"Fine di questa edizione e di questo commento è avvicinare il lettore a un testo affidabile di Pinocchio e insieme favorire la sua libera lettura con l'offrirgli chiarimenti e riferimenti su ogni fatto stilistico, linguistico, oggettuale, storico, strutturale, simbolico e allusivo, ad esclusione di quelli che intende e chiarisce da solo. Nel corso del commento una novità insistentemente indagata, e che alla fine si delinea come una realtà corposa e unitaria, è quel che abbiamo chiamato la "cultura parlata", per distinguerla sia dalla cultura 'regolare' sia da quella folcloristica; e nella quale consiste il più e il meglio del 'segreto' del capolavoro collodiano. È in forza di un dato come questo, che proposto "di prima mano" si affaccia ora al sapere, che la 'ragion poetica' di Pinocchio si illumina di nuova luce, che senza deprimerne il mistero ne aumenta di molto la felicità." Introduzione di Fernando Tempesti. Età di lettura: da 7 anni.
Nelle alterne vicende dell'esistenza terrena, la percezione della bellezza costituisce per l'anima un'esperienza fondamentale per l'intensità e la qualità degli affetti e dei pensieri che suscita, e per i cammini e le prospettive che può in vario modo dischiudere. Per Plotino infatti la bellezza rappresenta un elemento imprescindibile di quello che possiamo chiamare il romanzo dell'anima: racconto drammatico e insieme meditazione filosofica che ha per oggetto la vita della psyché oscillante tra i due poli dell'intelligibile e della materia, fintanto che non si produca, nella folgorazione istantanea, il contatto ineffabile con il principio primo della realtà. Dal visibile all'invisibile, dal materiale all'immateriale, dalla dimensione dei corpi al regno della mente e del pensiero assoluti, dal dispiegamento del molteplice all'unità assoluta: questo è il viaggio iniziatico cui i trattati plotiniani qui raccolti (Il bello, Il bello intelligibile e Il bene e l'Uno) invitano il proprio lettore, questa è la traiettoria di una philosophia, di un "amore della sapienza" che, giorno dopo giorno, è esercizio e pratica di sé, impegno vitale e sforzo strenuo di accedere a un altro piano di coscienza e a una diversa forma di esistenza.
"Soares va scrivendo minuziosamente, con la maniacale puntigliosità del contabile, il suo diario: grandioso zibaldone fatto di journal intime, di riflessioni, di appunti, di impressioni, di meditazioni, di vaneggiamenti e di slanci lirici che egli chiama Libro e che noi potremmo chiamare romanzo." (dall'Introduzione di Antonio Tabucchi)
Questo affresco della società franco-borgognona dei secoli XIV e XV continua a rimanere, a cento anni dalla sua apparizione, punto di riferimento imprescindibile, nonché inesauribile fonte di riflessione e ispirazione, per studiosi e lettori di tutto il mondo. Fu una "scintilla spirituale", in un periodo in cui l'autore nutriva grande ammirazione per l'arte dei fratelli Van Eyck e dei loro contemporanei, a spingerlo a scrivere del Tardo Medioevo non come un annuncio del futuro, ma come crepuscolo di qualcosa che stava svanendo e si stava nel contempo rinnovando, evidenziando in tal modo una linea di continuità tra Medioevo e Rinascimento: "Il rapporto tra il nascente Umanesimo e il declinante spirito del Medioevo è molto meno semplice di quanto siamo portati a credere". Da questa sintesi di erudizione e capacità affabulatoria, di fonti letterarie e arti figurative, emergono figure più o meno celebri di donne e di uomini che cercano di sopravvivere alla durezza dell'esistenza cercando un senso in nuove forme di vita e di pensiero, in esperienze sia intellettuali e artistiche sia quotidiane e banali. Huizinga, nella sua visione, riassume tale aspirazione a una vita migliore mediante l'analisi approfondita e appassionata di temi quali la religione cristiana, l'ideale cavalleresco o monastico, l'onore e il coraggio, l'amore e l'erotismo, la bellezza, la vita, la morte. Quest'opera può essere letta anche come una conferma delle radici culturali comuni a tutti gli europei, radici che l'uomo Huizinga difese strenuamente prima contro gli ipernazionalismi dell'epoca e poi contro il nazismo. Una grande lezione, drammaticamente attuale.
Viaggio al centro della Terra è la mirabolante spedizione nelle viscere del mondo intrapresa dal professor Otto Lidenbrock, scienziato noto in tutta la Germania, dal nipote Axel e da Hans, la guida che li accompagnerà per l'intera durata dell'avventura. All'origine di tutto quanto, la scoperta da parte dello scienziato di una vecchia pergamena in cui, in linguaggio cifrato, venivano fornite precise indicazioni per raggiungere il centro della Terra attraverso l'entrata posta in un vulcano islandese. Le avventure che il gruppo vive per arrivare al cuore del pianeta sono straordinarie e non a caso al libro arriderà una tale fama da renderlo fin da subito uno dei più letti di Jules Verne. Una storia destinata ad accendere la fantasia dei suoi contemporanei, anche per merito delle splendide incisioni di Édouard Riou, che accompagnavano le prime edizioni del volume, qui riprodotte. Il libro si è guadagnato un posto di rilievo anche tra i romanzi del cosiddetto ciclo "alla scoperta del mondo perduto". Ma anche negli anni a noi più vicini è diventato uno dei testi di riferimento del "genere steampunk". Da questo romanzo sono stati tratti innumerevoli film, serie televisive e videogame.
Se ai tempi di Wilde era l'omosessualità a obbligare al segreto e a nascondersi, a essere proibita e soggetta al carcere, oggi la diversità della sofferenza può essere incarnata dalla malattia del ventesimo secolo, che è diventata simbolo di sacrificio, vera e propria cultura, sostiene Gaia Servadio. Del resto, "non è vero, anche se è stato spesso ripetuto, che Wilde scrisse Salomè pensando a Sarah Bernhardt: era Alfred Douglas la persona che aveva ispirato la sua concezione del personaggio". Wilde scrisse l'opera originariamente in francese, per poi assistere e aiutare Douglas nella sua traduzione inglese. In quest'edizione sono presentate entrambe le versioni dell'opera.
Per un intero secolo, da quando, Giosuè Carducci ne patrocinò la prima edizione a stampa, lo «Zibaldone di pensieri» di Giacomo Leopardi è assurto a simbolo del "frammento" per eccellenza. Quello che è da tutti considerato un capolavoro assoluto di prosa letteraria, è stato presentato da una lunga tradizione come un'opera volutamente asistematica, un flusso di pensieri senza ordine. A distanza di oltre un secolo da quella prima edizione carducciana, il meticoloso e acuto lavoro critico-filologico di Fabiana Cacciapuoti ha portato alla luce l'idea di una grande opera per "trattati". Un testo dotato di precise chiavi di lettura, organizzabile - se non compiutamente organizzato - a partire da ben definiti fuochi tematici. Un suo progetto di riordino e indicizzazione degli appunti sarà effettivamente messo in atto, attraverso un rigoroso sistema di voci e di numeri, redatto su differenti schedine (conservate presso la Biblioteca nazionale di Napoli). Sono, in particolare, sette paginette scarne ma decisive a evidenziare i differenti percorsi tematici. Proprio seguendo quelle pagine, sono stati qui "rimontati" tutti i brani leopardiani, ricostruendo così nella sua compiutezza il tendenziale suo "sistema". Questa nuova edizione tematica dello «Zibaldone di pensieri» viene ora proposta in un volume unico, con l'indicazione di tutte le indicizzazioni via via appuntate da Leopardi. Una riaggregazione dei materiali leopardiani che ne cambia la chiave di lettura. Con un preludio di Antonio Prete.
Mark Twain è stato un autore dissacrante, sempre arguto e ironico nei confronti dei codici morali e delle convenzioni che strutturano le consuetudini tradizionali di vita. Nelle storie qui raccolte - scritte nel suo periodo creativo più fertile, dal 1863 al 1895 - la sua verve umoristica e polemica diventa assoluta protagonista. Ed ecco in rapida sequenza: i consigli spregiudicati a bambini e bambine, gli approcci irriverenti alla retorica sui "Padri della Patria" e la graffiante ironia nei confronti della religione e del perbenismo. Ma anche il ribaltamento di trame edulcorate e moraleggianti, cattivi che hanno successo e buoni che falliscono miseramente, un mondo civile e politico messo alla berlina a volte in maniera macabra. Per non parlare poi delle riflessioni al vetriolo sull'ansia di rispettabilità, sull'ipocrisia diffusa, sulla filosofia della "legge e ordine" e degli aspri attacchi al razzismo della società americana... Quella che risuona con vigore in questi racconti è la voce di grande attualità e fuori da ogni schema di Twain: un salutare antidoto ai luoghi comuni e al razzismo. Un grande scrittore libertario.
Quando, nel 1859, Dostoevskij ottenne il permesso di rientrare dalla deportazione nella Russia europea, aveva bisogno di qualcosa di clamoroso per riaffermare la propria posizione nel panorama letterario dell'epoca. Fu così che nella primavera del 1860 si dedicò alla stesura di un roman-feuilleton pieno di situazioni estreme, spregiudicate, delle quali si parlava con relativa disinvoltura, incentrate sul tema della fanciulla offesa e vittima di individui senza scrupoli. Sedotte e abbandonate: questo è il destino delle donne in "Umiliati e offesi". Ma anche maledette dai propri padri. L'occhio di Dostoevskij si sofferma ad analizzare la relazione padre/figlia, e lo fa tramutandola nel nucleo portante della narrazione: sono ben tre le coppie di padri e figlie che si avvicendano nelle pagine del romanzo, portando avanti ciascuna una linea narrativa e una modalità esistenziale che conducono a una conclusione differente. Le vicende sono tenute assieme dalla presenza del narratore Ivan Petrovic, che per tutto il romanzo si sposta frenetico da una casa all'altra, fungendo da testimone oculare e, alla fine, da vero e proprio deus ex machina. In questa figura si manifesta il tormento di Dostoevskij, giunto al punto di svolta della propria creatività e alla ricerca di un nuovo modello di narratore.
