella retorica, uno sguardo tecnico. Il risultato è illuminante. Partendo da casi concreti, gli autori esaminano una questione che, se in Italia ha un precedente nelle differenze culturali tra nord e sud, ha oggi raggiunto dimensioni e implicazioni impreviste.
La mafia non è misteriosa né invincibile. Negli ultimi trent'anni molto è stato fatto per conoscerla e combatterla meglio, ma ancora esiste una barriera di luoghi comuni dietro cui essa si protegge. Riguardano non solo la sua struttura e le sua attività, ma anche la cultura dei suoi affiliati e il grado di infiltrazione negli organismi economici e sociali del paese. Comprendere che la vera forza della mafia sta fuori di essa, nelle alleanze e nei servigi che le giungono da una "zona grigia" più o meno consapevole o nelle mille forme di pigrizia culturale, vuol dire anche ripensare radicalmente i modi per contrastarla. E riconoscere che il problema non è solo di forze dell'ordine, magistrati o di organi istituzionali; vuol dire sottrarsi alle suggestioni eroiche che circondano talvolta i protagonisti dell'antimafia, e promuovere movimenti di cittadini "semplici", portatori di superiori livelli di libertà e di etica pubblica. Una prospettiva inedita e chiarificatrice sul tema della mafia.
La filosofia è ormai un'attività praticata non da pochi saggi, ma da molte migliaia di professionisti in tutto il mondo. Come sempre avviene, la professionalizzazione ha portato con sé un'intensa specializzazione. Una prima conseguenza è che una buona parte di ciò che i filosofi scrivono è comprensibile a pochi. Una seconda conseguenza è che - come avviene nelle scienze naturali e in matematica, ma anche nelle scienze sociali - molti filosofi sembrano occuparsi di problemi minuti e questioni di dettaglio, del tutto interne a programmi di ricerca di cui il pubblico colto ha solo un'idea approssimativa. Ciò significa che la filosofia ha rinunciato a provare a rispondere alle Grandi Domande che, almeno in un'immagine molto diffusa, hanno costituito in passato la sua ragion d'essere? E ha inoltre rinunciato a rivolgersi alla generalità degli esseri umani, come sembra proprio della sua specifica vocazione? Lo specialismo e il tecnicismo non sono forse in contraddizione con la natura stessa della filosofia? In questo libro, un convinto sostenitore del professionismo filosofico prova a difenderne le motivazioni pur senza minimizzarne i rischi, e proponendo anche alcuni parziali rimedi.
La società non è la somma di rapporti bilaterali concreti, tra persone che si conoscono reciprocamente. È un insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono come appartenenti a una medesima cerchia umana, senza che gli uni nemmeno sappiano chi sono gli altri. Come può esserci vita comune, cioè società, tra perfetti sconosciuti? Qui entra in gioco la cultura. Dopo "Fondata sul lavoro", Gustavo Zagrebelsky prosegue la sua riflessione sui principi della Costituzione: al centro di questa riflessione stanno le idee, la loro importanza nella nostra esistenza, la gioia che possono procurare e i pericoli che ne insidiano l'autenticità. Senza idee, non c'è cultura; senza cultura non c'è società. E, senza libertà della cultura non c'è libertà della società.
L'entusiasmo attorno alla figura di papa Bergoglio non ha spostato il centro del problema della chiesa cattolica: anzi, lo ha messo ancora più in evidenza proprio attraverso la dedizione spirituale così eloquente e accessibile alla quale il papa s'è dedicato. Nessuno lo diceva: ma alla Chiesa non interessava quel che restava dei record del papato globale o delle ermeneutiche usate per usare il papa. Interessava quel che resta di Dio, nel senso "cristiano" del termine: non un lampadario spento nel cielo della morale, ma Colui la cui veglia desta dal sonno. Nel corso dei secoli il fascino di quella domanda e delle risposte che essa suscita è riesploso intatto, dopo secoli orribili, senza avvisaglie che lasciassero intendere il miglioramento di un clima. Le primavere della chiesa infatti arrivano sempre senza segni premonitori. Ecco perché il disastro di un periodo vicino può oggi essere letto come il migliore preannuncio d'una primavera che per qualcuno è già arrivata "della fine del mondo", o forse dalla fine di un mondo che se sarà sfidato non si arrenderà, se sconfitto non sarà rimpianto.
Dagli anni del Risorgimento all'Unità d'Italia, dal fascismo e dalla Seconda guerra mondiale fino a oggi, la costruzione di una "religione civile" l'insieme dei valori e dei principî che fondano lo spazio pubblico della cittadinanza - è il banco di prova su cui, di volta in volta, si è misurata l'efficacia di una classe politica nel mettere mano al progetto di "fare gli italiani". Il trasformismo nell'Italia liberale, la dittatura in quella fascista, il debordante intervento dei partiti nell'Italia repubblicana, sono stati tutti elementi che hanno indebolito la costruzione politica dell'identità nazionale. Fino alla carestia morale e progettuale che ha investito uomini e partiti dell'Italia di oggi. Con un libro che somma analisi storica a riflessioni di pungente attualità, Giovanni De Luna ricostruisce la storia delle "tradizioni inventate", i tentativi di arginare l'ingombrante presenza della Chiesa cattolica, l'egemonia dei valori e degli interessi imposti dal mercato con una riflessione conclusiva proprio sugli aspetti piú inquietanti di venti anni di pensiero unico.
Non si può fare a meno della fiducia-fede, dell'atto del credere, da cui possono nascere comunione, fedeltà e amore. La patologia che oggi affligge l'Occidente è affievolimento dell'atto del credere, venir meno della fiducia in se stessi e negli altri, nel futuro e nella terra. Credere, fare fiducia è diventato faticoso e raro. Il discorso sulla fede, allora, non riguarda solo i cristiani o i cosiddetti credenti: debitori come siamo di una certa visione manichea che separa credenti e non credenti, siamo incapaci di individuare i temi brucianti che riguardano tutti gli uomini e che determinano i rapporti degli uni con gli altri. Eppure, per tutta la vita, ci domandiamo se il vivere ha un senso, se si può credere, fare affidamento su una parola, su Qualcuno. Per Enzo Bianchi i cristiani hanno una grande responsabilità: avendo come prima vocazione quella alla fede, essi possono infondere negli altri quella fiducia-fede di cui fanno l'esperienza senza vantare alcuna superiorità su quanti non riescono ad accogliere il dono della fede nel Dio di Gesù Cristo. Ciò che dovrebbe stare davanti a noi come l'urgenza prima è la consapevolezza che "si passa dalla morte alla vita amando i fratelli" (cfr. lGv 3,14): ma questa verità va conosciuta, accolta, creduta.