Nel volontario esilio in campagna, nel possedimento di Boldino, Puskin scrisse le "piccole tragedie" di cui fa parte anche questo poemetto drammatico qui riletto da Erri De Luca, che afferma: «Puskin scrive la piccola tragedia in versi "L'ospite di pietra" contro se stesso... Scrive di don Juan contro se stesso. Non ne fa un fuggiasco, un clandestino, sì, a ribelle all'esilio del re».
Il 27 dicembre 1831 un brigantino inglese, la Beagle, salpa da Devonport, al comando del capitano Fitz Roy, con a bordo Charles Darwin, a quell'epoca ventiduenne. Scopo della spedizione era completare il rilevamento della Patagonia e della Terra del Fuoco, ispezionare le coste del Cile, del Perù e di alcune isole del Pacifico ed eseguire una serie di misure di longitudine attorno al mondo. I cinque anni di viaggio sulla Beagle permettono a Darwin di accumulare un enorme quantità di materiale e di dati - sulla fauna, sulla flora, le formazioni geologiche e così via - che saranno alla base di una delle tappe fondamentali del pensiero umano e di uno dei più importanti contributi scientifici di tutti i tempi.
"Indubbiamente il viaggio era un motivo dominante dell'esistenza di Gogol', che da vero Wanderer romantico ne aveva fatto la ragione stessa della propria esistenza. Autentico scrittore on the road, era in grado di scrivere in carrozza, nelle sale comuni delle locande, nelle stazioni di posta [...]. Tra l'arrivo e la partenza sulla scena gogoliana dominano la paura (L'ispettore generale), l'angoscia (Il matrimonio) e la noia (Igiocatori). L'ispettore generale è a ragione considerata la commedia incentrata sul gusto per la rappresentazione che caratterizza tutta la produzione di Gogol' [...]. Ma, al di là della componente comica, nell'Ispettore generale tutti hanno paura: il podestà, i burocrati della città, lo stesso Chlestakov. E una paura viscerale, legata a ragioni pratiche di sopravvivenza, ma è anche una paura metafisica, legata a ragioni esistenziali più profonde. [...] L'ansia dell'accoppiamento e della riproduzione pervade ovviamente tutto II matrimonio, con il suo corollario di orrore del femminile sessuato che possiamo rintracciare nell'opera gogoliana nel suo complesso [...]. Il mostro che occhieggia dietro la superficie puramente comica dei Giocatori è invece quello forse più temuto dallo scrittore, la noia." (dall'introduzione di Serena Prina)
La protagonista indiscussa di questo grande romanzo d'amore e follia è la giovane, oscuramente affascinante, Marina Crusnelli di Malombra, ospitata dallo zio, il conte Cesare d'Ormengo, in una magnifica villa sul Lago di Como. Venuta in possesso di un autografo dell'antenata Cecilia, apparentemente portata alla morte dal marito, padre dell'attuale conte, si convince di esserne la reincarnazione e di avere l'obbligo di vendicarne l'assassinio. Quando alla villa giunge lo sconosciuto scrittore Corrado Silla, orfano di una cara amica del conte Cesare, i due giovani vengono subito travolti da un amore tormentato ma assoluto. Un amore destinato tuttavia, a causa della crescente pazzia di Marina, a essere trascinato verso un gorgo inevitabile.
Dalla tomba in cui sono sepolti, i cittadini di una piccola cittadina americana svelano i segreti della loro vita. In versi sciolti, ma quasi regolari, con una ironia pungente, evocano la vita del villaggio che, al di sotto della spesse coltre puritana, in realtà nasconde concupiscenza e vizio. Il motivo principale del libro sta nella trasformazione dell'amore nel suo opposto, la lussuria. Tutto si deforma e i sogni appassiscono. La raccolta comprende diciannove storie che coinvolgono un totale di 248 personaggi che coprono praticamente tutti i mestieri umani. L'opera di questo cantore dell'Illinois è riuscita, nel nostro paese più che in altri, a scavare nei cuori di generazioni di lettori. È forse l'attrazione costante per la morte a donare vita alla poesia di Edgar Lee Masters. Ed è attorno alla morte che si gioca l'intreccio di storie di questo canovaccio vitale e funereo al tempo stesso. In Italia il successo di questo libro, profondamente liberatorio e libertario, fu dovuto alla traduzione di Fernanda Pivano (con il supporto di Cesare Pavese) e alla vicenda che la portò in carcere proprio per aver tradotto il libro, inviso al regime fascista. Infine, ulteriore fama al libro di Lee Masters fu data dall'interpretazione di Fabrizio De André, che assieme a Nicola Piovani, diede alla luce nel 1971 un album straordinario come Non al denaro non all'amore né al cielo.
La storia della fuga di Enea da Troia in fiamme e della fondazione, dopo molte peripezie e battaglie, di Roma, fu scritta da Virgilio tra il 29 e il 19 a.C. e rimase incompiuta per la morte dell'autore all'età di cinquantuno anni. Nei secoli, generazioni e generazioni di lettori si sono formate, commosse e divertite sulle pagine dell'"Eneide". Come scrisse il poeta Thomas S. Eliot, nella celebre conferenza "What is a classic?", tenuta a Londra il 16 ottobre 1944, mentre la barbarie infuriava nel mondo: "In lui si riassumono tanti simboli della storia d'Europa e rappresenta valori europei tanto essenziali [...]. Nessuna lingua moderna può sperare di produrre un classico in questo senso. Il nostro classico, il classico di tutta l'Europa, è Virgilio".
"Sulla vita" fu finito di stampare nel gennaio del 1888. Dalla tipografia il libro passò, come d'uso, al Comitato della censura: e non ne uscì più. La censura laica lo silurò subito, mentre la censura religiosa - due mesi dopo - condannò alla confisca tutte le copie del libro. Nel frattempo, come avveniva da qualche anno per tutte le opere di Tolstoj vietate, anche "Sulla vita" conosceva in Russia un'ampia diffusione tramite edizioni illegali, per lo più artigianali. "Sulla vita", insomma, fu un trionfo: uno dei primi grandi successi internazionali di quella carriera di polemista social-religioso che Tolstoj aveva inaugurato una decina d'anni addietro, con "La confessione". Il fulcro delle sue riflessioni era inteso a ribadire le ragioni di un cristianesimo rigorosamente evangelico, contro le Chiese istituzionali e il loro "pseudo-cristianesimo" impartito alle greggi, ma anche contro quell'ordine costituito che in tutti gli stati "cristiani" aveva appunto nelle Chiese i suoi migliori alleati. Sia secondo i seguaci, sia secondo i critici di Tolstoj, "Sulla vita" è importante in quanto originalissima, illuminante reinterpretazione del concetto evangelico di "vera vita", con stimolanti implicazioni filosofiche, contrapposta a un cristianesimo trasformatosi in "religione della morte". Un testo decisivo per comprendere l'evoluzione del pensiero di Tolstoj.
Tutta la poesia di Yeats è l'esplorazione, tremebonda e splendida, della divinità, nella sua pienezza poetica, che in quanto tale non esclude buio e ombre. In lui, che sente il divino principalmente nell'uomo, e che guarda con simpatia al Rinascimento, convivono le visioni magiche dell'antico druidismo, il mondo delle fate e dei demoni delle selve dell'antica Irlanda, e un cristianesimo non dogmatico e non assoluto, anzi, lucidamente eretico, originalissimo. Con questa scelta antologica, che prende il titolo dalla famosa Navigando verso Bisanzio, il lettore correrà nelle pagine di un grande poeta visionario: dalla partenza per mare verso la sacra Bisanzio all'incanto dei cigni selvatici che scompaiono in cielo, dai misteri della Torre in cui si cela quello della vita stessa, al mondo delle "Mille e un notte" in cui Yeats ci fa sentire le voci che nel buio dettano la luce dei versi. La scelta fatta da un poeta, Roberto Mussapi, nell'insieme delle opere di un altro grandissimo poeta, William Butler Yeats.
“Una sorta di inchiesta d’epoca su come si viaggiava nel Trecento. Concretezza, brio, realismo: il viaggio come avventura”
Nella primavera del 1358 Petrarca ricevette l’invito da Giovanni Mandelli, uomo d’arme ma di buona cultura, di recarsi con lui in Terra Santa in pellegrinaggio. Il poeta, che tra le altre cose soffriva il mal di mare, non se la sentì di affrontare il viaggio, che all’epoca era lungo e periglioso. Per accompagnarlo nell’avventura scrisse allora questa lettera. In realtà si tratta di un itinerario suddiviso in due parti. Una prima parte, da Genova a Napoli, che descrive luoghi effettivamente visitati da Petrarca nel corso della sua vita; una seconda, da Napoli a Gerusalemme e Alessandra d’Egitto, ricostruita esclusivamente sui testi degli storici e dei geografi. Nonostante questa eterogenea origine, il testo petrarchesco presenta comunque una sua compatta omogeneità. Di particolare interesse le pagine dedicate alla Campania, in cui il poeta si sofferma con cura a consigliare l’amico di visitare la grotta di Posillipo, l’antro della Sibilla e gli affreschi di Giotto (oggi perduti) presenti nella cappella reale di Castelnuovo. In questa occasione Petrarca definisce Giotto “il principe dei moderni pittori”.
Un testo nel complesso importante, che dà modo a Petrarca di fare i conti con la tematica del viaggio, da sempre al centro delle sue epistole e delle sue preoccupazioni terrene.