Il costituzionalismo ottocentesco, come dottrina politica nasce con un marchio classista che l'oppone alla democrazia. Ma basta aprire la nostra Costituzione all'articolo 1 per vedere quanto lungo sia stato il cammino che da allora è stato compiuto: "L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro". A questo ha condotto l'ascesa delle masse popolari, cioè del mondo del lavoro, alla vita politica e l'accesso alle istituzioni. In una parola, c'è stata la diffusione della democrazia, sia nella sua dimensione politica che in quella sociale. Il riconoscimento del lavoro come fondamento della res publica, cioè della cosa o della casa comune, significa compimento di un processo storico d'inclusione nella piena cittadinanza. L'articolo 3 della Costituzione è uno svolgimento dell'articolo 1: "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono [...] la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". È bene tenerlo a mente, nel momento in cui azioni diverse compromettono il significato costituzionale del lavoro, e al tempo stesso, la dignità del lavoratore.
Questo volume rappresenta l'appassionata difesa di una disciplina sotto attacco, firmata da quattro prestigiosi psicoanalisti. Il libro è volto a riaffermare le ragioni profonde della psicoanalisi, la sua validità disciplinare, la sua vitalità nel terzo millennio. Elemento chiave dell'opera è il fatto di essere firmata da quattro psicoanalisti di formazione diversa (due freudiani, uno junghiano, un lacaniano), tutti impegnati quotidianamente in attività sia cliniche che saggistiche. Mettendo da parte antiche divergenze e moderne diatribe tra scuole e modelli, essi riconoscono la comune radice culturale, declinandola ciascuno a suo modo, dal punto di vista teorico e clinico.
Un Paese pregiudica la propria rispettabilità non solo quando i politici mentono, ma anche quando i cittadini tollerano quelle menzogne. Non raramente i cittadini tollerano la menzogna del politico sperando nella sua tolleranza verso le proprie menzogne: è il caso, ad esempio, dell'evasione fiscale. La società diventa così complice della cattiva politica. Le rivolte rancorose sono la risposta sbagliata; promuovono un nuovo inizio solo apparente e aprono un varco attraverso il quale le cattive abitudini passano, con vesti diverse, da una fase all'altra della storia del Paese. I cittadini devono sconfiggere la menzogna e i suoi corollari, chiedendo la verità ai politici, anche e soprattutto ai propri, esigendo che siano controllati, chiedendo conto delle scelte adottate, togliendo decisamente la fiducia quando vengono meno agli impegni.
Dalla metà degli anni Ottanta, il concetto di "riformismo", ha conosciuto una nuova primavera anche in Italia. Tutti i politici desiderosi di assumere cariche di governo, dimostrandosi responsabili e affidabili agli occhi della comunità internazionale, si devono necessariamente dichiarare "riformisti". L'utilizzo del nuovo linguaggio riformista ha accompagnato in Italia il più imponente processo di dismissione del patrimonio e delle attività economiche pubbliche che l'intera Europa, compresa l'Inghilterra thatcheriana, avesse mai conosciuto in un periodo tanto concentrato. Il riformismo è oggi un gigantesco quanto complesso dispositivo di potere autoritario globale, che porta alla massima estensione e concentrazione della proprietà privata a scapito di quella pubblica. L'ideologia riformista pone il denaro, strumento indispensabile dell'attività di consumo e di accumulo, al centro della scala dei nostri valori sociali e promuove il mercato come sola costituzione materiale. Per uscire da questa miseria, occorre un ripensamento profondo fondato sulla ricerca di nuove istituzioni del comune, capaci di superare l'attuale strutturazione estrattiva dei rapporti proprietari pubblici e privati. Di come render costituenti queste alternative occorre iniziare a discutere subito.
La crisi dei tradizionali partiti politici è ormai conclamata e minaccia di contagiare le stesse istituzioni democratiche. Secondo i più recenti sondaggi, meno del cinque per cento degli italiani ha fiducia nei partiti politici e nei loro leader, poco più del dieci per cento nel Parlamento. Particolarmente evidente in Italia, il fenomeno è tuttavia generale: ovunque i "contenitori politici" novecenteschi stentano a conservare il consenso. E ovunque cresce un senso di fastidio verso quella che viene considerata da sempre più ampie fasce di elettorato una "oligarchia", separata dal proprio popolo e portatrice di privilegi economici e di casta ingiustificati. È importante però, oltre il livello della denuncia, misurare le dimensioni del fenomeno e soprattutto interrogarsi sulle cause del tracollo della forma partito, nonché sul futuro della rappresentanza politica nello scenario di una trasformazione "epocale" dalla società industriale a quella post-industriale. A ben guardare - e l'autore lo fa da una prospettiva in larga misura inedita - l'esplosione dei partiti si ricollega, seppure in una congiuntura temporale apparentemente sfasata, al superamento dell'organizzazione produttiva "fordista" massificata e all'affermarsi di nuovi forme organizzative leggere, decentrate, aperte. Facendo i conti, in modo drammatico, con la stessa insostenibilità dei costi crescenti che la macchina d'impresa ha indotto fino a saltare.
Quello di Hans Magnus Enzensberger sembra un attacco frontale all'Unione europea. Una mossa apparentemente inspiegabile da parte di uno degli scrittori e intellettuali più spiccatamente europeisti del panorama continentale. Tuttavia non è una provocazione, la sua, ma un grido di allarme. Un dito puntato contro la burocrazia di Bruxelles, il mostro "buono" che, con la pretesa di armonizzare le differenze, sta erodendo gli ideali su cui l'Unione si fonda. Il "deficit democratico" che da più parti viene diagnosticato alle istituzioni comunitarie è solo un pietoso eufemismo per celare una vera e propria messa sotto tutela dei cittadini europei. La conseguenza del fiorire di istituzioni nascoste dietro sigle e acronimi misteriosi, o del proliferare di leggi sulla curvatura media dei cetrioli o sui conti correnti da trentaquattro cifre, è la progressiva erosione del senso civico degli abitanti di "Eurolandia". E, potenzialmente, la resa di tutti noi a uno spirito antidemocratico.
Indignarsi non basta. Contro l'indifferenza che uccide la democrazia, contro la tirannia antipolitica dei mercati dobbiamo rilanciare l'etica della cittadinanza. Puntare su mete necessarie: giustizia sociale, tutela dell'ambiente, priorità del bene comune sul profitto del singolo. Far leva sui beni comuni come garanzia delle libertà pubbliche e dei diritti civili. Recuperare spirito comunitario, sapere che non vi sono diritti senza doveri, pensare anche in nome delle generazioni future. Ambiente, patrimonio culturale, salute, ricerca, educazione incarnano valori di cui la Costituzione è il manifesto: libertà, eguaglianza, diritto al lavoro. La comunità dei cittadini è fonte delle leggi e titolare dei diritti. Deve riguadagnare sovranità cercando nei movimenti civici il meccanismo-base della democrazia, il serbatoio delle idee per una nuova agenda della politica. Dare nuova legittimazione alla democrazia rappresentativa facendo esplodere le contraddizioni fra i diritti costituzionali e le pratiche di governo che li calpestano in obbedienza ai mercati. Ricreare la cultura che muove le norme, ripristina la legalità, progetta il futuro. Serve oggi una nuova consapevolezza, una nuova responsabilità. Una forte azione popolare in difesa del bene comune.
Mai un intero paradigma produttivo, il nostro, era stato così fortemente messo in discussione come oggi, squassato dallo spostamento dell'asse mondiale della ricchezza. Enormi diseguaglianze e una guerra su scala mondiale per il lavoro ci hanno portato a una situazione peggiore rispetto agli anni Settanta. È doveroso, tuttavia, non arrendersi e cercare strade nuove, avere una capacità di visione. Possiamo farlo se dedicheremo ogni risorsa verso ambiziose opere di ricostruzione del futuro. Come in una partita a scacchi, dovremo poter contare su due buone torri d'attacco, un alfiere attento, e una regina che si svegli dal suo torpore: giovani, imprenditori, opinione pubblica e soprattutto una buona politica. Una visione del mondo e del proprio Paese, in nome di quella che Piero Gobetti chiamava "una certa idea dell'Italia".
Cinquant'anni fa, l'11 ottobre 1962, si apriva a Roma il concilio Vaticano II, che avrebbe cambiato il volto della chiesa cattolica. Alcuni negano questo fatto, altri dicono che il mutamento non toccò la sostanza delle cose. Altri ancora che il concilio fu un tradimento della tradizione. Giuseppe Ruggieri evidenzia i nodi centrali che hanno fatto del concilio un evento singolare, che ha dato inizio a una nuova stagione della chiesa: l'atteggiamento davanti alla Parola testimoniata nelle Scritture ebraico-cristiane, dopo la controversia antiprotestante; la considerazione della storia moderna non più ridotta a una congiura dei malvagi contro l'autorità della chiesa; la concezione della chiesa stessa nella sua liturgia, nel suo governo, nel rapporto con le chiese non cattoliche; la considerazione degli "altri": gli ebrei, le grandi religioni dell'umanità, le società fondate sul riconoscimento dei diritti umani, primo fra tutti la libertà religiosa.
A Crotte, in una cascina della campagna piemontese, ci sono gesti, tempi e mestieri caduti in disuso, dimenticati. Adriana Zarri, proseguendo la sua personale ricerca teologica (da lei definita provocatoriamente "impura"), ci dice che è dalla contemplazione, dall'educazione ai valori antichi e dalla vicinanza con le piccole cose che è possibile vivere ogni giorno il miracolo cristiano. Solo percependo i limiti dell'ordinario si raggiunge l'illimitato, l'uno. E l'osservazione del piccolo, della terra, dell'altro, ci avvicina a Dio.
C'è un tema negletto gonfiato dalla retorica e sottovalutato nella pratica: i simboli politici. Se tutta la realtà fosse scoperta davanti ai nostri occhi, non avremmo bisogno di loro. I simboli, quelli della politica in particolare, servono invece per accedere al mondo, reale ma astratto, dei rapporti tra noi anche in assenza di contatti concreti e perfino in assenza di una conoscenza diretta. Proprio perché la vita collettiva è fatta in larga parte di relazioni impersonali inadatte ad essere descritte come se fossero tangibili, abbiamo bisogno della simbolica politica. Per interpretare, specie nella grande trasformazione in corso, bisogni e aspirazioni, attrarre forze, produrre concretamente fiducia in vista di un futuro che non sia semplice ripetizione del presente.
Il capitalismo, modello dominante preferito dagli economisti, è in crisi profonda. La crescita illimitata, che lo sottende, non funziona più. Disuguaglianze e ingiustizie aumentano. Prima di sbattere contro un nuovo muro, bisogna cambiare strada. Ma per andare dove? Questo libro ci guida verso un affascinante ma concreto orizzonte. Rimescolando i colori, gli aggettivi e i sostantivi dell'economia appare un altro mondo: un caleidoscopio di molteplici combinazioni. Una piccola grande rivoluzione dove l'economia viene ridimensionata a un capitolo del libro della natura: l'ecologia. Portando, finalmente, a una diversa ricchezza per una società sufficiente e sostenibile, naturale e umana, colorata e anche allegra.
L'uomo di fede - una delle massime autorità spirituali del nostro tempo incontra l'uomo di scienza - un chirurgo di fama internazionale impegnato per la difesa dei diritti delle persone. Attraverso un dialogo sincero e aperto all'ascolto, essi ragionano intorno ad alcuni dei temi etici oggi più rilevanti, su cui esiste una divergenza apparentemente incolmabile tra il mondo cattolico e la comunità scientifica. Ne nasce una discussione proficua su temi che riguardano da vicino la realtà quotidiana di molte persone: l'inizio della vita e le sue implicazioni nella fecondazione artificiale e nella ricerca sulle cellule staminali embrionali, le posizioni della Chiesa sulla sessualità, sul celibato per i sacerdoti cattolici, sull'omosessualità e sui diritti civili. Il testo si conclude con un lungo approfondimento sulla fine della vita: partendo dal principio irrinunciabile che vada difesa la dignità della persona in ogni fase della sua esistenza, l'eutanasia può essere considerata ammissibile in alcune circostanze
La laicità non si riduce a metodo, è piuttosto una forma del pensiero e della coscienza che interpreta il mondo, come per altro fa anche lo spirito credente. Ma il laico non esclude il credente, né il credente il laico: sono consanguinei che interferiscono tra loro anche nella stessa persona, e litigano come Giacobbe ed Esaù nel ventre della stessa madre. L'uno col vessillo del conoscere, l'altro col vessillo del credere, ma entrambi fanno Luna e l'altra cosa, in luoghi però diversi della mente e del cuore. Talvolta il laico e il credente si spartiscono il territorio (a questo le cose del mondo, a quello le cose di Dio) per un compromesso di pace, ma a rischio di falsificare le rispettive nature che, per entrambi, sono invadenti e pervasive. Ma è nella laicità che spirito critico e fedi ideologiche e religiose trovano le condizioni civili della loro convivenza conflittuale.
Questo libro avanza una tesi eretica: l'idea che l'invenzione della scienza moderna abbia fornito gli strumenti cognitivi e morali necessari per far funzionare l'economia di mercato e consentire la nascita della democrazia. Grazie a tali strumenti, la scienza stimola la capacità di pensare in modo controintuitivo, permettendo di spiegare ciò che accade. Essa, inoltre, consente di prendere decisioni morali, economiche e politiche che non sono "naturali" - date le predisposizioni comportamentali di cui ci ha dotato l'evoluzione - ma che, tuttavia, migliorano la società sotto tutti i punti di vista. La scienza ci fa godere i vantaggi materiali del vivere in condizioni che, dalla rivoluzione neolitica in poi, sono diventate via via più innaturali. Le tesi di questo libro sono quasi censurate in Italia, dove una cultura umanistica pervasiva, tradizionalista e antiscientifica è all'origine dell'incapacità del paese di elevarsi moralmente e stare al passo con le economie della conoscenza.
Carlo Galli in questo libro affronta senza timidezza i problemi della forma democratica (quelli intrinseci alla sua natura come quelli che nascono dalla globalizzazione post-moderna), perchè solo ponendosi di fronte alle sue difficoltà reali si può ancora una volta affermare l'importanza della democrazia.