Francesco Petrarca, figlio del notaio ser Petracco, guelfo bianco, amico di Dante, esiliato da Firenze e rifugiatosi ad Arezzo, nacque ad Arezzo nel 1304, ma si trasferì con la famiglia l’anno seguente all’Incisa, quindi a Pisa nel 1311 e a Carpentras, presso Avignone dove stava la corte papale di Clemente V, nel 1312. Petrarca compie gli studi grammaticali con Convenevole da Prato e inizia gli studi di diritto a Montpellier. Nel 1318 muore la madre Eletta e Petrarca scrive il suo primo componimento poetico, un’elegia in versi latini. Si reca col fratello Gherardo a Bologna a completare gli studi di diritto. Nel 1325 acquista una copia del De civitate Dei di Agostino e per tutta la vita collezionerà testi classici e manoscritti. Nel 1326 muore il padre e Petrarca lascia Bologna per tornare ad Avignone, dove il 6 aprile del 1327 incontra Laura, nella chiesa di Santa Chiara. Nel 1330 si volge alla carriera ecclesiastica; accompagna in un viaggio Giacomo Colonna, assieme a Lello di Pietro Stefano dei Tosetti soprannominato Lelio e Ludwig van Kempen soprannominato Socrate; entra a servizio di Giovanni Colonna come cappellano di famiglia. Nel 1333 compie un viaggio nell’Europa settentrionale. Nel 1335 Benedetto XII gli concede il beneficio di un canonicato nella cattedrale di Lombez e Petrarca scrive una lunga lettera in versi latini al papa perché riporti la sede papale a Roma. Il 26 aprile del 1336 sale sul monte Ventoso. Nel 1337 acquista una casa in Valchiusa; gli nasce il primo figlio naturale, Giovanni; inizia il De viris illustribus. L’anno seguente ha l’ispirazione dell’Africa, continua le epistolae metricae e inizia i Trionfi. Nel 1340 il senato di Roma gli offre la laurea poetica, Petrarca si reca a Napoli presso il re Roberto d’Angiò per sottoporsi a un esame di tre giorni, dove legge brani dell’Africa, viene poi incoronato poeta in Campidoglio nel 1341. Mentre vive tra Valchiusa e Avignone, inizia a scrivere il Canzoniere e ottiene da papa Clemente VI un canonicato a Pisa. Nel 1343 il fratello si fa monaco certosino a Montrieux e a Petrarca nasce la figlia naturale Francesca. Scrive il primo abbozzo del Secretum, sette Psalmi poenitentiales e inizia i Rerum memorandarum libri. Tra 1344 e 1345 è a Parma, da cui ripara a Verona per l’assedio dei Gonzaga, poi fa ritorno in Provenza. A Valchiusa scrive il De vita solitaria, nuove epistolae metricae, alcune egloghe del Bucolicum carmen, e dopo una visita al fratello a Montrieux il De otio religioso. Mentre si acuisce il dissenso del poeta con l’ambiente della curia, nel 1347 Cola di Rienzo dà il via alla sua “rivoluzione” a Roma e Petrarca che si accinge a raggiungerlo gli scrive lettere di conforto. Fallita l’impresa di Cola, Petrarca da Genova si dirige a Verona, dove sarà nel 1348, l’anno della peste. Si reca quindi a Parma dove riceve la notizia della morte di Laura e di molti amici e protettori, fra cui il cardinale Colonna. Nel 1349 è accolto a Padova da Jacopo da Carrara e lavora alle Familiari e alle epistolae metricae. Intanto stringe amicizia a Firenze con Boccaccio, Lapo da Castiglionchio, Zanobi da Strada, Francesco Nelli. Tornato a Valchiusa, comincia il Sine nomine. Nel 1352 Petrarca decide di lasciare Avignone per l’ostilità del nuovo papa Innocenzo VI e non farà più ritorno in Provenza. Si stabilisce a Milano dall’arcivescovo Giovanni Visconti, considerato da molti un tiranno, cui succederanno i nipoti Matteo, Galeazzo e Bernabò, e compie per i signori importanti missioni. Scrive intanto il De remediis utriusque fortunae. Nel 1354 incontra a Mantova Carlo di Boemia che si reca a Roma a farsi incoronare imperatore. La speranza di Petrarca che l’imperatore resti in Italia va delusa. Nel 1356 inizia la terza stesura del Canzoniere e nel 1359 la quarta. Rivede e ritocca i suoi vari componimenti, scrive l’Itinerarium syriacum. Conosce a Padova Leonzio Pilato da cui vorrebbe imparare il greco per leggere Omero in originale. Nel 1361 scrive una lettera all’imperatore perché torni in Italia e stabilisca la sede di papato e impero a Roma. Intanto il figlio Giovanni muore di peste. Petrarca inizia le Senili. Nel 1362 si trasferisce a Venezia dove ottiene una casa in cambio della promessa di lasciare in eredità alla città la sua biblioteca. Prende a servizio Giovanni Malpaghini di Ravenna per ricopiare i suoi testi. Scrive al nuovo papa Urbano V una lettera per esortarlo a ritornare a Roma e una seconda per non fargliela lasciare; inizia la quinta stesura del Canzoniere; scrive il De sui ipsius et multorum ignorantia. Pensa di trasferirsi definitivamente a Padova presso Francesco da Carrara che gli dona un terreno ad Arquà sui colli Euganei, dove si trasferisce nel 1370. Ha rapporti di amicizia col medico Giovanni Dondi, con l’umanista Lombardo della Seta e coi monaci agostiniani fratelli Badoer. Problemi di salute gli impediscono di recarsi ad Avignone dal nuovo papa Gregorio XI. Lo raggiungono ad Arquà la figlia e la nipotina. Nel 1373 scrive l’Invectiva contra eum qui maledixit Italie, lavora all’ottava copia del Canzoniere e l’anno seguente alla nona e ultima. Muore ad Arquà nel 1374. Feltrinelli ha pubblicato nei “Classici” Canzoniere (1992, 2013).
“Nessuno è autorizzato a parlare al Timoniere. E il Timoniere non è autorizzato a parlare con nessuno”
Lewis Carroll pubblicò La caccia allo Snark nel 1876. Un fantastico racconto epico nel quale i dieci protagonisti, i cui nomi iniziano tutti per B, spariscono, si dileguano, impazziscono, trovano se stessi percorrendo un’improbabile rotta attraverso un mondo fatto solo di nonsensi: un poemetto eroicomico concepito sul concetto della doppiezza, dell’ambiguità, dell’inafferrabilità. Lo stesso nome Snark coniuga in sé due animali tra loro molto distanti, eppure per qualche misteriosa ragione simbolicamente associabili: lo shark (lo squalo) e lo snake (il serpente). Lo Snark è il non-visibile, il non-rappresentabile, che tuttavia, con stupore e terrore, percorre tutta l’esistenza. In questo poemetto, destinato a diventare uno dei punti di riferimento del surrealismo, il lettore è messo di fronte allo sviluppo autonomo di dimensioni simultanee. Più volte sollecitato a dare spiegazioni sul senso di questo suo lavoro, solo una volta Carroll si limitò a dire che è un’allegoria sulla ricerca della felicità.
Il poemetto è stato adattato in musical e a teatro ma ha ispirato anche episodi televisivi, videogame e filmati di animazione giapponese, oltre ad altri scrittori, quali Jack London (The Cruise of the Snark) e C.S. Lewis.
Dalla penna di uno scrittore tra i più apprezzati dell’ultima generazione, la traduzione del grande classico di Verne, emotivamente sottolineata dagli straordinari disegni ottocenteschi di de Nauville e Riou. Scritto nel 1870, il romanzo di Jules Verne è stato poi ripreso da innumerevoli adattamenti televisivi e cinematografici, non ultima la saga di Matrix. Pensato come il primo volume di una trilogia composta da I figli del capitano Grant e conclusa da L’isola misteriosa, fin da subito il romanzo accese l’immaginazione dei suoi contemporanei, per la straordinaria visionarietà di un sottomarino in grado di esplorare il fondo dei mari.
«Questa scelta di liriche hölderliniane, dopo tante traduzioni illustri e imprese critiche tedesche e italiane di eccezionale portata interpretativa, non ha altra ambizione che proporsi come un'edizione di avvicinamento, ovvero come una presentazione quanto più limpida possibile del percorso esistenziale e di pensiero del poeta e dei problemi sorti alle prese con la sua arte. Si è cercato di offrire un primo passo verso Hölderlin, proposito che comporta tra l'altro l'estrema semplificazione delle intricatissime questioni filologiche relative ai sempre incompiuti e tormentati testi del poeta. Ogni selezione presuppone una certa dose di arbitrarietà e il rischio di una scelta autoriale. Ad esempio qui sono state sacrificate le poesie giovanili (compresi gli inni d'ispirazione schilleriana) e gran parte delle 'poesie della torre'. Del resto, l'immagine del poeta che volevamo restituire si situa proprio in mezzo a questi due estremi, nei quali Hölderlin non ha ancora trovato la propria voce, o l'ha ormai persa» (dalla Nota del curatore)
Le opere di Arthur Rimbaud (Poesie, Ultimi versi, Una stagione all'inferno, Illuminazioni, scritti minori) sono qui inquadrate storicamente da un'ampia introduzione e accompagnate da un commento sia linguistico sia esegetico. Il testo francese è quello dell'edizione critica di Bouillane de Lacoste. A ciò si aggiunge una scelta delle lettere più importanti del poeta di Charleville, un succinto schema biografico e alcune indicazioni bibliografiche. Il lettore italiano dispone di uno strumento di avvicinamento e di studio di uno dei poeti più importanti, affascinanti e difficili della moderna letteratura europea, la cui opera ha esercitato un'influenza profonda e talora determinante su tanta parte dell'arte contemporanea
Settimo pannello del ciclo dei Rougon-Macquart, iniziato nel 1871 con "La fortuna dei Rougon" e che si concluderà venti anni più tardi con il "Dottor Pascal", "Lo scannatoio" (1877) è il primo "romanzo sul popolo che non menta, e che abbia lo stesso odore del popolo". Quando inizia a uscire sulle pagine del "Bien publique", nell'aprile del 1876, il romanzo viene immediatamente accusato di oscenità. Il successo è enorme, senza precedenti: trentotto ristampe nel 1877, altre dodici l'anno seguente. Inizia l'era dei bestseller. Per Stéphane Mallarmé, il libro non è solo lo specchio di un'epoca di ricerca e rinnovamento, in cui l'arte si ritrova incapace di rappresentare e assecondare le convenzioni e le ipocrisie della gente perbene, ma è anche "un eccezionale esperimento letterario", in cui la "verità diviene la forma popolare della bellezza".
Ambientato in un Italia ottocentesca in parte fantastica, in parte reale, le avventure di Fabrizio del Dongo si snodano in una serie di incontri e peripezie al termine dei quali si trova il luogo del silenzio, lo spazio simbolico dell'isolamento e della rinuncia: la Certosa di Parma.
“‘Sei bellissima, avrei una gran voglia di farti la corte.’ ‘Paul, ti dispenso da questa fatica! Mi offri una sigaretta?’”