Lo sfarinamento dei legami sociali e familiari cosi come le ferite inferte dalla depressione, che segnano un numero crescente di individui, sono i sintomi contemporanei della fragilità. Eppure proprio la fragilità ci indica i valori che danno un senso all'esistenza. Come emerge dal dialogo tra un maestro della psichiatria e un eclettico sociologo, riconoscersi fragili, insicuri, malinconici, è la premessa per ritrovare quello slancio comunitario rigeneratore che solo ci mette in contatto con noi stessi e con il mondo aperto degli altri.
Due intellettuali, diversi per formazione, studi e storie culturali, ma uniti dalla volontà di capire, in un dialogo sul loro Paese. Ora che l'ondata di celebrazioni per l'anniversario dell'Unità italiana sta per concludersi, si avverte la necessità di un bilancio: dove siamo esattamente, e in che modo e perché ci siamo arrivati? Solo così potremo renderci conto di come sia forte e realistico il rischio di un declino già altre volte sperimentato nella nostra storia, e quanto sia ancora possibile mantenere aperte le porte del nostro futuro.
Viviamo in un'epoca di disarmante naturalismo. Dovunque si volga l'attenzione - religione, ricerca scientifica, pensiero filosofico, divulgazione mediática - è tutto un rincorrere un'improbabile base naturale, materiale, ontologica dei pensieri e delle azioni, delle emozioni e dei desideri, della società e della stessa differenza etnica. Al di sotto delle apparenti opposizioni fra universalismo e relativismo, creazionisti e darwiniani, cattolici e laici tutti egualmente impegnati in nome di una naturalità senza alcun fondamento logico e antropologico - trapela la reale sfida del pensiero attuale: quello di un recupero delle basi sociali e antropologiche, intersoggettive e storiche del corpo e del linguaggio, dello spazio e delle tecnologie, delle passioni e della cognizione. Questo libro parla di filosofia e prodotti biologici, neuromanie e bello naturale, battute di caccia amazzoniche e mucche pazze, di tutto ciò che mette in luce le patenti contraddizioni insite nelle diverse facce del naturalismo contemporaneo, in nome di un rinnovato interesse verso le culture umane e le loro felici traduzioni.
C'è un'idea - di casa persino al ministero dei Beni culturali italiano in questi anni - secondo cui l'Italia potrebbe diventare una grande «Disneyland culturale»: ma è davvero a questo che serve il tessuto artistico e paesaggistico che abbiamo ereditato e che stiamo rovinando?
Per rispondere, si può partire dalla storia di un crocifisso attribuito a Michelangelo e acquistato dal governo Berlusconi per piú di tre milioni di euro: raccontarla significa parlare del potere del mercato, dell'inadeguatezza degli storici dell'arte, della cinica manipolazione dei politici e delle gerarchie ecclesiastiche, del perverso sistema delle mostre, del miope opportunismo dell'università e della complice superficialità dei mezzi di comunicazione.
Il degrado del ruolo della storia dell'arte nel discorso pubblico accompagna la metamorfosi del ruolo del patrimonio storico e artistico: da gratuito strumento di crescita culturale garantito dalla Costituzione, a parco dei divertimenti a pagamento.
Nulla mi ha fatto tanto piacere nella vita come passare mesi e anni a costruire una storia, dal suo incerto sbocciare, quell’immagine che la memoria aveva salvato da una qualche esperienza vissuta, che si trasforma in inquietudine, in entusiasmo, una fantasia germinata poi in un progetto, fino alla decisione di cercare di tramutare quella nebbia popolata da fantasmi in una storia. «Scrivere è un modo di vivere», scrisse Flaubert. Sí, certamente, un modo di vivere con entusiasmo e allegria e con un fuoco scoppiettante nel cervello, battagliando con le parole ribelli fino ad addomesticarle, esplorando il vasto mondo come un cacciatore in cerca della preda desiderata per alimentare la finzione in embrione e placare quel vorace appetito di ogni storia che, crescendo, vorrebbe inglobare tutte le storie.
Mario Vargas Llosa, Elogio della lettura e della finzione
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Ventotto anni dopo l’assegnazione del Nobel per la letteratura a García Márquez, nel 2010 l’Accademia di Stoccolma ha premiato un altro autore sudamericano, Mario Vargas Llosa, per «la sua cartografia delle strutture del potere e per la sua acuta immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell'individuo».
Con il discorso pronunciato in occasione della premiazione e riproposto in Elogio della lettura e della finzione, Vargas Llosa ci regala un capitolo inedito della sua autobiografia: la storia di un bambino curioso e intelligentissimo, che trova il suo «paradiso dell’infanzia» nella casa di famiglia a Cochabamba:
... in compagnia delle mie cugine e dei compagni di scuola potevamo giocare a rappresentare le avventure di Tarzan e di Salgari, e nella prefectura di Piura, dove nei sottotetti si annidavano i pipistrelli, ombre silenziose che riempivano di mistero le notti stellate di quella terra rovente. In quegli anni, scrivere fu come giocare un gioco che si svolgeva in famiglia, un piacere che faceva meritare applausi.
Cresciuto nella convinzione di essere orfano di padre, il bambino Vargas Llosa custodisce sul comodino la foto di un bell’uomo in uniforme, e ogni sera, prima di dormire, la bacia e le rivolge una preghiera. Ma un giorno la favola dell’infanzia si sgretola e fa spazio alla solitudine, alla paura, alla scoperta dell’autorità e della vita adulta.
Una mattina piurana, da cui tuttavia credo di non essermi ancora ripreso, mia madre mi rivelò che quel signore, in realtà, era vivo. E che quello stesso giorno saremmo andati a vivere con lui, a Lima. Io avevo undici anni e, da quel momento, cambiò tutto.
Da quel momento, racconta Vargas Llosa nell'Elogio, anche il suo rapporto con la letteratura «diventa grande». Se leggere è il rifugio, la nuova favola in cui vivere avventure esaltanti e sentirsi libero e ancora felice, scrivere è l’azione speculare, non di fuga ma di partecipazione.
... scrivere, di nascosto, come chi si concede a un vizio inconfessabile, a una passione proibita. La letteratura smise di essere un gioco. Si trasformò in un modo di resistere all’avversità, di protestare, di ribellarmi, di scappare dall’intollerabile, la mia ragione di vita.
Un testo toccante e appassionato, che mescola le riflessioni agli aneddoti e si muove tra storia e ricordo, presentandoci la letteratura come il luogo in cui convergono il desiderio di fuga e la volontà di cambiamento, l’incanto del sogno e la caparbietà dell’impegno civile. Oggi a parlare non è più un bambino: è un grande scrittore. Ma leggere e scrivere, per Vargas Llosa, hanno ancora lo stesso significato: «protestare contro le ingiustizie», e «dimostrare che la vita così com’è non è sufficiente a soddisfare la nostra sete di assoluto».
Perché in Italia alle pareti di scuole, ospedali e perfino tribunali stanno appesi dei crocifissi? E perché non dovrebbero? Molte persone non li vedono nemmeno, molte altre ritengono che sia questa una consuetudine innocua. Ma il crocifisso di Stato ha anche fieri nemici, e strenui difensori.
Se periodicamente si riaccende la polemica attorno a un simbolo cosí ingombrante, è perché la discussione non può essere fatta soltanto di regole europee, principî astratti, conflitti identitari. Quel «pezzo di legno» non è lí da sempre e per sempre: ha tutta una storia, ricca di sorprese, trasformazioni, manipolazioni. «Sta su quelle pareti perché là lo ha preparato a giungere un passato remoto, perché là lo ha imposto un passato prossimo, perché là lo mantiene una specie di presente storico».
Il crocifisso sul muro è un problema di storia. Una storia da conoscere, e da raddrizzare.
Roma, anni settanta del I secolo avanti Cristo. La terribile realtà dello schiavismo imperiale romano nell'epoca del suo culmine: fenomeno atroce e complesso, ma difficile da decifrare, perché gli antichi, che in tanti stati dell'anima ci sembrano vicinissimi, quando parlano dei loro schiavi, rivelano d'improvviso tutto l'abisso che li divide da noi.
Un uomo che tentò di sconfiggere la Repubblica all'apice della potenza; il "miracolo" economico romano; la piú famosa e pericolosa rivolta servile della storia antica; la crisi delle istituzioni e dei gruppi dirigenti che avrebbe portato, qualche decennio dopo, al colpo di stato di Augusto. Quando la storia sa diventare autentico racconto.
«Questo non è un libro sul mito di Spartaco. È un racconto biografico, radente i fatti e i personaggi. Intorno al suo protagonista si è però cercato di far emergere il contesto che lo avvolgeva, e che solo può restituire alle sue azioni un significato per noi comprensibile. È uno sfondo dominato da un fenomeno atroce e complesso, nel quale è per intero inclusa la vicenda che stiamo per mettere in scena: lo schiavismo imperiale romano, in un'età: gli anni settanta del I secolo a.C., e in luoghi: le campagne e le città dell'Italia centro-meridionale ormai romanizzata, che sono stati quelli della massima diffusione di questa pratica sconvolgente e invasiva».
«Testimone del vissuto»: cosí si presenta Primo Levi in questa importante intervista del 1983 (tradotta in molti paesi tra cui Francia, Grecia, Argentina). In un intenso dialogo con Anna Bravo e Federico Cereja, Levi racconta il retromondo minuto dei gesti quotidiani ad Auschwitz, i volti e le storie dei personaggi dei suoi libri. Al centro della conversazione, aperta e variegata, è ciò che egli definisce «il galateo del Lager», i rapporti tra i prigionieri, l'«ottusità» che li aiuta a vivere in quel mondo spaccato in due («noi» e «loro») e dove la morale - quella del prima - non vale piú.
I danni al paesaggio ci colpiscono tutti, come individui e come collettività. Uccidono la memoria storica, feriscono la nostra salute fisica e mentale, offendono i diritti delle generazioni future. L'ambiente è devastato impunemente ogni giorno, il pubblico interesse calpestato per il profitto di pochi. Le leggi che dovrebbero proteggerci sono dominate da un paralizzante 'fuoco amico' fra poteri pubblici, dai conflitti di competenza fra Stato e Regioni. Ma in questo labirinto è necessario trovare la strada: perché l'apatia dei cittadini è la migliore alleata dei predatori senza scrupoli. È necessario un nuovo discorso sul paesaggio, che analizzi le radici etiche e giuridiche della tradizione italiana di tutela, ma anche le ragioni del suo logoramento. Per non farci sentire fuori luogo nello spazio in cui viviamo, ma capaci di reagire al saccheggio del territorio facendo mente locale. La qualità del paesaggio e dell'ambiente non è un lusso, è una necessità, è il miglior investimento sul nostro futuro. Non può essere svenduta a nessun prezzo. Contro la colpevole inerzia di troppi politici, è necessaria una forte azione popolare che rimetta sul tappeto il tema del bene comune come fondamento della democrazia, della libertà, della legalità, dell'uguaglianza. Per rivendicare la priorità del pubblico interesse, i legami di solidarietà che sono il cuore e il lievito della nostra Costituzione.
Nel clima di crisi globale, anche in Italia stanno venendo alla ribalta questioni come l'impoverimento del ceto medio e le disuguaglianze crescenti, e tuttavia il racconto prevalente continua a rassicurare sulla tenuta complessiva del nostro Paese, sia dal punto di vista economico che sociale.
Marco Revelli ha un'opinione diversa. Utilizzando le statistiche ma anche le storie di cronaca, raccontando la difficile realtà dell'economia e della povertà ma anche le emozioni che corrono sotto la superficie visibile sui mass media, in questo libro Revelli ci mostra un'Italia terribilmente fragile, in cui molti, caduta la speranza di migliorare le proprie condizioni, cercano un effimero risarcimento a danno degli ultimi, spingendoli sempre piú giú, sempre piú ai margini. Un Paese in cui i fondamenti della convivenza civile e forse della stessa democrazia sono erosi dalle disuguaglianze e dal modo in cui la politica, invece di attenuarle, cavalca i risentimenti e il rancore da esse generati. Un Paese in cui «forse per la prima volta nella storia il motto del Boccaccio: "Solo la miseria è senza invidia", non è piú valido».
«Noi non solo pensiamo in una lingua, ma la lingua "pensa con noi" o, per essere ancora piú espliciti, "per noi"». Nell'Italia di oggi, per fortuna, non vi è un ministero della propaganda a forgiare una lingua che influenzi le coscienze, addormenti le resistenze e spinga al pensiero unico; eppure è difficile negare che il linguaggio usato dalla politica e amplificato dai mezzi di comunicazione di massa ruoti attorno a espressioni, parole, frasi che ricorrono sempre di piú, si fanno senso comune, sono spesso udite ma non certo indagate e capite a fondo.
Gustavo Zagrebelsky passa in rassegna una serie di questi «luoghi comuni linguistici» e denuncia il rischio che sia questa lingua a pensare per noi, e che i cittadini vivano immersi, senza rendersene conto, in una rete di significati che, se pure gli sfuggono, nondimeno strutturano la loro esperienza, danno forma alla loro vita politica, in ultima analisi regolano e limitano le loro possibilità di comunicare.
Il 150° anniversario della nazione non dovrebbe essere solo l'occasione per sventolare bandiere tricolori o indulgere nella retorica: richiede invece un ripensamento profondo sulla storia d'Italia e sul contributo del Paese al futuro del mondo moderno. A tal fine si rivisitano le grandi figure del Risorgimento (da Cattaneo a Cavour, da Manin a Pisacane, da Mazzini a Garibaldi) cosí che le loro riflessioni si mescolano in presa diretta alle nostre. Per «salvare» l'Italia, Paul Ginsborg fa affidamento su alcuni elementi fragili ma costanti presenti nel nostro passato: l'esperienza dell'autogoverno urbano, l'europeismo, le aspirazioni egualitarie e l'ideale della mitezza. Fondamenti dotati della carica utopica necessaria per creare una patria diversa.