“Nei singoli uomini non si è verificata la benché minima trasformazione, non è accaduto altro se non che diverse inibizioni sono state spazzate via e che ogni specie di mascalzonate e furfanterie possono essere commesse oggi con un rischio relativamente minore, in ogni senso sia morale che materiale, di quanto non accadeva in passato. Inoltre si parla un po’ più di cibo e di denaro.” Così Arthur Schnitzler descriveva, nel 1924, la sua epoca, difendendo Signorina Else dalle critiche di coloro che la consideravano un’opera appartenente a un mondo “finito e sorpassato”. In realtà, la vicenda della giovane donna, ospite della zia nel Grand Hotel di San Martino di Castrozza, che per salvare il padre dalla rovina economica deve mostrarsi nuda a un vecchio conoscente, è quanto mai sintomatica della lotta della dignità umana contro il potere del denaro. Ma soprattutto, in questo monologo-delirio interiore, Schnitzler raggiunge i vertici della sua creazione artistica cadenzando, come in uno degli ultimi quartetti di Beethoven, il progressivo scivolamento dalla disperazione, al sonno, alla morte.
“Il pubblico si identifica con Arlecchino, che risolve sempre tutto con una fantasia straordinaria”
Lelio, Mirandolina, Arlecchino (Truffaldino): tre protagonisti esemplari, tre personaggi tra i migliori del primo teatro di Carlo Goldoni (1707-1793), eppure figli “difficili” della riforma teatrale che egli propugnava. Un bugiardo, una seduttrice e una candida canaglia stanno a smentire quella parvenza di sanità che, nella sua opera, è rappresentata dalle leziose putte onorate o dai fin troppo saggi Pantaloni. Su tutti spicca l’unico servo maschile protagonista nel suo teatro, che è anche il fantasma festoso e multiforme di una tradizione recitativa secolare, quale la Commedia dell’Arte, che Goldoni non rinnegò mai, come testimonia nella Postfazione Ferruccio Soleri, il grande attore interprete di Arlecchino.
“Oggi Arlecchino morirebbe prima ancora di nascere. Con le mediazioni, con tutti i compromessi che si devono accettare in questa società, Arlecchino non potrebbe vivere. E credo che una parte del fascino e del grande successo di questo personaggio sia proprio la sua incapacità di ammettere compromessi.” (dalla Postfazione di Ferruccio Soleri)
“Ho idee strane sul Natale. Perché ho tutto quello che il danaro può comprare. Voglio più persone, ma non più cose”
Casa Howard è certamente uno dei grandi “classici” della letteratura del ventesimo secolo. La ricchezza del romanzo sta tutta nella pregnanza di una narrazione piena di tensioni, in parte irrisolte perché lo stesso Forster è partecipe di esse e il “solo connettere” del sottotitolo del romanzo gli è impossibile solo in parte, come egli ben sa. Ma forse il fascino di Casa Howard sta proprio in questa difficoltà a risolvere contraddizioni ancora irrisolvibili. Ciò nonostante, dice Virginia Woolf (ed è noto che Forster s’ispirò inizialmente proprio alla giovinezza di Virginia e della sorella Vanessa per definire le due eroine del romanzo, Margaret e Helen), “la pianificazione della storia è magistrale. Quella cosa indefinibile ma tanto importante, l’atmosfera del libro, riluce di intelligenza; non a un barlume di fandonia, non a un atomo di falsità è consentito di depositarsi. E di nuovo, ma su di un campo di battaglia più ampio, continua il conflitto che ha luogo in tutti i romanzi di Mr. Forster – il conflitto fra le cose che importano e le cose che non importano, fra la realtà e la falsità, fra la verità e la menzogna”.
Casa Howard è il capolavoro di Forster. Una pietra miliare nella storia del romanzo moderno. Una narrazione che ha per oggetto l’esperienza interiore e per fine la ricerca della verità dietro le apparenze.
“Si deve essere onesti nelle cose spirituali fino alla durezza”
Nel 1888, incalzato dall’approssimarsi della follia che sarebbe esplosa l’anno successivo, Nietzsche scrive una successione di brevi opere nelle quali prendono nuova forma i materiali destinati alla progettata “trasvalutazione di tutti i valori”. Tra queste, L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, il primo degli scritti postumi che Nietzsche lasciò pronti per la stampa; postumi, s’intende, rispetto alla follia, dato che la prima edizione, con sottotitolo scorretto e quattro passi censurati, è del 1895, quando Nietzsche era ancora in vita. Nel testo ritroviamo i suoi temi tipici: la compassione come strumento del nichilismo; l’analisi genealogica, a partire dall’ebraismo, del concetto di dio cristiano come prodotto del ressentiment; l’inimicizia mortale tra fede e scienza; la nefasta menzogna di ogni concetto religioso, in quanto pure finzioni escogitate a scopo di dominio. Si aprono nel testo anche zone di insospettata sottigliezza: come nei paragrafi intorno alla “psicologia del redentore”, dove si traccia un ritratto peculiarissimo di Gesù, che va a sovrapporsi all’immagine dell’“idiota” dostoevskijano. Alla figura di Gesù e alla sua “buona novella” si oppone diametralmente quella di Paolo, il grande organizzatore sistematico del cristianesimo (e inventore, secondo Nietzsche, della “spudorata dottrina” dell’immortalità personale). Il cristianesimo è un grande equivoco: in fondo, scrive Nietzsche, è esistito un solo cristiano, e quello morì sulla croce.
“E in quella luce pareva che non ci fosse più niente; all’infuori della mia anima”
Con gli occhi chiusi (1919) e Ricordi di un impiegato (1920) sono due opere che collocano Tozzi tra i maestri europei dello scorso secolo. Lo scontro di Pietro con suo padre nel primo romanzo, e quello di Leopoldo con la famiglia nel secondo, possono apparire come episodi dell’eterno conflitto tra le generazioni dei padri e quelle dei figli; in verità, in queste storie, si rivelano due mentalità inconciliabili: una che impone le proprie ragioni con la violenza e l’altra che cerca la via della liberazione. L’apparato critico del volume è corredato di una biografia e di esaurienti notizie intorno agli studi su Tozzi, a cura di Edoardo Esposito.
“Orlando udì in lontananza, improvvisamente e inspiegabilmente il battito delle ali d’Amore”
Orlando è stato scritto nel 1928 e dedicato alla poetessa (e grande giardiniera) Vita Sackville-West, di cui per un certo periodo Virginia Woolf fu amante, tanto da far dire al figlio di Vita Sackville-West che questo romanzo è “la più lunga lettera d’amore della storia”. Al centro della narrazione le mirabolanti avventure di Orlando, giovane e melanconico cortigiano dell’epoca di Elisabetta I, il quale nel corso di quasi quattro secoli non solo si troverà a vivere diverse vite, in varie e suggestive epoche storiche, ma anche a cambiare sesso, diventando così una donna, dopo un sonno di sette giorni consecutivi, in quel di Istanbul. Aggregata a una carovana di zingari, avrà modo poi di tornare a Londra, rivivendo così dapprima le atmosfere di inizio Settecento, dei tempi della regina Anna, e in seguito del Romanticismo, fino ai primordi degli anni venti del Novecento, sempre all’inseguimento del vero amore e del senso profondo della poesia. Il romanzo nel corso nel Novecento è diventato un libro “cult” non solo nella letteratura inglese, ma chiaramente anche nelle comunità LGBT.
La vicenda è stata ripresa più volte dal grande schermo. Tra le diverse versioni, quella premiata con gli Oscar di Sally Potter del 1992, con Tilda Swinton nei panni della protagonista.
L'assoluto ideale morale è per Epitteto quello della libertà, del dominio interiore dello spirito e dell'indipendenza del volere ragionevole da ogni motivazione esteriore. Tale stato perfetto, che è la condizione del saggio, può essere raggiunto con lo sradicamento di ogni passione (apatia), il che a sua volta è condizionato dall'uso della ragione. Al rigore della morale cinica, appena riassunta, Epitteto associò anche la teoria stoica del logos divino che governa il mondo secondo un disegno razionale. Nel Manuale stilato da Arriano, discepolo di Epitteto, e quindi attribuito a Epitteto secondo la consueta usanza del mondo antico, l'accento cade più sulla moralistica, che consiste poi in buona sostanza nell'accettare ciò che ci accade. Cruciale nel suscitare le riflessioni di Marco Aurelio, il Manuale ha avuto una grande fortuna nel corso dei secoli, tanto da ispirare il tardo stoicismo e anche la filosofia cristiana, fino a diventare ancora nel periodo dell'età dell'Illuminismo, in paesi come la Scozia, testo di riferimento scolastico. La traduzione qui proposta è quella storica di Giacomo Leopardi, da lui curata nel 1825 per un editore milanese. Completano questa edizione del Manuale i commenti del grande storico della filosofia Antonio Banfi.
Hanno meno di trent'anni Karl Marx e Friedrich Engels, nel 1848, quando scrivono il Manifesto del partito comunista: un pugno di pagine all'inizio senza fortuna, poi destinate a cambiare il mondo. Un testo che nel 1989, anno della crisi ufficiale del comunismo, risulta pubblicato in oltre duecento lingue e in mezzo miliardo di copie. Storia e lotta di classe, borghesia e proletariato, lavoro e libertà, proprietà privata e sfruttamento, partito e rivoluzione, capitalismo e comunismo: questi i nodi cruciali di un'idea di uomo, politica e società che ha segnato la carne viva del Novecento. E che oggi sembra scomparsa dalla faccia della Terra, lasciando campo libero a un capitalismo globale, privo di opposizione organizzata. Gli articoli di fede, rabbia e speranza scanditi nel Manifesto risultano così, insieme, fuori tempo massimo e più che mai attuali. Perché esortano a immaginare che il capitalismo possa ancora venire messo in questione, in un'epoca apparentemente senza alternative.
Il re di Sicilia Leonte ha sposato Ermione, ma crede che il figlio nascituro sia del re di Boemia Polissene. Leonte ordina al cortigiano Camillo di avvelenarlo, ma questi non gli obbedisce e fugge con Polissene. Leonte istruisce un processo per adulterio contro Ermione e fa interpellare l'oracolo di Delfi. Leonte ordina anche che la bambina, nata nel frattempo, venga abbandonata su una spiaggia deserta. La morte di Ermione giunge prima che l'oracolo sveli la sua innocenza, mentre Perdita, la bambina, viene salvata e, cresciuta, ama il figlio di Polissene con cui fugge in Sicilia. Afflitto dal senso di colpa per la morte della moglie, Leonte riconosce la figlia e riceve in dono una statua, che non solo somiglia ad Ermione, ma è Ermione stessa.
Preceduti da un ampio e illuminato saggio di Remo Bodei, sono qui presentati i più importanti testi hölderliniani sulla filosofia e l'essenza del tragico. Composti tra il 1795 e il 1804, essi offrono l'immagine di un pensatore originale, la cui opera teorica non è inferiore a quella poetica. Hölderlin, infatti, pur nel costante dialogo con i grandi contemporanei, si pone alla confluenza di antiche tradizioni filosofiche. Con produttiva inattualità rivendica così al presente, a un'epoca segnata dalle lacerazioni di un "caos" politico rigeneratore, l'eredità di Empedocle e dei "presocratici", accanto a quella del panteismo eretico di Vanini e Spinoza. Egli scopre in tal modo per primo un mondo ellenico oscuro, ctonio, "orientale" e panico - come è rivelato dalla tragedia -, specularmente opposto alle figure solari della Grecia di Winckelmann e di Schiller.
Ispirato dalla leggenda di una setta "segreta" veramente esistita, composta da sicari e vendicatori, il romanzo di appendice «I Beati Paoli» venne scritto da Luigi Natoli tra il 1909 e il 1910 e pubblicato a puntate sotto lo pseudonimo di William Galt sul «Giornale di Sicilia». Il romanzo, ambientato nella Sicilia del primo XVIII secolo, mescola elementi di fantasia e personaggi realmente esistiti, come don Girolamo Ammirata, l'unico membro della setta finora identificato con certezza. Natoli profuse una cura scrupolosa nel ricostruire fedelmente l'ambiente della Palermo del tempo, utilizzando rigorosamente fonti storiche e le relazioni a stampa apparse all'epoca su feste e cerimonie pubbliche, e la sua narrazione si discosta solo in pochi momenti dalla realtà storica. Un «romanzo popolare», quindi, come lo definì Umberto Eco, importante quanto «I Viceré» e «Il Gattopardo», essenziale a vario titolo nella costruzione identitaria siciliana.
Il romanzo si apre con il viaggio del giovane ufficiale in seconda Jim su un vascello, il Patna. Lo scontro con un relitto fa credere che la nave sia in procinto di affondare e Jim la abbandona con sopra i passeggeri. Jim, che nel fondo è un idealista, si pente subito del gesto vile, frutto di un atto impulsivo dettato dall'orrore del momento, ma anche un'inchiesta sancirà la sua colpa. Nel tentativo di rifarsi una vita, va in giro per il mondo, sfuggendo a se stesso, cercando l'anonimato. Raggiunge infine l'isola di Patusan, nell'arcipelago malese, dove con la forza del suo carattere e le sue qualità carismatiche riesce a stabilire l'ordine e a passare per un semidio.
"La presente edizione dell'intera opera poetica di Mallarmé, corredata di traduzione e commento, si propone di contribuire a far partecipe il maggior numero di lettori italiani della difficile e schiva bellezza di questa poesia. Il commento utilizza gli apporti più rilevanti della critica mallarmeana, sulla base di una lettura personale (che consiste, necessariamente, d'innumerevoli riletture) costantemente tesa nello sforzo di raggiungere, di auscultare il poeta, e lui solo. La traduzione, condotta sull'edizione de "La Plèiade", è nata dalla mia personale esigenza di comprendere Mallarmé attraverso un'attenzione e una tensione di lettura superiori al normale, quali, cioè, una traduzione di poesia le richiede. Il criterio fondamentale cui mi sono attenuta è stato quello d'una fedeltà globale al poeta, che dedicandosi scrupolosamente alla traduzione dell'opera sua, andasse assorbendone di pari passo i modi espressivi, il gusto, i vizi e le manie, cercando di ottenere effetti simili con mezzi simili; che fosse, in sostanza, una sorta di imitazione di Mallarmé." (Luciana Frezza)
Il libro venne pubblicato nel 1898, dapprima a puntate e solo in seguito in volume. Una giovane istitutrice viene chiamata per seguire due bimbi rimasti orfani e affidati alle cure di uno zio che, per diverse ragioni, non può occuparsi di loro. Questi assume la giovane donna a una sola condizione: di non contattarlo mai, qualsiasi cosa succeda ai ragazzi. Pertanto dovrà risolvere da sé ogni tipo di problema. Sempre! L'istitutrice fa quindi la conoscenza dei due ragazzi di ritorno dal college. Sono veramente intelligenti e adorabili. Lei si appassiona al lavoro e tutto sembra procedere per il meglio... sennonché cominciano ad apparire per la casa, sempre più sinistramente, due figure: un uomo con i baffi e una donna vestita a lutto... Un classico della letteratura gotica che ha ispirato decine di film e miniserie tv, opere liriche e teatrali, persino fumetti, qui tradotto dalla vibratile penna di Luigi Lunari.
"I Viceré si iscrive a mio avviso nel capitolo delle grandi saghe che con la potenza di un affresco narrano alcuni decenni di storia attraverso le vicende di una famiglia, di una stirpe, di un ceto sociale, assunti come monade del mondo che li circonda. [...] I Viceré è una disperata, sofferta, dolorosa confessione. La confessione di un essere umano che si identifica totalmente con una precisa società, e ne racconta i fatti e i misfatti con una oggettività insistita e impietosa; come un serial killer che una volta preso e smascherato svuota finalmente il sacco dei suoi delitti, rivelandone addirittura di insospettati. [...] I Viceré è dunque davvero un lungo, dolente monologo. Dal suo senso più profondo possono anche distrarre i fatti, i conflitti, i personaggi che ne animano le pagine, e che nel romanzo tengono desta l'attenzione, incuriosiscono, e addirittura appassionano. Ma il più autentico filo conduttore è quello: il dolore, forse anche la disperazione, che ne fanno il sofferto epicedio di questa società di naufraghi della Medusa, atavicamente impotente, alla quale l'autore è atavicamente legato e alla cui sorte si immola." (dalla prefazione di Luigi Lunari)
Al centro della storia, la vicenda di una bambina orfana, Mary, affidata a uno zio indaffarato e sempre lontano da casa. La prima reazione della bambina, appena arrivata nella villa dello zio, è di rifiuto. Non le piace niente. È scontrosa, capricciosa, scontenta. Ma a poco a poco grazie ai consigli di Martha, una giovane cameriera di origine contadina, la bambina scopre la bellezza dei luoghi intorno alla casa avvicinandosi così alla natura. Ed è sempre Martha a raccontarle una storia che colpisce la sua immaginazione. Esisteva un tempo un giardino, dove l'adorata defunta moglie dello zio amava stare e che per una tragica fatalità fu anche luogo della sua morte, per una caduta dall'altalena. Scosso dal dolore, lo zio decise di chiudere l'entrata del giardino, in modo tale che nessuno potesse più accedervi. Mary, a quel punto, si mette alla ricerca del giardino segreto. È vero, tutti i bambini hanno sempre un luogo segreto, accessibile solo a loro. E talvolta ai loro amici più intimi. Ma in questo caso no, il giardino segreto esiste davvero. È solo da trovare! In questa ricerca, che evidentemente è metafora di una ricerca interiore, la bambina troverà una serie di alleati che l'aiuteranno, tra cui un vecchio burbero giardiniere e due altri bambini: il fratellino di Martha, Dickon, e Colin, anche lui orfano di madre, figlio dello zio e quindi suo cugino...
«Mentre ho voluto determinare i procedimenti di produzione del comico, ho cercato anche quale sia l'intenzione della società quando ride. Perché stupisce troppo il fatto che si rida, e che il metodo di spiegazione di cui parlavo più sopra non chiarisca questo piccolo mistero. Non vedo, per esempio, per qual motivo la "disarmonia", in quanto tale, dovrebbe suscitare in chi ne è testimone una manifestazione così specifica come il riso, mentre tante altre proprietà, qualità o difetti lasciano impassibili i muscoli del viso dello spettatore. È quindi ancora necessario cercare quale sia la causa particolare della disarmonia che crea l'effetto comico; e l'avremo realmente trovata solo se riusciremo a spiegare perchè, in tal caso, la società si senta tenuta a manifestarsi. Nella causa del comico ci deve pur essere qualcosa che attenta leggermente (ma che attenta specificatamente) alla vita sociale, poichè la società vi risponde con un gesto che ha tutta l'aria di una reazione difensiva, con un gesto che fa lievemente paura. È di tutto questo che ho voluto render conto.» (Henri Bergson)
Gli "Adagia" sono una sorta di monumentale enciclopedia della cultura classica organizzata intorno a motti, detti, proverbi della più diversa provenienza. Talvolta Erasmo si limita a riferire in poche righe il proverbio nelle varie attestazioni che gli sono note, altre volte lo stesso proverbio gli suggerisce lo spunto per considerazioni molto più articolate e ricche. Comunque, non c'è dubbio che gli "Adagia" furono il serbatoio di sapere a cui Erasmo continuò ad attingere nel corso della sua vita. Per presentarsi alla fine come uno specchio tra i più fedeli del suo pensiero e del suo credo. I quattro "Adagia" qui proposti sono tutti di natura politica. Il primo, "Re o matti si nasce", è una riflessione che ruota attorno alla figura del Principe e all'irrazionalità o razionalità nella sua azione politica. L'adagio che invece dà il titolo al volume è tutto dedicato agli orrori della guerra e alla trasformazione dell'uomo in bestia. Dopo avere in più occasioni fatto riferimento a Ercole, l'adagio si sofferma sul fine vero della guerra: il guadagno, o meglio il rapimento e la degradazione dei beni altrui. La guerra non deve essere l'opzione da perseguire, anche nei confronti del peggior nemico (allora erano i turchi). Bisogna invece scegliere la migliore delle virtù cristiane, la carità. La chiusa da questo punto di vista è attuale ancora oggi: è comunque da preferire un turco sincero o un ebreo in buona fede a un cristiano ipocrita.