Ci hanno raccontato che saremmo diventato ricchi grazie al Dow Jones, liberi di navigare nelle reti della New Economy, moderni e globali nel mondo unificato dalla fine della guerra fredda. E adesso? Se è tutto un modello culturale e politico quello che la crisi economica e finanziaria ha messo in ginocchio, si stenta a vedere quale alternativa possa sostituire gli entusiasmi degli ideologi del mercato e la sicumera dei retori anti-statalisti. E a sinistra si ode solo un silenzio assordante. Edmondo Berselli non vuole dare soluzioni, ma indicare almeno alcuni idee possibili, dall’«economia sociale di mercato» di Bad Godesberg alla dottrina sociale della Chiesa cattolica. Che sembreranno poco alla moda, ma hanno pur sempre assicurato alle generazioni europee del dopoguerra non solo una notevole crescita economica, ma anche una stabilità sociale (e forse una dignità morale) che oggi rimpiangiamo.
L'Italia è una comunità nazionale leggera: ha scarso senso civico e non si riconosce in interessi generali. Si accende episodicamente come una comunità di sentimenti: il cordoglio per una scomparsa, la gioia per un successo sportivo talvolta denunciano il desiderio di condividere emozioni e sentire momenti di unità. L'unità, quando non sia frutto di conformismo, è un valore; ma raramente la storia italiana ha visto perseguito questo obiettivo. La patria ha sempre stentato a diventare una categoria del senso comune, perché gli italiani hanno coltivato con particolare passione l'interesse privato, perché sono spesso caduti nella tentazione delle lotte di fazione e delle guerre civili, perché sono soliti ignorare la loro storia e dividersi in estenuanti rese dei conti. In realtà, proprio la storia dice che la vera risorsa degli italiani è stata la loro diversità, l'incontro e lo scambio fra culture diverse, le addizioni di genti differenti. Ne sono testimoni l'arte e la letteratura, i modi di vivere e il gusto: questa è la patria che gli italiani possono vantare, un mondo aperto e non esclusivo; questa è l'idea da proporre contro la tentazione di nuove chiusure nazionalistiche e di improbabili definizioni identitarie. Oggi, in particolare.
La Cina del ventunesimo secolo porta con sé un bagaglio fatto di successi ma anche di problemi. Già in questo primo decennio le «specificità cinesi» sono spesso emerse con forza, lasciando intravedere prove di futuro che sono - e probabilmente saranno - assai distanti dalla nostra esperienza storica. Ma insieme la potenza cinese si trova a misurarsi con sfide di natura mondiale: lo sviluppo e le sue compatibilità, i nodi sociali, l'unità e la diversità dei territori che la compongono, le risposte - propositive ma anche difensive - rispetto alla globalizzazione. Cosí da prefigurare il disegno contraddittorio e aperto della Cina della «quarta generazione» e oltre.
Sempre di piú la questione dell'immigrazione in Italia sembra diventata un'emergenza, ingigantita continuamente da drammatici fatti di cronaca. Sempre di piú si stronca ogni richiamo verso la solidarietà e l'ascolto dell'altro con un malcelato scherno, additandolo come «buonismo» pericoloso, denigrando le «anime belle»che credono nella forza del dialogo e della pace.
Niente di piú sbagliato, secondo padre Enzo Bianchi: bisogna invece riconoscere che «essere straniero» è parte fondamentale dell'esperienza umana, al di là e al di sopra delle contingenze politiche e storiche, e che quando rifiutiamo di accogliere l'altro, stiamo rifiutando di guardare in noi stessi.
Come sempre capace di parlare a laici e credenti insieme, Bianchi propone un lavoro di apertura e ascolto nei confronti del diverso da sé, un lavoro faticoso ma prezioso che ciascuno può compiere nella propria interiorità, ma che dovrebbe essere intrapreso anche dalla società nel suo complesso, per evitare che il confronto tra persone divenga un muro contro muro tra identità violente.
«Tra le poche conquiste della civiltà moderna rientra la pretesa che lo stato venga circoscritto nei propri limiti e che la società sia protetta dalle prevaricazioni della politica. I limiti del privato sono i limiti del politico. La difesa della privatezza è la piú efficace protesta dell'individuo contro l'esiziale universalismo del potere».
La storia della ricerca moderna sulla vita di Gesú è stato il tentativo, di tempo in tempo rinnovato, di ridisegnarne l'immagine tradizionale per portare alla luce ciò che essa cela: l'uomo del proprio tempo, un personaggio marginale vissuto nella Palestina del primo secolo che osò credere in un rivolgimento prossimo dell'esistenza del proprio popolo ad opera di Dio stesso, ma che pagò con la vita il suo sogno. Su quell'evento, decisivo per la civiltà occidentale, storici, sociologi, teologi ed artisti oggi s'interrogano di nuovo, affollandosi intorno a una questione che quante piú risposte ragionevoli riceve, tanto piú sembra sottrarsi ad una comprensione effettiva
Qual è oggi il ruolo dei giudici nella società e nello Stato? La perdita di credibilità della politica e l'indebolimento dei valori morali hanno portato la sfera di influenza del diritto a espandersi a dismisura. La politica guarda con sospetto l'intraprendenza della magistratura, mentre i cittadini incoraggiano i giudici che colpiscono i politici, almeno finché non vedono toccati i propri interessi. Come evitare il conflitto permanente e garantire invece un ragionevole equilibrio tra politica e giustizia?
Contestare il fondamento stesso di indagini che possano delegittimare gli eletti dal popolo è sbagliato, ma alla magistratura si richiede una nuova responsabilità. Ai valori di uguaglianza e promozione sociale, che hanno portato nel tempo dall'età della legge all'età dell'interpretazione della legge, è opportuno affiancare i valori di unità e responsabilità, privilegiando nel quotidiano esercizio della propria funzione la certezza del diritto e della sua interpretazione. Non c'è altro modo per evitare il conflitto permanente con la politica e il rischio di delegittimazione della stessa magistratura.
Come raccontare il periodo che va dalla fine degli anni Sessanta a oggi? Per comprendere quanto è avvenuto, le categorie tradizionali della cultura e della politica sembrano inadeguate. Ci si è trovati dinanzi a eventi, come il Maggio francese del '68, la Rivoluzione iraniana del 1979, la caduta del muro di Berlino del 1989 e l'attacco alle Torri gemelle di New York dell'11 settembre 2001, nei confronti dei quali tutti hanno esclamato: "Impossibile, eppure reale!" Questi fatti hanno avuto grandissime conseguenze su tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, destabilizzando radicalmente le istituzioni, i costumi sessuali e il modo di sentire di intere generazioni. È nato un nuovo regime di storicità, caratterizzato dall'esperienza di fenomeni che sono vissuti ora come miracoli e ora come traumi, perché sembrano inaccessibili a una spiegazione razionale e a una narrazione coerente. L'autore, che ha vissuto con partecipazione emozionale e con vigilanza intellettuale le vicende di questo periodo storico, prestando una continua attenzione ai mutamenti e interrogandosi sul loro significato, propone criteri di intelligibilità che aiutino a cogliere la sostanziale unità di questo quarantennio, nel quale la possibilità di una vera azione politica, sessuale e letteraria è venuta meno: in tutti questi ambiti il posto dell'azione è stato preso dalla comunicazione, con effetti insieme devastanti e comici.