"Quelle gioie da amanti che provammo insieme mi sono state tanto dolci che non possono nè dispiacermi nè sfuggirmi dalla memoria. Dovunque mi volga sono sempre presenti ai miei occhi e mi accendono di desideri. Anche quando dormo la loro suggestione mi tormenta. Perfino durante i solenni riti, quando più pura deve essere la preghiera, le immagini impudiche di quelle voluttà inchiodano tanto nel profondo l'infelicissimo mio animo che mi sento disposta più a quei turpi godimenti che alla preghiera. E cosi, mentre dovrei gemere per quel che ho commesso, piuttosto sospiro per quel che ho perduto. E non quel solo che facevamo allora, ma anche i luoghi e i momenti in cui godemmo, e tu stesso, mi siete a tal punto dentro l'animo che agisco come se fossi con te in quel tempo, e nemmeno quando dormo riesco ad avere pace da queste immagini. Talvolta anche i miei movimenti tradiscono i pensieri dell'animo e la parola mi prorompe incontrollata. Oh me infelice! come potrei ben ripetere il lamento dell'anima dolente: 'Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte?'. Almeno potessi aggiungere sinceramente le parole che seguono: 'La grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore'. A te, o carissimo, questa grazia porse aiuto quando con una sola piaga ti liberò dai desideri del corpo, e così insieme anche da molti peccati dell'anima. Proprio per questo, invece di esserti nemico come può sembrare, Dio ti ha favorito, a guisa di un premuroso medico che non risparmia la sofferenza pur di conseguire la salute."
Condannato a quattro anni di deportazione seguiti da sei di confino, nella colonia penale Dostoevskij si ritrovò a toccare con mano il male, non soltanto nella sua forma metafisica, ma nella sua espressione concretamente brutale; e soprattutto si ritrovò a toccare con mano la presenza di un abisso incolmabile tra sè, intellettuale nobile, e i detenuti comuni, il popolo. Pur privato dei suoi diritti di nobile, pur sottoposto alle stesse regole e privazioni, l'autore non fu mai riconosciuto compagno dei suoi compagni - si trovò sempre di fronte alla stessa solitudine che avrebbe accompagnato il Raskol'nikov di "Delitto e castigo" nella prima fase della sua permanenza nella colonia penale. E, tuttavia, Dostoevskij divenne anche conscio di una nuova forma di consapevolezza. "Di sicuro per me non è stato tempo perduto", scriverà al termine della condanna. "Se anche non ho conosciuto la Russia, certo il popolo russo l'ho conosciuto bene, come pochi credo lo conoscano." Molti dei protagonisti delle sue opere future hanno un loro prototipo negli individui incontrati durante la permanenza nella colonia penale. "Memorie da una casa di morti" si focalizza sull'analisi psicologica del forzato: pur essendo ancora lontano dalla ricerca "dell'uomo nell'uomo" che si svilupperà a partire dalle "Memorie del sottosuolo", Dostoevskij già si sta muovendo in quella direzione: è la psicologia del forzato quello che lo interessa.
Uscito nel 1920, "L'età dell'innocenza" vale alla sua autrice, Edith Wharton, il premio Pulitzer: sarà la prima donna a vederselo assegnare. Il libro è una critica spietata alla convenzionalità dell'alta società newyorchese: una vera aristocrazia immobiliare in cui le famiglie sono le stesse da generazioni, le donne un ornamento e gli uomini non fanno nulla neppure quando fingono di andare in ufficio. I ricchi personaggi dell'"Età dell'innocenza" vivono tutti nello stesso quadrilatero di strade, e d'estate si spostano tutti quanti a Newport. Sono sempre insieme, sono privilegiati e severi al contempo, e non concepiscono l'esistenza di un mondo fuori dal loro. Il mondo, ovviamente, progredisce, cambia e rischia di lasciarli indietro. Ai cancelli della vecchia New York premono l'aristocrazia imprenditoriale e bancaria - i Morgan, i Lehman, i Guggenheim -, gli operai migrati dall'Europa e soprattutto stili di vita dinamici e aggressivi. Il protagonista del romanzo, Newland Archer, è un giovane raffinato che nella prima parte vediamo emanciparsi lentamente dai valori della vecchia New York ma che poi si trova costretto a sposare una donna che non ama assolutamente.
Nata nel carcere di Newgate, orfana, sposa del fratello, piccola apprendista cucitrice, giovane gentildonna, femminista ante litteram, e più grande ladra del suo tempo. Questo, e altro, è Moll Flanders. E prima ancora è una maestra del travestimento e dell'inganno, al punto che neanche il suo stesso nome è certo, anche quello è una copertura, un velo che ci impedisce di conoscerne la vera identità. Nel 1722, meno di tre anni dopo aver scritto Robinson Crusoe, Daniel Defoe dà alle stampe Moll Flanders: uno dei frutti principali della straordinaria stagione creativa di cui fu protagonista. "Defoe si aggira dovunque a Londra," scriveva E.M. Forster. Se Robinson prende il largo e diventa il più famoso naufrago della storia letteraria. Moll ci accompagna per le strade e le campagne inglesi. Nel suo picaresco pellegrinaggio la seguiamo in luoghi d'ogni genere e compagnie d'ogni risma: con lei entriamo nelle case della borghesia in ascesa, dormiamo nei letti di mercanti e truffatori, lasciamo Londra per concederci una gita a Oxford e saliamo a bordo di diligenze dirette nel nord dell'Inghilterra, ci innamoriamo di un bandito irlandese e veniamo deportati come schiavi nelle colonie americane della Virginia. Questa nuova traduzione si propone di portare alla luce la creatività verbale e lo stile oraleggiante di Moll, inarrestabile e sensuale narratrice.
Pubblicato anonimo nel 1816, "Emma" appartiene agli scritti cosiddetti "della maturità" di Jane Austen. Tema centrale nel romanzo è il fraintendimento in amore. Emma, la protagonista, rimasta padrona assoluta della casa dove vive dopo il matrimonio della sorella, si trova a gestire il piccolo mondo che le ruota intorno con una buona volontà alquanto presuntuosa. Accolta in casa una giovane ragazza, Henriette Smith, Emma cerca di maritarla adeguatamente. Tra i possibili pretendenti sceglie per lei Elton, il vicario del paese, inducendola a rifiutare al con tempo l'offerta di Martin, un rispettabile agricoltore del luogo. Ma ogni piano salta quando in realtà si scopre che Elton, in fondo un arrampicatore sociale, voleva invece sposare Emma. Fra i tanti personaggi che la circondano, l'unico in grado di dire la verità a Emma, e di farle notare i suoi difetti e le sue debolezze, è l' amico Knightley, suo vicino e fratello maggiore del cognato. Alla fine sarà proprio lui a sposarla, mentre Henriette convolerà a nozze con il giovane Martin, precedentemente respinto. Anche in questo romanzo Jane Austen pone al centro della sua narrazione le atmosfere, i desideri e i vissuti della gentry inglese di inizio Ottocento, riuscendone a restituire gli odori e le dinamiche più profonde.
Questo libro di Nievo è un romanzo di educazione dei sentimenti. È incentrato sulla figura di Carlo Altoviti che attraverso le sue vicende sentimentali ripercorre il processo di formazione dell'Unità d'Italia, dal senile tramonto della Repubblica di Venezia fino agli avvenimenti del 1856. Alle vicende di Carlo fa da contraltare - modernissima e spregiudicata - la Pisana, un personaggio femminile di assoluta complessità, di cui il protagonista si innamora fin dalla più tenera età. Quando Venezia viene svenduta da Napoleone con il trattato di Campoformio, vediamo la Pisana sdegnarsi verso il suo amante còrso, un ufficiale napoleonico di stanza in Veneto. La Pisana fugge a questo punto verso Milano, Firenze e Roma assieme a Carlo. Questi verrà a sua volta fatto prigioniero dai sanfedisti mentre combatte in difesa della Repubblica partenopea. Condannato a morte, viene rocambolescamente salvato proprio da un intervento della Pisana. Dopo la caduta di Napoleone, Carlo diventa liberale e si arruola tra le forze di Guglielmo Pepe. Ferito e catturato, viene processato per alto tradimento. Ancora una volta l'intervento della Pisana riesce a salvargli la vita e a farlo esiliare a Londra, dove lei amorevolmente si dedicherà a curarlo e a rimetterlo in sesto. Ma stremata dalle privazioni la Pisana muore, non nell'animo di Carlo, però, che continuerà a ricordarla per sempre come propria guida spirituale.
La trama del libro, comprensiva di un antesignano del delitto in una camera chiusa, procede ingegnosa e spedita sino all'ultimo capitolo, senza le lunghe pause dedicate agli antefatti tipiche della letteratura poliziesca dell'epoca; il personaggio di Sherlock Holmes diventa sempre più sfaccettato e umano tra crisi maniaco-depressive e dipendenza dalla cocaina in soluzione al 7 per cento; e anche il dottor Watson esce dal ruolo di semplice narratore per diventare protagonista a pieno titolo (è qui che conosce l'amata Mary).
"Se non avete mai letto Orazio (65-8 a. C.), la sbalorditiva modernità di Roma e della civiltà classica non vi è stata ancora rivelata per quanto merita. I suoi versi raccontano le opere e i pensieri di una febbrile e raffinata società metropolitana di duemila anni fa, smascherandone satiricamente le vanità, le goffaggini e i vizi. A cominciare da quello stato d'animo di trafelata ansia che noi contemporanei definiamo 'stress': quell'accumulare obblighi mondani e inutili impegni, quel dannarsi per avere sempre di più che distolgono dalla virtù anziana per eccellenza, la giusta misura. Orazio sembra scrivere per gli 'emergenti' dei giorni nostri, per gli ammalati di potere, per le vittime delle mode. Non gli sfugge un solo vezzo, una sola debolezza: ma ha il pregio (rarissimo per un moralista) di non dispensare severi precetti, né ammaestramenti infallibili. Preferisce, sorridendo, descrivere i romani (incluso se stesso), e accompagnarli lunga i loro errori, piuttosto che maledirli da qualche pulpito presunto. A dimostrazione che la buona satira è il miglior antidoto conosciuto della cattiva retorica." (Michele Serra)
Chi volesse riassumere in due parole la trama si troverebbe certo in imbarazzo: il nucleo della storia è infatti una storiaccia passionale, che rimanda ai modelli del melodramma e del romanzo tardo-romantico replicati in tutte le possibili varianti dal romanzo d'appendice. Abbiamo un perfetto esemplare di femme fatale, slava, bellissima, tormentata e crudele, la solita donna "più tigre della tigre", il cui fascino funesto causa la morte di due uomini... Il punto è che quella fabula è assunta da Pirandello come una materia romanzesca da rielaborare in una direzione completamente diversa: la storiaccia c'è, con tutti i suoi stereotipi, ma è assunta come una materia grezza che il romanzo si incarica di anatomizzare, straniare, ridicolizzare, reinterpretare. In altre parole, Pirandello ci racconta una storia e contemporaneamente sviluppa una riflessione sulle possibilità della scrittura narrativa, conducendo a compimento la dissoluzione dei modelli romanzeschi tradizionali.
È il decimo dei "Dialoghi" di Seneca, dedicato al suocero Pompeo Paolino, che aveva in quel momento l'importante incarico di prefetto dell'annona, cioè di raccolta e distribuzione del grano nell'Urbe. E proprio all'amico, oltre che parente, Seneca dà il consiglio di ritirarsi a vita privata, tralasciando ogni attività pubblica. Assumendo cioè un atteggiamento filosofico apparentemente epicureo, nonostante lo stesso Seneca fosse un esponente importante dello stoicismo romano. È in realtà una fase difficile, questa per Seneca, per un breve lasso di tempo fuori dai giochi politici, prima ancora di ritornare in auge grazie al nuovo imperatore Nerone. Il trattatello si basa su un paradosso. Non è la vita a essere breve, come invece comunemente si crede. Essa è lunga, purché la si sappia razionalmente impiegare. Però la vita non deve essere dedicata agli altri, ma al sapere e alla filosofia. L'approccio di Seneca in questo dialogo definisce un importante modello di vita spirituale per l'età classica: Seneca concepisce la filosofia come ricerca della virtù e pratica della libertà.
"Se volessimo tener fermo il senso proprio, filosofico e non meramente letterario della parola romanticismo, dovremmo audacemente sostenere che esiste un unico, grande romantico: Novalis. E come corollario dovremmo dire che il più grande testo romantico, se non l'unico, sono gli 'Inni alla notte'. [...] Cos'è dunque, in breve, la poesia per Novalis? La poesia è magia immaginativa dell'io. Novalis riprende quindi l'idea fichtiana dell'io assoluto, interpretandolo però non come semplice soggetto trascendentale, ma come fonte infinita di realtà; l'idealismo diviene magico: la fantasia e la volontà del soggetto individuale - cioè del poeta - si fanno onnipotenti, dal momento che sono in grado di creare e trasformare il mondo. La poesia è dunque l'atto supremo, la libertà creativa assoluta; la trasformazione reale del mondo terreno, il fare dei casi della vita quel che ci pare, il servirsene a proprio capriccio: 'quel che io voglio essere, io lo sono'." (dall'Introduzione di Susanna Mati)
Alle soglie della follia, Nietzsche sosterrà di aver fatto all'umanità, con lo "Zarathustra", il più grande dono che essa abbia mai avuto: "Questo libro, una voce che passa sui millenni, non solo è il libro più alto che esista (...), ma anche il più profondo, generato dalla più intrinseca ricchezza della verità, una fonte inesauribile dove non si può calare il secchio senza farlo risalire colmo d'oro e di bontà". Perciò Nietzsche gli assegnerà una posizione preminente fra tutti i libri: "Il primo libro di tutti i millenni, la Bibbia dell'avvenire, la suprema esplosione del genio umano, in cui è incluso il destino dell'umanità". "Così parlò Zarathustra" rappresenta in effetti un unicum nella storia della letteratura e della filosofia: i pensieri più abissali (la diagnosi del nichilismo, l'eterno ritorno, il superuomo, la volontà di potenza) sono presentati al lettore non in forma teoretica, argomentativa, bensì come parola viva dell'alter ego dell'autore...
È il più famoso tra i racconti natalizi scritti da Dickens, nel 1843. Un racconto che ha avuto la forza di attingere all'immaginario popolare e a sua volta plasmarlo con forza. Per esempio, il personaggio di Paperon de' Paperoni in inglese si chiama Scrooge McDuck, lo stesso nome cioè dell'"avaro cattivo e senza cuore" di questo racconto dickensiano. Scrooge è talmente cattivo e avaro da rifiutare anche il calore del Natale, per lui solo una perdita di tempo e di soldi. Sarà il fantasma del suo ex socio Jacob Marley a visitarlo per primo. Poi lo visiteranno altri tre spiriti, che gli restituiranno in rapida sequenza la visione del suo Natale passato (di quando cioè lui era un bambino solo e triste), di quello presente (quello del suo contabile Cratchit e del figlio in predicato di morte per la mancanza di cure adeguate) e infine del Natale futuro, quello della sua morte, che verrà accolta con derisione e freddezza da tutti i suoi conoscenti. È in questo momento che il vecchio avaraccio si pente dei suoi comportamenti e cambia finalmente registro, ravvedendosi e celebrando in modo adeguato lo spirito del Natale, con generosità e trasporto per gli affetti familiari.
Martin Eden, un giovane marinaio di Oackland, salva la vita a un ragazzotto della buona borghesia di San Francisco, Arthur Morse. Per ringraziarlo, questi lo presenta alla famiglia e alla sorella, Ruth. Tra questa e il giovane marinaio scatta subito un'attrazione vitale, ostacolata però dalle differenze di classe e quindi dalla prevedibile resistenza della famiglia di lei. Un po' per farsi accettare socialmente, un po' perché sinceramente affascinato da quel mondo borghese, Martin decide di affinare la propria cultura. Da giovinastro un po' rozzo, in anni di studio forsennato, si trasforma alla fine in scrittore: dopo un inizio puntellato di rifiuti (tra cui l'abbandono di lei), improvvisamente gli arride la fama. Il suo saggio filosofico, "La vergogna del sole", gli apre le porte dei circoli più esclusivi di San Francisco. Tutti si contendono la sua presenza. Anche Ruth decide di tornare sui suoi passi. Ma questa volta Martin Eden sente di non essere più interessato a lei. Non è più interessato alla vanagloria di quel mondo, a cui pure era riuscito ad accedere...
Un ritratto dell'artista da giovane fu scritto a Trieste nel 1914 e pubblicato nel 1916 negli Stati Uniti, nell'anno della Easter Rising, la sanguinosa insurrezione di Dublino. Noto in Italia e Francia anche con il titolo Dedalus, è un romanzo semiautobiografico in cui si descrivono gli anni formativi della vita di Stephen Dedalus, l'alter ego di Joyce. L'autore narra il risveglio intellettuale, filosofico e religioso di un giovane che comincia a interrogarsi e a ribellarsi contro le convenzioni irlandesi e cattoliche con cui è cresciuto. Alla fine progetterà di partire alla volta di Parigi per fare l'artista. È uno dei romanzi irlandesi più importanti perché è il primo ad analizzare i rapporti distorti fra la comunità irlandese e il dominatore inglese. Secondo Joyce, la situazione in cui versava l'Irlanda non era la conseguenza di un'integrità perduta o dell'annientamento della cultura tradizionale, come peraltro sosteneva Yeats, bensì l'aver fatto proprie idee che hanno mantenuto gli irlandesi sotto il giogo britannico.
"Ovunque vadano, in India, in Etiopia, in Scozia, in Olanda, i cavalieri trovano per riposarsi lo stesso boschetto di soavi allori, le erbette molli, le aure fresche e un rivo ristoratore che scorre. L'immaginazione di pace botanica e floreale ignora le differenze di contenuti e latitudini, come se la geografia del romanzo fosse la geografia di un giardino, che gode di un unico clima, e al di fuori del quale c'è l'indeterminato e le nebbie...". Con questo approccio, Cavazzoni, che ha dedicato alla follia umana le sue storie più belle, rilegge l'"Orlando furioso", che presentiamo nella cura di Innamorati, uno dei maggiori specialisti della letteratura italiana del Cinquecento.
È il primo testo letterario, non di finzione, in cui l'autore esiliato dal mondo, è davvero convinto di rivolgersi soltanto a se stesso. È anche un documento della patologia psichica di un uomo che cerca compensazione e sollievo nella libera attività del sognare, contemplare, divagare della mente e quindi nel registrare nella scrittura, l'ebbrezza di questo abbandono. Un romanzo di "ecologia della mente", testimonianza poetica e psichica di un'operazione alchemica: una trasformazione della sofferenza in musica, del disagio del vivere in estasi, dove immanenza e trascendenza, vita e sogno, coincidono.
È anonimo l'autore che, nel 1829, dà alle stampe questo piccolo, gigantesco libro. Ma è inconfondibilmente Victor Hugo. Sono anni in cui il progresso sembra trasportare l'umanità intera, sul suo dorso poderoso, verso un futuro di pace, prosperità, ricchezza e fratellanza. Ma negli stessi anni si tagliano ancora teste davanti a un pubblico pagante, si marcisce in carcere, ci si lascia morire per una colpa non sempre dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. Hugo parla a nome dell'umanità, come sempre, e lo fa attraverso la voce di un uomo qualunque, di un condannato qualunque, di un miserabile che rappresenta tutti i miserabili di tutte le nazioni e tutte le epoche. Un crimine di cui non conosciamo i dettagli lo ha fatto gettare in una cella. Persone di cui non conosciamo il nome dispongono della sua vita, come divinità autoproclamate. Un'angoscia di cui conosciamo fin troppo bene la lama lo tortura, giorno dopo giorno, e gli fa desiderare che il tempo corra sempre più veloce. Verso la fine dell'attesa, venga essa con la liberazione o con l'oblio.