Una massa di risparmio equivalente al Pil del mondo viene gestita, a loro esclusiva discrezione, da enti finanziari quali fondi pensione, fondi di investimento, assicurazioni e vari tipi di fondi speculativi. La maggior parte è controllata da grandi banche. Il loro mestiere consiste nell'investire quotidianamente soldi degli altri: per questo sono chiamati investitori istituzionali. In appena vent'anni il peso di questo "capitalismo per procura" nell'economia mondiale è diventato formidabile: gli investitori istituzionali hanno oggi in portafoglio oltre la metà del capitale delle imprese quotate. Nel tutelare gli interessi dei risparmiatori, sono in genere indifferenti alle conseguenze sociali degli investimenti che effettuano. Il loro unico criterio guida è la massimizzazione a breve termine del rendimento finanziario. Dalla crisi esplosa nel 2008, che ha coinvolto in diversi modi anche gli investitori istituzionali, si potrà stabilmente uscire soltanto con nuove forme di regolazione dell'economia. Posto che controllano la metà di essa, le riforme dovranno necessariamente coinvolgere anche questi enti: se i loro capitali fossero investiti in infrastrutture, scuole, trasporti, ambiente, l'economia del mondo ne trarrebbe sicuro vantaggio. A tale scopo occorrerebbe anche ridare voce, nelle loro strategie di investimento, ai milioni di persone che a essi affidano i loro soldi.
Quelli in cui viviamo sono "giorni cattivi" per coloro che credono nel dialogo tra credenti cristiani e non cristiani e tra cattolici e laici. Troppo spesso alcuni cattolici sembrano voler costituire gruppi di pressione in cui la proposta della fede non avviene nella mitezza e nel rispetto dell'altro. Dove prevale l'intransigenza e l'arrogante contrapposizione a una società giudicata malsana e priva di valori. Ma è solo riconoscendo la pluralità dei valori presenti anche nella società non cristiana che si può stare nella storia e tra gli uomini secondo lo statuto evangelico. Ed è solo ricordando che il futuro della fede non dipende mai da leggi dello stato che il cristianesimo può ancora conoscere una crescita spirituale e numerica. Perché i cristiani devono favorire, con le loro parole e le loro azioni, l'emergere di quell'immagine di Dio che ogni essere umano porta con sé. Anche il non cristiano.
La globalizzazione - e la fine delle diffidenze della Guerra Fredda favoriscono la solidarietà con persone lontane. Questo amore per il distante sembra promosso anche dalle comunicazioni elettroniche e dai viaggi più facili. Ma quello che amiamo così è spesso un'astrazione, e chi ne paga il prezzo è l'amore per il prossimo richiesto per millenni dalla morale giudaico-cristiana. Come in un circolo vizioso, questa tendenza si salda con l'indifferenza per il vicino prodotta dalla civiltà di massa e dalla scomparsa dei valori tradizionali. E come nel momento in cui Nietzsche proclamò la "morte di Dio", siamo alla soglia di un territorio radicalmente nuovo. Dove la morale dell'amore non è più possibile per mancanza di oggetto.
Per molto tempo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, lo sterminio ebraico non è stato raccontato. Al massimo trovava posto nelle storie di famiglia, come una sorta di vicenda privata. Poi, alcuni anni fa, mentre la generazione dei testimoni oculari iniziava a morire, il problema si è imposto all'attenzione pubblica. Dieci anni dopo la sua istituzione ufficiale, il Giorno della memoria ha un futuro oppure il suo contenuto si è già esaurito? Che efficacia può avere, oggi, il racconto degli ultimi testimoni? E avere ascoltato tante volte il racconto di quell'orrore ci ha reso davvero più consapevoli e attrezzati dinanzi al rischio di una sua ripetizione? David Bidussa indaga la retorica della memoria pubblica, senza fare sconti ai suoi meccanismi rituali e alle sue debolezze. Lo fa guardando al momento in cui, tra pochi anni, non ci sarà più nessuno a raccontarci di aver visto con i propri occhi l'orrore dei massacri. Quando resteremo solo noi a raccontare le vittime e i carnefici con gli strumenti della storia.
Qualcuno ricorderà il dilemma giornalistico lanciato sulle pagine di "Repubblica" da Pietro Citati secondo il quale il sapore dei pomodori non è più quello di una volta. Quale fondo di verità abbiano simili discorsi se lo chiede Antonio Pascale che, oltre a essere una delle voci sicure della narrativa italiana contemporanea, è anche agronomo. E da scienziato si misura con gli interrogativi e i timori della scienza che la grande discussione bioetica di questi ultimi anni ha portato tra di noi. Lo fa attraverso una riflessione originale e pragmatica, che parte dal dato quotidiano, per poi spingersi, con ironia e piedi in terra, attraverso le ossessioni, i timori, i luoghi comuni legati al mondo della scienza così come viene comunemente percepito.
L'umanità si è sempre lasciata incantare dai racconti che annunciavano la sua totale distruzione: gli ultimi giorni, il tempo della fine, l'estinzione della vita sul pianeta. Oggi, la fantasia di una fine violenta e collettiva risorge nei movimenti apocalittici, perché la scienza e la cultura della ragione non sono ancora riuscite a trovare una mitologia che possa competere con il fascino della fine. Ma se la credenza apocalittica è una funzione della fede, allora l'antidoto non è tanto la ragione quanto l'impulso umano alla curiosità. Perché il mandato della nostra maturità è agire con saggezza, scegliendo tra salvezza e autodistruzione. Da un maestro della letteratura contemporanea, una riflessione provocatoria e sorprendente sui modi di guardare alla nostra esistenza collettiva.
L'ambiguità è una delle parole del disagio, un piccolo crimine quotidiano inscritto nella malafede o nella falsa coscienza, una nevrosi che sta dilagando. Dove? Innanzitutto nel linguaggio, nella politica, nei comportamenti pubblici e privati, nella sessualità (dove si sono indebolite le "differenze" dell'identità di genere). Ma pur senza considerare le figure limite (comprendenti transgender e perversioni patologiche), resta il fatto che l'ambiguità è un meccanismo che fa colludere anche le cosiddette persone per bene con le più trite ipocrisie: c'è chi è favorevole alla guerra, ma che poi ammette serafico di aver fatto di tutto per evitare il servizio militare al figlio, o il divorziato che sfila convinto al Family Day... Anche quando comportano un senso di responsabilità attenuato, sono atteggiamenti nei quali concorrono, più che la lotta inesausta tra il bene e il male, la discesa in campo di diverse identità simultanee, scisse e oggetto di rimozioni.