Apparso nel 1886, "La freccia nera" è un romanzo ambientato nella Guerra delle Due rose, il conflitto tra le fazioni degli York e dei Lancaster che dilaniò l'Inghilterra nella seconda metà del Quattrocento. Protagonisti della vicenda sono il giovane Dick Shelton, allevato dal bieco Daniel Brackley - il classico signorotto di campagna che per amore dei soldi schiaccia tutti gli altri in miseria -, e Joanna Sedley. I due si incontrano casualmente nella foresta: Dick soccorre un altro ragazzo, che in realtà è Joanna travestita, e insieme assistono, non visti, a un incontro segreto dei banditi della Freccia nera, nemici giurati di Brackley, i quali, per vendicare i torti subiti, colpiscono i cattivi di turno con le loro precisissime frecce nere: la loro firma. Quando Dick scopre che il mandante dell'assassinio di suo padre è proprio il padrino Brackley, decide di schierarsi a fianco dei banditi, sino allieto fine conclusivo. Tradotto sul piccolo schermo alla fine degli anni sessanta, con una imberbe e tentatrice Loretta Goggi, Aldo Reggiani e un cattivissimo Arnoldo Foà nei panni di sir Brackley, lo sceneggiato in sette puntate fece guadagnare al romanzo un posto importante nell'immaginario della cultura pop del nostro paese.
"Ma chi sono questi uomini, chi sono i 'demoni'? I demoni sono anzitutto 'uomini d'idea', come li definisce Bachtìn, cioè uomini posseduti, tormentati, divorati da un'idea, cioè da una concezione onnicomprensiva, onniesplicativa e onnirisolutiva della realtà, uomini che si credono in possesso della 'Verità', ma ognuno dei quali si è costruito una sua Verità' in una forma aberrante, distruttiva, catastrofica. In questi uomini - secondo Dostoevskij - si ritrova una caratteristica specifica ed esclusiva dello spirito russo: il russo è divorato da un'inesausta sete di verità ed è in grado di dedicarsi appassionatamente, fanaticamente al perseguimento dell'ideale da lui concepito, fino ad arrivare a ogni eccesso e a ogni estremo, compreso il sacrificio totale di sé." (Gianlorenzo Pacini)
"Non in fretta si legga il libro dell'Efesio Eraclito. Stretta la via, difficile il passaggio. Profonda notte e oscurità. Ma se è guida un iniziato ai misteri, più del sole fulgente è limpido." Così raccomandava, e metteva in guardia, un anonimo antico. Quella di Eraclito è infatti una tra le più enigmatiche, ma anche più ricche di stimoli, opere filosofiche che siano mai state scritte. Questa nuova edizione si avvale di una traduzione e di un apparato critico che, in modo rigoroso e originale, mette in luce i rapporti di Eraclito con la tradizione orfico-dionisiaca greca e il pensiero e le religioni orientali.
L'azione prende avvio all'alba: Lisistrata convoca le ateniesi, ma anche spartane, corinzie e beote, per comunicare il suo piano di portata panellenica, quello di non concedersi più ai mariti fino alla cessazione delle ostilità che durano ormai da troppo tempo. Le donne piangono e tremano al pensiero, ma infine giurano di astenersi dal sesso con i mariti. Nel frattempo le più anziane hanno preso l'Acropoli e si sono rinchiuse dentro. Qui, dopo un primo tentativo fallimentare di reduci e veterani ateniesi di riprendere il cuore della vita politica, arriva un Probulo, rappresentante del potere oligarchico, circondato da scherani, che ingaggia un corpo a corpo prima simbolico e poi fisico con Lisistrata stessa e le sue compagne che lo vedrà miseramente soccombere. Ma l'astinenza fa breccia negli uomini. C'è un patto fra tutte le donne greche sul fatto di mettere fine alla guerra e di chiamare da Sparta e da Atene i massimi ambasciatori con pieni poteri. Una volta convenuti ad Atene, questi ascolteranno le parole della protagonista, che rivendicherà il primato della saggezza femminile su quella maschile nel condurre le cose del mondo, ricorderà l'antica amicizia antipersiana fra ateniesi e spartani e farà scoppiare la pace che coinciderà con la riconciliazione tra uomini e donne in una grande festa finale.
Il "Ciclo del sogno" è una delle colonne portanti dell'opera di Lovecraft e si erge come la più multiforme, inventiva e spesso spiazzante esplorazione mai concepita nei regni dell'immaginario e del fantastico. Nella visione di Lovecraft la dimensione onirica è l'esatto opposto di un luogo contraddittorio, insensato o caotico e i "regni del sogno" formano un vero e proprio universo a sé stante, connesso al nostro da arcani portali, dotato di una complessa struttura tridimensionale, animato da contrasti, conflitti, battaglie. Eppure, perfino negli antri sotterranei più sinistri e minacciosi, è sempre invariabilmente pervaso da un alone di profonda e seducente magia.
Nel 1906 esce in Francia la traduzione proustiana di Sesamo e gigli di John Ruskin, accompagnata da una prefazione - Sulla lettura - nella quale Proust, prendendo le distanze dalle teorie del critico inglese, rende presente la sua idea di lettura, offrendoci un primo assaggio di quel peculiare stile di scrittura che troverà la sua massima espressione nella Recherche. Queste pagine, tra le più affascinanti che siano state dedicate all'attività di leggere, sono presentate insieme a un articolo, Giornate di lettura, pubblicato su "Le Figaro", dove - a dispetto del titolo - è un altro il magico oggetto in grado di evocare presenze e atmosfere assenti, il telefono, dispositivo all'epoca ancora estremamente raro e d'élite. È un piccolo esempio di scrittura mondana e d'occasione, un divertissement nel quale, tuttavia, traluce la capacità affabulatoria, ironica e ammaliante del primo Proust. Prefazione di Emanuele Trevi.
Romanzo di forte impatto emotivo, definito a più riprese "vile", "pieno di falsità", ma anche esaltato come il "più potente tra i romanzi pubblicati dall'autore", Tess ha, fin dal suo apparire, diviso critica e lettori e allarmato schiere di bigotti e moralisti che inorridivano all'idea di una storia che colpiva al cuore la morale vittoriana. In Tess il vettore del conflitto attraversa ogni pagina del libro, che affronta, senza alcun falso pudore, temi scabrosi e audaci. L'immagine che apre il romanzo è quella di un uomo che incede malfermo lungo una strada; si tratta di John Durbeyfield, il padre di Tess, che apprende delle proprie presunte origini nobiliari dal parroco Tringham, incontrato quasi per caso. La rivelazione alimenta la vanità e l'orgoglio della povera famiglia che costringe la ragazza a recarsi dai ricchi d'Urberville, in un ridicolo e improbabile tentativo di "reclamare la parentela", intraprendendo così il primo viaggio che la condurrà a incontrare Alec, il suo seduttore. Questo fatto accelera gli avvenimenti dell'intreccio e scatena una serie di eventi che alla fine travolgerà la misera Tess.
Carmilla, la prima vampira della storia della letteratura, e il dottor Hesselius - medico e metafisico tedesco -, il primo detective dell'occulto, sono i due principali protagonisti di questa raccolta di storie "gotiche". Un testo chiave, la cui influenza sarà fortissima in tutta la letteratura del Novecento sui fantasmi. Tè verde (1869) è il racconto del reverendo Jennings che, dopo la lettura di "certi volumi antichi, edizioni tedesche di testi in latino medievale", mentre torna a casa con l'omnibus, vede comparire una misteriosa scimmia, che da quel momento in poi, tra improvvise sparizioni e scoraggianti ricomparse, continuerà a seguirlo fissandolo con bramosia maligna. Il giudice Harbottle (1872) è la funesta cronaca della nemesi piombata su Mr Harbottle, uomo malvagio e corrotto. Carmilla (1871-1872), infine, il più famoso dei racconti di Le Fanu, narra le astuzie e i languori della vampira Carmilla. Le storie di questo volume non sono paurose perché fantastiche, bensì paurose perché vere: riflessi del nostro essere, voci della nostra coscienza, proiezioni della nostra angoscia, immagini duplicate del nostro volto inquietante. Le Fanu ci invita a guardare nello specchio del reale con la consapevolezza che quanto vedremo non sarà la verità, ma una sua ombra confusa, il riflesso baluginante di qualcosa che sfugge al controllo della ragione.
Grazie a questa prima traduzione integrale in prosa del "Romanzo della Rosa", il lettore italiano può gustare il poema francese del XIII secolo come fosse un vero romanzo. Il Romanzo della Rosa è una storia erotica, al tempo stesso realistica ed esoterica. È la storia di un giovane innamorato che cerca disperatamente di conquistare la "rosa", simbolo della donna amata. Comincia come un sogno mistico e finisce con una sorprendente scena di sapore quasi pornografico. È anche una sintesi di tutta la cultura classica e medievale, una vera inesauribile miniera di precetti, racconti, detti, proverbi e citazioni. Fra il Duecento e il Trecento la fama del "Romanzo" fu così immensa che due dei massimi scrittori europei, Chaucer e Dante, lo vollero tradurre. Ma i suoi quasi ventiduemila versi in rima baciata avevano costituito fino a oggi un ostacolo pressoché insormontabile per il lettore comune: questa versione in prosa - fedelissima al testo originale - risolve il problema e fa entrare questo capolavoro immortale nel novero delle opere leggibili da chiunque.
Dove sta la magia? Nella forza del plot? Nella qualità possente dello scenario storico che è in grado di evocare? Nella suspense? Forse, più di tutto, nella gioia del raccontare. Questo capolavoro dell'intrigo cattura a ogni pagina il lettore, lo spiazza, lo depista, lo inganna e lo rende complice, per poi coinvolgerlo in uno strabiliante "effetto meraviglia". A partire dal titolo: non solo I tre moschettieri sono quattro, ma - come ha osservato Umberto Eco il romanzo è palesemente "la storia del quarto", di d'Artagnan, che è l'assoluto protagonista non solo di questo libro, ma degli altri due che seguiranno: Vent'anni dopo e Il visconte di Bragelonne. "Immaginatevi un Don Chisciotte a diciott'anni": è questo il primo impatto del lettore con d'Artagnan, e attorno a questo virtuoso della spada, a questo campione di lealtà, di dedizione assoluta alla regina, si dipanerà la storia dei tre romanzi, la storia di una vita. L'altra figura decisiva, antagonistica, è Milady, quintessenza dell'inganno, maschera erotica della perfidia e del tradimento, di cui porta il segno indelebile inciso nelle carni. C'era bisogno di una nuova edizione dei Tre moschettieri per riportare il romanzo all'altezza della sua scrittura: attraverso una nuova traduzione che unisce rigore e respiro narrativo, un'Introduzione del più grande studioso vivente di Dumas e un dettagliatissimo Dizionario dei personaggi.