La città europea è da sempre l'ambiente della civitas democratica occidentale. Quello dove i cittadini si riconoscono come tali, dove sono cresciuti i diritti umani e le libertà. Per questo i muri dell'urbs sono stati immaginati con la pretesa di offrire una prospettiva di eternità nella quale radicare le speranze terrene e riconoscersi pienamente come cittadini. Il degrado delle periferie europee, i cui abitanti sono privati della loro appartenenza alla civitas è uno dei disastri del Novecento. L'Europa è stata capace di risollevarsi dalle sbandate per i totalitarismi, salvata dall'antica radice democratica della civitas, ma non sembra ancora avviata a rigenerare con altrettanta consapevolezza la consolidata figura dell'urbs. Senza alcuna nostalgia tradizionalista, Marco Romano invita a riscoprire il linguaggio consolidato attraverso i secoli nella sfera estetica della città. Quel linguaggio che non è soltanto una declinazione artistica tra le tante, ma il solo modo con il quale la civitas esprime il sentimento della propria cittadinanza e il riconoscimento della dignità dei suoi cittadini.
Tutto ha inizio con l'assillo positivista di Alfred Binet che all'inizio del Novecento decise di misurare nei bambini una cosa che fino allora non era mai stata misurata: l'intelligenza. Arrivò poi il Q.I. inventato dallo psicologo tedesco William Stern, che presto sarebbe stato adottato dall'esercito americano per arruolare soldati per la Prima guerra mondiale. Nella nostra società l'intelligenza è una delle virtù che sembra venire prima di tutte le altre. Per Enzensberger l'intelligenza è un'invenzione moderna di cui l'umanità ha fatto per secoli a meno. E poi, che peso dare alla creatività, all'ispirazione, all'empatia, all'intuitività? Come misurarle? Non certo con il Q.I. I test per di più esigono una sola risposta, cosa abbastanza rara, un'eccezione, non certo una regola: la complessità del reale, le scienze cognitive e le ricerche sul cervello dovrebbero convincere aziende, eserciti e pubbliche amministrazioni a smettere di basarsi, quando devono decidere chi è più capace, sui risultati infidi e parziali di quiz e test di intelligenza.
L'avvocato è una figura difficile per la democrazia. Soprattutto quando difende i potenti, i ladri, i mafiosi, gli assassini o i terroristi. Non sembra un garante della giustizia, ma un soldato del nemico. Viene pagato, in molti casi profumatamente. Eppure proprio l'avvocato che difende il colpevole, magari lavorando d'astuzia e abilità fra le maglie del diritto, è garanzia essenziale per il cittadino onesto. Finché l'avvocato è libero di scegliere il cliente che vuole, il cittadino che non ha commesso reati sa che qualsiasi cosa gli accada, in qualsiasi circostanza si trovi, potrà avere un difensore. La garanzia che il colpevole sia difeso rassicura l'innocente. E alimenta la democrazia.
Giovanni Moro è il figlio di Aldo. Ma questo non è un libro autobiografico. L'autore riflette sugli anni Settanta, in cui la sua vita è cambiata, guardandone l'irrimediabile complessità. Un decennio in cui non sempre si capisce chi siano i buoni e chi i cattivi, in cui comportamenti giustificati facilmente tralignano, in cui il confine fra uso della forza e ricorso alla violenza è spesso labile e quelle che appaiono buone cause a ben guardare possono non esserlo. Non riuscire a capire quel periodo troppo tormentato, terribilmente violento, comporta il non capire l'oggi che ne deriva strettamente, sia dal punto di vista politico e sociale che da quello delle biografie dei singoli viventi.
Il processo rivoluzionario avviato in Russia nel 1917 occupa uno spazio del tutto particolare all'interno degli eventi che hanno configurato la storia del Ventesimo secolo. Alla caduta degli zar del febbraio seguirono i primi governi provvisori che sfociarono con la presa del potere da parte dei bolscevichi nell'ottobre del 1917. La rivoluzione ebbe tra le conseguenze immediate l'uscita dalla guerra mondiale, la guerra civile interna e il terrore. Dopo la grande discussione storiografica sullo stalinismo e il comunismo sovietico, dopo il crollo dell'URSS e l'apertura degli archivi, Marcello Flores torna su questo evento-simbolo del Novecento con una riflessione storico-interpretativa che intende ragionare senza paraocchi ideologici sul senso di uno spartiacque della storia contemporanea.
Qual è il senso della letteratura? Come nasce un romanzo? In tre appassionate conferenze tenute nell'arco di un anno, fino al discorso di accettazione del Premio Nobel 2006, Orhan Pamuk disegna un ritratto dello scrittore nel mondo contemporaneo. La letteratura inizia dal gesto di chi si chiude in una stanza, si ripiega in se stesso e tra le proprie ombre costruisce un mondo nuovo con le parole. Proprio quell'isolamento nasconde in realtà un'apertura, la certezza che tutti gli uomini si somiglino e che il mondo sia privo di un centro. Essere scrittori, infatti, significa prendere coscienza delle proprie ferite interiori, e raccontarle ai lettori che le riconoscono per averle provate in prima persona, magari senza esserne consapevoli. E poiché ricordano ai lettori la loro fragilità, la loro vergogna e il loro orgoglio, gli scrittori suscitano ancora oggi nel mondo "molta rabbia" e "inaspettati gesti di intolleranza". Ma i romanzi sono uno strumento indispensabile che le comunità hanno per riflettere sulla propria identità. "L'arte del romanzo mi ha insegnato che condividendo le nostre segrete vergogne diamo avvio alla nostra liberazione".
Gli ebrei europei sanno che la Shoàh fu frutto della cultura di destra, razzista e nazionalista. Le cose si sono però modificate e complicate col tempo. Continua a esistere, drammatico, un antisemitismo di destra, ma è tornato in superficie anche un antisemitismo di sinistra, sul quale si sono innestati nuovi temi germogliati da vecchie radici, mai del tutto estirpate. Per capire quale linguaggio si carica di elementi di antisemitismo bisogna conoscere un po' di storia. Cosi come bisogna saper leggere il passato per capire le ragioni che ne hanno diffuso l'ombra anche tra chi è al di sopra di ogni sospetto. In cento pagine, Luzzatto Voghera affronta un tema di altissima complessità con un linguaggio limpido e appassionato.
Secondo l'autore, quindici anni dopo la fine della Democrazia cristiana e dell'unità politica dei cattolici, la responsabilità di animare una presenza organizzata dei cristiani nell'Italia bipolare è interamente affidata ai laici credenti. Spetta a loro assumere pienamente il valore dell'alternanza, scegliere con chiarezza il campo riformatore o quello conservatore, evitare l'illusione sia di poter ricostruire un partito simile alla Dc sia di potersi rifugiare in un moderatismo perdente o in un fondamentalismo falsamente rassicurante. E solo affrontando appieno le sfide dell'identità, della laicità e dell'etica pubblica che i cattolici italiani potranno contribuire a scrivere un nuovo alfabeto sociale, rinnovando il proprio apporto al bene comune e al futuro della nazione. Serve una nuova stagione di impegno civile e politico, che Luigi Bobba delinea nella sua geografia ideale muovendo da una lunga esperienza maturata nel mondo dell'associazionismo.